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AFFABULAZIONE 1966 Pier Paolo Pasolini

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"Pagine corsare"
LE NOTIZIE - TEATRO
Affabulazione di Pasolini nella messa in scena di Vittorio Gassman

Affabulazione
di Pier Paolo Pasolini
Teatro Sala Fontana Milano
28 gennaio 2013 - ore 18
Mise en espace curata da Roberto Trifirò, rivolta principalmente agli studenti delle Scuole Secondarie Superiori, ma aperta a tutti. Che cos' è una Mise en espace? Il termine italiano più adatto a sostituire l'espressione francese è lettura spettacolo. Molte parti del testo vengono dette al leggio, ma altre sono recitate e, appunto, spazializzate e ci sono, ad attestare i diritti della finzione e della storia, i costumi.
Affabulazione di Pier Paolo Pasolini (1966) 
Scritta nel 1966 e in pochissimo tempo, Affabulazione viene messa in scena nel dicembre del 1977, cioè a due anni dalla scomparsa del suo autore, al Teatro Tenda di Roma, diretta e interpretata da Vittorio Gassman. La tragedia inizia con un sogno: il sogno, d'estate, nella sua villa in Brianza, di un industriale lombardo, che ricomincia in qualche modo a sentirsi bambino, mentre prova una oscura attrazione per il figlio. Vorrebbe rinnovarsi in lui, recuperando quello stato edenico che è l'ebbrezza libera e ingenua della perfetta adolescenza. Questa storia di "attrazione" e "repulsione" tra padre e figlio diventa, nelle intenzioni del drammaturgo, una straziata metafora del mancato dialogo tra due generazioni, in quegli anni Sessanta in cui il reciproco silenzio portò il nostro paese a conflitti drammaticamente cruenti.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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Bastia Umbra: l'"eresia cristiana" di Pasolini in un libro di Alessio Passeri

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"Pagine corsare"
LE NOTIZIE - LIBRI
Bastia Umbra: l'eresia cristiana di Pasolini in un libro di Alessio Passeri
Editore Mimesis, 2010


Si è tenuta venerdì 18 gennaio alle ore 17.30, la presentazione del libro di Alessio Passeri “L’eresia cristiana di Pier Paolo Pasolini. Il rapporto con la Cittadella di Assisi”.  L’iniziativa, organizzata dal circolo culturale Primomaggio, si è svolta presso la libreria “Musica & LIbri” di Bastia Umbra situata in via San Costanzo.
Oltre all’autore sono intervenuti, coordinati dal presidente del circolo Luigino Ciotti:
- Dott. Maurizio Terzetti, dirigente del settore cultura della Provincia di Perugia e autore di varie pubblicazioni;
- Prof. Marco Jacoviello, insegnante (in pensione) del Liceo di Gualdo Tadino e docente della LUMSA;
- Dott.ssa Gianna Galiano, volontaria della Cittadella di Assisi.
Il volume, frutto della tesi di laurea discussa all’Università degli studi di Urbino, è la ricostruzione dell’immagine di Pasolini attraverso le pagine di “Rocca”, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi.
Il libro evidenzia quanto una voce eretica come quella di Pasolini abbia saputo trasferire i tratti più significativi della verità evengelica nel film “Il vangelo secondo Matteo”, concepito alla Cittadella nel 1962. Il tema che accompagna il lettore per tutto il primo capitolo è la religiosità del giovane Pier Paolo che si desume da molte sue opere. Dopo la delusione dell’ambiente marxista, l’itinerario di Pasolini non tradirà mai la fiducia nell’uomo. Se per il cristianesimo ciò è tradotto nella fede nel Risorto, in lui sarà sempre un discorso sulle radici dell’umanità che non troverà mai riscontro in alcuna omologazione. Per questo motivo il taglio eretico della sua religosità laicaè ancora oggi profezia per il credente.

Alessio Passeri, dottore in filosofia, biblioteconomia e archivistica presso l’Università degli studi “Carlo Bo” di Urbino, è autore di “Abramo di Gubbio. La presenza degli ebrei a Gubbio nel tardo Medioevo” (La Giuntina 2007).
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22 settembre 1974. Lo storico discorsetto di Castelgandolfo, in "Scritti corsari" di Pier Paolo Pasolini

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Pier Paolo Pasolini
Lo storico discorsetto di Castelgandolfo. 
Col titolo «I dilemmi di un Papa, oggi», in "Corriere della Sera" 22 settembre 1974
Poi in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975

UN RINGRAZIAMENTO AD AGATA AMATO PER LA CITAZIONE INIZIALE DI QUESTO POST

"Se - facendo una donazione della grande scenografia (folcloristica) dell'attuale
sede vaticana allo Stato italiano, e regalando il ciarpame (folcloristico) di stole e gabbane,
di flabelli e sedie gestatorie agli operai di Cinecittà - il Papa andasse
a sistemarsi in clergyman, coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancio
o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di
san Damiano o Santa Priscilla - la Chiesa cesserebbe forse di essere Chiesa?"

Pier Paolo Pasolini, "Chiesa e potere", 
"Corriere della Sera", 6 ottobre 1974,
in "Scritti corsari", Garzanti, Milano novembre 1975

Forse qualche lettore è statocolpito da una fotografia di Papa Paolo VI con in testa una corona di penne Sioux, circondato da un gruppetto di «Pellerossa» in costumi tradizionali: un quadretto folcloristico estremamente im­barazzante quanto più l'atmosfera appariva familiare e bonaria.
Non so cosa abbia ispirato Paolo VI a mettersi in te­sta quella corona di penne e a posare per il fotografo. Ma: non esiste incoerenza. Anzi, nel caso di questa fo­tografia di Paolo VI, si può parlare di atteggiamento particolarmente coerente con l'ideologia, consapevole o inconsapevole, che guida gli atti e i gesti umani, facen­done «destino» o «storia». Nella fattispecie, «desti­no» di Paolo VI e «storia» della Chiesa.
Negli stessi giorni in cui Paolo VI si è fatto fare quella fotografia su cui «il tacere è bello» (ma non per ipocri­sia, bensì per rispetto umano), egli ha infatti pronun­ciato un discorso che io non esiterei, con la solennità dovuta, a dichiarare storico. E non mi riferisco alla sto­ria recente, o, meno ancora, all'attualità. Tanto è vero che quel discorso di Paolo VI non ha fatto nemmeno notizia, come si dice: ne ho letto nei giornali dei resoconti laconici ed evasivi, relegati in  fondo   alla  pagina.

Dicendo che il recente discorsetto di Paolo VI è sto­rico, intendo riferirmi all'intero corso della storia della Chiesa cattolica, cioè della storia umana (eurocentrica e culturocentrica, almeno). Paolo VI ha ammesso infatti esplicitamente che la Chiesa è stata superata dal mon­do; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più bisogno della Chiesa, e l'abbandona quindi a se stessa; che i problemi sociali vengono risolti all'interno di una società in cui la Chiesa non ha più prestigio; che non esiste più il proble­ma dei «poveri», cioè il problema principe della Chie­sa ecc. ecc. Ho riassunto i concetti di Paolo VI con pa­role mie: cioè con parole che uso già da molto tempo per dire queste cose. Ma il senso del discorso di Paolo VI è proprio questo che ho qui riassunto: ed anche le pa­role non sono poi in conclusione molto diverse.
A dir la verità non è la prima volta che Paolo VI è sincero : ma, finora, i suoi impulsi di sincerità hanno avu­to manifestazioni anomale, enigmatiche, e spesso (dal punto di vistadella Chiesa stessa) un po' inopportune. Erano quasi dei raptus che rivelavano il suo stato d'animo reale, coincidente oggettivamente con la situa­zione storica della Chiesa, vissuta personalmente nel suo Capo. Le encicliche «storiche» di Paolo VI, poi, erano sempre frutto di un compromesso, fra l'angoscia del Pa­pa e la diplomazia vaticana : compromesso che non la­sciava mai capire se tali encicliche fossero un progresso o un regresso rispetto a quelle di Giovanni XXIII. Un papa profondamente impulsivo e sincero come Paolo VI aveva finito con l'apparire, per definizione, ambiguo e insincero. Ora di colpo, è venuta fuori tutta la sua sin­cerità, in una chiarezza quasi scandalosa, Come e per­ché?
Non è difficile rispondere : per la prima volta Paolo VI ha fatto ciò che faceva normalmente Giovanni XXIII, cioè ha spiegato la situazione della Chiesa ricorrendo a una logica, a una cultura, a una problematica non ecclesia­stica:anzi, esterna allaChiesa; quella del mondo laico, razionalista', magari socialista - sia pur ridotto e ane­stetizzato attraverso la sociologia.
Un fulmineo sguardo dato alla Chiesa «dal di fuori» è bastato a Paolo VI a capirne la reale situazione stori­ca : situazione storica che rivissuta poi «dal di dentro» è risultata tragica.
Ed è qui che è scoppiata, stavolta sinceramente, la sincerità di Paolo VI: anziché prendere la falsariga del compromesso, della ragion di Stato, dell'ipocrisia, sia pu­re postgiovannea, le parole «sincere» di Paolo VI hanno seguito la logica della realtà. Le ammissioni che ne sono seguite sono dunque ammissioni storiche nel senso solen­ne che ho detto:tali ammissioni infattidelineano la fine della Chiesa, o almeno la fine del ruolo tradizionale della Chiesa durato ininterrottamente duemila anni.
Certamente - magari attraverso le illusioni che non potrà non dare l'Anno Santo - Paolo VI troverà modo di ritornare (in buona fede) insincero, II suo discorsetto di questa fine d'estate a Castelgandolfo, sarà formalmente dimenticato, saranno alzate intorno alla Chiesa nuove rassicuranti barriere di prestigio e speranza ecc. ecc. Ma si sa che la verità, una volta detta, è incancellabile; e irreversibile la nuova situazione storica che ne deriva.
Ora, a parte i particolari problemi pratici (come la fine delle vocazioni religiose) sulla cui soluzione il Papa è apparso impotente a fare qualsiasi ipotesi, è su tutta la drammatica situazione della Chiesa che egli si dimostra del tutto irrazionale (cioè, ancora una volta in altro modo, sincero). La soluzione infatti che egli propone è «pregare». Il che significa che dopo aver analizzato la situazione della Chiesa «dal di fuori», e averne intuito la tragicità, la soluzione che egli propone è riformulata «dal di dentro». Dunque non solo tra impostazione e soluzione del problema c'è un rapporto storicamente illo­gico: ma c'è addirittura incommensurabilità. A parte il fatto che se il mondo ha superato la Chiesa (in termini ancora più totali e decisivi di quanto abbia dimostrato il «referendum») è chiaro che tale mondo, appunto, non «prega» più. Quindi la Chiesa è ridotta a «pre­gare» per se stessa.
Così Paolo VI, dopo aver denunciato, con drammatica e scandalosa sincerità il pericolo della fine della Chiesa, non dà alcuna soluzione o indicazione per affrontarlo.
Forse perché non esiste possibilità di soluzione? Forse perché la fine della Chiesa è ormai inevitabile, a causa del «tradimento» di milioni e milioni di fedeli (soprat­tutto contadini, convertiti al laicismo e all'edonismo con­sumistico) e della «decisione» del potere, che è ormai sicuro, appunto, di tenere in pugno quegli ex fedeli attraverso il benessere e soprattutto attraverso l'ideo­logia imposta loro senza nemmeno il bisogno di nomi­narla ?
Può darsi. Ma questo è certo : che se molte e gravi so­no state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un po­tere che se la ride del Vangelo. In una prospettiva ra­dicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica, è chiaro dunque ciò che la Chiesa dovrebbe fare per evitare una fine ingloriosa. Essa dovrebbe passare all'op­posizione. E, per passare all'opposizione, dovrebbe pri­ma di tutto negare se stessa. Dovrebbe passare all'oppo­sizione contro un potere che l'ha così cinicamente ab­bandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore. Dovrebbe negare se stessa, per riconqui­stare i fedeli (o coloro che hanno un «nuovo» bisogno di fede) che proprio per quello che essa è l'hanno ab­bandonata.
Riprendendo una lotta che è peraltro nelle sue tradi­zioni (la lotta del Papato contro l'Impero), ma non per la conquista del potere, la Chiesa potrebbe essere la gui­da, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che ri­fiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxi­sta) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso l'affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio). È questo rifiuto che potrebbe dunque simbo­leggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all'op­posizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un po­tere che non la vuole più: ossia suicidarsi.
Faccio un solo esempio, anche se apparentemente riduttivo. Uno dei più potenti strumenti del nuovo potere è la televisione. La Chiesa finora questo non lo ha capi­to. Anzi, penosamente, ha creduto che la televisione fos­se un suo strumento di potere. E infatti la censura della televisione è stata una censura vaticana, non c'è dubbio. Non solo, ma la televisione faceva una continua réclame della Chiesa. Però, appunto, faceva un tipo di réclame totalmente diversa dalia réclame con cui lan­ciava i prodotti, da una parte, e dall'altra, e soprattut­to, elaborava il nuovo modello umano del consumatore.
La réclame fatta alla Chiesa era antiquata e inef­ficace, puramente verbale : e troppo esplicita, troppo pe­santemente esplicita. Un vero disastro in confronto alla réclame non verbale, e meravigliosamente lieve, fat­ta ai prodotti e all'ideologia consumistica, col suo edo­nismo perfettamente irreligioso (macché sacrificio, mac­ché fede, macché ascetismo, macché buoni sentimenti, macché risparmio, macché severità di costumi ecc. ecc.). È stata la televisione la principale artefice della vittoria del «no» al referendum, attraverso la laicizzazione, sia pur ebete, dei cittadini. E quel «no» del referendum non ha dato che una pallida idea di quanto la società italiana sia cambiata appunto nel senso indicato da Pao­lo VI nel suo storico discorsetto di Castelgandolfo.
Ora, la Chiesa dovrebbe continuare ad accettare una televisione simile? Cioè uno strumento della cultura di massa appartenente a quel nuovo potere che «non sa più cosa farsene della Chiesa»? Non dovrebbe, invece, at­taccarla violentemente, con furia paolina, proprio per la sua reale irreligiosità, cinicamente corretta da un vuoto clericalismo?
Naturalmente si annuncia invece un grande exploit televisivo proprio per l'inaugurazione dell'Anno Santo, Ebbene, sia chiaro per gli uomini religiosi che queste manifestazioni pomposamente teletrasmesse, saranno del­le grandi e vuote manifestazioni folcloristiche, inutili or­mai politicamente anche alla destra più tradizionale.
Ho fatto l'esempio della televisione perché è il più spettacolare e macroscopico. Ma potrei dare mille altri esempi riguardanti la vita quotidiana di milioni di citladini: dalla funzione del prete in un mondo agricolo in completo abbandono, alla rivolta delle élites teologica­mente più avanzate e scandalose.
Ma in definitiva il dilemma oggi è questo: o la Chie­sa fa propria la traumatizzante maschera del Paolo VI folcloristico che «gioca» con la tragedia, o fa propria la tragica sincerità del Paolo VI che annuncia temera­riamente la sua fine.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Brief Remarks on the Pasolini’s Conception of “Anthropological Mutation” by Federico Sollazzo

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LA SAGGISTICA
Brief Remarks on the Pasolini’s Conception
of “Anthropological Mutation”
by Federico Sollazzo, novembre 2012

As is known, Pasolini elaborated the conception of “anthropological mutation” in the last years of his life – before his assassination the 2nd of November 1975 – especially through publicistic articles on the major newspapers of the period, that are now contained, in Italy, in the books Lettere luterane and Scritti corsari, and of which the unfinished Petrolio represents the transposition in mythic form. Really, the first thing that we have to point out is that this concept is not isolated in his last written but is related with other main concepts, expressed with particular formulas, such as: “classical anthropology”, “cultural genocide”, “new prehistory”, “after-history”; all terms that are referred, in fact, to the socio-anthro-cultural phenomenon of the “anthropological mutation”.

Now, I don’t need to expose this conception – for understand which is necessary to insert it into the whole thought, works, and cultural background of the author –, but to have a preliminary operation that is propaedeutic to the comprehension of the same: clarifying some possible misunderstandings about.

At first, the anthropological mutation is not a biological mutation. This could appear obvious and banal but is better to fix this, at least for two reasons. On one hand, for avoid any possible misunderstanding: the new kind of man, the bourgeois, share the same biology of those of the past, but not the same consciousness. On the other hand, because we are nowadays in a society that is able to change and to manipulate the human biology and physiology, thanks to the scientific development, but we have to keep distinct those phenomena: changings in biology – nowadays possible – are related but are not synonyms of changings in anthropology in force in Italy since the second half of the twentieth century, tell to us Pasolini.

Also, according to the Pasolinian specific vocabulary – each Author has his particular vocabulary –, we have to intend the bourgeois as the human product of the anthropological mutation. This means that we have to take this term – bourgeoisie, and its derivates: bourgeoisification and embourgeoisement – not in the common meaning – that is the meaning that “The Power without a Face” wants – neither in any other possible sense other than that Pasolinian one: a derogatory, degenerative sense.

Furthermore, the most important misunderstanding to avoid is the following. Because Pasolini always took forward an harsh critique of modernization and a sort of apology of the past, this would mean that he would be a nostalgic of the past, a conservative author that needs the restoring of the past in the future. Things are absolutely not so – as he said, among other places, in an interview at the Italian newspaper «l’Unità» which will became his last one: few days after was murdered. The Pasolini’s critique of modernity and the related fascination for the past, indeed, is not a critique of modernity as such and is not a fascination of the past as such, but is a critique of this particular modernity and a fascination of that particular past. Thus, the object of the critique are not the time categories, past, present, future, but the contents of those dimensions. This means that Pasolini did not care about the time – this would to him a conservator or even a reactionary, in the case of mythologizing of past, or a modernist or a futurist, in the case of mythologizing the future – but about the contents of the times. If content were reversed, he would criticize the past and would be pleased about the future, and this would be not to him a futurist, because, repetita iuvant, the reasoning is not about the time categories but about their contents. So Pasolini is really nostalgic, but not nostalgic for a time, for a temps perdu, but nostalgic for a “man perdu” – e.g. that of the Roman suburbs in the novels Ragazzi di vita and Una vita violenta and in the films Accattone and Mamma Roma – a man that lose his joy, his manifold possibility to be man, reifying himself into the only one possible and closed form of the bourgeois. If things are so, we should ask ourselves if is still possible to change the way of this particolar modernization – which means absolutely not to come back in the past, but, in the words of Pasolini, distinguish between “progress” and “development”. Unfortunately, it seems that we are so strongly related with this modernization that the possibility of a reversing appears highly improbable: in an interview of the 1971 on the Italian television, answering to the Italian journalist Biagi who asked him if he were pessimist or optimist about the future, Pasolini answered: “I’m apocalyptic”.

In conclusion of these brief remarks – that, I repeat, are not an explanation but a propedeutical introduction to this topic – I would like to remember that in his last days Pasolini was introducing a new element of critique in his argumentation – that he took forward looking at the dynamics of Italy, but that nowadays we can recognize in all the enlarged, global western civilization – an element that now appears as the Master of this new history – and we as its servants –: the technique, or better, the technological rationality; he spoke indeed of “tecno-fascism”.

Essential references.

Books by Pasolini:

-         (1955), Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 2009.
-         (1959), Una vita violenta, Garzanti, Milano 2008.
-         (1964), Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 2001.
-         (1972), Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000.
-         (1975), Scritti corsari, Garzanti, Milano 2008.
-         (1976), Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009.
-         (1992), Petrolio, Mondadori, Milano 2005.
-         Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, 2 vols.
-         Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.

Films by Pasolini:

-         Mamma Roma, 1962.
-         Accattone, 1961.
-         La rabbia (first part), 1963.
-         La ricotta, in Ro.Go.Pa.G, 1963.
-         Il Vangelo secondo Matteo, 1964.
-         Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, 1964.
-         Uccellacci e uccellini, 1966.
-         Che cosa sono le nuvole?, in Capriccio all’italiana, 1967.
-         La sequenza del fiore di carta, in Amore e rabbia, 1968.
-         Porcile, 1968-9.
-         Teorema, 1968.
-         Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975.
-        Porno-Teo-Kolossal, slated for release in 1976 (screenplay in «Cinecritica», April-June, 1999).

Videos by Pasolini:

- Consumismo genocidio delle culture (Eng. sub.), in «YouTube», 30/VI/2011,      youtube.com/watch?v=tbhWOB92YsI
- Le masse sono composte ancora da singoli (Eng. sub.), in «YouTube», 20/XI/2012,      youtube.com/watch?v=q6Xd1ptTDNU&feature=BFa&list=UUZh4oKMnZFv61hG5xp4J0Bg

Videos on Pasolini:

- F. Sollazzo, Pasolini e la “mutazione antropologica”, in «Pagine corsare», 27/XI/2012, pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/11/pasolini-e-la-mutazione-antropologica.html

Websites and webpages on Pasolini:

- «Pagine corsare», pasolini.net
- «Pagine corsare», pasolinipuntonet.blogspot.it
- «Pier Paolo Pasolini in Europe», pierpaolopasolini.eu
- F. Sollazzo, Pasolini, “Lettere luterane”, in «CriticaMente», 13/I/2010, 
costruttiva-mente.blogspot.hu/2010/01/pasolini-lettere-luterane.html
- F. Sollazzo, Appunti sulle opere romane di Pasolini, in «CriticaMente», 17/II/2011,
costruttiva-mente.blogspot.hu/2011/02/appunti-sulle-opere-romane-di-pasolini.html
Brevi osservazioni sulla concezione
di "mutazione antropologica" in Pasolini
di Federico Sollazzo, novembre 2012


Come è noto, Pasolini elaborò il concetto di "mutazione antropologica", negli ultimi anni della sua vita, prima del suo assassinio il 2 novembre 1975, in particolare attraverso articoli pubblicistici sui maggiori quotidiani del periodo, che ora sono contenuti, in Italia, nei libri Lettere luterane e Scritti Corsari, e di cui l'incompiuto Petrolio rappresenta la trasposizione in forma mitica. In realtà, la prima cosa che dobbiamo sottolineare è che questo concetto non è isolato nei suoi ultimi scritti, ma è in relazione con altri concetti principali, espressi con formule particolari, come ad esempio: "l'antropologia classica", "il genocidio culturale", "la nuova preistoria ","il dopostoria ", tutti termini con cui si fa riferimento, infatti, alla situazione socio-antropologica-culturale, fenomeno della" mutazione antropologica ".

Ora, non è necessario esporre questa concezione per capire che è indispensabile inserirla nell’intero pensiero, opere, e background culturale dell'autore, ma occorre una operazione preliminare propedeutica alla comprensione della stessa per chiarire alcuni possibili equivoci.

Anzitutto, la mutazione antropologica non è una mutazione biologica. Questo potrebbe sembrare ovvio e banale, ma è meglio chiarire il problema, almeno per due ragioni. Da un lato, per evitare ogni possibile equivoco: il nuovo tipo di uomo, il borghese, condivide la stessa biologia dei borghesi del passato, ma non la stessa coscienza. D'altra parte, ci dice Pasolini, poiché siamo attualmente in una società chegrazie allo sviluppo scientifico, è in grado di modificare e manipolare la biologia e la fisiologia umana, dobbiamo tenere distinti questi fenomeni: rapidi mutamenti biologici - possibili al giorno d'oggi - sono collegati ma non sono sinonimi dei rapidi mutamenti antropologici che avvengono in Italia dalla seconda metà del XX secolo.

Inoltre, secondo il lessico pasoliniano specifico - ogni autore ha il suo particolare vocabolario -, dobbiamo intendere la borghesia come il prodotto umano della mutazione antropologica. Ciò significa che dobbiamo prendere questo termine - borghesia, e i suoi derivati: borghesizzazione e imborghesimento - non nel senso comune - che è il significato che "Il potere senza volto" vuole - né in qualsiasi altro possibile senso che sia diverso da quello pasoliniano: un senso dispregiativo, degenerativo.

E ancora, l'equivoco più importante da evitare è il seguente. Poiché Pasolini ha sempre portato avanti una critica dura alla modernizzazione e una sorta di apologia del passato, ciò significherebbe che sarebbe stato un nostalgico del passato, un autore conservatore che ha bisogno di ripristinare il passato nel futuro. Le cose non stanno assolutamente così - come ha detto, tra l'altro, in un'intervista al quotidiano italiano «l'Unità», che divenne una delle sue ultime: pochi giorni dopo fu assassinato. La critica di Pasolini alla modernità e il fascino per il passato, infatti, non sono una critica della modernità in quanto tale e un fascino del passato in quanto tale, ma è una critica a questa modernità particolare e un fascino per quel passato particolare. Così, l'oggetto della critica non sono le categorie di tempo, passato, presente, futuro, ma il loro contenuto. Ciò significa che Pasolini non ha a cuore il tempo - questo farebbe di lui un conservatore o addirittura un reazionario nel caso di mitizzazione del passato, o un modernista o un futurista nel caso di mitizzazione del futuro - ma il contenuto dei tempi. Se i contenuti sono stati invertiti, avrebbe criticato il passato e sarebbe stato lieto per il futuro, e questo non avrebbe fatto di lui un futurista, poiché, repetita iuvant, il ragionamento non riguarda le categorie di tempo, ma i loro contenuti. Così Pasolini è davvero un nostalgico, ma non nostalgico di un tempo, di un temps perdu, ma ha nostalgia di un "homme perdu"- ad esempio, quella delle periferie romane dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violentae dei film Accattone e Mamma Roma - un uomo che perde la sua gioia, le sue molteplici possibilità di essere uomo, reificando se stesso nella sola forma possibile e chiusa del borghese. Se le cose stanno così, dovremmo chiederci se è ancora possibile cambiare il modo di questa particolare  modernizzazione - il che non significa assolutamente tornare al passato, ma, secondo le parole di Pasolini, distinguere tra "progresso" e "sviluppo". Purtroppo, sembra che siamo talmente collegati a questa modernizzazione che la possibilità di una inversione di tendenza appare molto improbabile: in un'intervista del 1971, la televisione italiana, rispondendo al giornalista italiano Biagi che gli chiedeva se fosse pessimista o ottimista sul futuro, Pasolini rispose: "Sono apocalittico".

In conclusione di queste brevi osservazioni - che, ripeto, non sono una spiegazione, ma una introduzione propedeutica alla discussione - vorrei ricordare che nei suoi ultimi giorni Pasolini stava introducendo un nuovo elemento di critica nelle sue argomentazioni - che ha portato avanti osservando le dinamiche italiane, ma che oggi siamo in grado di riconoscere in tutta l’allargata civiltà globale occidentale - un elemento che appare ora come la via maestra di questa nuova storia, e noi suoi servitori: la tecnica, o meglio, gli aspetti tecnologici razionali, parlava infatti di "tecno-fascismo".

Riferimenti essenziali

Libri di Pasolini:

-         (1955), Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 2009.
-         (1959), Una vita violenta, Garzanti, Milano 2008.
-         (1964), Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 2001.
-         (1972), Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000.
-         (1975), Scritti corsari, Garzanti, Milano 2008.
-         (1976), Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009.
-         (1992), Petrolio, Mondadori, Milano 2005.
-         Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, 2 vols.
-         Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.

Film di Pasolini:

-         Mamma Roma, 1962.
-         Accattone, 1961.
-         La rabbia (first part), 1963.
-         La ricotta, in Ro.Go.Pa.G, 1963.
-         Il Vangelo secondo Matteo, 1964.
-         Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, 1964.
-         Uccellacci e uccellini, 1966.
-         Che cosa sono le nuvole?, in Capriccio all’italiana, 1967.
-         La sequenza del fiore di carta, in Amore e rabbia, 1968.
-         Porcile, 1968-9.
-         Teorema, 1968.
-         Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975.
-        Porno-Teo-Kolossal,  slated   for  release   in   1976   (screenplay  in  «Cinecritica», April-June, 1999).

Video di Pasolini:

Consumismo genocidio delle culture (Eng. sub.), in «YouTube», 30/VI/2011,      youtube.com/watch?v=tbhWOB92YsI
Le masse sono composte ancora da singoli (Eng. sub.), in «YouTube», 20/XI/2012,      youtube.com/watch?v=q6Xd1ptTDNU&feature=BFa&list=UUZh4oKMnZFv61hG5xp4J0Bg

Video su Pasolini:

- F. Sollazzo, Pasolini e la “mutazione antropologica”, in «Pagine corsare», 27/XI/2012, pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/11/pasolini-e-la-mutazione-antropologica.html

Siti e pagine web su Pasolini:

- «Pagine corsare», pasolini.net
- «Pagine corsare», pasolinipuntonet.blogspot.it
- «Pier Paolo Pasolini in Europe», pierpaolopasolini.eu
- F. Sollazzo, Pasolini, “Lettere luterane”, in «CriticaMente», 13/I/2010, 
costruttiva-mente.blogspot.hu/2010/01/pasolini-lettere-luterane.html
- F. Sollazzo, Appunti sulle opere romane di Pasolini, in «CriticaMente», 17/II/2011,
costruttiva-mente.blogspot.hu/2011/02/appunti-sulle-opere-romane-di-pasolini.html
http://pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/11/pasolini-e-la-mutazione-antropologica.html
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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Una modesta proposta: dimenticare Calvino e Pasolini, di Roberto Cotroneo - ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 29 novembre 1992

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Una modesta proposta:
dimenticare Calvino e Pasolini
di Roberto Cotroneo
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ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 29 NOVEMBRE 1992
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Commento all'articolo di Alberto Asor Rosa sulla Stampa in cui sostiene
che con Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini si è conclusa la letteratura italiana
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Italo Calvino e Pierpaolo Pasolini. Teneteli bene a mente. Con loro si conclude la letteratura italiana. Dopo non c'è altro, e che in futuro nessuno si azzardi a impugnare la penna. Alberto Asor Rosa ci ha informati del decesso dalle colonne de La Stampa. D'ora in poi gli editori potranno prendersi una vacanza, i critici trovarsi un mestiere più rispettabile, e tutti i lettori d'Italia avranno finalmente il tempo di rileggersi Calvino e Pasolini, come vecchi ostinati nostalgici: una riga di Palomar e un capoverso de Le ceneri di Gramsci; una lezione americana e un paragrafetto di Ragazzi di vita... 
Tutti gli altri scrittori possono finire in cantina: via Sciascia, Parise e Moravia, Primo Levi, Bilenchi, Buzzati. E basta con Bassani, Volponi, Vassalli e Tabucchi. Finalmente un po' di spazio tra i nostri scaffali strapieni di tanti libri inutili. L' atmosfera è proprio da grandi pulizie: odore di cera e di detergenti dappertutto, e lì, su un bell'altare lucidato, le immaginette di Italo Calvino e di Pier Paolo Pasolini. Su fondo oro (e immancabile aureola), pronti ad essere utilizzati in ogni occasione: i più citati dagli italiani. 
Bene, vorrei fare una modesta proposta: chiedo pietà per due rispettabili autori, imploro il silenzio stampa. Non parliamo più di Calvino e di Pasolini per due anni: niente inchieste, niente elzeviri, e neppure inediti, epistolari segreti, conti del droghiere ritrovati. E non additiamoli ad esempio per tutti i giovinetti dalla penna facile, non elogiamo le loro opere come fossero blocchi monolitici indiscutibili, bibbie letterarie a cui affidare gli unici piaceri della lettura. Liberiamoli da questa stretta soffocante che ormai comincia a renderli antipatici. 
Dimentichiamo per un po' i luoghi comuni sulla carica dissacrante di Pasolini, sulla lucidità dei suoi Scritti corsari. E quelli sull'intreccio in Se una notte d' inverno un viaggiatore, sul realismo stralunato di Marcovaldo, sul gusto del ricordo autobiografico della Strada di San Giovanni
Nessuno nega l' importanza di Pasolini e quella di Calvino, ma si sta veramente esagerando. Calvino, fin troppo realisticamente, disse una volta di se stesso: "Forse diventerò un grande minore". Non era falsa modestia, era buonsenso. Neppure Pasolini era sicuro delle sue doti letterarie e i suoi bellissimi film lo dimostrano. Entrambi erano molto severi ed esigenti con loro stessi e non credo avrebbero apprezzato il medagliere in latta che una parte di mondo letterario cerca oggi di affibbiargli. Non voglio leggere Passione e ideologia come fosse Alfieri, e non mi interessa pensare a Calvino come a un Joyce di questo fine Novecento. Lasciamo che i lettori si annoino liberamente sulle pagine di Le città' invisibili, tolleriamo la loro irritazione per Una vita violenta, concediamogli di non terminare Le ceneri di Gramsci. Rassicuriamoli, insomma. E cerchiamo di liberarci da questa nuova malattia del classico, da questa ossessione di mettere sotto vetro anche i contemporanei. Un tempo si diceva: la storia giudicherà. Oggi con la fine dello storicismo, nel dubbio, gli scrittori si beatificano (alcuni anche da vivi). Nuovo misticismo di fine millennio?
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"Il mio corpo nella lotta", di Enzo Siciliano - ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 22 ottobre 1992

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Enzo Siciliano
Il mio corpo nella lotta
di Enzo Siciliano
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ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 22 OTTOBRE 1992 
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Esce tra qualche giorno per Einaudi il romanzo incompiuto Petrolio, ricostruito
dal filologo Aurelio Roncaglia. Pasolini, l'omosessualità e la rabbia contro il Palazzo


Nel postumo Il poeta delle "Ceneri, autobiografia in versi, come dettata a un intervistatore americano - sono versi del 1966 -, parlando di progetti futuri, Pasolini, scrisse: "...io vorrei soltanto vivere - pur essendo poeta - perché la vita si esprime anche solo con se stessa.  Vorrei esprimermi con gli esempi. Gettare il mio corpo nella lotta. Ma se le azioni della vita sono espressive, anche l'espressione è azione...". 
Pasolini, lo sappiamo, non avrebbe esitato a gettare il proprio corpo nella lotta: ma ve lo gettò da scrittore, con le polemiche corsare e luterane. Aveva un'ossessione: che l' Italia stesse vivendo un processo di adattamento alla propria degradazione: "Un paese spoliticizzato, un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici". Di quel processo volle essere insieme il giudice e il ministro. Le accuse che pronunciò erano violente, e la sua violenza era quella di un innamorato. 
La nostra letteratura conosce pochi scrittori innamorati, come Pasolini lo fu, dell'Italia intera, della sua cultura, del suo paesaggio, della sua gente. Negli ultimi due tre anni di vita scrisse cinquecento cartelle di un romanzo che ne avrebbe dovuto contare duemila (così diceva), Petrolio, dove il furore di quelle accuse e della passione innamorata sembrano confondersi in una drammatica necessità sacrificale. Oggi si annuncia la pubblicazione, da parte della Einaudi, delle cinquecento cartelle incompiute. Petrolio è dunque, in circa seicento pagine a stampa, il risultato di un lungo lavoro filologico eseguito sotto la guida di Aurelio Roncaglia, un lavoro che pare abbia reso semplice, nei limiti del possibile, la lettura di un testo tormentato da pentimenti, da rotture, anche da vuoti che restano tali. 
Nel libro, è la crisi italiana, una crisi culturale oltre che politica, a essere con prepotenza in primo piano. Lo sfondo è la società burocratica di Roma, quella che intreccia i propri affari e ricava sostentamento nei luoghi del potere finanziario e statale. E' il "Palazzo" che ci si spalanca davanti, con tutti i nomi e i cognomi di sempre, travolto dalla fantasia pasoliniana e divenuto luogo di non troppo romanzesche infamie. Contro e dentro quel "Palazzo", ecco muoversi il protagonista della vicenda, un uomo dell'industria petrolifera, una figura sdoppiata, dal profilo androgino, replicante provocatorio del mondo che lo circonda, suo correlativo dissolutore, e insieme l'opposto, incarnazione di un bisogno inestinguibile di cambiamento, o della ambigua dolorosa virtù del cambiamento. 
Questo doppio protagonista, doppio nella sessualità, non è estraneo all'immaginazione narrativa di Pasolini. Nei brogliacci inediti giovanili, quelli da cui fu ritagliato Il sogno di una cosa, e ne La divina mimesis, è già presente. Ma in Petrolio la sostanza è tutta diversa. C'è una rabbia nuova, che ubriaca i fogli del libro incompiuto. Lo scrittore sembra aggredire un'emozione recalcitrante alla luce che lui stesso vi proietta sopra; e il lettore ha la sensazione di penetrare in un segreto, non soltanto da officina letteraria, che non vuole essere violato. E che tuttavia pretende d' essere violato. 
Le pagine più felici in senso plastico, di una felicità espressiva dal colore mortuario, sono quelle erotiche. Mai Pasolini ha rappresentato con tanta sacrale e rabbrividita esplicatezza la sensualità omosessuale. In una scena notturna, su un prato di periferia, affollato di ragazzi di vita che si lasciano andare al coito orale con il protagonista duplice e infemminito, come in un rito che rimargini le ferite dell' anima e insieme le unga di sale, è possibile avvertire quanta straziata esperienza umana vi sia sigillata, quanto di vissuto e di disperatamente incompiuto. La passione erotica, in quelle pagine, è una recidiva, un ritmo ripetitivo che rende la vita crudelmente sempre identica a se stessa. In una intervista rilasciata in Francia, al settimanale "Lui", Pasolini aveva detto: "Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro. (...) Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano". Credo che Petrolio rappresentasse per lui la chance estrema per lo scandalo. 
Aveva chiesto, sulla metà dell'ottobre 1975, a Dino Pedriali che lo fotografasse nudo, da fuori la vetrata della sua stanza da letto alla Torre di Chia. Gli disse che le foto avrebbero dovuto illustrare il romanzo cui stava lavorando. Negli scatti di Pedriali pare notte all'esterno: dentro la stanza c'è una cruda luce elettrica. In quella luce, una muscolatura da calciatore, il corpo asciutto semisdraiato sulla coperta bianca del letto, o in piedi vicino al cassettone, il sesso esibito, Pasolini sfoglia un libro. Nella sua fisicità non c'è scandalo. Assorbito nella lettura, mostra indifferenza all'atto, una forma di pudicizia sostanziale che sventa qualsiasi illazione. 
In quell'immagine è la metafora visibile del suo essere tragicamente teso fra il sacro e il profano. Lo scandalo di Petrolio, casomai, sta altrove: sta nell'accanimento con cui Pasolini, un kamikaze, si lancia contro la parete vischiosa della nostra società, nel modo lucido in cui ne analizza la dissoluzione o la perversa tenacia autoassolutoria. Lo scandalo sta in pagine come questa: "Degli uomini colti non vi fu uno che avesse il coraggio di alzare la voce per protestare. Il rischio dell' impopolarità faceva più paura del vecchio rischio della verità". Del resto anche la cultura specializzata era degna del suo tempo: ormai la sua organizzazione interna era definitivamente pragmatica: i prodotti intellettuali erano prodotti del loro esserci, come cose o fatti: scommesse perse o vinte. La malafede era ideologizzata come elemento del modo d'essere colti o addirittura poeti. "Dei 'gruppi' (...) facevano del 'potere letterario' il loro fine dichiarato o diretto, non solo senza pudore, ma addirittura gestendo contemporaneamente una funzione moralistica, terroristica e ricattatrice, desunta, con inaudita sfacciataggine, dal gauchismo pateticamente sconfitto. L'unica realtà che pulsava col ritmo e l'affanno della verità era quella - spiegata - della produzione, della difesa della moneta, della manutenzione delle istituzioni essenziali al nuovo potere, e non erano certamente le scuole, né gli ospedali...". 
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"In quel romanzo di un romanzo si trova il Pasolini migliore", di Luigi Baldacci - ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 8 novembre 1992

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"In quel romanzo di un romanzo si trova il Pasolini migliore"
di Luigi Baldacci
ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 8 NOVEMBRE 1992

Pier Paolo Pasolini, Petrolio (Einaudi) - In quel romanzo di un romanzo si trova il Pasolini migliore. Un paradosso, sì , però è l'opera letterariamente più risolta. E' il Satyricon di un moralista dannato che, contraffacendo la realtà, la svela nella sua inesistenza

Vogliamo provare a riprendere il discorso su Petrolio, l' opera postuma di Pier Paolo Pasolini che, nell'imminenza della pubblicazione presso Einaudi, è stata presentata sul Corriere da Enzo Siciliano? Se dovessi cominciare da un'impressione globale, direi, consapevole del paradosso, che si tratta del romanzo letterariamente più risolto che Pasolini ci abbia lasciato; e questo perché Petrolio porta a un'incandescenza fredda tutti i problemi di scrittura e di struttura che già l'autore di Teorema si era posti nel rinunciare alla cifra facile di Ragazzi di vita e di Una vita violenta: uscire a qualunque costo dall'impasse lirico-realistica, verificare la delega del narratore, ricordarsi che non c'è più, oggi, nessuna necessità perché una favola sia quella e non cento altre e che tutti gli universi linguistici sono buoni ma sono tutti, al tempo stesso, contestabili. 
Colui che scrive, infatti, non dispone più di una specola d'osservazione ed è profondamente contaminato da quel mondo di eventi che pur pretenderebbe di rappresentare come l'altro da sé o, infine, come il regno del male. E allora, non essendoci più trincee o linee di frontiera, l' rma di cui questo moralista dannato si è servito è la stessa che gli ha prestato il nemico; e non essendoci più un tempo reale, si parla di un romanzo "a brulichio" e non "a schidionata". 
Tutto è compresente, niente accade una volta per sempre. E così, Petrolio dovrà essere considerato un metaromanzo che, in quanto tale, rimette continuamente in discussione il proprio statuto: donde l' avvertimento che il libro "non rimanda alla realtà", ma solo alla propria entità di libro, "magari anche - perché no? - attraverso la realtà". Il che vuol dire che non è venuto mai meno alla coscienza dell' autore il dissidio insanabile tra le cose e la scrittura: "Io vivo la genesi del mio libro"; oppure: "La mia decisione è quella non di scrivere una storia, ma di costruire una forma... consistente semplicemente in qualcosa di scritto". Insomma quando diciamo che Petrolio è un romanzo risolto, intendiamo dire che è l'unico, nei confronti soprattutto del povero mimetismo iniziale, in cui la scrittura non lasci scorie di lavorazione, sicché alla fine dobbiamo concludere che il gran mare di appunti sui quali si fonda l'impressione (fallace) di un'opera ancora da fare, sia esso stesso quell'opera: a patto, s'intende, di non controllarla sui parametri temporali del vecchio realismo. Il libro, vogliamo dire, è molto più compiuto di quanto non s' immagini: basterà assegnargli il compito negativo -e pur così documentato nella grande narrativa novecentesca - d'identificare la storia che si vuol raccontare con la progressiva impossibilità di raccontare quella medesima storia. O vorremo relegare L'uomo senza qualità in appendice alle Opere complete di Musil? 
Questo per dire che c'è un modo dall'alto di leggere il romanzo; ma sia chiaro che l'opposta visione dal basso non implica nessun giudizio negativo, se Petrolio è costituito dalla stessa ricchezza dei suoi materiali onirici, che non sono soltanto sogni veri e propri ma formano la stessa sostanza linguistica e sintattica della narrazione: "Il sogno perdeva i suoi colori e diveniva realtà. Una realtà certamente sognata anch'essa". Ed ecco che il versante dell'assurdo, per esempio quello dei rapporti edipici o delle metamorfosi sessuali, s'illumina e si decodifica in una luce diversa. Credo insomma che tutto vada considerato non già in un'ottica voyeuristica, ma nella sua complessità contestuale. E per esempio non si può separare, nel protagonista, "la messinscena del suo desiderio di morte", cioè la sua sessualità, dalla carriera politica che in quella sessualità sembra cercare la propria punizione: un supplizio tanto più espiatorio quanto più sarà gestito da coloro stessi (i ragazzi del pratone della Casilina o il guardarobiere Carmelo) su cui il protagonista esercita - in forma indiretta - la violenza del potere politico corrotto. 
Con cio' non intendiamo affatto "moralizzare" Pasolini: Carmelo e' prima di tutto Carmelo, cioè un dato di realtà in un quadro irreale, ma è chiaro che in tutto questo c'è un rimorso (o perfino un compiacimento) cattolico; certo c'è la convinzione che gli stupri più inumani si consumino non nel pratone ma dentro gli Enti di Stato. Pasolini non si ferma al sistema (la storia del petrolio dell'Eni che del resto non è stata raccontata), ma implica tutto ciò che dal sistema stesso discende al livello di comportamento. Donde il rifiuto sostanziale dei giovani con la passeggiata trionfale del Merda contro il grandioso fondale dei palazzoni di via Torpignattara, o la sequenza del "cosiddetto impero dei Troya", o quella intitolata L' Epochè , coi novellatori che ci fanno tornare in mente le novellatrici delle Centoventi giornate, cioè di Salò. Tutto il Pasolini ultimo, apocalittico si condensa e si brucia in questo libro in una straordinaria affinità d'umor satirico con Gadda, ma rinunciando (è un dato d'indiscutibile intelligenza) a fargli il verso. E che Petrolio fosse il suo Satyricon è l'autore stesso ad affermarlo enunciando quasi la poetica di una contraffazione della realtà che servisse infine a svelarla nella sua insopportabile evidenza. O nella sua inesistenza, che è la stessa cosa. 
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Cinemazero di Pordenone, 30 gennaio 2013: "Gli ultimi", regia di Vito Pandolfi

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Pier Paolo Pasolini fece una recensione...
Cinemazero di Pordenone, 30 gennaio 2013:
Gli ultimi, un film di Vito Pandolfi e padre David Maria Turoldo

Grande serata-evento mercoledì 30 gennaio 2013 alle 20.45 a CINEMAZERO con la proiezione speciale della versione inedita de Gli ultimi di Vito Pandolfi e padre David Maria Turoldo. Ingresso unico 5 euro e se acquistate la preziosa edizione del doppio dvd si entra gratis... Non mancate!
"Quando uscì l'opera trovò più che altro diffidenza per quel suo modo asciutto e rigoroso di raccontare la miseria contadina, così lontana dal baccano consumistico degli anni del boom economico. Alla critica del tempo la leggenda angosciosa di chi sceglie la durezza della vita contadina piuttosto che l'emigrazione sembra condizionata da una visione populista degli accadimenti, una sorta di tardo neorealismo. Doveva essere Gli ultimi, il primo atto di una trilogia sul tema ma - e di questo Turoldo restò non poco mal ripagato - il progetto non fu realizzato. Così il film nel giro di qualche anno finì per cadere nell'oblio." Così a firma "von zercläre", scritto in friulano, abbiamo letto nel numero di giugno di "Ladins dal Friûl" a proposito della riproposta del film di recente restaurato.
Gli ultimi uscì nel 1963, ispirato dalla memoria autobiografica di padre David Maria Turoldo: lui fanciullo a Coderno di Sedegliano. Memoria trasferita su pellicola dallo stesso Turoldo e da Vito Pandolfi, regista e uomo di teatro, ma naturalmente all'epoca il film non trovò grande comprensione. Di recente la Cineteca di Gemona, Cinemazero di Pordenone e Centro Espressioni Cinematografiche di Udine, hanno restaurato e ripubblicato "Gli Ultimi", quasi per soddisfare uno degli ultimi desideri espressi da Turoldo .
La vicenda ambientata negli anni '30 è quella di una famiglia contadina del medio Friuli che, nonostante la miseria, sceglie di continuare a lavorare la poca terra, a "spigolare" le pannocchie, a tagliare l'erba per le capre ai bordi dei fossati, piuttosto che emigrare come minatori in Belgio, dove perderà anche un giovane figlio. La vita è scandita dai gesti quotidiani di dignità con nessun cedimento alla rassegnazione da parte di Zuan, il capofamiglia, che ogni sera, dopo aver fatto il segno di Croce sulla polenta, ne distribuisce una fetta ai figli e alla moglie. Una seconda fetta rappresenta il formaggio, quando questo non c'è, come accade di solito. La vita e la morte si colgono soprattutto con gli occhi di Checo, bambino assetato di amicizia e di affetto, e nutrito di timidezza e paura. Soprattutto di essere un "nulla", alla pari dello spaventapasseri, solitaria e familiare figura che si staglia nell'uguale continuità dei campi.
Rivedere il film oggi è un'altra cosa, quando sono ormai lontani i tempi in cui qualsiasi immagine neorealista che fotografasse la realtà di miseria, di nuda sopravvivenza ma di orgogliosa dignità dalle quali eravamo appena usciti negli anni '50 , veniva rifiutata da generazioni ormai proiettate verso la costruzione e la ricerca dei nuovi "consumi".
Rivederlo oggi, dunque ha un altro sapore. Finalmente ci siamo saziati di tutto ciò che abbiamo acquistato col denaro, della facilità di comunicare con tutti e in un solo istante, tanto sazi che le immagini di Checo, fanciullezza inconsciamente sacrificata alla quotidianità miserevole eppure sacrale di una povera famiglia contadina, ci appaiono non semplice datato neorealismo, ma nostalgia e bellezza pura.
Questo film non dovrebbe mancare di essere rivisto oggi e di occupare un posto prezioso nello scaffale di chi ha a cuore l'anima del Friuli.

HANNO SCRITTO SUL FILM:

Pier  Paolo Pasolini nel 1962:

"Gli ultimi: «Assoluta severità estetica»
di Pier Paolo Pasolini
in “Ultime notizie Globe”, III, 22 marzo 1963
in Saggi sulla letteratura e sull’arte, II, Meridiani Mondadori, Milano 1999


Una nostalgia in quanto peccato, e quindi dominata da un severo, quasi squallido senso di rinuncia, è l'ideologia di questo film. Esso vi è coerente dal principio alla fine, e finisce quindi col presentarsi come un sistema sti­listico, chiuso e senza un cedimento o un compromesso.
Non si sfugge né alla monotonia della nostalgia, né al grigiore della morale. Gli ultimi è un film monotono e grigio, ma carico di una esasperata coerenza col proprio aasuntostilistico, e quindi profondamente poetico. Non per niente non c'è una inquadratura girata col sole: la luna è sempre quella dell'inverno con le nuvole alte e compatte, che, a loro modo, sono assolute come il sereno. E il paese è sempre immobile, in purissimo bianco e nero, e la campagna nuda, disegnata con una punta di ferro. La visione delle cose è sempre frontale, e, nel tempo stesso, ristretta, quasi che anche lo sguardo che un occhio può, infine, gettare liberamente al mondo, fosse dominato dall'obbligo morale alla piccolezza e alla rinuncia. È evidentemente il sentimento religioso di padre Turoldo, che impone questa parola, e dice: «Se nostalgia per il mio paese e la mia infanzia ci deve essere, non deve però abbellirli: deve anzi ridurli all'estremo, e la sua dilatazione deve solo avvenire nel senso della profondità».Vito Pandolfi ha eseguito con assoluta severità estetica questo obbligo religioso quasi nevrotico. E tutti i personaggi tendono così ad assimilarsi ad esso: magri, stremati, grigi, malati, anonimi, sostenuti solo da un sof­fio di spiritualità quasi faziosa. Piano piano la suite della vita nel paesello pedemontano, con le sue case di sassi grigi e le sue strade bianche, nella luce accecante dell'aria di neve, diviene iterazione, litania: la serie degli episodi si fa ossessiva, e i significati della povera vicenda umana trapassano a una simbologia tanto più povera di ornamento quanto più ricca di un quasi fisico dolore".


Giuseppe Ungaretti nel 1962: 

"Sarà la solitudine stupenda del Friuli nella quale ho vissuto nei primi due anni della prima guerra, alternandone il soggiorno con il Carso, sarà l'arte del bimbo incredibilmente spontanea e vera, sarà il modo semplice e assoluto di mostrare i terribili simboli della morte e della fame, so che si tratta di un film indimenticabile, infinitamente più bello dei pochi che quest'anno ho ammirato, si tratta di un film unicamente dettato da schietta e alta poesia"


David M. Turoldo

"I figli si scoprono nei padri, nei gesti dei padri: nel bere con gusto il vino e nell'accettare con virile grandezza fatica e sofferenza. E' il film che presenta un'esistenza ancora legata alla natura, dove ancora senso magico non si oppone a sacralità, una esistenza che sa quanto valga il dono della polenta, del pane, delle castagne, del vino, dell'acqua; un'esistenza che precede quella nostra civiltà del benessere; una sorta - per così dire - di civiltà "anti-spreco" nella quale nascere poveri non impedisce di scegliere la povertà."
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In musica le Mille e una notte di Pasolini - Archivio storico del "Corriere della Sera" (1999)

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Il direttore d'orchestra Myung Whun-Chung

In musica le "Mille e una notte"
di Pier Paolo Pasolini
A Santa Cecilia Myung Whun-Chung dirigerà
una suite composta da Giorgio Battistelli
.
ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 12 NOVEMBRE 1999

A Santa Cecilia Myung Whun-Chung dirigerà una suite composta da Giorgio Battistelli In musica le "Mille e una notte" di Pier Paolo Pasolini Pasolini a Santa Cecilia. Al centro del concerto di Myung Whun-Chung all' Auditorio di via della Conciliazione, c'è la suite dal balletto per coro e orchestra di Giorgio Battistelli, 46 anni, "Mille e una notte da Pasolini". Battistelli e il coreografo Virgilio Sieni si sono riallacciati al film "Il fiore delle mille e una notte" che Pasolini realizzò nel 1974. 
La serata, che racchiude anche la Sinfonia dall' "Italiana in Algeri" di Rossini e lo "Stabat Mater "di Rossini (solisti Eva Mei, Sonia Ganassi, Giuseppe Sabbatini e Ildebrando D'Arcangelo) sarà preceduto dall'inizio di una campagna di "Bon Ton" in collaborazione con la Tim sull'uso del telefonino durante i concerti. La campagna, che durerà per l'intera stagione, prevede un nastro registrato prima dell' inizio della musica con il trillo di un cellulare e una voce che invita a spegnerlo. Il concerto sarà proposto il 21 novembre alla Royal Festival Hall di Londra, in occasione della tournée e per l' "Italian Festival": musica, cinema, teatro. Santa Cecilia porterà anche, il 22 novembre, la Messa da Requiem di Verdi che ha inaugurato la stagione. 
Battistelli era poco più che uno studente quando conobbe Pasolini: "Era, se non ricordo male, il 1970, Pasolini venne ad Albano Laziale, il mio paese, a un dibattito per la presentazione di un suo film. Io ero un ragazzo e ragionavo, un po' come si faceva allora, per schemi ideologici. Chiesi a Pasolini se la figura dell' ospite in Teorema fosse da considerare simbolicamente come un sottoproletario. Pasolini mi diede una risposta che li' per li' non compresi molto. Mi disse: prova a immaginarlo piuttosto come un Angelo sterminatore. Solo molti anni dopo mi fu chiaro cosa intendesse dire". Battistelli nel 1992 mise in scena al Maggio Musicale Fiorentino proprio la parabola in musica "Teorema" tratta dal film. E tre anni più tardi il compositore crea "Teta veleta", un brano per orchestra d' archi e percussioni ispirato a due parole dedicate a Laura Betti. "Il fiore delle mille e una notte" è il film che, con "Il Decameron" e "I racconti di Canterbury", compone la cosiddetta trilogia dell' eros: eros che assume una valenza di rottura delle convenzioni di un' Italia che discuteva la legge sul divorzio, e di riflessione sulla società contemporanea. Ma lo spunto politico qui viene smussato in favore della poetica evocativa del film. L' organico della suite (che dura quindici minuti contro i settanta del balletto) è per un ristretto gruppo di legni e un nutrito gruppo di ottoni, più il gruppo degli archi e due percussionisti. La partitura, dall'atmosfera onirica, è costruita a sezioni e gioca molto sul colore, traduzione musicale dell' eros. 



Giorgio Battistelli (Albano Laziale, 25 aprile 1953) è un compositore italiano. Ha studiato con Giancarlo Bizzi, Claudio Annibaldi e Antonello Neri al Conservatorio "A. Casella" di L'Aquila. Nel 1994 ha fondato con alcuni amici il gruppo di improvvisazione "Edgard Varèse" e l'ensemble strumentale "Beat '72". Dal 1985 al 1986 è stato ospite del "Deutscher Akademischer Austauschdienst" a Berlino. Nel 1990 ha vinto il premio SIAE per la lirica e nel 1993 il Premio "Cervo" per la musica contemporanea. Svolge parallelamente all'attività compositiva quella di organizzatore musicale. È stato direttore artistico del Cantiere Internazionale d'Arte di Montepulciano, dell'Orchestra Regionale Toscana, dell'Accademia Filarmonica Romana, della sezione musica della Biennale di Venezia. È accademico effettivo dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e direttore artistico dell'Orchestra della Toscana (ORT).


Da Pasolini (1999)
Suite per orchestra e coro da “Il fiore delle mille e una notte”
Testo di Pier Paolo Pasolini
Prima esecuzione:
Roma, Auditorium di Santa Cecilia, 14 novembre 1999
Orchestra e Coro dell’Accademia di Santa Cecilia
Myung Whun Chung, direttore
Organico:
coro misto / 2 (II anche ott).-. 2.- / 4.4.3.1 / 2 perc / archi
Durata: 17’
Partitura Catalogo Ricordi: (138498)
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Dacia Maraini ha presentato a Praga il suo ultimo libro “La grande festa”, di Mauro Ruggiero

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Dacia Maraini ha presentato a Praga
il suo ultimo libro “La grande festa”
di Mauro Ruggieromarzo 2012, Café Bohème

È una delle voci femminili più celebri della letteratura italiana contemporanea, autrice di numerosi romanzi tradotti in molte lingue e vincitrice del Premio Campiello ed. 1990 con: “La lunga vita di Marianna Ucrìa” e del Premio Strega ed.1999 con: “Buio”; Dacia Maraini è stata ospite dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga nello scorso mese di marzo 2012 per presentare il suo ultimo libro: “La grande festa” edito da Rizzoli. All’evento dal titolo: “Dacia Maraini: la narrazione“, organizzato dal Comitato Dante Alighieri di Praga, che si è tenuto nella Cappella Barocca dell’Istituto Italiano di Cultura, la Maraini ha illustrato il contenuto del suo nuovo libro che tratta la tematica delle persone care e degli affetti che non ci sono più, e davanti ad un pubblico numeroso di intellettuali, studenti e lettori sia cechi che italiani, ha affrontato anche alcuni temi interessanti come il significato della morte nella cultura occidentale e orientale, l’importanza del mito, e temi come la situazione della donna nella società moderna e della letteratura al femminile. 
Prima della presentazione del libro, davanti ad una tazza di tè offertaci dal Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga e in compagnia di S.E. Pasquale D’Avino, Ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca e del Presidente del Comitato praghese della Società Dante Alighieri, Monia Camuglia, abbiamo incontriamo la scrittrice per un’intervista.

Lei è una persona che ha viaggiato molto e probabilmente è già stata a Praga. Questa è una città che lascia il segno nell’animo di chi la visita, come ci è testimoniato da molti scrittori stranieri - anche italiani - che hanno scritto di essa.  Che rapporto ha con questa città?
Ho un rapporto di scambio con questa città, nel senso che sono venuta varie volte e l’ho visitata un po’da turista, ma anche cercando di conoscere la sua letteratura, le sue radici, la sua lingua che non capisco, purtroppo, ma che mi suona all’orecchio molto gradevole. Praga è un piccolo scrigno storico, oltretutto, possiamo dire che tutta la storia d’Europa è passata di qua, a me piace molto la storia e quindi quando sono qui, tutta questa storia me la sento addosso perché è una storia comune e per questo la sento vicina.

In lingua ceca e in slovacco, fino ad oggi, sono stati tradotti tre dei suoi libri - e anche uno di suo padre l’etnologo Fosco Maraini -  e cioè: “I Sogni di Clitennestra” una raccolta di testi teatrali del 1981; “L’età del malessere” del 1963 e “A memoria” del 1967. Perché, secondo lei, tra i molti che ha scritto, gli editori cechi hanno scelto proprio questi?
Questo proprio non glielo so dire, bisognerebbe chiederlo a loro. Le faccio un esempio: quando sono andata in Cina credevo che lì avessero tradotto: “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, che è il mio libro più tradotto all’estero. E invece loro avevano tradotto “L’età del malessere” che è un libro del 1963. Io ho chiesto come mai, e mi hanno detto che è perché si parla della disoccupazione femminile, e siccome prima ancora che da noi, questo in Cina è una realtà, loro avevano tradotto questo mio vecchio libro. Quindi, sinceramente, le ragioni per cui sono stati tradotti questi libri e non altri non le conosco. Come Le dicevo, “Marianna Ucria” è il libro più tradotto all’estero ed io ero convinta che era sempre questo il libro che avrei trovato, e invece poi vengono fuori delle strane preferenze e non le so dire il motivo.

Parliamo ancora dei suoi libri. Qual è tra i suoi romanzi quello più autobiografico e quale quello che lei ritiene invece meglio riuscito dal punto di vista formale e stilistico?
Ai lettori l’ardua sentenza! Veramente non lo posso dire. Io ho fatto due o tre libri autobiografici: uno è “Bagheria” che parla della mia adolescenza in Sicilia, uno si chiama “La nave per Kobe” che parla di mia madre e per il quale ho preso spunto dai diari di mia madre, e questo ultimissimo che si chiama: “La grande festa”, autobiografico nei dettagli. Altri no. Gli altri sono tutti romanzi, inventati, naturalmente c’è sempre qualche cosa di sé, ma sono romanzi e ci sono personaggi inventati. Quindi io distinguo veramente quelli in cui mi metto in gioco, in cui poi metto i nomi delle persone, e gli altri in cui, non è che mi nasconda, ma ci sono altri personaggi; non sono io.

Qual è la genesi di ”La grande festa” e da cosa nasce l’idea di trattare la tematica degli affetti che non ci sono più?
Dalla realtà, purtroppo invecchiando cominciano a morire delle persone intorno, questa è la cosa terribile, anche persone più giovani, persone di famiglia…. Con la morte di mio padre, che è stata per me uno shock, perché si pensa all’eternità dei genitori, e poi mio padre era talmente giovanile e talmente affascinante come personaggio che era difficile pensarlo morto, mi è difficile ancora adesso. E poi mia sorella che se n’è andata via giovane…Insomma ad un certo punto queste persone che se ne sono andate gravano, gravano sulla memoria e allora, per uno scrittore, l’unico modo di contrattare con la propria storia, di trovare una soluzione psicologia, affettiva, è quella della scrittura e quindi doveva venir fuori questo libro; prima o poi doveva venir fuori.

Fra le figure che Lei ricorda nel suo libro ci sono alcuni “mostri sacri” della letteratura italiana come Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, due autori tradotti e conosciuti in Repubblica Ceca. Quali sono i ricordi più vivi che La legano a loro?
I ricordi di viaggio! Abbiamo fatto tanti viaggi insieme perché sia Pasolini che Moravia erano due viaggiatori anche loro, e quindi ci siamo trovati su questo piano, abbiamo fatto tanti, tanti viaggi insieme. A volte Pasolini andava a cercare i luoghi per i suoi film. Uno dei viaggi, per esempio, che abbiamo fatto insieme in Africa era perché lui voleva fare una Orestiade africana con attori africani, e poi invece il produttore gli ha detto che non andava bene perché in Europa gli africani non andavano bene… E così lui ha dovuto rinunciare, però noi avevamo trovato già tutti i posti, avevamo fatto un lungo viaggio in Africa e ricordo ancora la commozione con cui lui guardava, sceglieva il luogo che doveva essere l’incontro di Elettra con il fratello Oreste, oppure il luogo in cui Clitennestra avrebbe portato la figlia al sacrificio; per la partenza delle navi, oppure Agamennone che tornava dalla guerra… Insomma c’erano tutti i luoghi, luoghi bellissimi, poetici, arcaici. Magari oggi troverebbe una ricezione diversa… Però di quel materiale che aveva girato ne è venuto fuori un film bellissimo che si chiama: “Appunti per un’Orestiade africana” che è molto bello, molto poetico. Poi abbiamo fatto tanti altri viaggi insieme anche con Maria Callas, Ninetto Davoli, con i fratelli Citti che erano i suoi attori preferiti, quindi quello che ricordo di più sono proprio i viaggi, anche se a Roma ci vedevamo tutte le sere. Avevamo una casa in comune a Sabaudia che abbiamo messo a posto e purtroppo lui è morto un anno dopo che abbiamo fatto questa casa insieme. Però prima di quella casa avevamo affittato delle case insieme e abbiamo trascorso parecchi anni a Sabaudia in quelle case prima di costruire quella nuova. Tra le case che abbiamo affittato insieme c’era Villa Antonelli, una delle più vecchie case di Sabaudia dove abbiamo scritto la sceneggiatura de: “Il fiore delle mille e una notte”. Quindi di ricordi ne ho tantissimi.

In questo libro è possibile vedere anche l’evoluzione di una società, soprattutto per quanto riguarda la componente femminile. Come sono cambiati i costumi, come è cambiata la donna? La donna di oggi è molto diversa. Lei cosa ne pensa?
Penso che la rivoluzione femminile fatta alla fine degli anni Sessanta è stata un vera rivoluzione, senza sangue per fortuna, senza violenza, ma è stata una vera rivoluzione. La famiglia non è più la stessa cosa. Da noi siamo molto bravi a fare le rivoluzioni però poi… Siamo stati i primi a fare la rivoluzione con gli ospedali psichiatrici per esempio. Tutta l’Europa era lì a vedere cosa veniva fuori  da Basaglia, dalle nostre idee sulla malattia mentale… E’ stata una vera rivoluzione che poi però si è fermata lì; invece di andare avanti e costruire quella che doveva essere l’alternativa all’ospedale, si è lasciato tutto così per cui oggi è effettivamente un problema. Il femminismo, soprattutto il ’68, non ha saputo costruire una società alternativa, così com’è successo anche con “Mani Pulite”. Si fa un grande fracasso, si dice che si vuole stabilire una nuova morale, si vuol far pulizia, però dopo bisogna costruire una società nuova con dei valori nuovi, altrimenti si torna indietro peggio di prima. Credo che il nostro Paese ha questo difetto, quello di essere molto passionale e molto generoso nei momenti in cui vuole cambiare le cose, però poi c’è troppo individualismo, manca l’organizzazzione sociale, la fiducia… Lo sappiamo tutti, conosciamo i nostri difetti.

Fra i nomi più recenti quali sono gli autori italiani che le piacciono maggiormente?
Ce ne sono tanti, tra i giovani: Ammaniti, Saviano che ha dato un esempio molto positivo e importante anche se, poveretto, non riesce a fare il secondo libro perché è molto difficile quando si è fatto un libro così popolare; certamente una persona coraggiosa che ha dato un bell’esempio. Si parla di Mafia e c’è chi la denuncia anche rischiando la vita e quindi è una bella cosa. Vi sono anche parecchie donne brave: la Mazzucco, la Mazzantini, Michela Murgia combattiva e bravissima che ha scritto questo libro sulla Madonna, da cattolica, che è importantissimo (Ave Mary. E la chiesa inventò la donna. ndr), dove dice che in fondo questa Madonna imponeva la sua gravidanza extraconiugale, non c’è dubbio! Perché in quell’epoca non certo pensavano che fosse stato lo Spirito Santo, e lei era rimasta gravida fuori dal matrimonio e quindi l’avere sostenuto e portato avanti questa gravidanza, aver dato un figlio ed esser riuscita a creare questo mito… Insomma è molto bello quello che lei dice. Una donna coraggiosissima, intelligente e brava.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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L’inferno dell’edonismo. Su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”

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LA SAGGISTICA - CINEMA
L’inferno dell’edonismo. 
Su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”
di Marco René Schérer15 dicembre 2011
Traduzione di Alessandro Simoncini


Questo testo è estratto da Passages pasoliniens scritto con Giorgio Passerone
ed è già apparso sul numero 18, 2004 della rivista Multitudes

Anche se è impossibile vedere in Salò un’illustrazione delle Centoventi giornate di Sade, nel film non ci sono schematizzazione e tradimento, come spesso si è sostenuto. Pasolini si serve del riferimento, dell’“attrezzo” Sade, nella sua ambiguità per esporre e smontare le conseguenze di una logica paradossale dei Lumi, della loro etica utilitaristica e edonista. La sessualità, trattata come puro consumo, diviene dispositivo e strumento di potere e distruzione. Attraverso Salò non è il fascismo storico prima maniera che viene preso di mira, ma il secondo, quello ancora invisibile della società dei consumi; e con questo il tracollo del corpo e dell’eros nel linguaggio della comunicazione e della trasparenza integrale degli affetti.
Che cosa è stato dunque Sade per Pasolini? Quale fu la sua lettura? Come mostrano i titoli di testa del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, questa è stata fortemente guidata da tutti gli studi sadiani, dalla “sadologia” contemporanea costituita dalle prefazioni e dai commenti di Klossowski, Bataille, Blanchot, Barthes; o ancora di Sollers, di cui egli cita a proposito di Sade L’écriture et l’experérience des limites. La scrittura: altrettanto e più che sul contenuto narrativo della sessualità e dei suoi “crimini”, l’interpretazione pasoliniana, o meglio l’utilizzo pasoliniano di Sade, poggia su considerazioni relative allo strumento stesso della narrazione, della forma del racconto, della lingua.
Pasolini ha approcciato Sade da semiologo, a partire dalle proprietà del suo linguaggio. E se senza dubbio non può essere annoverato tra gli ammiratori incondizionati dell’autore delle “Centoventi giornate”, se certamente non è “sadiano”, è perché a questo linguaggio manca ciò che potrebbe condurre ai livelli più elevati dell’opera letteraria: l’espressività. Il linguaggio di Sade è denotativo, “constativo”; censisce i corpi e i comportamenti come in un racconto pornografico che si cura solo degli oggetti del godimento immediato, del consumo edonista, che conosce un solo soggetto - quello dominatore della rappresentazione possessiva - e non sa dar vita e sentimento a nessuna altra creatura.
Più avanti ci si soffermerà in dettaglio sulla funzione dell’espressione, dell’espressività in Pasolini, e in particolar modo nel cinema. Qui basterà definirla e trattarla secondo l’accezione datane dalla linguistica, da Bühler a Jakobson [1]: la funzione di espressione che manifesta l’attitudine del locutore, i suoi sentimenti, le sue disposizioni soggettive. È la mancanza di espressività il difetto di Sade. In un testo contemporaneo a Salò, nel marzo del 1974, a proposito della recensione di un libro di Guido Almansi (L’estetica dell’osceno) Pasolini scrive che “la ragione per la quale Sade non può essere considerato uno dei più grandi scrittori del mondo (pur essendolo potenzialmente) è chiara: non solo non utilizza l’espressività, ma sembra ignorarla completamente. La sua pagina non è mai (nel senso specifico che i linguisti attribuiscono al termine) «espressiva», e nemmeno vivente” [2].
Il linguaggio di Sade è puramente informativo, comunicativo, o - cosa che nel vocabolario e nel pensiero di Pasolini è equivalente - “giornalistico”. I suoi romanzi diventano “enormi litanie” con poche varianti (che ne aumentano il carattere di “ossessionalità”).
Un passaggio dello stesso articolo chiarisce mirabilmente in che modo Pasolini ha fatto ricorso e ha utilizzato Sade; passaggio per noi tanto più prezioso in quanto contiene il riferimento ad un’altra opera sulla quale il cineasta si è basato, e che aveva ispirato un precedente film, il Decamerone di Boccaccio: “in un romanzo (Le centoventi giornate) Sade ha tentato un esperimento straordinario. Ha preso lo schema del Decamerone, lo ha reso infinitamente più rozzo, disadorno, meccanico, numerico; e, in questo schema, ha inserito seicento novelle - poco più che informazioni del resto - raccontate da quattro narratrici, con funzioni diverse esattamente calcolate”.
Indicazione preziosa, ancora, perché si completa di un altro riferimento, quello a Dante del quale allo stesso modo viene sottolineata la costante presenza: “non è detto che Sade non abbia tenuto conto anche della Divina Commedia, della sua forma piramidale, costruita con brevi blocchi narrativi”. Accostamento immediatamente sfumato, svalorizzato da un modo di narrazione e di scrittura, da una superficialità “di carta”, comparata alla materia robusta e profonda di Dante (di puro tufo, peperino o marmo in Dante, di cartapesta in De Sade).
In Sade non vi è che superficie, leggerezza e leggibilità della pagina. L’espressività - infatti ce n’è una che lo differenzia dalla semplice oscenità di un racconto privo di pretesa letteraria - viene dall’accumulazione, dalla ripetizione delle situazioni: “una infinita accumulazione iterativa”.
La pagina isolata è semplicemente informativa, ma il loro insieme raggiunge una grandiosa “dilatazione” - ed è ancora dir poco (“si caricano a vicenda fino a una dilatazione che chiamar grandiosa è poco”, scrive Pasolini).

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C’è un sublime sadiano che prevale su ogni semplice oscenità del dettaglio. A partire da queste indicazioni di Pasolini si scorge come sarebbe possibile spingere Sade dalla parte di un sublime-parodia, che “deturna” quello che analizza Kant nella sua concezione estetica di un’idea incommensurabile della ragione che l’immaginazione evoca senza potervi attingere [3]. Tanto più che, se è vero che Pasolini non arriva all’evocazione del sublime, vede e dice comunque che l’effetto espressivo di Sade è ottenuto attraverso questo movimento eccessivo di una Ragione spinta fino al suo limite estremo, e al di là (“Francesi, ancora uno sforzo”). Spingere la logica tanto della descrizione pura del corpo con le sue posture sessuali (pornografia), quanto del godimento possessivo dei corpi, fino all’eccesso, fino alla mostruosità dell’eccesso, una volta che il corpo e i suoi atti sono stati integralmente desacralizzati tramite l’esame della ragione e dell’esercizio dei “lumi”: in Sade il mostruoso è prodotto dalla logica stessa dell’Illuminismo. Lo stato selvaggio, le aberrazioni del suo universo non sono in opposizione alla ragione, ma sono la conseguenza del suo esercizio sistematico. Da questo punto di vista non è il sonno, ma il risveglio della ragione che genera mostri, a condizione che questa non esiti a seguire imperturbabilmente la sua direzione fino all’infinito.
Meraviglioso e ambiguo potere di una facoltà che, nella sua ossessione rivolta contro tutto ciò che è sacro, giunge a desacralizzarsi rovesciandosi contro se stessa: “De Sade - questo meraviglioso provocatore che, attraverso la razionalità illuministica, ha dissacrato non solo ciò che l’illuminismo dissacrava, ma l’illuminismo stesso, attraverso l’uso aberrante e mostruoso della sua razionalità” [4].

*  *  *

Primo punto, dunque, che lo spettatore di Salò deve ricordare se vuole comprendere l’uso di Sade in questo film, se vuole concepire ciò che è stato Sade per Pasolini, il De Sade ambiguo di Pasolini. Egli è l’uomo della ragione iperbolica che ha partorito mostri. Non più del resto - aggiungiamo tra parentesi - di quanto faccia un altro autore razionalista e ambiguo anch’esso, lo strano Spinoza che appare nella pièce teatrale Porcile e che abiura, davanti al figlio dell’industriale fascista Giuliano, una ragione borghese da cui sono sorte le deviazioni e i crimini della società e degli Stati moderni [5].
Un simile raffronto con l’incongrua comparsa di Spinoza in Porcile permetterà di contestualizzare meglio l’incontro di Sade con la repubblica fascista di Salò, nel film che, in modo esplicito, Pasolini ha definito come una “metafora” - non l’illustrazione di un Sade “condito” da qualche regista che prova malessere per la modernità, né la rappresentazione pittorica di presunti “costumi segreti” dei nazisti storici.
Innanzitutto restituiamo la sua interpretazione, così come lui l’ha esposta di fronte a un pubblico universitario di Lecce nell’ottobre del 1975: “ho fatto un film che si intitola Salò, tratto da Sade, in cui si vedono cose spaventose che, in realtà, prese una ad una, viste fuori dal loro contesto, sarebbero pornografiche; ma, nel loro contesto, penso che non lo siano, perché il contesto è quello della commercializzazione che il potere fa dei corpi, e allora tutti questi rapporti sessuali sono una metafora della mercificazione che il potere fa dei corpi, cioè della riduzione dei corpi a cosa, e allora tutti questi rapporti sessuali sono una metafora di questa mercificazione” [6]. Spiegazione completata da un riferimento a Hitler che ha praticato fisicamente, realmente, un genocidio: la stessa cosa – ed è ciò che il film vuole rendere sensibile – che il nuovo potere capitalista sta praticando oggi. Genocidio generalmente non palese, che la metafora dell’immagine filmica ha per funzione di manifestare attraverso la congiunzione di una rappresentazione della violenza sessuale associata al nome di Sade e delle immagini di un fascismo storico che per il comune spettatore incarna il massimo di ogni orrore possibile.
D’altronde la metafora non è semplice. Non designa qualcosa di chiaro, di evidente; ma qualcosa di sottile che può solamente essere suggerito, e attraverso deviazioni e biforcazioni. La scelta di Sade lo mostra, precisamente perché Sade è spesso - se non sempre - ambiguo ed ha un’espressività segreta nella sua scrittura apparentemente informativa, uno spessore insondabile della sua leggibilità. La sola chiarezza sarebbe quella degli organizzatori dell’orgia, dignitari del regime, magistrato, capitalista ed ecclesiastico, anche se queste figure perdono la loro leggibilità se si deve intendere che questo fascismo volgare (il primo fascismo nella terminologia pasoliniana) non è che una metafora del secondo, l’obiettivo polemico a cui realmente mira il film, cioè quello della nuova società dei consumi: il consumismo.
Se metafora c’è, questa non è semplice ma composta da molteplici strati e prospettive compenetrate. Sarebbe forse meglio dire che vi è una tangenza di due universi,di due blocchi: quello del fascismo vecchia maniera e quello di Sade. È un “concatenamento” (agencement ndt.), come direbbero Deleuze e Guattari. O ancora, sarebbe meglio dire che il fascismo della repubblica di Salò o le 120 giornate forma i dati di un “teorema” a partire dai quali si tratta di dedurre ciò che succederà. Pasolini stesso si presta a questa interpretazione teorematica, a questo metodo al quale , aldilà dello stesso Teorema, allude in certi passaggi.
Il teorema: dato che Sade può essere assunto a paradigma dell’edonismo gaudente e che il fascismo porta in sé, virtualmente o attualmente, la distruzione sistematica dei corpi, il genocidio - questo potere distruttore - applicato all’edonismo della nuova concezione mercificante della sessualità trasformerà questo (l’edonismo appunto) in fascismo. In altri termini, Salòè la manifestazione visibile di una formula analoga a: “non è il fascismo che è edonista, ma è l’edonismo che è fascista”. Intendendo con edonismo il nuovo “dispositivo di sessualità” della società consumista, per dirla con Foucault.
Un simile riferimento a Foucault non è arbitrario. Anche se la sua concezione del tempo storico non è quella di Pasolini, egli dà una versione analoga della funzione del “sesso” nella società contemporanea, dell’invenzione del sesso come operatore di verità. I suoi propositi contro “questo malinconico deserto della sessualità”, contro “la monarchia del sesso” richiamano immagini molto simili a quelle tramite cui Pasolini denuncia il nuovo modo consumista di concepire e vivere la sessualità. Entrambi si ritrovano intorno alla constatazione o alla deplorazione di forme precedenti di vita e di sensualità. L’edonismo della società di mercato non è più quello dell’ “uso dei piaceri” (Foucault) o della naturalezza e dell’innocenza dei corpi (Pasolini); e, a maggior ragione, non ha niente a che vedere con l’idea spinozista della gioia. Una visibilità e una leggibilità reale o intenzionale del “sessuale” hanno fatto scomparire tutto un linguaggio indiretto con le sue allusioni, i suoi silenzi, i suoi segreti.

*  *  *

Ma non è solo per analogia, per accostamento dei commenti che Foucault può e deve essere evocato a proposito del cineasta. Egli ha saputo far sua una delle sfumature più sottili della critica pasoliniana nei confronti della società dei consumi: la diffidenza rispetto ad una tolleranza che si presenta come progressista e liberatrice, mentre è umiliante e foriera di segregazione ed oppressione. Tolleranza, trappola e veleno delle società contemporanee, tanto più pericoloso quanto più seducenti sono le sue apparenze. Come tanti altri valori speciosi, sotto la sua forma attuale di parola d’ordine dal valore consensuale, la tolleranza vale solamente se opposta al suo contrario: l’intolleranza. Ma non ha in sé nulla di positivo, di affermativo. Non rimanda a un’accettazione integrale, bensì a un tirarsi indietro; ed è talvolta più dannosa di una sincera contrarietà.
“Le matin gris de la tolerance”, è il titolo dato da Foucault alla recensione di una delle opere meno viste (almeno in Francia) di Pasolini: Comizi d’amore, curiosamente tradotto con “Inchiesta sulla sessualità”, controsenso (intenzionale o no?) rispetto allo spirito e alle sfumature che questo film valorizza. Infatti non si tratta direttamente, né solamente, di sessualità, ma di amore con tutta l’ampiezza di accezione e l’imprecisione di questo termine; e non è una “inchiesta” da intervistatore televisivo, ma piuttosto un “convegno”, un “incontro”, con un carattere festivo che, a ragione, Foucault suggerisce. “Molto distanti dal confessionale, molto distanti anche da quelle inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano i segreti più intimi, queste sono delle Interviste di strada sull’amore", scrive Foucault stigmatizzando, come del resto ha fatto Pasolini, la trasformazione profonda dei modi di essere e di porsi in rapporto al “sesso”; una trasformazione contemporanea di “questa confidenza pubblica con il sesso che oggi i nostri media diffondono” [7]. 
Le parole di Foucault devono essere considerate come un eccellente commento a quello che, alla vigilia del suo assassinio, Pasolini osservava e lanciava in monito agli studenti e agli insegnanti di Lecce: “ciò che attraversa il film non è - io credo - l´ossessione per il sesso, ma una specie di timore storico, un´esitazione premonitrice e confusa di fronte a un regime che allora stava nascendo in Italia: quello della tolleranza. Un “regime” (termine prossimo a “dispositivo”, e che lo completa) che riguarda e inquieta tanto i vecchi quanto i giovani. I primi perché rovescia tutti i loro “adattamenti, dolorosi e sottili, che avevano assicurato l´ecosistema del sesso” - altra espressione perfettamente adatta alle preoccupazioni pasoliniane, anche in altri campi (architettura, urbanismo) di natura ecologica (o “ecosofica”, secondo Guattari); i secondi, i giovani, perché diffidano e dubitano del fatto che questa permissività di superficie sopprima “le diseguaglianze dell’età, della fortuna e dello status”, e perché si interrogano sulla realtà dei diritti che accompagnano “questo processo di espansione-consumo-tolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo negli Scritti corsari” (il film è datato 1963) [8].
Progettato ai giorni nostri, Comizi d’amore rischia davvero di non essere compreso e di trovarsi confinato nei tempi che furono all’insegna del motto: “tutto è cambiato”, relativamente all’aborto, all’omosessualità, ecc., che “sono entrati nei nostri costumi”. Davvero! Non è sicuro che questo “passo in avanti” non equivalga a “due passi indietro”; non solo per ciò che riguarda tutto questo contorno, questa aura imprecisata che avvolge e adorna ogni esercizio umano con la funzione sessuale, ma dal semplice punto di vista di una libertà, di un benessere del comportamento nelle relazioni sociali che, senza enfasi, potremmo chiamare “felicità” o “gioia” di vivere. Un sorriso, un gesto, la gioia nello sguardo dei ragazzi di Ragazzi di vita, Amado mio, Atti impuri, Douce o de Gli Angeli distratti, quella evocata anche dalla stessa conferenza di cui parlavo, o anche da certi passaggi di Petrolio. Una felicità, una gioia della gioventù che hanno lasciato il posto ai “giovani” odierni, esangui e nevrotici [9]. Sembra proprio che siamo approdati ad un’altra epoca, che abbiamo superato la linea di  demarcazione tra due periodi della storia.

*  *  *

E, di nuovo, bisogna tornare a porsi il quesito Perché Salò? sotto una luce un po’ diversa. Precisamente quella di una rottura e di un fine comune, che “Sade”, Salò e la loro strana convergenza contemporaneamente “metaforizzano” (ma sarebbe meglio scrivere “allegorizzano”).

Sì, è questo, l’allegoresi di Salò, la congiunzione allegorizzante di due linee che si confondono, che alla fine si fondono, per dare forma ad una linea unica che segna la conclusione di un mondo finito: opponendo una barriera insuperabile alla fiducia in ogni Progresso della Storia. Fine della Storia, ma anche fine dell’”innocenza del divenire”? L’ambiguità - si direbbe l’”indecidibilità” - del film solleva entrambe le questioni nel punto in cui le linee si congiungono: quella della Democrazia che termina nel fascismo, quella dell’edonismo tradotto in turpitudine e devastazione dei corpi. E la storia della ragione sprofonda nel maelström vorticoso di un Inferno. Perché Salò? Appunto, per destare alla coscienza di questo paradossale destino storico attraverso l’immagine, attraverso quella “lingua scritta della realtà” che è il cinema.

*  *  *

Tuttavia non si guadagnerà nulla nel voler esplicitare troppo a fondo tutte le implicazioni di questa via espressiva, nel dispiegare delle implicazioni che, appunto, hanno valore solamente se restano raccolte nelle loro “pieghe”.
È quanto suggerirà, per concludere, la lettura di un altro testo che fa ancora allusione a Sade e alla repubblica fascista, una “Presentazione per il festival Andy Wahrol” a Ferrara nel 1975 [10]. Pasolini vi approccia frontalmente e fin dall’inizio il problema di questa incomprensione delle intenzioni e del senso della sua ultima opera. A che cosa mira? Che cosa significa questo Salò? Quell’acuto interlocutore di Man Ray - dice Pasolini - si è sbagliato e ha preso Salò per un “Salaud” francese [11]; confusione che, del resto, non gli era affatto dispiaciuta personalmente (“con mia completa soddisfazione”, scrive). Ma, senza dubbio, Andy Warhol - di certo non sadiano al contrario di Man Ray, entusiasta di Sade come lo furono i surrealisti - avrebbe manifestato la stessa ignoranza del luogo, dell’esistenza stessa della piccola repubblica fascista in questa annata 1945 che fu, tuttavia, agli occhi dell’Italia e dell’Europa la fine significativa di un’epoca.
In questo articolo pressoché testamentario, la posizione di Pasolini è che solo chi ha vissuto e pensa la storia a partire da una temporalità tragica è capace di comprendere il significato di un simile evento, di una simile congiunzione. Solo chi concepisce quello che è la “rottura” storica, la linea di cesura. Infatti l’importante è sapere ciò che qualcosa - quale data, quale nome - dice a qualcuno. Quali questioni formano un “groviglio”. E Salò, Sade, l’illuminismo, il 1945 sono tra queste: sono i punti notevoli che esse occupano nello spazio o nella storia, questi punti così singolari da non tollerare nessuna interpretazione chiara e semplicistica; sono grovigli di significati e di affetti. Diversamente - in maniera similare a quanto accade in Warhol, e come Pasolini scopre o ipotizza a partire dalle opere dell’artista - avremo la concezione di un mondo installato per l’eternità, il mondo americano; e avremo la visione “bizantina” di un’arte che si compone di variazioni serigrafiche sulla stessa immagine. Un mondo che “esclude ogni possibilità dialettica”, dice Pasolini.
Aggiungendo, tuttavia, che la visione “sclerotizzata” dell’artista veicola, nel suo funebre e crudele gioco imbalsamatorio, ciò che manca alla visione storica e che, per questo, rimane inestimabile: “una sostanziale e incredibile innocenza”.
L’innocenza degli assassini, l’innocenza di “Margherita”, l’ultima parola di questo film terribile.

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Note
1  K. Bühler, Sprachteorie, Iena, 1934; R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Paris, 1963.
2  P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, p. 2002.
3  I. Kant, Critica del giudizio, L. II, §§ 23 e ss.
4  P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi, II, p. 2005.
5  Non avverrà lo stesso nel film che porta lo stesso nome, solamente nel suo progetto.
6  P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi, II, p. 2858.
7  M. Foucault, Le matin gris de la tolerance, in “Le monde”, 23 mars 1977, ora in Id., “Dits et écrits”, III, Paris, Gallimard, 1994, pp. 269-271.
8  Ibidem.
9 P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi, II, p. 2858 e sg.
10 P. P. Pasolini, “Ladies and gentlemen”. Presentazione per la mostra Andy Wahrol a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, ottobre 1975, in Id, Saggi sulla letteratura, cit., p. 2710
11 Un termine che può essere tradotto con “carogna”, “stronzo”, “pezzo di merda”, “sporcaccione” (ndt.)
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Danilo Donati, l'arte di vestire i sogni

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Danilo Donati, l'arte di vestire i sogni
di Angela Molteni e http://www.activitaly.it [Graziano Marraffa]

Il nome di Pier Paolo Pasolini è indissolubilmente legato a quello di Danilo Donati che ha creato per il regista i costumi della maggior parte dei suoi capolavori:

La ricotta(episodio di Ro.Go.Pa.G., 1963)
Il Vangelo secondo Matteo (1964)
Uccellacci e uccellini (1966)
Edipo re(1967)
Porcile(1969)
Decameròn(1971)
I racconti di Canterbury (1972)
Il fiore delle Mille e una notte (1974)
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)

Danilo Donati era un uomoche aveva capitoperfettamente cheun abitoha bisogno dell'artee della poesia, che unfilm di Pasolinidovevaesprimeresacralitàe misticismo, così come Fellini avevanecessità diironia e di paradossi per dare vita ai sogni, alle illusioni e alle leggende. "Per essere un costumista," amavadire Donati, "devisapere tutto: pittura,arte culinaria, musica e storia". Ed è soprattuttola pitturache lui amava. L'avevaamatafin da quandoera andato, giovanissimo, all’Accademia di Belle Arti, un luogo dove l'arteerail suo campodi interessepersonale, la fonte piùimmediata della sua ispirazione. Il suotratto distintivoera la suanegligenzasconcertantedi accuratezzastorica.I suoicostumi eranodel tuttoinventati, ma con essi avrebbe potuto acquisire unastretta aderenzaal periodoesaminato in un determinato momento.
Costumi di Danilo Donati per alcuni film di Pier Paolo Pasolini: Edipo re, I racconti di Canterbury,
Il fiore delle Mille e una notte, Porcile, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini, Decameròn, Salò 

Danilo Donati era nato a Luzzara (il paese di Cesare Zavattini), nel 1926. La propensione naturale verso le arti figurative, unita alla passione per quelle letterarie, lo portarono ad iscriversi alla Scuola d’Arte di Porta Romana a Firenze, dove, in totale libertà, poté dare sfogo al suo genio. Evitò il servizio militare con la complicità della madre, che da sempre gli dimostrò totale comprensione per la sua formazione culturale; nell’Italia liberata dagli alleati, Danilo ebbe modo di tornare a Firenze, dove all’Accademia d’Arte ebbe come maestro il grande pittore Ottone Rosai. L’ennesimo, malinconico ritorno a Luzzara per l’ormai inevitabile chiamata alle armi, fu l’inizio d’un periodo di forte crisi per la sua famiglia: nel luglio del 1953, Danilo restò orfano di madre. Venutogli a mancare un supporto morale indispensabile, cadde inevitabilmente in depressione; dopo due anni di alti e bassi a Milano, casualmente iniziò a lavorare con Luchino Visconti, regista di Maria Callas al Teatro alla Scala.
Dopo una vacanza a Roma, durante la quale reincontrò i vecchi amici di Firenze, iniziò il suo lavoro di costumista. Nel 1959, Mario Monicelli lo chiamò per La grande guerra, primo capolavoro del cinema italiano al quale Donati ebbe modo di dare la sua inconfondibile impronta artistica. Ritrovata la forza d’ispirazione d’un tempo, lavorò ininterrottamente per il cinema, contribuendo con i vari autori a fare d’ogni film un capolavoro d’arte figurativa. Scorrendo la filmografia di Danilo Donati, ci si chiede istintivamente se nell’animo, nella mente di ogni spettatore sarebbero rimasti impressi lo stesso i vari personaggi dei film, se lui non avesse contribuito alla fisicità dei sogni espressi da ciascun autore. 
Oltre agli eroi involontari di Monicelli, gli indolenti Jacovacci e Busacca (Sordi e Gassman), Donati vestì le prostitute in cerca di riscatto di Adua e le compagne (I960) di Antonio Pietrangeli, la borghesia del boom de La bella di Lodi (1963) di Mario Missiroli, i contadini verghiani de L’amante di gramigna (1967) di Carlo Lizzani.
Il 1962 è l’anno di nascita del sodalizio artistico tra Donati e Pier Paolo Pasolini: per La ricottaambientato in un set cinematografico dove si tenta di girare una rappresentazione della Passione di Cristo, Donati ricostruì alla perfezione i costumi dipinti nelle loro opere sacre da Pontormo e Rosso Fiorentino.

La classicità della storia, verrà illustrata da Donati nei suoi lavori successivi: La steppa (1962) e La mandragola (1965) di Alberto Lattuada, El Greco (1963) di Luciano Salce (ispirato alla vita dell’omonimo pittore), fino a Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pasolini, film al quale La ricotta aveva fatto da preludio.

In occasione di Chi lavora è perduto (1964) dell’esordiente Tinto Brass, Donati aggiunse all’attività di costumista quella di scenografo e arredatore, “miracolo” che ripeterà in Per grazia ricevuta (1970) di Nino Manfredi, Caligola(1979) ancora di Brass, Francesco (1989) di Liliana Cavani, Marianna Ucrìa (1996) di Roberto Faenza.
Contemporaneamente lavora per Bolognini nei suoi film minori: La donna è una cosa meravigliosa(1964), Madamigella di Maupin (1965), Le notti romane, Gran bollito (1977).
A partire dal 1965, alternò le sue collaborazioni in rapporti di autentica amicizia nonché stima professionale: mentre l’opera di Pasolini si allontana dal neorealismo per avviarsi alla riscoperta del mondo arcaico a partire da Uccellacci e uccellini (film nel quale Donati ritrova il grande Totò col quale lavorò nelle sue migliori prove d’attore, prima fra tutte Il comandante, 1963 di Paolo Heusch) fino a Edipo re (1967) e Porcile(1969), sarà la rilettura dei classici da parte di Franco Zeffirelli a condurre Donati verso nuovi trionfi. Dopo La bisbetica domata (1967) sarà la volta di Romeo e Giulietta (1968) altra grande opera shaekesperiana per la quale Donati riceve l’Oscar per i migliori costumi. 
Dopo le sporadiche esperienze lavorative con Pasquale Festa Campanile per La cintura di castità (1967), commedia d’ambientazione medievale ed Eriprando Visconti per La monaca di Monza (1969), Donati incontra il genio più fantasioso che la storia del Cinema abbia mai avuto: Federico FelliniVolendo fare della trasposizione in immagini del Satyricon di Petronio Arbitro un’opera decadente e fortemente visionaria, Fellini affidò a Donati il triplice ruolo di scenografo, costumista ed arredatore; ma nonostante il notevole impegno di entrambi, il Fellini-Satyricon non raggiunse le vette artistiche degli altri capolavori del regista. 
Il ritorno pasoliniano ad una vena popolaresca con la cosiddetta “Trilogia della vita” (Il decameròn, 1970, I racconti di Canterbury, I971, e Il fiore delle Mille e una notte, 1973), fornì a Donati la nuova occasione per esprimersi al meglio, anche se i film suscitarono più scandali, sequestri e polemiche piuttosto che analisi critiche e valutazioni artistiche.
Nei primi anni ‘70, Donati prosegue l’attività negli affreschi visivi di Zeffirelli (Fratello sole sorella luna 1971), Fellini (Roma 1972), Sergio Citti (Storie scellerate 1973), aiuto fondamentale di Pasolini passato alla regia. Non a caso gli elementi predominanti dei film ai quali Donati partecipa in questi anni sono la sacralità, il clima di commistione fra fiaba e mito, la secolarità delle storie descritte e dei personaggi rappresentati: opere di non semplice realizzazione che solo i grandi sono in grado di lasciare ai posteri come splendida testimonianza della propria arte espressiva. Tra l’esperienza di Amarcord, (1973), forse il più autobografico film di Fellini, e de Il Casanova di Federico Fellini (1976) per il quale “Daniluccio” (come amabilmente usava chiamarlo il regista) riceve il suo secondo Oscar, fu per l’ultima volta accanto a Pasolini nel suo disperato Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) al quale seguì la tragica morte dell’autore.
Con la fine del decennio, inizia per il cinema italiano la più lunga stragione di crisi, contraddistinta dalla fine della sua epoca d’oro; tuttavia Donati non smise definitivamente di lavorare, partecipando sempre in triplice attività ad Uragano(1979) di J. Troell, Flash Gordon (1980) di M. Hodges, Yado(1985) di Richard Fleischer. Dopo aver ritrovato Fellini in Ginger e Fred (1985), pungente satira del nuovo mondo televisivo, e Intervista (1987), ulteriore autoconfessione del maestro, collabora nuovamente con Citti ne I magi randagi (1996), un vecchio progetto pasoliniano. L’ultimo grande incontro artistico avviene per Donati nel 1994: conosce Roberto Benigni per la lavorazione de Il mostro, all’epoca campione d’incassi.
Ma il binomio Donati-Benigni darà il meglio di sé nei successivi La vita è bella (1997), film che ha regalato un altro Oscar alla cinematografia nazionale, e soprattutto nel laboriosissimo Pinocchio (2001/02), evidente eco dei sogni felliniani tramandati tanto a Benigni che a Donati, il quale fa appena in tempo ad ultimare il proprio lavoro che si trasforma in testamento artistico. Il 2 dicembre 2001 l’Italia cinematografica perde per sempre un artefice insostituibile, la cui magica grandezza è pienamente espressa in una recentissima definizione di Benigni : Uno che quando dormiva poteva attaccare il cartello "IL POETA LAVORA".
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Commento di Claudio Rampini a "Supplica a mia madre" di Pier Paolo Pasolini (1962)

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LA POESIA
Supplica a mia madre
di Pier Paolo Pasolini (1962)
Commento di Claudio Rampini
Castel Madama 26 Gennaio 2013

Cara mamma, mi rivolgo a te come figlio, ma quel che ho da dirti ha davvero poco in comune con ciò che un figlio esprime in termini di sentimenti, di affetti e di giochi che normalmente allietano ed alleviano la vita di ogni madre.
Come potrei dirlo altrimenti? Tu sei la sola che sa ciò che è celato nel mio cuore ed è impossibile nasconderti qualsiasi cosa, e anche non volendo trovare le parole per dirtelo, tu quelle parole già me le leggi dentro.
Ed è proprio per questo che voglio dirti qualcosa che suona come una bestemmia, che minaccia di darti dolore, proprio a te che hai protetto gli anni della mia infanzia, ora sono io a proteggere te e l’amore struggente che ci lega è la nostra pena: è nella grazia di questo amore che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile, questo per un figlio è il sentimento più bello e più profondo che possa provare, ma al tempo stesso suona come una condanna definitiva alla solitudine. Questa tua unicità è un patto non negoziabile per la stessa ragione per cui quel cordone ombelicale che pure mi ha donato la vita, ora è una catena.
Ed io aspiro alla vita, ho un’infinita fame d’amore, un amore carnivoro che divora i corpi lasciando le anime intatte, altrove.
Perché l’anima è solo in te e non l’avverto altrimenti, ma tu sei mia madre ed in questo amore totalizzante vivo la mia schiavitù. Così ho vissuto tutta la mia infanzia, prigioniero volontario d’un amore di cui sono stato l’unico, geloso, custode.
Per me questo era l’unico modo per vivere, l’unico colore che ho usato per dipingere il quadro della mia esistenza: ma ora tutto è finito, niente è più come prima.
Sopravviviamo nei lacerti confusi di questo amore che è esploso come una stella. Frammenti di luce impazziti, perché la vita cambia, consuma, lima e deforma ogni progetto.
Con l’animo rigonfio di pena io ti supplico: non andare via, non mi lasciare.
Siamo ancora insieme, felici e rassicurati da un dolce ricatto, con il pensiero ad una radiosa e nuova primavera di liberazione.

*  *  *
  
Pier Paolo Pasolini
Supplica a mia madre


È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, 
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini, Supplica a mia madre
In Poesia in forma di rosa(1961-64)
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Il corpo come riscatto dalla borghesia: il Teorema di Pasolini

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PASOLINI NEI BLOG
Il corpo come riscatto dalla borghesia:
il Teorema di Pasolini


Teorema nacque come dramma teatrale nel 1965 ma divenne un romanzo e un'opera cinematografica nel 1968. In questo film, l'autore simboleggia il proprio giudizio negativo dell'individualismo a cui la vita, in stile borghese, richiede e conduce. La simbologia di questa chiusura in sé passa attraverso il corpo, un corpo snaturato, fattosi oggetto in chi si è abituato a vivere le consuetudini di questa noiosa società consumistica. Ma attraverso il corpo passa anche il riscatto. Ed è proprio quello che è venuto a portare "l'Ospite", un ragazzo bello e gentile ma anche riservato e assorto, fuori dalle consuetudini e che sta tutto il tempo a leggere (non a caso) Rimbaud. Arrivato da chissà dove, giunge per visitare la famiglia di Paolo, industriale a capo di un'azienda di Milano. A casa c'è tutta la famiglia: l'annoiata moglie Lucia, i figli studenti Pietro e Odetta e infine la domestica (una "esclusa di razza bianca" come la definì Pasolini stesso), Emilia, di origini contadine.
L'Ospite sconvolgerà la normalità di questa famiglia piccolo-borghese. Ogni membro, inclusa la domestica, finirà per avere un rapporto sessuale con lui. La prima ad essere folgorata dalla estraneità e naturalezza del giovane è proprio la domestica che, per paura di non poterlo avere, tenta di suicidarsi ma viene fermata e amata dall'ospite. Poi tocca a Pietro, suo coetaneo con inclinazioni artistiche, destinato a scoprire anche le sue vere inclinazioni sessuali. Poi è la volta di Lucia, fino ad allora confinata nel dogma cattolico (come pare viverlo non perché dogma puramente cattolico) della fedeltà coniugale. Dopodiché Odetta, studentessa introversa molto attaccata alla figura paterna, e infine il pater familias Paolo.
Tutti uniscono il proprio corpo con la sua bellissima e affascinante anormalità. Ma, come dice lo stesso Rimbaud, l'ospite "è  venuto, se n'è andato e forse non tornerà mai più". Quindi, altrettanto misteriosamente di come era arrivato, l'ospite inatteso se ne va.
La famiglia cade nel panico: ogni membro, ormai svelatosi a se stesso per quello che è, per il timore di questo improvviso cambiamento si rifugia nella propria individualità con conseguenze catastrofiche. Una perfetta sintesi è la reazione di Odetta: chiusasi in se stessa, diventa catatonica e viene portata in ospedale ancora rigida e con un pugno serrato. Lucia prova a rivivere quella passione, quell'energia corporea donandosi a caso a ragazzi caricati in macchina lungo la statale, cercando coetanei dell'ospite. Ma la tristezza permea qualsiasi incontro.
Pietro invece si dà all'arte, ma dipinge quadri di cui non si fida, cercando invano una forma d'arte che lo convinca appieno. In questo Pasolini mette tutto il senso dell'attuale fuga dalla propria personalità a cui la nostra società ci educa fin da bambini: se qualche cosa non va coprila con qualcosa perché nessuno se ne accorga, come Pietro pone una lastra trasparente sull'altra per nascondere gli errori dell'artista, l'ingenuità del suo tratto inesperto.
Cerca rifugio nella propria individualità, senza scampo, fino alla pazzia. Solamente il padre verrà illuminato, abbandonando anche i suoi averi: lascia la fabbrica agli operai, scappa svestendosi completamente e vaga nudo per il deserto. L'urlo tra le dune di sabbia (fuori sincrono come se non fosse un urlo umano ma qualcosa di più profondo) racchiude in sé la dolorosa presa di coscienza del proprio vivere svuotato, senza senso, senza identità.
L'unica a salvarsi da questa apocalisse è per sua natura la contadina Emilia la quale, estranea al mondo borghese per nascita, torna al suo paese di campagna e qui, dopo giorni di immobilità corporea, di purificazione (mangia solamente delle ortiche), concentrata in uno stato mistico riesce a liberarsi completamente della sua individualità (significativa la scena dove si fa sotterrare e solo gli occhi rimangono scoperti per irrigare il campo con le proprie lacrime), a donarsi all'Altro (di cui l'ospite era portatore) e il suo corpo prende a lievitare mentre la popolazione grida al miracolo.
Un miracolo sì, che ci si possa ancora rendere conto che la borghesia piega il nostro corpo alla stregua di un oggetto difficile da controllare.
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"La rabbia di Pasolini". 2008: ipotesi di ricostruzione della parte iniziale inedita. Realizzazione di Giuseppe Bertolucci

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LA SAGGISTICA - CINEMA
La rabbia di Pasolini
2008: ipotesi di ricostruzione della parte iniziale inedita.
Realizzazione di Giuseppe Bertolucci

di Emanuele Cotumacciohttp://www.zabriskiepoint.net/ 
e Angela Molteni, Enrico Campofreda, Carlo di Carlo

Recuperato l'intero corpus dei filmati che avrebbero composto la versione
de "La rabbia", film del 1963 di Pier Paolo Pasolini. Da un'idea
di Tatti Sanguineti alla realizzazione di Giuseppe Bertolucci


Operazione squisitamente pasoliniana di recupero o forzatura di un progetto nato come incontro e costrizione di voci divergenti? L'operazione di ricostruzione de La rabbia di Pasolini fatta da Sanguineti e Bertolucci sul materiale pasoliniano recuperato e ricostruito sulle indicazioni della sceneggiatura contenuta nei Meridiani dedicati al poeta regista nasce sotto le migliori intenzioni. E la materia c'era tutta: le immagini dei Cinegiornali di Mondo Libero, le indicazioni precise di Pier Paolo sui singoli punti specifici, comprensive degli interventi di voce over, perfino le istruzioni di dove lasciare le voci di speakeraggio.
Così vengono ricostruiti i primi 15 minuti monchi nell'edizione del ‘63, immagini che partono e finiscono da punti nodali del percorso culturale ed umano pasoliniano. Dalla morte di De Gasperi alla globalizzazione televisiva, prima fondamentale tappa della Guerra Fredda. Al centro la guerra in Corea e la guerra in genere, le alluvioni e le ricostruzioni, le ideologie e i miti di massa. 
Come nell'edizione pasoliniana due voci fuori campo commentano, alternandosi tra prosa e poesia, Giuseppe Bertolucci e Valerio Magrelli. Poi hanno inizio i 53' della rabbia pasoliniana: e stavolta è vera rabbia, che fagocita i minuti precedenti, li affoga nell'elegante cinismo avverso alla religione di massa priva del gusto del ridicolo o nell'incoronazione di una regina Elisabetta, inconsapevolmente già morta. 
Si nutre di rabbia, mostra la morte del mondo e delle cose, De Gaulle e l'intervento sovietico in Algeria, strade di non ritorno, li accompagna a versi di speranza negati, l'ascesa di Castro a Cuba. In sottofondo e sottovoce Bassani poesia e Guttuso prosa, ancora le note di Albinoni: viaggio parabolico che si nutre delle immagini del quotidiano per trasformarle in visioni della vita e della storia, in cui l'immagine precedente è trampolino per salire più in alto. I poli tra cui si muove sono quelli della guerra e della bellezza, il vertice ascendente è raggiunto nel finale. Le immagini della morte di Marilyn, sublimi versi di vera bellezza incontaminata, bellezza a cui è stata rivelata e insegnata la bellezza, racchiusa nel fascino immobile di una bambina mai diventata adulta, e il volo di Yuri Gagarin nell'orbita terrestre con il trionfale ritorno a Terra, vita che supera la morte e ritorna vita, tecnologia e sviluppo dell'Oriente opposto ad un ideale Occidente. [...] Sembra di intuire dietro le parole di Pasolini che non ci sarà più rabbia. E rabbia ormai non c'è più. E' qualcosa d'altro, che rabbia non è. Soprattutto non ha con sé quel senso di guerra e di bellezza. 
Nel video sopra collegato, come spesso accade per questi lavori presentati in You Tube, non si conclude
l'ultima citazione poetica pasoliniana (lettore Giorgio Bassani). Trascrivo dunque dalla sceneggiatura originale
la scena LXIII: tale scena inizia, nel video, a 9:32; al termine del video (9:39) vi è, appunto, un brusco taglio
cui si riferiscono i versi caratterizzati in colore rosso qui di seguito.

LXIII  GENTE CHE ENTRA A UN RICEVIMENTO E PORTA CHE SI CHIUDE
Voce in poesia


La classe della bellezza e della ricchezza, 
un mondo che non ascolta.

La classe della bellezza e della ricchezza, 
            un mondo che lascia fuori dalla sua porta.

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In questo video - "La rabbia di Pasolini" (Istituto Luce e Cineteca di Bologna)  è compreso il commento
iniziale di Giuseppe Bertolucci che presenta appunto l'ipotesi di riscostruzione
della parte inedita (2008). La produzione del video è firmata Aldrick Webber

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Le immagini che illustrano i brani seguenti sono foto
relative al montaggio de "La rabbia" nel 1963
Sinossi

La rabbia di Pasolini (2008)

1963 - I cinegiornali "Mondo Libero" di Gastone Ferranti e i materiali reperiti in Cecoslovacchia, Unione Sovietica e Inghilterra diventano per Pier Paolo Pasolini la base per dare vita a un'analisi lirica e polemica dei fenomeni e dei conflitti sociali e politici del mondo moderno, dalla "Guerra Fredda" al "miracolo economico", con un commento diviso fra una "voce di poesia" (Giorgio Bassani) ed una "voce in prosa (Renato Guttuso). Mentre Pasolini è al lavoro in moviola, il produttore, forse per scrupoli politici o forse per motivazioni commerciali, decide di trasformare il film in un'opera a quattro mani, affidandone una parte a Giovanni Guareschi, secondo lo schema giornalistico del "visto da destra e visto da sinistra". Pasolini reagisce con irritazione a quella coabitazione forzata, ma alla fine accetta e rinuncia alla prima parte del suo film per lasciare spazio all'episodio di Guareschi.
2008 - Ci sembrava interessante (e una forma di risarcimento dovuto) provare a restituire, dopo tanti anni all'opera di Pasolini i connotati dell'originale. Partendo dal testo del poeta e dalla collezione di "Mondo Libero" abbiamo dunque lavorato alla ricostruzione (o meglio alla "simulazione") di quella prima parte mancante e la presentiamo con beneficio di inventario, al pubblico di oggi.
La ricostruzione comprende:
Introduzione di Giovanni Bertolucci (2')
Materiale inedito dell'archivio dell'Istituto Luce (16')
La rabbia (edizione del 1963, 53', del gruppo editoriale Minerva RaroVideo)
Appendice: L'aria del tempo (12')
Soggetto: Pier Paolo Pasolini (1963), Tatti Sanguineti (2008)
Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini (1963), Tatti Sanguineti e Giuseppe Bertolucci (2008)
Montaggio: Nino Baragli , Mario Serandrei (1963), Pier Paolo Pasolini (collaborazione, 1963), Fabio Bianchini (2008)
Musiche: AA.VV.
Interpreti: Giorgio Bassani (voce), Renato Guttuso (voce)
Produzione: Opus Film (1963) - Cineteca del Comune di Bologna - Istituto Luce - Gruppo Editoriale Minerva RaroVideo (2008)
Distribuzione internazionale: Istituto Luce
Distribuzione italiana: Istituto Luce
Nazionalità ed anno: Italia, 1963-2008
Durata: 83' (l'originale 53', compresa la parte di Guareschi 100')
Formato: 35mm, B/N
Lingua: italiana
Sito ufficiale: http://www.luce.it/

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La rabbia (1963)
Partendo da posizioni del tutto divergenti, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Guareschi hanno tentato di dare risposta, attraverso un film di montaggio, a uno dei quesiti più importanti sull'esistenza umana: perché le nostre vite sono segnate dal malcontento e dalla paura?
Entrambi gli scrittori rispondono commentando soggettivamente documenti cinematografici e fotografici del dopoguerra, come gli episodi dell'intervento sovietico in Ungheria, l'assassinio di Lumumba, l'indipendenza del Tanganika, l'attacco israeliano in Egitto, l'ascesa al potere di Castro a Cuba, Ava Gardner a Roma e Sophia Loren nel Polesine, l'incoronazione della regina Elisabetta d'Inghilterra, l'elezione di Eisenhower e quella di De Gaulle, l'indipendenza dell'Algeria, la morte di Marilyn Monroe, il volo di Gagarin nell'orbita terrestre con il trionfale ritorno a terra.
Pasolini fa derivare la nostra angoscia dalle azioni efferate compiute dalla società occidentale, mentre Guareschi cerca di difenderla vedendovi una speranza per il futuro.
Il film suscitò pareri contrastanti, ma soprattutto fu condannato come eretico, come si può evincere da queste parole... "L'evidente tendenza di Pasolini a distruggere tutti i valori dell'esistenza, compresi quelli religiosi, e l'inefficace difesa sostenuta da Guareschi costituiscono il tema fondamentale del film, che, inoltre, è particolarmente irrispettoso delle istituzioni religiose e delle persone degli ultimi Pontefici." ("Segnalazioni cinematografiche", vol. 58, 1965). Ma fu trattato male non solo dal potere ecclesiastico ma un po' da tutti. Motivo per cui il film venne ritirato dalle sale... La prima proiezione fu fatta a Milano il 13 aprile 1963. Per due giorni, poi due giorni a Roma e quindi uno a Firenze. A questo punto il film fu ritirato dalle sale e il distributore annunciò un rifacimento che non avvenne mai. [...]

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Quando la rabbia è testimone
di Enrico Campofreda, 27 ottobre 2007
‘‘La rabbia’’ era il titolo e rabbia suscitò nei due autori, l’un contro l’altro armati di penna e d’immagini di repertorio come il mondo che narravano. Dove vivevano ideologie opposte e contrapposte che s’erano osteggiate nel conflitto e dopo, creando una nuova guerra. Fredda.
In verità Pasolini è più rabbioso di Guareschi per quella sensibilità poetica, umana e ideale che s’indigna davanti a un reazionario noto ma non sospettato di posizioni addirittura razziste. E razzista Guareschi si compiace d’essere quando, in più occasioni del monologo da lui diretto inveisce contro i negri africani mostrandoli come animali con tanto di colonna sonora circense. Due spezzoni di un’ora circa l’uno, progettati e realizzati nel 1963 autonomamente dai due autori che non vollero sfiorarsi. Poi assemblati e mantenuti, per quanto sembrava che a un tratto Pasolini volesse ritirare la sua firma.
I due si scrissero, denunciando ciascuno nella propria missiva l’incomprensione e anche la disistima per l’altro ma restando sul terreno della polemica non dell’invettiva. ‘‘Lei è un borghese di sinistra e come tale conformista’’ chiosava il creatore del Don Camillo. ‘‘Lei è un reazionario e usando le armi della mediocrità, della demagogia del qualunquismo riuscirà vincitore nella disputa - rispondeva il poeta. Ma qual è la vera vittoria, quella che fa battere le mani o quella che fa battere i cuori?’’
Cuori e mani battevano da entrambe le parti come la passione e l’ideologia. Certo, confrontate su ogni argomento, le posizioni erano opposte e incomunicabili, un vero dialogo fra sordi. Perché sull’oppressione dei popoli africani, i massacri, le torture ai leader come Lumumba ricordate dalle immagini proposte da Pasolini, Guareschi risponde col diritto dei bianchi di sfruttare le colonie. Mostra i francesi - costretti ad abbandonare l’Algeria dopo la lunga lotta di liberazione popolare - quali vittime, parla dei parà torturatori come di difensori della libertà dell’Occidente. Libertà, parola abusata dalle dittature d’ogni colore. E’ lo stesso Pasolini comunista ad ammetterlo: ‘‘neri giorni d’Ungheria’’ recita e ricorda come ‘‘le colpe di Stalin sono le nostre colpe’’.
Ma in nome della libertà dalla repressione sovietica quanto dolore, quanto disprezzo, quanta violenza alla maniera fascista l’Occidente ha profuso. Mentre Guareschi parla di vendetta del dopoguerra a cominciare da Norimberga per finire al triangolo rosso, vendetta contro i vinti. La giustizia dei vincitori è vendetta? Sicuramente per chi vorrebbe in ogni caso farla franca, passando un colpo di spugna su lugubri eventi come in molti casi è stato.
Scorrono le figure dei giganti del Novecento e quelle anonime del popolo e quando i commenti dicono: ‘‘folla degli anni Sessanta che ha bisogno di religione per espiare le proprie colpe’’ oppure ‘‘l’uomo che è nemico di coloro che vorrebbero arare la terra dove giacciono le ossa dei nostri morti’’ già sappiamo chi la pronuncia. Ma in queste posizioni, che oggi apparirebbero rigide e sorde alle ragioni dell’altro, ci sono credo e coerenza svanite assieme alle tante trasformazioni - antropologiche e non - preconizzate proprio dal poeta.
Rivedere la pellicola, restaurata dalla Cineteca di Bologna e presentata ieri [26 ottobre 2007. ndr] alla Festa del Cinema, è una sana immersione in un passato recente che come ogni passo della Storia restituisce agli eventi la comprensione dei perché, evitando le decontestualizzazioni di comodo tanto care a chi racconta un presente senza passato.

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Carlo di Carlo
Da Teoria e tecnica del film di Pasolini

Il testo che segue è di Carlo di Carlo, aiuto regista nel film La rabbia(lo è stato precedentemente di Mamma Roma e de La ricotta) e riportato dal testo Teoria e tecnica del film di Pasolini, a cura di Antonio Bertini ed edito nel 1979 da Bulzoni.

Pier Paolo Pasolini. Foto di Mario Dondero
Tra le carte del mio lavoro con Pasolini (1962-1963), trovo un appunto relativo a La rabbia, l'ultimo film al quale ho collaborato con lui. Probabilmente una sua dichiarazione. Dice Pier Paolo: "Il film La rabbiaè un saggio polemico e ideologico sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni. Tali documenti sono presi da cinegiornali e da cortometraggi e montati in modo da seguire una linea, cronologico-ideale, il cui significato è un atto di indignazione contro l'irrealtà del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilità storica. Per documentare la presenza di un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente la realtà. La realtà, ossia un vero amore per la tradizione che solo la rivoluzione può dare. La rabbia; un film di montaggio, un film-saggio politico, un film poetico. Meglio, un testo in poesia espresso per immagini, con la rabbia in corpo. La rabbia di Pasolini. La sua rabbia. Contro il mondo borghese, contro la barbarie, contro l'intolleranza, contro i pregiudizi, la banalità, il perbenismo. Contro il Potere che, soprattutto allora inveiva contro di lui (che non era ancora il Pasolini di poi) in modo persecutorio. Contro. Contro. Contro.
Perché La rabbia è stato proprio un film-contro, e per molti versi anticipatore. Già all'inizio nacque contro il partner, Giovannino Guareschi, autore della seconda parte. Quel Guareschi, simbolo dell'umorismo da sacrestia di quegli anni, il quale incarnava meglio e più di ogni altro lo spirito del '48, della piccola borghesia, dei Comitati civici, dell'Italia degasperiana, quasi una Liala del qualunquismo.
Sì, perché l'idea del produttore fu quella di sfruttare l'idea del "visto da destra... e vista da sinistra", le due vignette che settimanalmente distinguevano la prima pagina del "Candido" mettendo in berlina i comunisti ("trinariciuti") secondo le norme più bieche dell'anticomunismo della guerra fredda. Attraverso l'incontro-scontro Pasolini-Guareschi, il produttore era certo di compiere un'operazione commerciale di sicuro successo. Scandalo. Prestarsi a un'operazione del genere! Pasolini appariva già e sempre scandaloso, e a quei tempi poi! Ora addirittura si prostituiva a favore di un'operazione commerciale che lo vedeva affiancato a un tale figuro. (E pensare che la nostra moviola era perfino distante dieci metri da quella di Guareschi, in fondo a un corridoio di un appartamento di Viale Liegi. Di lui si intravedevano, ogni tanto, i baffi, perché i due non si salutavano neppure). 
Il film fu un totale insuccesso commerciale. A Roma due giorni di programmazione, credo due a Milano, a Firenze uno. Poi basta. E così, sulle ceneri di questo insuccesso, rimase splendidamente sola la parte di Pier Paolo, questo eccezionale documento (capito soltanto negli anni a venire) che implicitamente dimostrava ancora una volta l'autonomia della creazione, della poesia, della cultura. Questo film fu un lavoro eccitante, complesso, superiore a quella per Mamma Roma e per La ricotta. Perché non si trattò soltanto di scegliere insieme tra novantamila metri di "Mondo libero" (il cinegiornale degli anni della guerra fredda confezionato dal nostro produttore) e di tanti altri documentari d'ogni tipo, ma di un paziente e vivace lavoro, sia dal punto di vista tecnico che da quello creativo: ricerca e scelta dei più svariati materiali fotografici e di documentazione, riprese dal vero e in truka di varie sequenze, prove e riprove di montaggi differenziati, costruzioni di sequenze di collegamento tra un tema e l'altro, ricerca dell'unitarietà stilistica, infine tante e tante discussioni vive e accese su tutto perché in quei mesi, d'un colpo, tutto ciò che era accaduto e accadeva d'importante nel mondo, era davanti ai nostri occhi, lì sul piccolo schermo della moviola. 
Quindi: amarezze indifferenza iprocrisia delusioni tragedie e anche illusioni, speranze. La rivoluzione. L'utopia. Bisognava stringere, scegliere, contenere. Gli argomenti si assottigliarono: la morte di De Gasperi, la guerra in Corea, le alluvioni, la televisione, l'Ungheria, l'anticomunismo, Egitto/Israele, l'assassinio di Lumumba, Nasser, Sukarno, la liberazione di Tunisia, Tanganika, Togo, Cuba, il canale di Suez e poi Sophia Loren, l'incoronazione della regina d'Inghilterra, Eisenhower, la morte di Pio XII ("è morto un Papa di famiglia eletta - grandi agrari del Lazio..."), l'elezione di Giovanni XXIII ("Uguale al padre furbo e al nonno bevitore di vinelli pregiati, figura umana sconosciuta ai sottoproletari della terra, ma anch'esso coltivatore di terra - il nuovo Papa nel suo dolce, misterioso sorriso di tartaruga, pare avere capito di dover essere il pastore dei Miserabili; pescator di pescecani, pastori di jene, cacciatori di avvoltoi, dei seminatori di ortiche, perché è loro il mondo antico, e non son essi che lo trascineranno avanti nei secoli, con la storia della nostra grandezza".), il realismo socialista e l'arte astratta, la Francia e l'Algeria, stermini, impiccagioni, esecuzioni, torture, De Gaulle. Poi l'inno a Marylin ("Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu / te la sei portata dietro come un sorriso obbediente"). Infine, l'atomica, i voli nel cosmo, la grande era. Pier Paolo concludeva: "Perché compagni e nemici, / uomini politici e poeti, / la rivoluzione vuole una sola guerra, / quella dentro gli spiriti / che abbandonano al passato / le vecchie, sanguinanti strade della Terra". Un'ultima cosa: Pier Paolo detestava i doppiatori e quindi leggere questo testo bellissimo diventò un problema non secondario. Ebbe l'idea di farlo leggere da due voci altre, agli amici Giorgio Bassani e Renato Guttuso. Testo a due voci: la voce in poesia e la voce in prosa, la voce della pacatezza (Bassani), la voce della rabbia, dell'invettiva (Guttuso). Bassani e Guttuso si sentirono protagonisti-attori, impegnati nel testo. Non fu facile, ma anche questo risultato fu singolare.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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"La Guinea" di Pier Paolo Pasolini. Con una nota informativa e un video

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"Pagine corsare"
LA POESIA
La targa apposta sulla casa di Attilio Bertolucci a Casarola

"La Guinea" di Pier Paolo Pasolini
Con una nota informativa e un video dedicato al poeta Attilio Bertolucci
e a Casarola - la località in cui Bertolucci visse molti anni con la sua famiglia.
Nel video sono richiamati in parte i versi della poesia pasoliniana 

Pubblico un poemetto di Pier Paolo Pasolini, La Guinea, che è incluso in Poesia in forma di rosa (e che le norme sul copyright - alle quali ho ottemperato da quel lontano 1997 in cui pubblicai “Pagine corsare / pasolini.net” sul web - mi permettono di pubblicare) perché sia possibile a chi legge le pagine di questo blog dedicate al poeta godere di questa magnifica composizione poetica nella sua integrità e nelle caratteristiche originali che ne determinano la comprensione. Circolano in rete, infatti - e questo si riferisce a molte opere non solo di Pasolini - testi che definire inesatti è riduttivo. In effetti, il più delle volte, ci si limita a passare allo scanner un testo e lo si pubblica, probabilmente senza rileggerlo e senza due parole di presentazione: così, si incontrano versi come quelli illustrati dalle terzine che sono riprodotte a solo titolo esemplificativo qui di seguito. Versi tratti da una pagina Facebook e che, così come si presentano, risultano del tutto incomprensibili anche se letti nel contesto dell’intero componimento poetico. 

Mi auguro che questa nota informativa possa essere utile a coloro che intendono pubblicare un testo, soprattutto quando si tratti di qualcosa di scritto da un grande come Pasolini, considerato a tutti gli effetti un vero e proprio “classico” della letteratura italiana del Novecento. Pasolini era oltretutto un filologo, e a lui penso debba dunque andare il rispetto dovutogli  come scrittore e anche come "scienziato" della lingua italiana. [A.M.]

Attilio e Ninetta Bertolucci e dietro a loro
i due figli: Giuseppe, il più piccolo (recentemente scomparso) e Bernardo
*  *  *

La Guinea, di Pier Paolo Pasolini
Da “I. La realtà”, in Poesia in forma di rosa (1964),

in Pasolini. Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, Milano 2003



Alle volte è dentro di noi qualcosa 
(che tu sai bene, perché è la poesia) 
qualcosa di buio in cui si fa luminosa

la vita: un pianto interno, una nostalgia 
gonfia di asciutte, pure lacrime. 
Camminando per questa poverissima via

di Casarola, destinata al buio, agli acri 
crepuscoli dei cristiani inverni, 
ecco farsi, in quel pianto, sacri

i più comuni, i più inutili, i più inermi 
aspetti della vita: quattro case 
di pietra di montagna, con gli interni

neri di sterile miseria - una frase 
sola sospesa nella triste aria, 
secco odore di stalla, sulla base

del gelo mai estinto - e, onoraria, 
timida, l’estate: l’estate, con i corpi 
sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,

disposti sulle chine - come storpi 
o giganti - dalla sola Bellezza. 
Ah bosco, deterso dentro, sotto i forti

profili del fogliame, che si spezzano, 
riprendono il motivo d'una pittura rustica 
ma raffinata - il Garutti? il Collezza?

Non Correggio, forse: ma di certo il gusto 
del dolce e grande manierismo 
che tocca col suo capriccio dolcemente robusto

le radici della vita vivente: ed è realismo...
Sotto i caldi castagni, poi, nel vuoto 
che vi si scava in mezzo, come un crisma,

odora una pioggia cotta al sole, poco: 
un ricordo della disorientata infanzia. 
E, lì in fondo, il muricciolo remoto

del cimitero. So che per te speranza 
è non volerne, speranza: avere solo 
questa cuccia per le mille sere che avanzano

allontanando quella sera, che a loro, 
per fortuna, così dolcemente somiglia. 
Una cuccia nel tuo Appennino d'oro.

La Guinea... polvere pugliese o poltiglia 
padana, riconoscibile a una fantasia 
così attaccata alla terra, alla famiglia,

com'è la tua, e com'è anche la mia: 
li ho visti, nel Kenia, quei colori 
senza mezza tinta, senza ironia,

viola, verdi, verdazzurri, azzurri, ori, 
ma non profusi, anzi, scarsi, avari, 
accesi qua e là, tra vuoti e odori

inesplicabili, sopra polveri d'alveari 
roventi... Il viola è una piccola sottana, 
il verde è una striscia sui dorsali

neri d'una vecchia, il verdazzurro una strana 
forma di frutto, sopra una cassetta, 
l'azzurro, qualche foglia di savana

intrecciata, l’oro una maglietta 
di un ragazzo nero dal grembo potente. 
Altro colpo di pollice ha la Bellezza;

modella altri zigomi, si risente 
in altre fronti, disegna altre nuche. 
Ma la Bellezza è Bellezza, e non mente:

qui è rinata tra anime ricciute 
e camuse, tra pelli dolci come seta, 
e membra stupendamente cresciute.

Il mare è fermo e colorato come creta; 
con case bianche, e palme: «tinte forti
da tavolozza cubista», come dice un poeta

africano. E la notte! Sensi distorti 
da ogni nostro dolce costume, 
occorrono, per cogliere i folli decorsi

che accadono, come pestilenze, a queste lune. 
Perduti dietro metropoli di capanne 
in uno spiazzo tra palme nere come piume,

alberi di garofano, di cannella - e canne 
uguali alle nostrane, quelle sparse intorno 
a ogni umano abitato - come tre zanne,

tre strumenti suonati quasi dal fuoco di un forno 
inestinguibile, da gote nere sotto le falde 
dei cappelli flosci presenti a ogni sbornia -

urlavano sempre le stesse note di leopardi 
feriti, una melodia che non so dire: 
araba? o americana? o arcaici e bastardi

resti di una musica, il cui lento morire 
è il veloce morire dell'Africa? 
Questo terzetto era al centro, scurrile

e religioso: neri-fetenti come capri 
i tre suonatori, schiena contro schiena, 
stretti, perché, intorno, in due sacri

cerchi di pochi metri, rigirava una piena 
di migliaia di corpi. Nel cerchio interno
erano donne, a girare, addossate, appena

sussultanti nella loro danza. All'esterno 
i maschi, tutti giovani, coi calzoni 
di tela leggera, che, intorno a quel perno

di trombe, stranamente calmi, buoni, 
giravano scuotendo appena spalle e anche: 
ma ogni tanto, con fame di leoni,

le gambe larghe, il grembo in avanti, 
si agitavano come in un atto di coito 
con gli occhi al cielo. Al fianco

le donne, vesti celesti sopra i neri cuoi 
delle pelli sudate, gli occhi bassi, 
giravano covando millenaria gioia..,

Ah, non potrò più resistere ai ricatti 
dell'operazione che non ha uguale, 
credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,

altro da ciò che sono: a trasformare 
alle radici la mia povera persona: 
è, caro Attilio, il patto industriale.

Nulla gli può resistere: non vedi come suona 
debole la difesa degli amici laici 
o comunisti contro la più vile cronaca?

L'intelligenza non avrà mai peso, mai, 
nel giudizio di questa pubblica opinione. 
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da una dei milioni d'anime della nostra nazione, 
un giudizio netto, interamente indignato: 
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato 
da secoli, la cui soave saggezza 
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.

Mostrare la mia faccia, la mia magrezza - 
alzare la mia sola, puerile voce - 
non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce 
gli altri, con la più strana indifferenza. 
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.

Nulla è insignificante alla potenza 
industriale! La debolezza dell'agnello 
viene calcolata ormai più senza

fatica nei suoi pretesti da un cervello 
che distrugge ciò che deve distruggere: 
nulla da fare, mio incerto fratello...

Mi si richiede un coraggio che sfugge 
del tutto al reale, appartiene ad altra storia; 
mi si vuole spelacchiato leone che rugge

contro i servi o contro le astrazioni 
della potenza sfruttatrice: 
ah, ma non sono sport le mie passioni,

la mia ingenua rabbia non è competitrice. 
Non c'è proporzione tra una nuova massa
predestinata e un vecchio io che dice

le sue ragioni a rischio della sua carcassa. 
Non è il dovere che mi trattiene a cercare 
un mondo che fu nostro nella classica

forza dell'elegia! nell'allusione a un fatale 
essere uomini in proporzioni umane! 
La Grecia, Roma, i piccoli centri immortali...

Un'ansia romantica che pareva esanime 
sopravvivenza, mostruosamente s'ingrandisce, 
occupa continenti, isole immani...

annette Dei di milioni di guadi, percepisce 
l'odore dell'umidità dei quaranta gradi 
sopra zero immobili nelle coste, Mogadiscio

e le buganvillee di Nairobi, gli odori bradi 
delle bestiacce scomposte in un selvatico 
galoppo, per gli sventrati, i radi

orizzonti pervasi d'un funebre stallatico; 
la quantità, l'immensità che pesa 
inutilmente nel mondo, i cui prati bruciati

o marci d'acqua, sono una distesa 
priva di possibile poesia, rozza cosa 
restata lì, ai primordi, senza attesa,

sotto un sole meccanico che, annosa 
e appena nata, essa subisce come infinità. 
Ne nasce un bestiale colore rosa

dove il sesso paesano che ognuno ha 
disegnato in calzoni di allegro cotone, 
in gonne comprate negli stores indiani,

con soli occhiuti e cerchi di pavone, 
come un'isola galleggia in un oceano 
ronzante ancora per un'esplosione

recente e sprofondata dentro le maree... 
Fiori tutti d'un colore, di cotone, 
occhiuti e cerchiati popolano le Guinee

galleggiando nel tanfo d'uccisione, 
nella carne delle estati sempre feroce 
a divorare cibi cui la notte impone

le tinte equatoriali della morte precoce, 
il blu e il viola e la polvere orrenda, 
la libertà, che partorisce il popolo con voce

famigliare, e, in realtà, tremenda, 
il nero dei villaggi, il nero dei porti coloniali, 
il nero degli hotels, il nero delle tende...

E... alba pratalia, alba pratalia, 
alba pratalia... I prati bianchi! 
Così mi risveglio, il mattino, in Italia,

con questa idea dei millenni stanchi 
bollata nel cervello: i bianchi prati 
del Comune... della Diocesi... dei Banchi

toscani o cisalpini... quelli rievocati 
nel latino del duro, dolce Salimbene... 
Il mondo che sta in un testo, gli Stati

racchiusi in un muro di cinta - le vene 
dei fiumi che sono poco più che rogge, 
specchianti tra gaggìe supreme

- i ruderi, consumati da rustiche piogge 
e liturgici soli, alla cui luce 
l'Europa è così piccola, non poggia

che sulla ragione dell'uomo, e conduce 
una vita fatta per sé, per l'abitudine, 
per le sue classicità sparute.

Non si sfugge, lo so. La Negritudine 
è in questi prati bianchi, tra i covoni 
dei mezzadri, nella solitudine

delle piazzette, nel patrimonio 
dei grandi stili - della nostra storia. 
La Negritudine, dico, che sarà ragione.

Ma qui a Casarola splende un sole 
che morendo ritira la sua luce, 
certa allusione ad un finito amore.
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"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
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Focus su Pasolini: una rassegna (e una passeggiata) per ripercorrere l'itinerario creativo dello scrittore-regista - ArciBrecht Bologna

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LE NOTIZIE

Focus su Pasolini: una rassegna (e una passeggiata)
per ripercorrere l'itinerario creativo dello scrittore-regista

Bologna: dal 30 gennaio al 20 febbraio 2013 

Un viaggio fatto di immagini e racconti per riscoprire Pasolini, ripercorrendo il suo itinerario
creativo e il suo pensiero "corsaro" attraverso i film e alcune interviste custodite
nell'Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione Cineteca di Bologna.
E' il programma della rassegna "Focus su Pasolini" organizzata
dall'ArciBrecht in occasione dei festeggiamenti per il 50° anniversario del Circolo di via Bentini. 



CHI ERA PASOLINI
Il primo appuntamento è fissato per mercoledì 30 gennaio alle 21. Ospite della serata Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi - Archivio Pier Paolo Pasolini, che presenterà due documentari dedicati alla figura dello scrittore-regista friulano: "Pier Paolo Pasolini cultura e società" (1967) e "Pasolini prossimo nostro" (1975). 
"Le interviste filmate a Pier Paolo Pasolini sono particolarmente preziose - spiega Roberto Chiesi - anche perché riusciva a trasformare quelle occasioni in sintesi e autoanalisi illuminanti della propria opera. In Pier Paolo Pasolini cultura e società, cortometraggio di meno di venti minuti prodotto dal PCI e diretto dallo studioso e regista Carlo di Carlo (che era stato aiuto regista di Pasolini per "Mamma Roma", "La ricotta" e "La rabbia"), lo scrittore ripercorre il suo itinerario creativo dalle poesie friulane della giovinezza fino alla raccolta 'Poesia in forma di rosa' (1964) e al proprio cinema (fino a "Edipo re", 1967).
Nel secondo film, "Pasolini prossimo nostro", realizzato da Giuseppe Bertolucci a partire da un'intervista filmata e un'altra audio di Gideon Bachmann sul set di "Salò", il regista parla di quello che rimarrà il suo ultimo film, in relazione ai temi della sua critica della modernità (gli articoli raccolti in "Scritti corsari" e "Lettere luterane")". 

PROIEZIONI
La rassegna prosegue mercoledì 13 febbraio alle 21 con la proiezione di "Accattone" (1961); mercoledì 20 febbraio, sempre alle 21, sarà la volta del film documentario "Comizi d'amore" (1965).

LA PASSEGGIATA
Sabato 23 marzo alle 16 l'ultima iniziativa in programma, "La Bologna di Pasolini", una passeggiata guidata attraverso i luoghi della città particolarmente significativi nella vita e nella formazione di Pasolini. L’intento non è quello di ripercorrere solo i luoghi in cui ha vissuto o si è formato, ma anche quelli che rappresentano motivo di ispirazione per la sua poesia e per il suo cinema. Dal Portico dei Servi, in cui gira l’Edipo re, alla Libreria Nanni nel cosiddetto Portico della Morte, fino all’attuale sede del Centro Studi/Archivio P.P. Pasolini in cui sono conservati i documenti originali relativi alle sue opere cinematografiche: le foto di scena, le sceneggiature, i ritagli stampa, oltre a rari documenti audiovisivi, di cui saranno mostrati alcuni estratti.

Arci Nuova Associazione
Via della Beverara, 6 | 40131 Bologna | Tel. 051 521939 | Fax 051 521905 | bologna@arci.it | 
Per informazioni: arcibrecht.bo.arci.it
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"Teorema" di Pasolini a Monaco il 5 febbraio 2013

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LE NOTIZIE
"Teorema" di Pier Paolo Pasolini
il 5 febbraio 2013 alla rassegna
"Martedì al Cinema" di Monaco

'Teorema' di Pasolini verrà proiettato il prossimo "Martedì al Cinema" di Monaco, un appuntamento del prossimo 5 febbraio al Teatro des Veriétés del Principato. 

Un rendez vous organizzato dagli archivi audiovisivi di Monaco. Il film inizierà alle 20.30.


Sara Contestabile

Pasolini tra Brera, Padova e Casarsa - Centro Studi Casarsa della Delizia

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LE NOTIZIE
PPP tra Brera, Padova e Casarsa
Pier Paolo Pasolini: corpo a corpo con la parola, le immagini, il sacro

Nel nome e sotto il segno di Pasolini si è creata una prestigiosa triangolazione scientifica tra l’Accademia di Belle Arti  di Brera, il Campus Universitario CIELS di Padova e il Centro Studi di Casarsa della Delizia.  Le tre strutture, dopo un anno di intensi contatti e di messe a punto progettuali, si sono infine raccordate per dar vita ad un originale seminario di studi, rivolto in particolare a giovani studenti e ricercatori per un’indagine a tutto campo sulla sfaccettata e poliedrica attività pasoliniana.  
Pier Paolo Pasolini: corpo a corpo con la parola, le immagini, il sacro. Questo il titolo dell’originale iniziativa,  quasi un ideale viaggio da clerici vagantes che sposterà studenti e docenti nelle tre sedi, tra gennaio e maggio 2013.  La prima sessione riguarderà l'Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, dove nel pomeriggio di giovedì 31 gennaio sarà focalizzata la sensibilità pasoliniana, precocemente allevata dal maestro Roberto Longhi, verso le arti visive, la tradizione dell’arte figurativa, le espressioni dell’estetica contemporanea e in particolare il cinema, esemplificato dal film Che cosa sono le nuvole?, vero gioiello della cinematografia pasoliniana inserito come quarto episodio nella pellicola collettiva Capriccio all’italiana (1967).
In aprile, poi, il gruppo si trasferirà a Padova, dove l’attenzione sarà mirata alla  scrittura letteraria e al segno forte che ne impronta la parola nella tensione per l’espressione della realtà. Riflessione che sarà continuata in maggio a Casarsa, dove i partecipanti saranno coinvolti in un’indagine sull’esperienza poetica friulana del giovane Pasolini, verificandone le corrispondenze anche sui luoghi che negli anni Quaranta ne hanno ispirato il fiorire.
Di tutto rilievo infine il gruppo degli studiosi impegnati nella conduzione e nel coordinamento dei  vari incontri. 
A Brera, per una prima sessione già definita, saranno impegnati Carla Sanguineti, artista e studiosa d’arte; Laura Cherubini, iniziata all’arte contemporanea da Achille Bonito Oliva, protagonista della critica italiana, oltre che  vicepresidente del MADRE di Napoli e curatrice di mostre per il MoMA di New York e  MAXXi e il MACRO di Roma; Loredana Putignani, regista, iniziata al teatro con il Living Theatre, collaboratrice in vari percorsi di ricerca teatrale di sensibilità particolarmente antropologica, al fianco di maestri come Antonio Neiwiller e Mario Martone; Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e scrittrice. Nomi illustri, cui ha garantito di far corona anche il politologo Giorgio Galli, autore del memorabile saggio del 2010 Pasolini comunista dissidente (Kaos edizioni).
Per le successive sessioni, ora in fase di messa a punto, gli incontri saranno coordinati a Padova da Daniele Gallo, docente di lingua e letteratura italiana e teoria e tecnica della traduzione letteraria al Campus Universitario Ciels di Padova, e a Casarsa dal direttore del Centro Studi Angela Felice, che intende focalizzare l’ultima tappa anche sulla parola teatrale di Pasolini, intersecata a quella poetica, e sul recupero del tragico che vi è depositato, già a partire dalla scrittura de I Turcs tal Friúl.
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"Una passione per le immagini! Ricordi figurativi di Pasolini (1983-2001)", di Fabien S. Gerard - PARTE PRIMA

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LA SAGGISTICA
Una passione per le immagini.[1]
Ricordi figurativi di Pasolini (1983-2001)
Fabien S. Gerard 

PARTE PRIMA

A Roberto Longhi, cui sono debitore della mia folgorazione figurativa.
P P. Pasolini, epigrafe di Mamma Roma (1962)

Un culto eccezionale per ogni forma di segniche rimandano feticistamente alla realtà carnale del mondo contraddistingue l’opera tutta di Pier Paolo Pasolini. A tal punto che è all’insegna di una vera e propria  «passione per le immagini» che il pittore friulano Giuseppe Zigaina intese definire, nel 1976, l’iter estetico dell’amico poeta e regista assassinato l’anno precedente. [2] Sia attraverso la scrittura, la pittura o il cinema, in ciascuno di questi modi espressivi da lui praticati, l’interesse di Pasolini nei confronti delle arti figurative risulta più che manifesto, sviluppandosi su diversi piani destinati a convergere e ad arricchirsi a vicenda nel corso degli anni. Questo triplice sentiero sarà il nostro punto di partenza. 


I. Il fantasma di Longhi

È all’università di Bologna, dove Pasolini si iscrive a Lettere e Filosofia, sul finire degli anni ’30, che il giovane Pier Paolo vede aprirsi «la [sua] vera vita culturale», [3] quando inizia a seguire i corsi di Storia dell’arte del grande Roberto Longhi (1890-1970). [4] Un incontro, questo, che nel grigiore del primo inverno di guerra, si traduce tosto per il Nostro nei termini di «folgorazione», [5] di «Rivelazione». [6]
Pier Paolo Pasolini, Ritratto di Roberto Longhi, carboncino, 1975

Con l’acutezza e lo stile inconfondibili che hanno fatto la sua fama, la figura carismatica di Longhi commenta le proiezioni di diapositive susseguentesi sullo schermo, nella penombra di un’aula di via Zamboni. Confrontati gli uni con gli altri, insiemi e particolari dei capolavori del passato delineano così l’evoluzione delle forme «in un continuum quasi cinematografico», attraverso l’esempio di Maso­lino e Masaccio, di Piero della Francesca, del Caravaggio… [7]
La curiosità prende il sopravvento sull’«immensa timidezza» dei suoi 18 anni, e Pier Paolo aspira ad abolire le distanze accademiche ; dopo qualche mese non esiterà più ad avvicinare il maestro, a sollecitarne i consigli. Due anni più tardi, Longhi, sia pure sconcertato da tanta determinazione, accetta di dirigere la tesi di laurea che lo studente Pasolini progetta di scrivere sulla giovane pittura italiana, [8] dando il via, con questa iniziativa, ad una relazione fondamentale in seno alla “mitologia” intellettuale del futuro regista. (Almeno a giudicare dall’insistenza con cui egli non smise mai di richiamarsi a quell’apprendistato).

La copertina della prima edizione
Einaudi (1993)
Ma il conflitto mondiale continua nondimeno a travagliare l’Italia. Nel 1943, la famiglia Pasolini, per sfuggire ai bombardamenti che minacciano Bologna, raggiunge Casarsa della Delizia, il paese natío della madre, Susanna Colussi, in Friuli. 
Malgrado il clima di inquietudine diffusa, questo ritiro rappresenta un periodo di distensione assai proficuo al giovane, che intanto riesce a dedicarsi accanitamente alla scrittura : stende i primi capitoli della sua tesi, centrati su Carrà, De Pisis e Morandi, [9] approfondisce ricerche filologiche sulla lingua friulana e prepara la pubblicazione di una seconda raccolta di poesie.
Il 1° settembre dello stesso anno arriva la chiamata alle armi, seguita, nel giro di pochi giorni, dall’annuncio dell’Armistizio e dall’immediata deportazione verso la Germania. Sulla ferrovia tra Pisa e Livorno un gruppetto di reclute approfitta di un incidente per prendere il largo ; tra i fuggiaschi, Pier Paolo, il quale nella confusione perde le preziosissime cartelle che doveva far leggere di lì a poco al professore Longhi. [10] 
Per una reazione assai comprensibile, Pasolini decide poi di cambiare del tutto indirizzo e sceglie invece un argomento letterario, Antologia della lirica pascoliana, con la quale otterrà finalmente la laurea col massimo dei voti. [11]

Va notato che Pasolini non dovette aspettare la fine degli studi a Bologna per affilare le sue prime armi di critico d’arte, collaborando, fin dal 1942, alla redazione de «Il Setaccio» - la rivista della G.I.L. bolognese -, la quale, come indica la testata, intendeva passare al pettine fitto l’attualità culturale, dalla musica al cinema, dalla pittura al teatro, alla poesia. [12] Oltre a varie recensioni talvolta ingenuamente perentorie su questa o quella mostra locale (Galleria Ciangottini, [13]Personalità di Gentilini, [14]Giustificazione per De Angelis, [15]Una mostra a Udine), [16] si può individuare un’eco diretta della tesi in corso in un articolo destinato a fare da contrappunto alla traduzione del testo di un tale Georges Bresson, La pittura francese dal 1900 al 1940, presentata nello stesso numero.
Lungi dal rinunciare all’«idolatria» di longhiana memoria [17] che Pasolini vota in altra sede all’opera di Paul Cézanne [18], egli vi reagisce con una impulsività tutta adolescenziale contro l’evidente chauvinismo del Bresson, facendo mostra di un eccesso analogo. Replicare ad una sfida con un’altra sfida: è facile individuare qui le premesse dell’atteggiamento polemico che l’autore degli Scritti corsari manterrà per tutta la vita:
.
Troviamo in essi una grande e passiva stanchezza, una noia che fa pazzie per svagarsi, e l’unico suggerimento che ce ne proviene, è di ordine morale, come quello di una violenta ed anche ironica confessione. Siamo ben lontani dalla serenità, dalla saggezza, non più teorica, ma pienamente pittorica, di un Carrà, di un Morandi… Se i maestri furono gli stessi, il loro linguaggio, trapiantato in Italia, ha acquistato un vigore nuovo, quasi rinverginandosi, e in Francia sembra continuare meccanicamente, accontentarsi di “meravigliare i borghesi”. Ma quello che ora più ci interessa è notare come i più giovani pittori italiani (Mafai, Guttuso, Birolli, ecc.) abbiano avuto l’idea di riallacciarsi all’inizio delle esperienze di questi modernissimi pittori francesi, e fare in Italia un duplicato della strada che quelli, in conseguenza, hanno battuto in Francia. E sono straordinarie certe analogie: si vede Vuillard, che nelle Deux femmes sous la lampe ha dei passaggi tecnicamente identici al nostro Birolli (Nudo dal velo nero, ecc.); Dunoyer ha molte analogie, in Toilette del ’38, con Guttuso. Ma anche in questo secondo confronto, se vogliamo proprio farlo, mi sembra guadagnino i pittori italiani, per cui questa strada già battuta da altri e senza sbocco, ha un valore disperato di ricerca, che non si placa affatto in benevoli e ilari consensi critici, come succede in Francia, ma, circondata da una non maligna severità (vedi in «Architrave», Severità per la giovane pittura, di Francesco Arcangeli), sembra abbastanza cosciente - e ce lo dimostra Paura della pittura - della sua precaria condizione. [19]

Intanto, i bombardamenti colpiscono sempre più da vicino la regione di Casarsa, sede di un importante nodo ferroviario. Le strade sono interrotte, i paesi isolati. Pasolini e la madre, che per anni era stata maestra elementare, decidono di occuparsi di una ventina di ragazzi rimasti senza scuola. Anticipando di qualche anno i metodi di pedagogia attiva che segneranno la sua breve ma intensa carriera di insegnante, [20] Pier Paolo incita gli alunni a ritrovare le proprie radici, a consolidare la loro identità culturale.
Un episodio testimonia in modo particolare delle preoccupazioni artistiche del Pasolini di quel periodo: la visita di una chiesetta dei dintorni, nella frazione di Versuta, gli fa sospettare l’esistenza di un “tesoro” nascosto sotto lo strato di calce che ricopre uno dei muri dell’edificio. Munito di qualche utensile ad hoc, ritorna sul posto con i bambini, e il piccolo gruppo si mette a grattare la parete fino all’apparire di una serie di figure duecentesche, fra cui una Santa Lucia recante gli occhi su di un vassoio, quali rappresentazioni anonime di un’arcaica religiosità contadina. 
Gli affreschi nella chiesetta di Sant'Antonio Abate di Versuta

Insieme alla loro guida, i ragazzi ravvivano poi i colori dell’affresco stropicciandolo come si deve con delle mezze cipolle. Tre decenni più tardi, il ricordo di questa eccezionale dimostrazione verrà ancora ricordato con emozionata riconoscenza dagli ex scolari ormai adulti compiuti. [21]

Anche se questo risulta l’unico episodio che ci possa far scoprire un Pasolini quasi “archeologo”, [22] in compenso la vocazione critica del poeta-cineasta, più d’accordo col suo temperamento di scrittore, conosce nel frattempo uno sviluppo tanto costante quanto significativo. Parecchi articoli, quasi tutti precedenti la partenza di Pasolini per Roma, nel 1950, sono ancora scaglionati nell’immediato dopoguerra, trattando di manifestazioni che raramente superano una portata provinciale. Quali La luce e i pittori friulani, [23]Scheda per 55 ritratti, [24]Il ritratto a Udine, [25]La pittura dialettale, [26] ecc. Per altro verso, alcuni di questi scritti riguardano la personalità di un giovane pittore di Cervignano, Giuseppe Zigaina, [27] al quale il Nostro si legherà presto di durevole amicizia, fondata sulla reciproca stima, nonché su ideali comuni. 
"Ritorno dai campi" di Giuseppe Zigaina (1953)

La poesia Quadri friulani, poi raccolta ne Le Ceneri di Gramsci (1957), costituisce un caloroso omaggio all’opera di Zigaina, descrivendo con lirismo il mondo perduto delle sue prime tele, il ricordo bruciante degli attimi da esse evocati:

Ora, lontano, diverso nel vento quasi
non terrestre che smuovando l’aria
impura trae vita da una stasi

mortale delle cose, rivedo i casali,
i campi, la piazzetta di Ruda ;
su, le bianche alpi, e giù, lungo i canali,

tra campi di granturco e vigne, l’umida
luce del mare. Ah, il filo misterioso
si dipana ancora : e in esso, nuda,

la realtà – l’irreale Qualcosa
che faceva eterna quella sera.
L’aria tumefatta e festosa

dei tuoi primi quadri, dov’era
il verde un verde quasi di bambino
e il giallo un’indurita cera

di molle Espressionista, e le chine
spigolatrici, spettri del caldo sesso
adolescente – brulicava al confine

di quel luogo segreto, dove oppresso
da un sole eternamente arancio,
dolcissimo è il meriggio estivo, e in esso

arde una crosta di profumi, un glauco
afrore d’erbe, di sterco, che il vento
            rimescola… [28]

Da allora in poi, questo tipo di «commenti in versi» diventa un’abitudine tipicamente pasoliniana, una forma di intervento che consente al poeta di cristallizzare attraverso una serie di immagini fulminee la sua reazione a caldo di fronte all’evento - sia questo di natura artistica (Picasso, [29]A De Rocco e Frastuono, [30]Il rosso di Guttuso, [31]Domenica all’Acqua acetosa, [32]Melopea per Levi [33]) o, più spesso in verità, strettamente civile, per non dire «corsara» [34] o «lu­terana». D’altra parte, un paio di editori ebbero, a loro volta, l’idea di accostare, at­torno a titoli generici qualiLa violenza[35] e Ballata delle madri, [36] qualche gruppo di poesie pasoliniane ad una scelta di opere grafiche firmate da artisti italiani contemporanei, senza però che il rapporto fra testo e immagini ne risulti peraltro appro­fondito.

Sotto un aspetto meno arbitrario della sua attività critica, ritroviamo Pasolini autore o prefatore di un paio di cataloghi di mostre, fra i quali risalta un’analisi accuratissima della produzione del dilettante Paolo Weiss - conoscente dello zio antiquario, Gino Colussi -, pubblicata in occasione di una retrospettiva personale a Roma, nel 1946. Un passo di questo cospicuo saggetto tratta delle illustrazioni per la Salomè di Oscar Wilde. Filtrata dallo sguardo del poeta, tale visione sembra prefigurare, mutatis mutandis, una scena madre del Vangelo secondo Matteo :

Il suo capolavoro (ma l’originale è perduto, ce ne restano solo dei pallidi cliché) sono le illustrazioni per la Salomè […]. Per esse sinceramente non farei alcuna riserva. I funambolismi decorativi, il gusto orientaleggiante, i gesti un po’ operettistici delle figure, il ridondare dei particolari geome­trici, di arabeschi, di svolazzi, qui tutto si brucia di colpo e riappare scar­nificato e purificato. Le sale della reggia di Erode, con seggi, tappeti scali­nate lampadari sono colme di un sinistro silenzio, dove echeggiano i passi assurdi dell’oblunga Salomè. Essa è il personaggio centrale, ricco di vita; e naturalmente s’intensifica nella danza. Però c’è tanta nudità nel suo sontuoso abbigliamento incrostato di pietre preziose, c’è tanta nudità nei suoi gesti da soubrette, che riesce a imprimere nella memoria senz’alcun fronzolo di suggestioni, ma pura, in un desolato clima di tra­gedia. In contrasto con la sua snervante sensualità crudelmente dise­gnata a linee esatte e metalliche, come in un’acquaforte, la folla dei corti­giani sfoggia una crassa corpulenza. Nella prospettiva impeccabile delle sale e dei colonnati, gli eunuchi e i ministri mostrano i loro volti idioti, colmi d’un bovino stupore. Formano un coro taciturno, una folla da in­cubo, addossandosi l’uno contro l’altro come un cerchio di angeli in un quadro preraffaelita (c’è l’atmosfera grigia e nitida che precede uno spaventevole uragano) comprimendosi a vicenda le abominevoli pance lussuosamente drappeggiate. [37]

Nello stesso spirito, vanno ancora menzionati alcuni studi monografici più recenti, dedicati ai pittori Anzil e Furlán, [38] a Toti Scialoja, a Lorenzo Tornabuoni, [39] a Renzo Vespignani, [40] o all’artista italo-siriano Nabil Reda Mahaini, [41] come pure a De Rocco, [42] Levi, [43] Guttuso [44] e Zigaina, [45] già trattati più liberamente in altri testi. Occorre osservare che presentazioni occasionali del genere riguardano quasi sem­pre personalità in rapporto di amicizia con Pasolini, [46] meno forse il pezzo pubblicato postumo nel catalogo fotografico di Andy Warhol Ladies and Gentlemen (1976), [47] risalente all’epoca in cui l’autore di Mamma Roma curò il doppiaggio del film Trash (1969), uscito in Italia, nel 1973, col sottotitolo I rifiuti di New York.
Tuttavia, l’analisi più penetrante in questo campo, grazie alla quale il Nostro potrà meglio soddisfare le sue «antiche velleità» di storico dell’arte, è documentata negli atti di una tavola rotonda su Girolamo da Romano, detto il Romanino (ca. 1485-1560), durante la grande mostra bresciana del 1965. [48] Invitato a comunicare le sue impressioni di profano di fronte a un cenacolo di «addetti ai lavori» e di «dotti competenti» (Dall’Acqua, Balducci, Guttuso, Piovene e Russoli), Pasolini chiede scusa per la probabile genericità del suo vocabolario e si propone di tentare una ricostruzione del profilo artistico del Romanino attraverso i soli dati interni della sua opera, risalendo una per una le tappe di un indagine svolta «alla maniera di un détective di Simenon».
Dopo aver stabilito la coscienza dello sperimentalismo stilistico ossessivo dell’artista - che si traduce in un succedersi di salti violenti nel passaggio da un linguaggio pittorico all’altro -, Pasolini si accinge poi a individuare due costanti strutturali della sua produzione; vale a dire la Weltanschauung di origine «gotico-danubiana» e la caratterizzazione sociopsicologica decisamente re­alista dei suoi personaggi plebei. Con l’affermazione di tali tendenze all’autonomia es­pressiva, il Romanino dimostra così, secondo Pasolini, la chiara volontà di allontanarsi sia dal Classicismo che dal Manierismo, allora imperanti in Italia. In questo senso, l’inquietudine plastica assai morbosa che segna la produzione dell’artista altro non sarebbe che il riflesso della perpetua lacerazione mo­rale da lui vissuta. Per Pasolini, quindi, è proprio per aver sempre operato in un ambiente con­trario alle sue reali aspirazioni che il Romanino presenta l’immagine di un pittore in anticipo sul suo tempo, traducendo in modo visionario l’evoluzione della cultura italiana, come si sarebbe potuta sviluppare nel corso dei decenni successivi, se non ci fosse stato il Concilio di Trento e l’avvento della Controriforma.
Romanino, "Ultima cena", Padova, Museo Civico (da Santa Giustina), 1513.
Cfr. nella seconda parte il fotogramma del tavolo nuziale nel film "Mamma Roma"

Come si vede, Pasolini, avvocato traboccante di risorse e d’energia, oltre che détective alla Simenon, compie qui un’audace riabilitazione del maestro di Brescia, al punto di dargli la preferenza addirittura su Tiziano. In parallelo al rigore metodologico dell’approccio, chiunque potrà notare quanto la diagnosi del poeta sia debitrice a due antichi testi longhiani, [49] di cui un paio di argomenti precisi fanno sup­porre la recente rilettura. Sebbene appartengano a un ramo marginale nel quadro delle attività teoriche di Pasolini, le sue incursioni nel campo della critica artistica rivelano un giudizio fondato su di una formazione solidissima che, affidan­dosi forse più alla sensibilità che all’erudizione accademica, portano un contributo spesso stimolante per i ricercatori, grazie all’illuminata qualità delle sue intuizioni.


II. Autoritratti con la febbre

Un aspetto altrettanto trascurato della personalità pasoliniana a confermare la notevole sensibilità figurativa del poeta, è la sua pratica quasi ininterrotta della pittura - o almeno del disegno -, fino in quella necessità di afferrare dall’interno il meccanismo che presiede alla genesi del segno grafico.
Dobbiamo a Giuseppe Zigaina l’aver potuto scoprire per la prima volta il corpus pittorico dell’amico Pier Paolo, da lui raccolto nel 1978, in occasione di una mostra a Palazzo Braschi a Roma, arricchita di un catalogo firmato anche da Giulio Carlo Argan, Mario De Micheli e Andrea Zanzotto. [50] Coprendo un periodo di tre decenni, questo panorama di circa duecento opere si presenta come un singolare diario in forma di immagini, che si estende dai primi schizzi datati all’estate del 1941 fino agli ultimi ritratti eseguiti nell’ottobre del 1975.
È noto come, fin dall’infanzia, il disegno abbia occupato un posto privilegiato nell’evoluzione creatrice del giovane Pasolini - già a 7 anni riempiva interi quaderni di versi illustrati di sua mano [51] -, e quanto questa disciplina dovesse diventare un po' alla volta un campo di ricerca distinto, del tutto complementare ris­petto alle sue altre attività.
Pier Paolo Pasolini, Narciso
Se il lungo soggiorno a Casarsa, nei primi anni ’40, vede lo sbocciare della sua vocazione letteraria - il volumetto Poesie a Casarsa esce nel 1942 -, esso corrisponde pure ad un periodo di intensa esaltazione artistica. Ritratti di amici o di parenti e paesaggi campestri alla Carrà; [52] nature morte e composizioni vagamente sim­boliste (i nudi femminili col ranocchio, [53] la prostituta col viso velato esibendo un pube ornato da un fiore azzurro, [54] e soprattutto il Narciso [55] dipinto su cartone ovale) com­pongono l’essenziale della produzione friulana. Sia pure di tecnica  gracile quanto malde­stra, questa giunge talvolta ad un espressionismo dagli accenti morlottiani [56] che merita davvero attenzione.
L’impulso che sprona Pasolini a tracciare a qualunque costo l’emozione dell’attimo fuggente non si limita af­fatto a un sfogo privato, confinato - come, per esempio, nel caso di un Roland Barthes [57] - nella sfera famigliare, e il ventenne, sebbene già poeta apprezzato (era stato subito notato da Contini), sembra proprio volersi affermare ugualmente nel campo pittorico, quasi ancora non fosse avvenuta in lui la scelta definitiva. [58] Come interpretare altrimenti il fatto che, contemporaneamente alle cronache del «Setaccio», i suoi disegni vengano pubblicati - a volte perfino in copertina - sulla rivista degli studenti dell’Università di Bologna? [59] Mentre, pochi mesi dopo la guerra, magari stimolato dall’amicizia con De Rocco e Zigaina, Pasolini non esiterà a partecipare ad alcune manifestazioni collettive, presentando a Udine, nel 1947, a fianco di Afrò e De Pisis, [60] due stupendi autoritratti a tempera che costituis­cono senz’altro le prove più valide degli anni giovanili, tanto per la sicurezza del segno quanto per l’uso raffinato dei colori. Però, laddove l’Autoritratto con la vecchia sciarpa echeggia forse il preziosismo di un Cocteau, l’Autoritratto col garofano in bocca, anticipa invece la plasticità devastata che si ritroverà qualche anno più in là nelle tele di Francis Bacon.  [61]
Pier Paolo Pasolini. Autoritratto con la vecchia sciarpa; Autoritratto col garofano in bocca

I due decenni successivi, nel corso dei quali Pasolini, ormai trasferitosi a Roma, lavora a consolidare la propria reputazione di scrittore, poi di cineasta, pre­sentano una comprensibile rarefazione delle sue velleità artistiche, per i nuovi im­pegni allora incalzanti da tutte le parti. Sarà nondimeno per la via traversa del cin­ema che avverrà il ritorno al disegno. A guisa di alcuni suoi colleghi, quali Ejzenstejn, Fellini, Kurosawa o Zeffirelli, l’autore di Accat­tone (1961) ricorre infatti alla matita per visualizzare direttamente varie idee di inquadrature in previsione delle riprese. Di questi appunti di la­voro si conoscono soprattutto le silhouettes che punteggiano la sceneggiatura di Mamma Roma (1962), [62] oltre ai trentaquattro foglietti che fanno da copione al mediometraggio La Terra vista dalla Luna (1966), [63] e dove, sotto l’aspetto di un coloritisissimo ”fumetto”, si riconoscono di primo acchito i lineamenti dei due protago­nisti, Totò e Ninetto Davoli.
A parte questi pochi studi, in cui l’aspetto ludico comunque si misura con l’utilitario, Pasolini, in quanto erede degli amatissimi manieristi del Cinquecento - la cui «disperata vitalità» gli era tanto congeniale [64] -, si impegna in seguito non solo nell’approfondire alcuni determinati soggetti, ma sempre più nello sperimentare tecniche insolite, come potremo giudicare di qui a poco. Più di ogni altra, l’arte del ritratto comincia a imporsi alla sua attenzione, come se il creatore, conscio dei legami privilegiati che spesso si formano tra artista e modello, avesse cercato di catturare mediante questa scelta, la verità più intima della relazione. Fra gli amici che ritroviamo così ritrattati - ora dal vivo, ora da fotografie -, vanno citati Alberto Moravia, Laura Betti, Ninetto Davoli, Franco Citti, Giuseppe Zigaina. Tre nomi però spiccano in questa cerchia, in quanto sono l’oggetto di numerose “variazioni” nelle quali si possono rintracciare i tentativi dell’artista nella sua ricerca di un’inafferrabile verità interiore. 
Chia. Pasolini disegna ripetutamente il profilo di Roberto Longhi, ottobre 1975

Si tratta dei profili di Maria Callas, di Andrea Zanzotto e di Roberto Longhi. E proprio a proposito dei ri­tratti di Longhi, il caso ha voluto mettere a nostra disposizione un eccezionale making ofnel saggio fotografico di Dino Pedriali che ci fa di vedere Pasolini - meno di un mese prima della morte - inginocchiato nel bel mezzo dello studiolo nel suo ritiro medioevale di Chia (Viterbo), intento a tracci­are al carboncino su grandi fogli di carta bianca il profilo destro del suo compianto mentore in Storia dell’arte, ripetuto fino all’ossessione; [65] una serie di disegni che riproduce - per quanto il verso ne sia stato significativamente invertito - la foto che illustra il cofanetto dell’antologia Da Cimabue a Morandi, recensita da Pasolini con l’entusiasmo che sappiamo, ap­pena fu pubblicata, nel 1974.
Pier Paolo Pasolini, il "Bozzettone" per Laura Betti

Quanto ai ritratti di Laura Betti e di Maria Callas, è per la ricerca di effetti raffinatissimi nella scelta dei materiali che suscitano la curiosità. Sebbene non ce ne sia pervenuta nessuna testimonianza concreta, pare, secondo Zigaina, che fin dall’immediato dopoguerra Pasolini abbia dimostrato interesse per certe «tecniche miste», usando diversi vegetali allo scopo di ottenere toni dalle sfumature inaudite. Ma bisognerà aspettare la seconda metà degli anni ’60 perché questi esperimenti assu­mano una dimensione più sistematica. L’artista acquista allora una grande abilità nell’ottenere un’intera gamma di verdi a partire dall’erba grassa o dall’uva bianca schiacciata, oppure il color rosa mescolando aceto alla calce. Quando non si tratta di in­collare direttamente sulla carta petali di fiori, o di raccogliere gocce di paraffina fusa alla fiamma.
Pier Paolo Pasolini, Ritratti di Maria Callas

Alcune righe tratte dal trattamento de La ricotta(1963), dove lo scrittore-cineasta si lancia in una descrizione del cromatismo astrattamente prezioso e floreale della Deposizionedel Pontormo, esprime con una eloquenza quasi longhiana questa mania dagli accenti ormai rituali:

Colori ? Chiamali colori... Non so... Se prendete dei papaveri, lasciati nella luce del sole d’un pomeriggio malinconico, quando tutto tace («Per­ché mai nessuna donna cantò - alle tre del pomeriggio?»), in un ardore da cimitero - se li prendete e li pestate, ecco, ne viene fuori un succo che si secca subito; ebbene annacquatelo un po’, su una tela bianca di bucato, e dite a un bambino di passare un dito umido su quel liquido: al centro della ditata verrà fuori un rosso pallido pallido, quasi rosa, ma splendido per il candore di bucato che c'è sotto; e agli orli delle ditate si raccoglierà un filo di rosso violento e prezioso, appena appena sbiadito; si asciugherà subito, diventerà opaco, come sopra una mano di calce... Ma proprio in quello sbiadirsi cartaceo conserverà, morto, il suo vivo ros­sore. [66]

Occorre sottolineare quanto una pratica di questo tipo - tanto fragile quanto potrebbe essere lo scrivere un sonetto sulla sabbia - deve all’ascendente del poeta Pasolini sull’omonimo pittore ? Difatti, appare manifesto in questo tipo di sperimentazione la volontà dell’autore di Poesia in forma di rosa di trovare un equivalente propria­mente figurativo alle sue ricerche letterarie, dove ogni parola si contraddistin­gue per la sua capacità di invenzione, per il suo valore di sorpresa.

Ma sarebbe imperdonabile concludere questo elenco senza evocare l’inquietante galleria di autoritratti cui il regista si dedicò in una specie di raptus, attorno al 1965. Una dozzina di schizzi, a lapis o a penna, ci offrono il suo viso in preda all’ansia, in cui spicca, da dietro gli occhiali di tartaruga, la fissità interrogativa dello sguardo rivolto a se stesso di fronte allo specchio. L’immagine forse più intensa di questa serie senza trucco, Autoritratto con la febbre, rappresenta l’artista con i linea­menti sfatti, gli occhi assenti, le gote mal rasate, visibilmente minato dalla malat­tia. Obiettivazione alquanto morbosa che rimanda, almeno nel pro­getto, al Bacchino malato della Galleria Borghese, il noto autoritratto del Caravag­gio, dipinto appunto quando, colpito da febbre terzana - come per primo affermò Longhi [67] -, il pittore era ricoverato all’Ospedale della Consolazione, poco dopo il suo arrivo a Roma, nel 1590. [68]
Due allegati, sia pure periferici rispetto alla solita definizione dell’autoritratto, vanno ancora ricordati. Anzitutto, quella pagina quasi astratta e assai enigmatica, con la quale si chiude il catalogo di Palazzo Braschi. Una serie di sedici segni a lapis disposti diagonalmente traversano il campo del foglio: segni nei quali si è voluto scorgere i contorni di una bocca chiusa. [69] Negligenza incon­sueta da parte di Pasolini, il documento non reca nessuna data, anche se è stato ritrovato dentro una cartella risalente al 1962. Come unica indicazione, presenta questa nota scarabocchiata sul margine inferiore, rivelatrice dell’intima sofferenza di chi l’ha scritta : «Il mondo non mi vuole più e non lo sa».
In secondo luogo, un gruppo di fotografie commissionate a Dino Pedriali  nell’ottobre 1975, e scattate durante lo stesso soggiorno alla torre di Chia in cui furono ese­guiti i noti profili di Longhi. Si tratta di vari desnudes di Pasolini stesso, realizzati sec­ondo le sue precise indicazioni in previsione dell’iconografia che egli pen­sava di inserire nel prossimo romanzo, Petrolio, questa monumentale fatica rimasta incompiuta, la quale doveva costituire lo specchio più autentico dell’autore insieme a un ritratto apocalittico dell’Italia contemporanea. [70] 
Una delle foto che fa parte della sequenza
di scatti realizzati da Dino Pedriali nel 1975
In questi clichés, il corpo asciutto e atletico di Pa­solini compare in piedi, in una camera monacale dalle ru­vide pareti di pietre. Il poeta, a capo chino, sta presso un letto sul quale raccoglie, sfoglia, poi posa nuovamente un volume aperto. La “sequenza” è vista voyeuristicamente dall’esterno, come attraverso uno specchio senza stagno, e si staglia al crepuscolo, simile a uno schermo luminoso, nella cornice della finestra. [71] Queste sono le ultimissime immagini scelte, composte, messe in scena dal regista. 
Nonostante l’impudicizia di cui fanno mostra, conviene osservare quanto contrastino però con l’esibizionismo dei ritratti fotografici di Yu­kio Mishima ai quali sono stati accostati, commissionati dallo scrittore giapponese nel settembre del 1970, cioè poche settimane prima di un’altra fine “barbarica” rimasta anch'essa nella memoria collettiva di quegli anni. [72] Forse proprio per l’alone di mistero che scaturisce da quel estremo messaggio di Pasolini, più che alle foto kitsch di Mishima visto nella parte di San Sebastiano martire, verrebbe piuttosto da pensare a certi disegni di Dürer, dove l’incisore della Melanconia o de Il cavaliere, la morte e il diavolo rappre­sentò se stesso sprovvisto di qualsiasi indumento.

Con questa lieve divagazione si compie la nostra ricognizione delle attività di pittore e di disegnatore - per non dire di fotografo - di Pier Paolo Pasolini. Uno dei caratteri essenziali a emergerne è l’insaziabile slancio di ricerca che traspare in ogni segno tracciato dall’artista, sia sulla carta che sulla tela. Anche se difetta in lui quella totale padronanza dei mezzi espressivi che differenzia il profes­sonista dal dilettante di genio, [73] nessuno contesterà la determinazione che ha spinto Pasolini a raggi­ungere, ad ogni ripresa, dei risultati più elevati. (E quand’anche questi non fossero dovuti che «al caso», [74] va detto che il valore intrinseco di alcuni esempi fra quelli esaminati in queste pagine, riscuote la nostra personale adesione). Altro sintomo, il gusto spiccato del poeta per la traduzione immediata e spontanea della realtà concreta, una caratter­istica inerente anche alla sua produzione letteraria o cinematografica. Infine, la precedenza del dettaglio sulla visione globale - percetti­bile nella mancanza di strutturazione anatomica di molte figure - incita a rivolgere un nuovo sguardo critico sulle sue altre tecniche espressive, dove tale debolezza si ritrova più di una volta, sia pure attutita dallo svolgimento del contesto narrativo.
Oltre all’apporto documentario che tali “graffiti” presentano nella prospettiva di una cono­scenza sempre più approfondita dell’autore, dobbiamo pertanto vederci null'altro che qualche appunto in più, compiuto dietro la porta del laboratorio pasoliniano? Forse un’occhiata all’imprevedibile fortuna critica del lavoro pittorico di Cesare Zavattini, [75] ci indurrà a non enunciare un giudizio definitivo in materia.
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NOTE

1 Questo saggio estratto dal volume Corpi / Körper. Körperlichkeit und Medialität im Werk Pier Paolo Pasolinis (a cura di Peter KUON, Peter Lang, Europäischer Verlag der Wissenschaften, 2001) è la rielaborazione aggiornata di vari contributi pubblicati dall’autore fin dai primi anni ’80: Entre Boccace, Giotto e Bruegel: le Decameròn de Pasolini, in «Annales d’Histoire de l’Art & d’Archéologie», IV, Université de Bruxelles, 1982; Ricordi figurativi  di Pasolini, in «Prospettiva» n. 32, gennaio 1983; Entre la toile et l’écran, in AA.VV., L’Univers esthétique de  Pasolini, Parigi, Persona, 1984; Pasolini: un cinéma au confluent de la peinture et du roman, in «Cahiers du scénario» n. 1, estate 1986. Nuove monografie completandone dovutamente il contenuto sono uscite nel frattempo, tra cui: Alberto MARCHESINI, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini (da Accattone al Decameròn), Firenze, La Nuova Italia/Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia, 1994; Francesco GALLUZZI, Pasolini e la pittura, Roma, Bulzoni/Università degli studi di Firenze, 1994; Roberto CAMPARI, Il fantasma del bello. Iconologia del cinema italiano, Venezia, Saggi Marsilio, 1996.
2 Giuseppe ZIGAINA, L’amore per le immagini, in «Nuova Generazione» n. 15, 31 ottobre 1976, p. 26.
3 Pasolini répond à huit questions de Georges Moreau, in «Le Journal du Dimanche», 26 octobre 1972.
4 Vedi la bella testimonianza di PPP [P.P. Pasolini] uscita su «Tempo illustrato», in occasione della pubblicazione dell’antologia postuma Da Cimabue a Morandi (1975); ora in Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi, 1979, pp. 251-255. 
5 Vedi la dedica in limine al film Mamma Roma (1962), che fa ugualmente da occhiello al presente saggio.
6 PPP, Descrizioni..., cit., p. 251.
7 Ivi., p. 254.
8 Francesco Galluzzi ha anche ritrovato nei carteggi di PPP e di Longhi la traccia di altre due proposte fatte al docente, su argomenti di interesse ben diverso: la prima sulla Gioconda ignuda di Leonardo; la seconda sul pittore friulano Pomponio Amalteo (1515-1588). (Cfr. GALLUZZI, cit., pp. 39-45).
9 PPP a Oswald STACK, Pasolini on Pasolini, Bloomington/London, Indiana University Press, 1969, p. 19. 
10 Ivi. 
11 Elemento altrettanto decisivo, non va persa di vista la sospensione dall’insegnamento che colpì Longhi nel frattempo, per essersi rifiutato di giurare fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana.
12 Per una visione complessiva, vedi l’antologia Pasolini e "Il Setaccio" (1942-1943), a cura di Mario RICCI, Bologna, Cappelli, 1977.
13 Ivi, p. 40.
14 Ivi, pp. 72-73.
15 Ivi, pp. 86-87.
16 Ivi, pp. 92-94.
17 Cfr. «Cézanne, il più grande artista dell’arte moderna» (Roberto LONGHI, Breve, ma veridica storia della pittura italiana, Firenze, Sansoni, 1980, p. 183).
18 PPP, Lettere a Franco Farolfi, in «Nuovi Argomenti» n. 49, n.s., gennaio-marzo 1976, p. 6.
19 PPP, Commento allo scritto del Bresson, in RICCI, cit., pp. 90-91.
20 Vedi il noto episodio del «mostro Userum» raccontato da PPP nell’articolo Dal diario di un’insegnante, in «Il  Mattino del popolo», 29 febbraio 1948, poi commentato da Enzo GOLINO, in Pasolini: il sogno di una cosa. Pedagogia, eros, letteratura, dal mito del popolo alla società di massa, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 25-30.
21 Cfr. le testimonianze raccolte da Francesco BORTOLINI nel programma televisivo Il sogno di una cosa: Pasolini in Friuli, RAI 2, 25 novembre 1976. Un’eco appena romanzata di questo episodio si ritrova nel racconto autobiografico Atti impuri, scritto alla fine degli anni ’40, ma pubblicato postumo nel volume Amado mio, Milano, Garzanti, 1982, pp. 32-33.
22 Vedi anche l’appello all’Unesco lanciato da PPP per la conservazione delle mura di Sana’a, finite le riprese del Fiore delle Mille e una nottenello Yemen: Pasolini racconta con rabbia l’assurda rovina di una città, in «Corriere della sera», 20 giugno 1974.
23 «Il Messaggero Veneto», 21 settembre 1947
24 «Lotta e Lavoro», 5 ottobre 1947.
25 «Il Mattino del Popolo», 12 ottobre 1947.
26 «La Fiera Letteraria», 6 giugno 1954.
27 Antologia di Zigaina e Pitture di Zigaina, nel «Mattino del Popolo» del 15 gennaio e del 7 dicembre 1948.
28 PPP, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957, pp. 62-63.
29 Ivi, pp. 25-35.
30 Due dediche, la prima del 1959, la seconda del 1962, pubblicate in Federico De Rocco, a cura di Paolo RIZZImonografia edita in occasione della retrospettiva allestita presso la Casa dello Studente «A. Zanussi» di Pordenone, dal 31 agosto al 25 settembre 1969, pp. 22-23.
31 Sta in Omaggio a Guttuso. Mostra antologica 1931-1963, a cura di Marcello AZZOLINI, Parma, Palazzo della Pilotta, dicembre 1963-gennaio 1964, p. 44.
32 Sta nel volume Anna Salvatore, Roma, Edizioni Novissima, 1966, pp. 171-172; questo scritto verrà ripubblicato in più occasioni.
33 Presentazione per la mostra Omaggio a Carlo Levi, allestita nel marzo 1967 dalla Pro Loco di Nereto.
34 Mentre viene sviluppata più avanti in questo saggio l’origine longhiana del titolo del poemetto Una disperata vitalità, sarà Galluzzi invece a segnalare come pure l’autodefinizione del giornalismo corsaro del Nostro va accostata a un appunto mosso da Longhi nell’antologia Da Cimabue a Morandi, recensita da PPP nel 1974 (cfr. GALLUZZI, cit., p. 23, n. 28).
35 PPP, La violenza, con 24 disegni di Attardi, Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione, Guerreschi, Guttuso e Vespignani, Roma, Editori Riuniti, 1962.
36 PPP, Ballata delle madri, con 9 acqueforti di Banchieri, Cappelli, Fabbri, Ghermandi, Piacesi, Rossello, Treccani, Zanon e Zigaina, Roma, Edizioni Verona, 1971/1972.
37 Paolo Weiss, testo di Pier Paolo PASOLINI, Roma, Edizioni della Piccola Galleria, 1946, pp. 8-10.
38 PPP, I termini di Anzil, in Una mostra di Anzil e Furlàn, Udine, novembre-dicembre 1947.
39 PPP, Breve studio sulla pittura di Lorenzo Tornabuoni, in Tornabuoni, testi di Pier Paolo PASOLINI e Enzo SICILIANORoma, Galleria d’arte « Il Gabbiano », dal 6 al 30 giugno 1972, pp. 4-7.
40 Renzo Vespignani, Roma, Galleria «L’Obelisco», 1956. Per quanto riguarda PPP e Vespignani, vedi anche GALLUZZI, Pasolini e la pittura, cit, p. 121-122.
41 Cfr. PPP, La bandiera di Dio, in Quadri d’Oriente, testi di Pier Paolo PASOLINI e Dacia MARAINI, Roma, Libreria-Galleria « Godel », maggio-giugno 1972.
42 Testo del 1954, più volte citato da RIZZI nella sua monografia, senza purtroppo altre precisazioni.
43 Cfr. Intervento di dibattito sulla pittura di Carlo Levi, in «Annuario della Biennale di Venezia 1975. Eventi del 1974», Venezia 1975.
44 20 disegni di Guttuso presentati da Pier Paolo Pasolini, Roma, Editori Riuniti/La Nuova Pesa, 1962.
45 Zigaina, testi di PPP, Alfonso GATTO e Mario DE MICHELI, Quaderni di «Imago» n. 8, Milano, Bassoli Editore, 1970 ; questo scritto verrà ripubblicato in più occasioni.
46 D’altra parte, si sa che, diventato poi regista cinematografico, PPP chiamerà Zigaina come attore per la parte del confessore di Ciappelletto, nel Decameròn (ma era già sua la mano del pittore, negli inserti di Teorema), mentre chiederà a Guttuso di leggere, insieme a Giorgio Bassani, il commento in versi del documentario La rabbia (1963), dove appaiono, accanto ad alcuni quadri dello stesso artista siciliano, opere di Ben Sahn e Georges Grosz, Fautrier, Braque, Pollock, nonché di Jacopo Pontormo. (Per l’analisi del materiale figurativo ecletticamente usato ne La rabbia, vedi MARCHESINI, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini, cit., pp. 59-73).
47 Andy WARHOL, Ladies and Gentlemen, Milano, Anselmino Editore, 1976.
48 AA.VV., L’arte del Romanino e il nostro tempo, Brescia, Grafoedizioni, 1976, pp. 44, tav. XVII.
49 Cfr. Roberto LONGHI, Cose bresciane del ’500, in «L’Arte», 1917 (ora in Opere complete, vol. 1, 1961, pp. 327-343) e Recensione di un libro sul Romanino, in «L’Arte», 1926 (ora in Opere…, vol. 2, 1967, pp. 99-100).
50 Pier Paolo Pasolini : I disegni 1941-1975, a cura di Giuseppe ZIGAINA, Milano, Scheiwiller, 1978.
51 PPP a Jean DUFLOT, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini (1969); poi in Il sogno del centauro, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 22.
52 I disegni.... cit., cat. nn. 38, 41, 42.
53 Ivi, cat. nn. 20, 21, 23.
54 Ivi, cat. n. 81.
55 A prescindere del modello caravaggesco, va notato che la figura di Narciso appare in modo ricorrente nelle poesie dello stesso periodo. Vedi «Danze» e «Pastorella di Narciso», ne La meglio Gioventù (1944-49), «Il Narciso e la rosa», ne L’usignolo della chiesa cattolica (1943-49), ecc. Per non dire del Romanzo di Narciso, primo titolo progettato dall’autore per Atti impuri, come viene precisato dalla curatrice Concetta d’Angeli, in Amado miocit., p. 198.
56 Vanno confrontati in modo particolare con il Morlotti “picassiano” della metà degli anni ’40, i nn. 80, 81, 84 e 86 del catalogo I disegni... Allo stesso modo, il quadro di PPP intitolato Giovane che si lava (1947) potrebbe apparire come un omaggio diretto alla Donna che si lava, dipinto l’anno precedente dall’artista leccese.
57 Vedi Roland BARTHES, Segni/carte, a cura di Carmine Benincasa, Milano, Electa, 1981.
58 ZIGAINA, Pasolini pittore, in AA.VV., Per conoscere Pasolini, Roma, Bulzoni/Teatro Tenda, 1978, p. 36.
59 Vedi Iconografia del ‘Setaccio’, in RICCI, cit., pp. 143 sgg.
60 ZIGAINA, Pasolini pittore, cit.
61 Si sa che Bacon doveva poi diventare uno dei pittori moderni più apprezzati in assoluto da PPP. Viene menzionato, sia nella sceneggiatura di Uccellacci e uccellini (Garzanti, 1966, p. 203) che nel film Teorema. Sarà Laura Betti però a raccontarci per la prima volta la strana visita che il regista fece allo studio di Bacon - PPP non parlava l’inglese, Bacon non conosceva l’italiano - durante la preparazione de I racconti di Canterbury, nel 1972. Qualche anno dopo, questo incontro verrà riferito invece dallo stesso pittore, in un'intervista a cura di Cristiano Lovatelli RAVARINO.
62 PPP, Mamma Roma, Milano, Rizzoli, 1962, passim.
63 VediI disegni..., cit. cat. nn. 89-122. (Essendo stata leggermente sconvolta la cronologia degli ultimi fogli nel catalogo, dal ventesimo foglio in poi, avevamo allora suggerito di ristabilirne l’ordine effettivo come segue: 109, 110, 116, 118, 117, 120, 119, 114, 113, 121, 115, 111, 112, 122). L’insieme (meno il n. 117) è poi stato ristampato a colori e nell’ordine giusto in «MicroMega», ottobre-novembre 1995, pp. 221-240.
64 Vedi il saggio di Marco VALLORA, Alì dagli occhi impuri, in AA.VV., Lo scandalo Pasolini, studi monografici di «Bianco e Nero», n. 23, aprile 1976, pp. 156-204; come pure Achille BONITO OLIVA, Pier Paolo Pasolini und die Tradition des italienischen Manierismus, in Pier Paolo Pasolini : Zeichnungen und Gemälde, Basilea, Balance Rief, 1982, pp. 9-14. Altro segno eclatante di tale affinità, la stessa scelta delle parole «disperata vitalità» per il titolo di una delle sezioni più famose di Poesia in forma di rosa (1964). Infatti, l’invenzione di questo ossimoro sembra risalire al saggio di Roberto LONGHI, Ricordo dei manieristi (1953) che, secondo ogni probabilità, PPP (ri)scoprì attraverso una precisa citazione contenuta ne La maniera italiana di Giuliano BRIGANTI (Editori Riuniti, 1961, p 9), una cui copia gli era stata prestata da Attilio Bertolucci per la lavorazione de La ricotta, tra il 1962 e il 1963 (a questo proposito, vedi anche Attilio Bertolucci: a lezione da Longhi, in «Giornale dell’Arte», n. 10, novembre 1990, suppl. « Vernissage »). 
65 Vedi Pier Paolo Pasolini, fotografie di Dino Pedriali, Roma, Magma Editrice, 1975, tavv. 77-91.
66 PPP, La ricotta, in Alì dagli occhi azzurri, cit., p. 480.
67 Roberto LONGHI, Galleria Borghese: il Caravaggio (1927), in Opere complete, vol. Il, 1967, pp. 301 e ss.
68 Nel saggio Pasolini e la pittura, GALLUZZI svilupperà la relazione «quasi elettiva» che sembra unire PPP alla personalità “maledetta” del Caravaggio (cit., pp. 80-83). Questa particolare affinità darà anche luogo alla discutibile biografia romanzata del poeta, firmata da Dominique FERNANDEZ, Dans la main de l’ange (trad. it. Nella mano dell’angelo, Milano, Bompiani, 1983).
69 Cfr. Mario DE MICHELI, in I disegni…, cit., s.p.
70 Sia pure senza corredo fotografico, il manoscritto di Petrolio verrà pubblicato tale e quale - in forma di work in progress - nei primi anni ’90 (cfr. PASOLINI, Petrolio, Torino, Einaudi, 1992).
71 Foto esposte alla Galleria «Il Diagramma», di Milano, dal 21 febbraio al 31 marzo 1978. Vedi anche il volume Dino Pedriali, Milano, Raron Book, 1978, s.i.p.
72 Cfr. Kishin SHINOYAMA, Obsession et harakiri d’un écrivain japonais, in «Photo» n. 41, febbraio 1971, pp. 40-50.
73 Allo stesso modo della serie di ritratti rappresentanti Roberto Longhi, la maggior parte dei disegni di PPP sono infatti rivolti verso sinistra, indice assai evidente della sua scarsa padronanza in questo campo.
74 Vedi la confessione di Pietro, nel passo di Teorema citato più avanti (nota n. 109 - nella parte seconda).
75 Vedi Cesare Zavattini. Prima mostra antologica, testo di Franco SOLMI, Bologna, Edizioni Bora, 1976.




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