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"Una passione per le immagini! Ricordi figurativi di Pasolini (1983-2001)", di Fabien S. Gerard - PARTE SECONDA

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Una passione per le immagini.
Ricordi figurativi di Pasolini (1983-2001)
Fabien S. Gerard

PARTE SECONDA

III. Dalla tela allo schermo

Spesso ambigui ma per forza privilegiati, i rapporti tra letteratura e Settima Arte hanno sempre suscitato l’attenzione della critica cinematografica, che cominciò presto a prendere a prestito al campo letterario gran parte del suo vocabolario.  Così, la messa in evidenza dell’analisi del racconto rischiava di rimuovere in secondo piano la componente iconica, altrettanto essenziale, di quella nuova Musa nata all’insegna ibrida della cosiddetta figurazione narrativa (o narrazione figurativa).  [76]
Se occorre tornare all’età d’oro del cinema muto per individuare il momento di massima espressività dell’immagine filmica, dobbiamo pure prendere atto dell’insistenza con cui vari cineasti hanno continuato a dare il primato ai valori figurativi nel proprio lavoro. È il caso di Antonioni, [77] quando parla - quasi citando Fritz Lang [78] - della sua «incapacità a pensare, se non usando immagini»; oppure di Wenders, quando afferma che ogni sceneggiatura è solo «un pretesto per fabbricare immagini»; [79] o ancora di Fellini, per il quale la pittura va considerata la vera «mamma» del cinema. [80]
Per altro verso, il particolare interesse portato nei confronti del nuovo mezzo da parte di storici dell’arte quali Erwin Panofsky [81] o Carlo Ludovico Ragghianti [82] rivela la fatale “consanguineità” esistente tra pittura e cinematografia; una consanguineità confermata per esempio dall’attività critica di Lotte H. Eisner, i cui saggi ormai classici sul cinema tedesco si ricordano dell’apprendistato compiuto ad imparare a leggere, durante gli studi universitari, la composizione delle scene illustrate nella ceramica greca antica. [83]
Era scontato, a questo punto, che il cinema cedesse in qualche modo alla tentazione di rifarsi ai modelli figurativi del passato. A prescindere dei vari biopics di stampo hollywoodiano [84] - tipo il noto Brama di vivere (1956) di Vincente Minnelli, per interderci -, fon­dati su laboriose rielaborazioni di alcuni quadri famosi, chi non ricorda i richiami macchiaioli di Visconti in Senso (1954) e ne Il Gattopardo (1963), o di Bolognini ne La viaccia (1961), in Metello (1970), in Bubù (1970)? [85] E così via per i vivacissimi pastiches hogarthiani del Tom Jones (1963) e del Joseph Andrews (1977) di Tony Richardson, o per gli omaggi di Tarkovskij verso la pittura fiamminga, tanto nell’Andrej Rublëv (1966) quanto ne Lo specchio (1974), e perfino in Solaris (1972) e Stalker (1979). Da La kermesse eroica (1935) di Jacques Feyder alla Marchesa von… (1976) di Rohmer, passando per il tour de force di Kubrick sul set di Barry Lyndon (1977), non si contano gli esempi del genere, anche se spesso si tratta di pezzi di bravura isolati nella carriera di tali autori, o limitati all’esaltazione di un’epoca, di una cor­rente, di un artista ben precisi. [86]
Per ragioni profonde di ordine storico-culturale, il problema cambia di molto appena ci si accosta ai registi italiani in generale, e a Pier Paolo Pasolini in particolare, il quale dimostra un attaccamento quasi ossessivo per la cultura figurativa da un capo all’altro della sua produzione. Solo forse l’inglese Peter Greenaway potrebbe oggi disputargli il primo posto in materia, ma non sarà certo un caso che anche l’autore de I misteri del giardino di Compton House (1982) sia un ex studente di Storia dell’arte, conosciuto anche come pittore a pieno diritto.
È possibile stabilire una vera e propria tipologia concernente i rimandi di carattere pittorico nel cin­ema. La prima idea che viene in mente riguarda la ricostruzione scenica di un’opera classica del patrimonio artistico. Da questo punto di vista, due momenti espliciti ri­saltano subito all’esame della filmografia pasoliniana : La ricotta (1963) e Il De­cameròn (1971). 
Il mediometraggio La ricotta, originariamente incluso nel film collettivo RoGoPaG[87] narra l’ultimo giorno di vita di una misera comparsa di Cinecittà che recita la parte del buon ladrone in un kolossal dedicato alla Passione di Cristo. 
Tableaux vivants in "La ricotta": a sinistra, Jacopo Carrucci detto il Pontormo
(1494-1557), "Deposizione" (1525-28), Firenze, Chiesa di Santa Felicita,
Cappella Capponi; a destra "La ricotta"
Tableaux vivants in "La ricotta": a sinistra,Giovan Battista di Jacopo, detto
il  Rosso Fiorentino (1494.1540), "Deposizione", 1521, Volterra, Pinacoteca Civica,
Museo Guarnacci; a destra "La ricotta"
Fatto sta che l’ambizione - un po’ assurda - del regista presentato sullo schermo, e interpretato in maniera gusto­samente caricaturale da Orson Welles, è proprio quella di ricomporre, in forma di tableaux vivants, le Deposizioni del Rosso e del Pontormo. 
Di conseguenza, due scene gemelle ci mostrano a colori le esatte repliche di quegli illustri quadri, prima nell’insieme, poi in una serie di primi piani ripresi con lunghe focali, così da raccogliere in modo assai pittorico la profondità del campo. Unica differenza : un paio di figure sono state aggiunte ai fianchi di ciascuno dei gruppi circondanti il Cristo morto, [88] al fine di compensare l’allargamento della cornice imposto dalle pro­porzioni dello schermo cinematografico.
Ugualmente, il secondo tempo del Decameròn - il cui filo rosso è la vicenda di un artista giottesco sulla cui personalità si tornerà più avanti - ci offre, questa volta con il pre­testo di una apparizione dichiaratamente onirica, un'ampia composizione ispirantesi al Giudizio universale della Cappella degli Scrovegni a Padova. [89] 
Giotto, Il Giudizio Universale, Padova, Cappella degli Scrovegni
Sotto, la ricostruzione in Decameròn: il Cristo Giudice è sostituito dalla Madonna di Ognissanti
Anche qui lo spazio risulta un po’ alterato - col probabile ricordo del Beato Angelico per l’impostazione generale -, così da razionalizzare maggiormente la gerarchia escatologica, al centro della quale si nota soprattutto la sostituzione di una colossale Madonna d’Ognissanti al posto del Cristo Giudice dell’affresco originale. (Una maliziosa correzione dettata in realtà dalla “partenopeizzazione” della rilettura pasoliniana del novelliere boccaccesco.) [90] Data l’eccessiva staticità che ne viene fuori, s’intende che questo tipo di «immagini derivate» - per dirlo con Tarkovskij [91] - non trova la minima giustificazione nella continuità narrativa, [92] se non in funzione di circostanze insolite, in questo caso le “visioni” di due artisti in stato di grazia. Pasolini stesso era consapevolissimo della teatralità del procedimento, tanto da individuare una forma di “esorcismo” nelle Deposizioni della sua Ricotta, la cui gelida minuzia mimetica non avrebbe mai potuta conciliarsi con l’estetica realistica - in chiave arcaica, ma anche di cinéma verité - del Vangelo secondo Matteo, allora progettato per l’anno seguente. [93]
Senza ricorrere a ricalchi così servili, un certo numero di dettagli sparsi, incastonati con più vivacità all’interno dell’azione, trovano poi la loro fonte nelle op­ere dei pittori vissuti secoli fa. La «Trilogia della vita» contiene abbondanti rinvii significativi, specialmente a Bruegel il Vecchio. Nel Decameròn la parentesi che, mediante una decina di inquadrature sospese fra sogno e realtà, annuncia il trapasso del brigante Ciappelletto durante il suo esilio nordico. Mercanti, storpi, bevitori accovacciati sopra una botte, ghiottoni as­sopiti, carri e bare a quattro ruote che trasportano carichi di cadaveri o di teschi: tutti tocchi facilmente identificabili, spigolati dal Paese della Cuccagna e da Il combattimento fra Carnevale e Quaresima, dai Giochi di Fanciulli e da Il trionfo della Morte… 
Più puntuali, si rilevano ancora spunti analoghi nei Racconti di Canter­bury (1972). Ad esempio nella breve inquadratura di quei paffuti sederi della sposa e della figlia del mugnaio, posati come due pesche mature all’esterno di un abbaino: fugacissima apparizione attraverso la quale Pasolini, in eco ad uno dei Proverbi conservati a Berlino, forse intendeva alludere con buonumore a coloro a cui venisse fan­tasia di alleviare gli intestini «per la stessa strada». Oppure nel fascino pressoché ipnotico della pesante figura di quell’uomo a cavallo visto di spalle, allontanandosi a passo tranquillo verso l’orizzonte, la quale va accostata col personaggio centrale de La conversione di San Paolo dello stesso artista (Vienna, Kunsthistorische Museum); il punto di vista, la silhouette, l’abito del cavaliere sono identici, ed è assai probabile che il ricordo di Bruegel si sia imposto alla mente del regista durante la preparazione dei Racconti, quando decine e decine di libri d’arte circolavano tra i vari reparti.
Pieter Bruegel il Vecchio, Conversione di san Paolo (1567).
Vienna, Kunsthistorisches Museum
Altrove, il recupero della struttura interna di un quadro serve a stabilire una relazione più implicita fra la scena filmata e qualche modello pittorico. Troviamo testimonianze di questo tipo in Mamma Roma, un film illuminato come ben sap­piamo dalla dedica iniziale a Roberto Longhi. Così, nella sequenza del banchetto nuziale, subito dopo i titoli di testa, la collocazione dei convitati dietro il tavolone a ferro di cavallo, in un assetto simmetrico, rafforzato dalla presenza di una nicchia a volta che si staglia sul muro, rammenta chiaramente l’organizzazione dello spazio de L’ultima Cena - non tanto, però, la classica Cena leonardesca quanto il quadro più rozzo del Romanino, così come verrà acu­tamente sottolineato da Alberto Marchesini. [94] 
Mamma Roma, banchetto nuziale. Cfr. "L'ultima Cena"
del Romanino, illustrata nella PRIMA PARTE di questo lavoro

Poco prima dell’apparizione dei titoli di coda, invece, anche il martirio di Ettore, che sta agonizzando in prigione su di un letto di contenzione, è filmato con ostentata frontalità, men­tre il corpo dolente del ragazzo si offre allo sguardo in uno scorcio molto simile alla figura del Cristo morto del Mantegna (sebbene Pasolini abbia negato questa diretta dipendenza, per meglio spiegarsi sul significato della matrice  pittorica del proprio lavoro di cineasta). [95]
Mamma Roma: Ettore sul letto di contenzione, dove morirà.
A destra: Andrea Mantegna, "Cristo morto" (14751478), Milano, Pinacoteca di Brera
Infine, con meno rigida adesione, certi momenti cercano piuttosto di citare idealmente l’universo estetico di un artista che non a riprodurre una determinata opera. Pensiamo a quella scena di Accattone (1961), in cui il protagonista incontra la candida Stella nel mezzo di uno scarico di borgata dove vengono raccolte migliaia di bottiglie vuote. Già la parola «bottiglie» basterebbe a evocare il nome di Giorgio Morandi, che per mezzo secolo la portò a un grado di approfondimento metafisico tanto elevato... E difatti, è proprio al lavoro del maestro bolognese (apprezzatissimo sia da Longhi sia da Pasolini) che lo scrittore di Ragazzi di vita volle rendere questo omaggio privato nella sua prima regia. [96] (Un gesto assai comprensibile, se vogliamo ricordare l’appassionato interesse con cui gli si rivolgeva quando, a Bologna, aveva comin­ciato a scrivere la tesi di laurea sulla pittura moderna in Italia.)
All’altro polo della carriera di Pasolini, pescando di nuovo nella Trilogia, è doveroso segnalare altre due sequenze che procedono da un impulso dello stesso genere : le nozze contadine del Decameròn (episodio «Gemmata»), di matrice in­dubbiamente bruegeliana, malgrado l’anacronismo, nonché la riambientazione napoletana del soggetto; [97] come pure l’evocazione tonitruente e variopinta di quell’Inferno alla Hieronymus Bosch, che conclude uno dei racconti di Canterbury, dove si affaccendano schiere di diavoli cornuti, forcuti e alati, mentre Sa­tana in persona espelle dalle vie naturali una bordata di frati simoniaci fra i dannati promessi alle fiamme.

Lasciando ora da parte questo tipo di pastiches, che sa un po’ di strizzatina d’occhio, un po’ di esercizio di stile, è chiaro che sul piano stret­tamente iconografico il retaggio figurativo del passato costituisce di per sé una fonte inesauribile di dettagli concreti per ogni cineasta portato verso la restituzione di pe­riodi tanto ricchi quanto il Medioevo o il Rinascimento. Da questo materiale di repertorio, molte regie pasoliniane attingono più o meno apertamente l’essenziale della loro ispirazione visiva, soprattutto a livello degli abiti e dell’arredamento.
È il caso dello straordinario sfoggio costumistico del Vangelo secondo Matteo, che fece quasi l’effetto di una bomba per il pubblico del lontano 1964, abituato da sempre alla visione neoclassicheggiante tramandata dai soliti kolossal biblici. Mentre la maggior parte dei panni indossati dalle comparse si appoggia ai mosaici bizantini come alle opere di Duccio, Giotto e Mantegna, [98] sarà l’idea geniale di ricorrere all’impronta di Piero della Francesca che colpirà soprattutto l’attenzione. [99] Basandosi sulla linea immaginata da Piero per il ciclo La Leggenda della Vera Croce di Arezzo, le alte acconciature campaniformi dei Farisei e le uniformi caratteristiche dei legionari di Pilato contribuiscono a tradurre, mediante la contaminazione stilistica [100] quello «spessore del mito» privi­legiato da allora in poi dal regista.
Piero della Francesca, "Storie della Vera Croce", 1452-1466, affreschi, Basilica di San Francesco, Arezzo;
sotto: farisei nel "Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini
Senza trascurare, nel frattempo, l’originalità di pellicole non meno significative, come Edipo re (1967) o Medea (1970) -, le quali risultano più debitrici però all’archeologia e all’etnologia che non alla storia della pittura -, bisogna tornare un’altra volta all’esuberante Trilogia della Vita, in quanto essa dimostra una minuziosissima conoscenza non solo delle opere già citate di Giotto, Bosch e Bruegel, ma anche della folta produzione dei petits maîtres fiamminghi e francesi del Quattro e del Cinquecento, [101] senza dimenticare le miniature indiane e persiane dello stesso periodo. [102] E qualcuno avrà sicuramente individuato nello studiolo dove Chaucer si isola per scrivere i propri Tales leggendosi di nascosto i racconti del Boccaccio, il ricordo del San Gerolamo di Antonello da Messina, ormai di casa alla National Gallery di Londra.

A questo punto, un caso a parte merita di essere preso in considerazione. Si tratta del mediometraggio Che cosa sono le nuvole? (1968), che certi happy few ritengono addirittura uno degli apici dell’opera pasoliniana. L’azione si svolge tra il palco e le quinte di un popolare teatro di marionette napoletano, durante una rappresentazione dell’Otello di Shakespeare sfociante in una interrogazione poetico‑filosofica sul tema dell’identità. 

L’interesse di questo piccolo grande film, per quanto riguarda il nostro proposito, proviene dai suoi rimandi precisi alle arti e alle lettere spagnole del Siglo de oro, a cominciare dall’andamento parodistico di un vestiario che privilegia il verde, il viola e l’indaco, ispirato alla pittura contemporanea, nonché dalle ripetute allusioni a Velázquez e a Calderón de la Barca. [103] Ed ecco, per il primo, la riproduzi­one di vari quadri a guisa di manifesti incollati all’ingresso del locale, per non dire dell’immagine della Venere dallo specchio che adorna, a modo di una pin up girl, l’abitacolo del camioncino guidato dall’immondezzaio Domenico Modugno. E, per il secondo, questa replica che la marionetta «lago» (Totò) bisbiglia dietro le quinte all’orecchio del compare Otello (Ninetto Davoli), sempre più perplesso dinanzi alle parti ingrate che gli tocca recitare in pubblico : «Eh, figlio mio, noi siamo in un sogno dentro un sogno…»[104] Allusioni tanto più cariche di senso se ricordiamo che Pasolini era allora anche assorto nella stesura della sua tragedia in versi Calderòn, in cui intendeva appunto rivisitare La vida es sueño, mentre un intero atto della pièce viene perfino ambientato dentro lo stanzone dell’Alcazar di Madrid che servì da scenario al quadro Las meninas. Nulla di più lecito che vedere quindi in Che cosa sono le nuvole? la variante leggera, quasi burlona, di quel cupo dramma ispanico, un po’ come potrebbe stare, in musica, l’allegro rispetto all’adagio.

La regia di una fiction cinematografica risulta un’impresa troppo seria perché i vari elementi compresi nei limiti di ogni fotogramma siano lasciati alla sola legge del caso; a maggior ragione se la loro presenza implica un preciso significato culturale. Nel caso di un Pasolini, bisogna constatare per forza che mai l’atteggiamento eru­dito dell’artista dipende da un gioco gratuito. A tale riguardo, il raffronto fra il romanzo Teorema (1968) e l’omonimo film risulta molto rivelatore. Inutile tornare qui sulla trama di questa singolare parabola in forma di “Visitazione”, che scandalizzò non pochi benpensanti quando venne premiata dall’Ufficio Cattolico Internazionale del Cinema, alla Mostra di Venezia. Limitia­moci a intercettare l’azione nel momento in cui si suggella l’intimità di Pietro, il figlio di famiglia, col misterioso ospite, dopo che questi gli ha appena rivelato l’inautenticità del suo essere al mondo. Estratte dalla versione letteraria, scritta parallelamente alla sceneggiatura, le righe che seguono contengono la descrizione di un quadro astratto - nel senso forte della parola -, la cui silenziosa contemplazione da parte dei due giovani sembra far parte di un rituale iniziatico posto all’insegna dell’arte:

Nella camera di Pietro, il giovane ospite, accanto a Pietro, sfoglia un grosso libro dalle tricromie splendenti alla luce del pomeriggio che batte potente sulle pagine patinate. Pietro guarda quelle riproduzioni a colori di una pittura che egli non conosce e che, magari fino allora, per influ­enza, forse, del suo insegnante di Storia dell’Arte del Parini, aveva ignorato e disapprovato. (C’è, infatti, nei suoi occhi l’attenzione di chi sco­pre qualcosa, dopo una prima diffidenza, quasi con gratitudine.) Il quadro che i due ragazzi hanno sotto gli occhi, è fortemente colorato - di colori puri: osservandolo meglio, è come un reticolato di contorni che lasciano delle superfici libere, triangoli e rettangoli rotondeggianti (come distesi, cioè, su una superficie curva): è su queste superfici libere che sono distesi quei colori puri; blu di prussia e rossi; puri, ma estre­mamente discreti, quasi in sordina; quasi velati da una patina di vec­chio. La carta da disegno su cui quegli acquarelli o quelle tempere sono distesi - con ricchezza e profondità costruttiva di olii, però - è infatti ingiallita; poveramente ingiallita; pare di sentirvi l’odore di vecchio, di stantio, di biblioteca. Benché così assurdo, libero, acceso, il quadro è profondamente severo, e i suoi colori puri non sono quelli dei Fauves. Che quadro è? La data va certamente compresa tra il 1910 e il 1920. Non appartiene alla civiltà del cubismo, civiltà sontuosa. Esso è magro, estremamente magro. Forse è futurismo; ma non certo quello dinamico e sensuale italiano. Qualcosa di ingenuo e popolare, ossia di infantile, potrebbe fare pensare al futurismo russo, a qualche pittore minore amico di Ėjzenštejn, di Šklovskij o di Jakobson, che operasse tra Mosca e Pietro­burgo; o forse a Praga, come cubista. No, ecco la firma; Lewis: un amico di Pound, un arnericano [105] degli anni dell’imagismo. Un quadro grafico, con superfici colorate, costruito come una perfetta mac­china, e così rigoroso da aver ridotto la pittura all’osso. [106]

Il passaggio dal verbo alla pellicola si tradurrà con la sostituzione di un’opera “non figurativa” con un’opera “figurativa”. Se, sullo schermo, si ri­trovano Pietro e l’ospite seduti fianco a fianco sullo stesso letto, in com­penso non sono più le sagome vorticiste di Percy Wyndham Lewis che ci è dato di osservare al di sopra delle loro spalle, bensì un volume su Francis Bacon, che esibisce tra l’altro i Tre studi di figure per la base di una crocifissione. Sottolineate con insistenza dalla macchina da presa, le connotazioni sessuali del trittico accentuano ancora il clima equivoco che sottende la scena. Più diretta, qui l’immagine s’impone per la sua sola forza di evidenza e ogni parola è diventata ormai super­flua…
Un’altra utilizzazione funzionale di alcuni quadri noti da parte di Pa­solini è l’accento posto sulle pareti della cosiddetta Villa delle Orgie in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), la cui sceneggiatura offre difatti al regista l’opportunità di presentare un ricco panorama dell’Avanguardia artistica del periodo fra le due guerre - da Braque a Severini, passando per Duchamp, Léger, Schwitters, Feininger o Kokoschka. Il film, come ben sappiamo, altro non è che una moderna trasposizione del capolavoro del marchese de Sade ai tempi della Repubblica Sociale, vista come il paradigma dell’arbitrarietà più assoluta del Potere. Sec­ondo lo stesso Pasolini, il campionario pittorico di cui sopra doveva ridestare nello spettatore l’idea che l’azione si svolgeva nella dimora di un collezionista di origine ebrea, requisita dalle milizie nazifasciste. [107] Così, l’atteggiamento paradossale dei nuovi padroni troverebbe la sua giustificazione nel desiderio am­bivalente dei quattro Signori ispirati ai protagonisti del divin marchese, di con­dannare le testimonianze di un’arte da loro qualificata «degenerata», pur compiacendosi a conservarle sotto gli occhi, in una mescolanza alquanto sottile di disprezzo e di fas­cino.

Ultimo segno della passione rivolta da Pasolini al mondo pittorico, la presenza nel suo cinema di vari artisti mostrati nell’atto di dipingere, e principal­mente di quei due estremi opposti che sono il giovane avanguardista di Teorema e il «Giotto» del Decameròn. Innanzi tutto, va detto che, se il copione prevedeva, sì, l’intervento del grande Giotto nel secondo tempo del Decameròn - seguendo in questo uno spunto fornito da Boccaccio -, il regista decise di sostituirlo all’ultimo momento con la figura più modesta del suo «miglior allievo», dopo la rinuncia improvvisa dei due interpreti d’eccezione successivamente designati ad indossare i panni del pittore davanti alla cinepresa, cioè gli scrittori Sandro Penna e Paolo Volponi. Così, costretto dall’emergenza a prestare la pro­pria faccia al maestro, Pasolini non poteva far a meno di modificare la prospettiva iniziale dell’opera, la quale veniva a perdere il suo statuto oggettivo a vantaggio di un’imprevista soggettività dalle ovvie conseguenze metalinguistiche. 
Rimane tut­tavia il fatto che, grazie all’extrapolazione del racconto V della sesta Giornata, ci viene proposta una stupenda mise en abyme, [108] attraverso la spedizione immaginaria di un artista che si reca a Napoli allo scopo di abbellire i muri della chiesa di Santa Chiara. (Va notato, in proposito, che gli affreschi la cui elaborazione «a pontate» si sgrana fra vari episodi del film riprendono le grandi linee della serie anonima dei Miracoli post mor­tem di San Francesco, situata nel braccio destro del transetto della basilica inferi­ore di Assisi.) [109] Lo stesso regista si è divertito poi a porre l’accento sulla sua somiglianza fisica con il Giotto descritto dal Boccaccio - «piccolo e brutto come me» [110] - ed è chiaro che qui la dimensione autobiografica si afferma senza equivoci, come lo conferma inoltre il ritratto allora tracciato dal vivo dal produttore Franco Rossellini. [111] Perciò, dietro l’immagine di quel pittore che lavora alla garibaldina, cercando in mezzo al popolino i modelli della sua nuova creazione, è proprio tutto Pasolini che si riconosce, artigiano inconfondibilmente frugale e frettoloso, volta a volta umile e orgoglioso, timido, audace… In due parole: travolto dall’ispirazione.

Ma riaffacciamoci ora sulla personalità di Pietro, il figlio dell’industriale in Teorema, che cristallizza invece le tendenze artistiche più radicali, volgendosi, tanto per dis­petto quanto per impotenza, verso insondabili vicoli ciechi. Tratto dal lungo soliloquio in cui si lancia il giovane, questo brano smonta con acume l’impostura fondamentale del suo procedimento:

Bisogna inventare nuove tecniche che siano irriconoscibili - che non assomiglino a nessuna operazione precedente. Per evitare così la pueril­ità e il ridicolo. Costruirsi un mondo proprio, con cui non siano possibili confronti. Per cui non esistano precedenti misure di giudizio. Le misure devono essere nuove, come la tecnica. Nessuno deve capire che l’autore non vale nulla, che è un essere anormale - inferiore -, che come un verme si contorce per sopravvivere. Nessuno deve coglierlo in fallo di ingenuità. Tutto deve presentarsi come perfetto, basato su regole sconosciute, e quindi non giudicabili. [...] Un segno dipinto su un vetro corregge senza sporcarlo un segno dipinto prima su un altro vetro. Ma tutti dovranno credere che non si tratti del ripiego di un incapace, di un impotente; bensì che si tratti invece di una decisione, sicura, imperter­rita, alta e quasi prepotente: una tecnica appena inventata e già insosti­tuibile. […] Nessuno deve sapere che un segno riesce bene per caso. Per caso e tremando: e che appena un segno si presenta, per miracolo rius­cito bene, bisogna subito proteggerlo e custodirlo come in una teca. Ma nessuno, nessuno deve accorgersene. L’autore è un povero tremante idiota, una mezza calzetta. Vive nel caso e nel rischio, disonorato come un bambino. Ha ridotto la sua vita alla malinconia ridicola di chi vive degradato dall’impressione di qualcosa di perduto per sempre. [112]

Partito da qualche assaggio inconcludente nel campo figurativo, Pietro finirà con l’orinare a occhi bendati su di una tela monocolore di sua produzione, portando a termine con questo gesto il suo edificante iter artistico. Sapendo che il postulato di Teorema si articola intorno all’impossibilità di qualsiasi riscatto da parte della borghesia, era scontato che anche le velleità di sublimazione manifestate da questo figlio di papà fossero destinate al fallimento. 
Attraverso la confessione del personaggio, Pasolini intende innanzi tutto denunciare un certo terrorismo «sotto­culturale» rispetto al quale non ha mai nascosto il suo personale dissenso. [113] Sol­o forse un “critico” avendo, come lui, sperimentato dall’interno l’esigenza del fare pittorico poteva autorizzarsi a enunciare una argomentazione così lucida, così traumatica, così priva di mezzi termini.

Ciononostante, rimane un legame assai più sottile del cinema pasoliniano col mondo della pittura che, molto prima di arrivare a sviluppi dimostrativi come quelli che abbiamo elencato, affronta subito la matrice figurativa di un film sotto l’aspetto di un «fatto stilistico interno». [114] Nell’intraprendere la sua prima regia, Ac­cattone, nel 1960, Pasolini non si avvantaggiava infatti di alcuna reale formazione tecnica sul piano cinematografico, mentre la sua cinefilia si limitava tutt’al più a un paio di film di Chaplin, Dreyer e Mizoguchi. È quindi armato della sua sola preparazione in­tima, appoggiata a una incrollabile determinazione, che, da regista debuttante, si trovò nella necessità di inventare un linguaggio espressivo che fosse il più elementare possibile, con sempre presente nell’animo, quale principale modello vi­sivo, il suo fervido amore per l’arte del Quattrocento, e per Masaccio in particolare. [115] Ne deriva quello stile d’una rigidezza austera ma piena di fascino, dominato dalla fissità quasi «romanica» dei primi piani, scanditi da panoramiche solenni e simmetriche che contribuiscono all’esplicita «sacralizzazione» dei vari corpi e luoghi [116] chiamati ad essere immortalati sulla pellicola.

Non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica [...] che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva. Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro come sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo lo aggre­disco sempre frontalmente. [117]

Semmai, alla rozzezza di Masaccio si sovrapone qua e là il tocco più drammatico di qualche chiaroscuro anacronisticamente caravaggesco, [118] come dimostra la scena in cui quattro papponi sbarcati da Napoli portano la prostituta Maddalena nel bel mezzo di un campo isolato, per darle un’odiosa “regolata”. Contro il buio della notte fonda, le varie figure illuminate di lato dai fari della macchina rimasti accesi si staccano allora in una composizione tipica dell’arte del tardo Merisi, mentre il regista accentua con inaudita evidenza la rappresentazione della realtà più brutale attraverso forti contrasti di ombre e luce.
Grazie alla sua verginità professionale, Pasolini va subito verso l’essenziale e giunge, mediante l’ascesi formale a livello del rigore compositivo e la nuda semplificazione degli spazi, alla densità plastica, alla corporalità, a quella «autenticità diretta» che tanto colpì l’amico Carlo Levi alla prima del film. Tutte qualità ancora rafforzate dalla scelta di una pellicola scadente assai contrastata (la mitica Ferrania P30), la cui speciale granulazione dà l’impressione di avere non solo plasmato, ma addirittura scolpito tutti i visi, come possiamo ap­punto osservare - parla sempre Pasolini - nelle vecchie riproduzioni in bianco e nero degli affreschi masacceschi della cappella Brancacci. [119]

Notoriamente refrattario all’«orrendo naturalismo» del piano‑sequenza, Pasolini definirà pure l’elemento strutturale fondamentale del proprio stile secondo un continuo susseguirsi di inquadrature spesso molto breve, un montaggio strettissimo di «piccole monadi» [120] destinate a cogliere al volo quei momenti magici in cui la spontaneità degli attori si esprime con la massima grazia. [121] Alla luce di tale posizione teorica, possiamo quindi misurare, al di là del valore individuale dato all’elaborazione di ogni singola immagine, il peso dell’essenza «lirico‑figurativa» che a queste egli in­tende attribuire.
A questo riguardo, la stesura stessa della sceneggiatura si appella talvolta all’uso di riferimenti significativi: sia che si tratti di definire tale paesaggio previsto per la sequenza del sogno in Accattone «come luogo dipinto da Corot», [122] di paragonare l’atteggiamento della Madonna incinta nel Vangelo a quello della Vergine del Polit­tico della Misericordia di Piero della Francesca, [123] oppure di descrivere uno dei pellegrini di Canterbury - nel film l’attore Vernon Dobtcheff -, il cui profilo ieratico, disegnantesi nella cornice di una finestrella, dovrà testualmente suggerire la composizione di «una purissima immagine santa»[124]
Michelangelo Merisi da Caravaggio,
Fanciullo con canestra di frutta (1593-1594)
Roma, Galleria Borghese
Quanto alla scelta degli interpreti, Pasolini adopera anche qui argomenti non meno sintomatici: il primo incontro con Ettore Garofolo, che sarà il protagonista di Mamma Roma, ebbe luogo in una trattoria di Trastevere dove il giovane cameriere portava a braccia tese un canestro di frutta «alla maniera di un ragazzo del Caravag­gio». [125] I lineamenti - quasi disegnati al carboncino - dello studente spagnolo Enrique Irazoqui, che impersonerà Gesù nel Vangelo, rammentano invece l’aspra severità dei Cristi bizantini, ma anche quelli di El Greco e perfino di Rouault. [126] Infine, il romanziere Paolo Volponi racconterà a sua volta come l’amico Pier Paolo lo chiamò ben due volte su un suo set - prima per la parte del prete in Mamma Roma, poi, come abbiamo visto, per quella del pittore nel Decameròn - proprio per via della sua somiglianza fisica con i volti «pieni» tipici dell’arte di Giotto. [127]

In conclusione, Pasolini, con la macchina da presa in spalla (poiché, cosa assai eccezi­onale nella professione, il regista divenne anche il proprio operatore, da Teorema in poi), si ritrovò di faccia alla «straziante bellezza del creato», nella pelle di un demiurgo intento a costruire una nuova realtà più d’accordo con le sue aspirazioni. La sua visione del mondo, pure così viva, così tangi­bile, così corporale, si modella nello stesso tempo attraverso gli occhi del pittore; tant’è vero che non esiterà a definire i suoi attori‑feticci, Franco Citti e Ninetto Davoli, vere e proprie «ossessioni stilistiche», allo stesso modo delle bottiglie vuote in Morandi, dei colli lunghissimi in Modigliani, o dei pezzi di giornali in Braque. [128]
In questo senso, il cinema rappresentò per il Nostro il luogo di con­fluenza ideale di una vocazione essenzialmente polimorfa, dove l’autore è riuscito a coniugare i suoi vari centri di interesse, dal culto per l’immediatezza poetica alla neces­saria coscienza critica, dalla tentazione contemplativa all’urgenza espressiva, sempre pronto a sviluppare in ciascuna di queste tre vie le feconde sollecitazioni del maestro che si era scelto appena diciottenne, Roberto Longhi. [129] Raramente l’erudizione dello studioso si è alleata con tanta armonia all’ispirazione dell’artista, di modo che è lecito dire che il corpus filmico pasoliniano, gettando un ponte unico al di sopra di numerosi malintesi, sembra riconciliare creatori e teorici, le cui rispettive nature risultano generalmente incompatibili a priori. E se può essere utile aggiungere un ultimo argomento in proposito, vorremmo appuntare, a guisa di occhiello finale, questa battuta molto emblematica delle ambizioni del poeta-regista. Intervistato sull’opportunità di usare sottotitoli per le versioni del Fiore delle mille e una notte distribuite all’estero, ecco in quali termini commentò la sua nota diffidenza verso tal procedimento:

Io sono stato pittore. Che ne direste voi di un quadro con in basso una scritta che lo deturpa?   [130]

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NOTE
76 Vedi Alberto MORAVIA, Un’arte tra narrativa e pittura, in Cinema italiano: Ma cos’è questa crisi?, a cura di Mino Monicelli, Bari, Laterza, 1979, pp. 105-115.
77 Michelangelo ANTONIONI, nella prefazione al volume Chung Kuo/Cina, Torino, Einaudi, 1974, p. VIII.
78 Cfr. la dichiarazione di Lang in limine alla riedizione di Metropolis proposta, nel 1984, da Giorgio Moroder.
79 W. WENDERS, Lettre de New York, in «Cahiers du cinéma» n. 337, giugno 1982, p. 21.
80 Citato da Giuseppe TURRONI, Pittura?, in «Filmcritica» n. 341, gennaio-febbraio 1984, p. 23.
81 Erwin PANOFSKY, Style et matériau au cinéma, in Cinema : théorie, lectures, a cura di Dominique Noguez, Parigi, Klinsiek, 1973, pp. 47-60. Vedi anche Jean-Loup BOURGET, En relisant Panofsky, in «Positif» n. 259, settembre 1982, pp. 38-43.
82 C.L. RAGGHIANTI, Arti della visione, Torino, Einaudi, 1975. Per un quadro complessivo, vedi pure Guido ARISTARCOUna bibliografia sui rapporti tra cinema e arti figurative, in Le Belle Arti e il film. Quaderni della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Roma, Edizioni Bianco e Nero, 1950.
83 Elettra DE SALVO, Lotte Eisner, da Murnau a Herzog, in «Cinemasessanta» n. 137, gennaio-febbraio 1981, p. 33.
84 Vedi John A. WALKER, Art and Artists on Screen, Manchester University Press, 1993; nonché la tesi di laurea di Joanna LEROY, Vies de Bohème : Réflexions sur les différentes manières d’aborder la biographie des artistes plasticiens dans le cinéma de fiction (Andréï Roublev, A Bigger Splash, Caravaggio, Van Gogh, Basquiat, Artemisia, Love Is the Devil: Study for a Portrait of Francis Bacon), Université Libre de Bruxelles, Histoire de l’Art et Archéologie, 1999-2000.
85 La prima monografia curata da un giovane storico dell’arte è stata, a nostra conoscenza, il lavoro di Raffaele MONTI, I Macchiaioli e il cinema, Roma, De Luca editore, 1979.
86 Dopo Domenico PURIFICATO (vedi Influenza della pittura sul cinema spettacolare, in Le belle arti e il film, cit.), fu André BAZIN a porre nuove basi teoriche per questo tipo di studi, nel noto saggio Peinture et cinéma, mentre negli ultimi decenni non si contano gli articoli dedicati all’argomento; tra essi, citiamo Maurizio CALVESI, Dipingere alla moviola, in «Corriere della Sera» (1976), ora in Avanguardia di massa, Milano, Feltrinelli,1978; Alain MASSON, La toile et l’écran, in «Positif» n. 189, gennaio 1977; Giuseppe TURRONI, La figurazione nel cinema americano, tra fotografia e arte, in «Bianco e nero», gennaio-marzo 1983; René PREDAL, Cinéma et arts plastiques, in «Jeune Cinéma» n. 148, febbraio 1983 ; Guido FINK, Il fantasma del bello, in «Cinema e cinema» n. 45, giugno 1986; Jean-François CHEVRIER, Le conflit de la toile et de l’écran, in «Art Press» n. 107, Parigi, ottobre 1986; L. KIRBY, Painting and Cinema: The Frames of Discourse, in «Camera Obscura» n. 18, settembre 1988; Giorgio TINAZZILa caverna di Platone e la luce di Cézanne, in «Cinema e cinema» n. 54-55, gennaio-agosto 1989; Gérard LEGRAND, De l’espace du tableau à l’espace filmique: formes symboliques et mouvements du regard, in «Positif» n. 353-354, luglio-aosto 1990 ; AA.VV., Art into Film, «Sight & Sound Supplement», 1994, ecc. Le fonti della maggior parte di questi titoli si ritrovano in calce alle varie monografie che sono state dedicate al problema negli ultimi quindici anni, quali Henry ALEKAN, Des lumières et des ombres, Parigi, Sycomore, 1984; Pascal BONITZERDécadrages. Peinture et cinéma, Parigi, Editions de l’Etoile, 1985; Pier Marco DSANTI, Cinema e pittura«Art Dossier» n. 16, Firenze, Giunti, 1987; Martin NORDEN, Film and the Art in Symbiosis. A Resource GuideNew York, Greenwood Press, 1988; Jacques AUMONT, L’oeil interminable. Cinéma et peinture, Parigi, Séguier, 1989; Raymond BELLOUR, Cinéma et Peinture: Approches, Parigi, Gallimard, 1990; Judith WECHSLER, Art History and Film: Starting from the Art. A Symposium Report, New York/Boston, Metropolitan Museum of Art/Museum of Fine Arts, 1991; Fabrice REVAULT D’ALLONES, La Lumière au cinéma, Parigi, Editions Cahiers du cinéma, 1991; Antonio COSTA, Cinema e pittura, Torino, Loescher, 1991.
87 Dal nome degli autori dei quattro episodi che compongono questo polittico cinematografico : Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti.
88 I prototipi per alcune delle figure laterali in questione sarebbero reperibili in area veneta; accanto a qualche altro quadro del Pontormo, Alberto Marchesini suggerisce poi i nomi di Paolo Veronese, di Jacopo Bassano e di Giuseppe Porta detto il Salviati (MARCHESINI, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini…, cit., pp. 51-52).
89 Tale visualizzazione del Giudizio Universale aveva però assillato PPP fin dal 1965-66, se ci riportiamo alla  descrizione del «sogno di Ninetto» - scena mai girata - nella sceneggiatura di Uccellacci e uccellini (cit., pp. 131-
133), un film il cui referente iconografico era già Giotto, almeno per l’episodio centrale, ispirato alla parabola degli uccelli di San Francesco.
90 PPP a D.G., Giudizio universale alla napoletana per Pasolini, in « L’Unità », Roma, 7 novembre 1970.
91 Andrej TARKOVSKIJ, Scolpire il tempo, Milano, Ubulibri, 1988, p. 23.
92 Vedi l’articolo di Pascal BONITZER, Le plan-tableau, in «Cahiers du cinéma», aprile 1985; ora in Décadrages…cit.
93 PPP, Una discussione del ’64, in AA.VV., Pasolini nel dibattito culturale contemporneo, Amministrazione provinciale di Pavia, Comune di Alessandria, 1977, pp. 119-120.
94 MARCHESINI, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini…, cit., pp. 25-30.
95 Vedi PPP in «Vie Nuove» (1962), ora in Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 230-231 ; nonché il
commento di MARCHESINI (Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini, cit., pp. 31-33).
96 Cfr. PPP a Jean DUFLOT, in Il sogno del centauro, cit., p. 116.
97 È vero che Bruegel, apprezzatissimo dal cardinale Federico Borromeo, soggiornò per ben tre anni in Italia, come testimoniano tra l’altro La caduta di Icaro (il cui paesaggio sarebbe lo stretto di Messina) e quella Veduta di Napoli, esposta alla Galleria Doria Pamphilj, di Roma.
98 Cfr. PPP a Luigi FACCINI e Maurizio PONZI in «Filmcritica» (1965), ora in Con Pier Paolo Pasolini, cit., p. 71.
99 Può essere divertente notare che Roberto Longhi, invitato alla prima del film, era stato colpito anzitutto dal passo veloce del Cristo pasoliniano, da lui accostato all’impeto col quale i primi impressionisti dell’Ottocento dovevano percorrere la campagna, ossessionati dal progetto della propria opera di rottura. (cfr. PPP a J. HOLIDAYcit.; STACK, p. 94).
100 PPP a Jean-Louis COMOLLI e Bernardo BERTOLUCCI, Le cinéma selon Pasolini, in «Cahiers du Cinéma» n. 169, agosto 1965, pp. 76-77.
101 PPP a André CORNANT e Dominique MAILLET, Entretien avec Pasolini: Le Décaméron, Les Contes de Canterbury, Les Mille et une nuits, in «lmage et Son» n. 267, Parigi, gennaio 197 , 3, p. 90.
102 PPP in «Jeune Cinéma» n. 68, Parigi, febbraio 1973, p. 34.
103 Vedi in particolare l’avvertenza del II Stasimo, nonché l’intero III episodio, dando luogo ad una descrizione coloristica del capolavoro di Velázquez preziosa quanto quella già rilasciata della Deposizione di Pontormo nel 1963 (Calderòn, cit., pp. 35-44); nonché l’analisi di Cesare MUSATTI, Calderòn, Velázquez, Pasolini, in «Sipario»
104 PPP, Che cosa sono le nuvole?, in «Cinema e Film» n. 7-8, Roma, primavera 1969, p. 81.
105 Sia pure nato a Amherst (Massachusetts), nel 1884, P.W. Lewis è solitamente considerato un artista inglese. Morì a Londra nel 1957.
106 Dove comincia la nuova iniziazione di un ragazzo borghese, in PPP, Teorema, Milano, Garzanti, 1968, pp. 47-48.
107 Cfr. PPP a Gideon BACHMANN, in «Sight and Sound», Pasolini and the Marquis de Sade, inverno 1975-76, p. 52.
108 Secondo l’espressione forgiata da André Gide in Paludi e ne I falsari.
109 Giovanni PREVITALI parla addirittura dell’ «alter ego» di Giotto (cfr. Giotto e la sua bottega, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1967, p. 94), mentre Martin GOSBRUCH suggerisce l’intervento personale del maestro, «almeno nel disegno» (cfr. AA.VV., Giotto e i giotteschi in Assisi, Roma, Canesi, 1969, p. 133).
110 Cfr. Il Decamerone dei guaglioni, in «Domenica del Corriere», 24 novembre 1970.
111 «Alle sette di mattina arriva sul set, gira una scena dopo l’altra, improvvisando e inventando di minuto in minuto, salta il pasto, si ferma solo quando il sole è troppo basso sull’orizzonte e non c’è più luce sufficiente per continuare le riprese. Non sopporta ritardi, rallentamenti e pause, per nessuna ragione. A volte bisogna interromperlo con la forza e ricordargli che se lui non ha bisogno di mangiare, gli attori, i tecnici e i macchinisti hanno fame» (cfr. Pasolini come Giotto, in «Epoca», 18 ottobre 1970, p. 73).
112 Vocazione e tecniche, in PPP, Teorema, cit., p. 142-148.
113 Vedi, fra l’altro, Non mi piace la sottocultura, in «L’Espresso», 13 giugno 1971; e Il mongoloide alla Biennale è il prodotto della sottocultura italiana, in «Tempo Illustrato», 25 giugno 1972.
114 Cfr. PPP in «Vie Nuove» (1962), ora in Le belle bandiere, cit., p. 230.
115 Cfr. PPP, Le pause di Mamma Roma, in Mamma Roma, cit., p. 145.
116 Queste due parole in omaggio al titolo del ricchissimo volume di Mancini e Perella, il cui vasto materiale fotografico riscontra ovviamente il nostro interesse per la dimensione figurativa dell’immagine filmica in PPP.
117 Cfr. PPP, Le pause di Mamma Roma, cit., p. 145.
118 Anche a proposito di Mamma Roma, PPP tornerà a parlare di «un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio», nell’articolo pubblicato su «Vie Nuove» (1962), ora in: Le belle bandiere, cit., p. 231.
119 PPP a Nino FERRERO, cit., p. 52.
120 Ėjzenštejn parlerebbe appunto di «cellule di montaggio» (cfr. Il montaggio, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1986, p. 10).
121 PPP, Le pause di Mamma Roma, cit., p. 148.
122 PPP, Accattone, Roma, FM Edizioni, 1961 p. 2 1.
123 PPP, Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Garzanti, 1964, p. 42.
124 «Dietro a una finestrella, inquadrato come una purissima immagine santa, c’è il Fattore.» (Dal copione di lavoro de I racconti di Canterbury, conservato presso il Fondo Pasolini, p. 9).
125 PPP a O. STACK, cit., p. 51.
126 PPP a J. DUFLOT, cit., p. 116.
127 Cfr. Franca FALDINI e Goffredo FOFI, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti (1960-1969), Milano, Feltrinelli, 1981, p. 237.
128 PPP in un’intervista inedita del giornalista belga Robert Malengreau, registrata al festival di Cannes 1974 (citato da F. GERARD, Pasolini ou le mythe de la barbarie, Editions de l’Université de Bruxelles, 1981, p. 60).
129 I precetti del Longhi risultano comunque mirabilmente assimilati, il che farà dire a Gian Piero Brunetta che «come ha voluto che facessero di lui Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini, Pasolini si è mangiato il maestro in salsa piccante, secondo la lezione di Giorgio Pasquali, ed ha cercato, come regista, ma anche come poeta, narratore e pittore, di dimostrare di averlo perfettamente assimilato e digerito». (G.P. BRUNETTA, Temi della visione di Pier Paolo Pasolini, in «Italian Quarterly», XXI, n. 82-83, autunno 1980, p. 152).
130 Cfr. PPP a Leonardo VERGANI, in «Corriere della Sera», 21 maggio 1974; vedi anche Sul doppiaggio in «Filmcritica» (1970), ora in Con Pier Paolo Pasolini, cit., p. 83-88.


Pier Paolo Pasolini e il teatro - Recensione

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Pasolini e il teatro
a cura di Stefano Casi, Angela Felice e Gerardo Guccini

Recensione
P.P.P. dietro le quinte, di
 Camilla Tagliabue
La prestigiosa testata del “Sole24ore”  ha pubblicato nell’edizione domenicale del 20 gennaio 2013 una recensione, a firma di Camilla Tagliabue, del volume Pasolini e il teatro, edito nel 2012 per i tipi dell’editore Marsilio. Il volume, per la cura di Stefano Casi, Angela Felice e Gerardo Guccini, raccoglie gli atti del convegno omonimo organizzato nel novembre 2010 dal Centro Studi Pasolini di Casarsa e dall’Università-Fondazione Cineteca di Bologna. Qui di seguito il testo della recensione.

P.P.P. dietro le quinte
di
 Camilla Tagliabue

È «all'insegna del paradosso» il rapporto tra Pasolini e il teatro, titolo di un'antologia curata da Stefano Casi, Angela Felice e Gerardo Guccini, nata da convegni a Casarsa e Bologna a fine 2010, che hanno coinvolto studiosi, registi e critici. 
Il volume si articola in sette ampi capitoli e tenta di tematizzare il corpus drammatico pasoliniano attraverso le tragedie e il Manifesto per un nuovo teatro, una summa della sua poetica del 1968: in ogni caso, si tratta di un teatro alternativo «sia alla cultura delle avanguardie ("teatro dell'urlo") che alle prassi istituzionalizzate del narrare attraverso personaggi interpretati ("teatro della chiacchiera")». 
È curioso ricordare che l'esordio letterario di Pasolini, a soli 16 anni, fu proprio un dramma, La sua gloria, che vinse i Ludi Juveniles organizzati dal fascistissimo Ministero dell'Educazione: già qui, ricorda Daniele Micheluz, «vengono disseminati abbondantemente quei temi che caratterizzeranno tutta l'opera pasoliniana, come la funzione intima e civile della poesia, la figura della madre protettiva, la morte, la condanna pubblica, il sacrificio, l'identificazione con Cristo, il rapporto con il Potere». Persino Teorema nacque come testo teatrale prima di diventare romanzo e film.

«Per Pasolini», puntualizza Stefano Casi, «il teatro è lo spazio della sperimentazione programmata, e dunque dell'utopia»: non a caso il debutto di Orgia sul palcoscenico torinese, diretto dallo stesso autore, fu un flop, accolto nella generale indifferenza e incomprensione, racconta Italo Moscati. 
Il poeta se ne assunse tutta la responsabilità: «Considero il teatro, così come lo faccio io, solo una particolare forma di letteratura», «un misto di "poesia letta a voce alta" e di "convenzione teatrale"». Anche sul palco, Pasolini fu corsaro, un «ossesso/ che non cerca rimedi», che parla «come nel monologo del personaggio di una tragedia», impastando mito e antropologia, rito e versi.

Sulla rappresentabilità, o meno, delle sue opere si spendono alcuni registi che vi si sono cimentati, da Luca Ronconi, tra i primi allestitori negli anni Settanta (due Calderón, Pilade, Affabulazione), ad Armando Punzo, che ha ricavato una rilettura di materiali con la sua Compagnia della Fortezza di detenuti del carcere (Elogio del disimpegno), a Federico Tiezzi, per cui «la disciplina di Pasolini tra disordine della visione e ordine del racconto è ferrea». 
La lingua è «meta-erotica», a detta dello stesso drammaturgo: «Il cuore mi si induriva come un membro». Da qui, il parallelismo con Testori, stimato rivale: entrambi, chiosa Stefania Rimini, credevano «nella perentoria dizione della parola come sanguinante strumento di una rinnovata comunione con il pubblico». 
Compito del teatro è meditare «sul lacerto di carne sopra le assi del palcoscenico». Ma «resta ancora da capire se il sangue che macchia le loro pagine provenga dalla stessa ferita».
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Idroscalo 93. Morte di Pier Paolo Pasolini, di Mario Gelardi

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LE NOTIZIE - TEATRO
Idroscalo 93. Morte di Pier Paolo Pasolini
di Mario Gelardi

Venerdì 1° febbraio 2013 alle ore 20.45
Auditorium Fausto Melotti, corso Bettini, 43 Rovereto

Idroscalo 93
Morte di Pier Paolo Pasolini
scritto da Mario Gelardi con la consulenza di Carla Benedetti
con Ivan Castiglione e Giuseppe Gaudino
regia di Ivan Castiglione
musica scritta ed eseguita dal vivo da Alessandro Castiglione
produzione Decimo Pianeta - http://www.trentoblog.it/


Dopo quasi quarant'anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, i dubbi su chi sia stato veramente ad ucciderlo rimangono immutati. Le dichiarazioni che si sono succedute negli ultimi mesi, da parte di Pelosi, di Citti e di altri testimoni (più o meno probabili), non fanno che aggiungere confusione a confusione. È come se qualcuno continuasse ad infierire sul corpo martoriato del poeta.
Nato nel 2003 per il progetto Petrolio, diretto da Mario Martone, Idroscalo 93è il frutto della collaborazione tra l’autore e Carla Benedetti, docente dell’Università di Pisa, i quali hanno avuto la possibilità di lavorare sui materiali di tutta l’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei, condotta dal giudice di Pavia, Vincenzo Calia. Nel 2002 il giudice Vincenzo Calia, che conduceva da anni l’inchiesta sulla morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, allegò agli atti della sua lunga istruttoria alcune pagine di Petrolio, il libro di Pasolini pubblicato postumo. Precisamente, Calia presenta gli appunti chiamati Lampi sull’Eni, o meglio, ciò che rimane di essi. Infatti, molte pagine riguardanti proprio la morte di Mattei sono sparite dal manoscritto originale.
Che rapporto c’è tra il delitto Mattei e quello di Pier Paolo Pasolini? Che cosa sapeva Pasolini sulla morte di Mattei? Che cosa rivelano gli appunti di Petrolio che il giudice Calia allega agli atti processuali dell’inchiesta sulla scomparsa del presidente dell’ENI? Si percorre un filo rosso, quello dei delitti-incidenti che hanno caratterizzato troppe volte la storia del nostro paese; un filo che unisce nomi illustri, i soliti, sempre gli stessi, nomi importanti di uomini scomparsi, ma anche nomi di uomini coraggiosi.
In scena un narratore, vero esploratore nel mondo di Pasolini: il suo pensiero e la sua ricerca si incarnano in un’altra figura, quella di Giuseppe Pelosi, un ragazzo che appare, in un primo momento, timido ed impaurito, per diventare, in seguito, spavaldo e sicuro di sé. Il nostro narratore mette ordine nella “pratica Pasolini” che, una volta chiusa, viene riaperta dopo trent’anni da un giudice di Pavia, che riporta alcune sconcertanti ipotesi. Una storia possibile, circostanziata, che lega due personalità che hanno contraddistinto il secondo dopoguerra italiano: Enrico Mattei e Pier Paolo Pasolini. La storia di un dopoguerra che sembra non finire mai.

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MATUTA TEATRO "Garbatella. Viaggio nella Roma di Pier Paolo Pasolini"

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LE NOTIZIE - TEATRO
MATUTATEATRO
"Garbatella. Viaggio nella Roma di Pier Paolo Pasolini"
di e con Julia Borretti e Titta Ceccano
musiche in scena Roberto Caetani
regia Julia Borretti

a Padova, venerdì 1° febbraio 2013 alle ore 21.30 
secondo appuntamento con la rassegna CARICHI di SCENA,
uno spettacolo ricco di suggestioni che coniuga il linguaggio pasoliniano
con la tradizione musicale romana



La compagnia MATUTATEATRO, già ospite della rassegna lo scorso anno con il sorprendente Macellum, propone un teatro che si nutre di differenze, di materiali che hanno forme, colori e sapori diversi, dando vita ad un corto circuito che rende gli spettacoli mai uguali a se stessi e sempre vitali.

Matutateatro percorre trasversalmente la sottile linea che delimita i confini tra le arti, credendo che solo con una molteplicità di linguaggi si possa ridare la complessità del mondo.
La storia d’amore tra Irene e Tommaso nella Roma degli anni Cinquanta, la lingua sperimentale di Pasolini, le canzoni romane di una volta. Un concerto per voci recitanti e chitarra, un lavoro che guarda al nuovo teatro di narrazione.
Garbatella ci è nato tra le mani, quasi per caso. È nato dall'incontro con una “Una Vita Violenta”, il secondo romanzo di Pier Paolo Pasolini. Avvicinarsi a Pasolini, uomo, artista e intellettuale complesso, è sempre molto imbarazzante, ma è lui stesso che inaspettatamente ci ha messo a nostro agio. La storia d’amore tra Tommaso e Irene nella Roma degi anni '50 ci ha fatto scoprire un Pasolini semplice e non cerebrale, profondamente umano.
Quella che il poeta ci racconta è infatti una storia d’amore semplice e umana dove il comico e il tragico si inseguono per svelare la poesia della vita. E quella che noi oggi raccontiamo è una storia d’amore che, nel solo spazio di un racconto, vorrebbe unire le generazioni: quelle che quegli anni li hanno vissuti e quelle più giovani che possono farne memoria.
I due giovani s'incontrano fortuitamente, si conoscono, si danno appuntamento e a fare da sfondo è la Roma della ricostruzione, la Roma in bianco e nero, popolata da bambini vocianti nei cortili e da ragazzi coi pantaloni all’americana che riempiono le sale fumose del cinematografo. Ed è proprio il cinema il testimone del loro amore, al cinema si consumano i momenti più significativi della loro storia, là dove Pasolini crea un corto circuito tra il comico e il tragico.
La potenza della parola pasoliniana guida l’intero racconto, e nulla vuole distogliere l’attenzione da essa: una scenografia essenziale, la musicalità della chitarra, i movimenti scenici necessari, sono tutti al servizio della narrazione.

Circolo culturale Carichi Sospesi
vicolo Portello, 12 - 35129 Padova
Tel.+ Fax 049.9872683
www.carichisospesi.com
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Orgia di Pier Paolo Pasolini -- Teatro della Caduta, Torino

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LE NOTIZIE - TEATRO
Orgia di Pier Paolo Pasolini
Teatro della Caduta in via Buniva 24 a Torino 
Caffè della Caduta in via Bava 39, Torino
sabato 2 febbraio, ore 21.00
ANTEPRIMA REGIONALE

regia e con Isabella Caserta e Francesco Laruffa
produzione Teatro Scientifico - Estate Teatrale Veronese 2012
“Orgia” è il primo dramma teatrale di Pasolini da Pasolini stesso allestito nel 1968.



Due coniugi piccolo borghesi, nel tepore di una desolata pasqua padana, nell’interno della loro camera matrimoniale, si lanciano addosso, in una sorta di sacrificio rituale, parole, ricordi, passioni laceranti che li porteranno inesorabilmente alla sconfitta.
"Orgia" è probabilmente la tragedia più emozionante di Pasoloni, che lo definì “il dramma per la disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini”. Il testo, forte, intenso e altamente poetico, presenta un'itinerario nelle “pulsioni oscure e violente” che agiscono dal profondo dentro di noi, fra noi e intorno a noi: nell’individuo, nella coppia, nella società. 
Quello che lo spettacolo propone è un viaggio nei meandri della mente e tra le pieghe nascoste dell’animo umano, nella psiche lacerata dell’individuo, oltre le apparenze di una normale coppia borghese, quello che avviene nei chiusi confini della stanza (della mente?), dentro l’oscuro abisso di questa coppia, oltre quello che appare dall’esterno. I personaggi sono complici di un gioco perverso vittima /carnefice.
Lo spettatore assiste come un voyeur.

La visione dello spettacolo è consigliata a un pubblico di soli adulti.

Lo spettacolo ha debuttato il 24 luglio 2012 in prima nazionale per l'Estate Teatrale Veronese (repliche 25-26-27 luglio). 

Teatro Scientifico Il Teatro/Laboratorio nasce nel 1967 a Verona per volontà di Ezio Maria Caserta e di Jana Balkan, come teatro di ricerca. La sua prima sede (e fino al 1975) è uno spazio periferico, dove il gruppo affianca all’attività di produzione quella di ospitalità. Lì arrivano le prime compagnie d’avanguardia teatrale italiane e straniere. Dopo il trasferimento diventa punto di riferimento della cultura “nuova” per la città di Verona e non solo. Nel frattempo la compagnia veronese ha cominciato ad affermarsi a livello nazionale vincendo molti premi. Dopo la tragica scomparsa di Ezio Maria Caserta (27/7/1997) la cooperativa è presieduta da Jana Balkan (Giovanna Gianesin) e si avvale della collaborazione di registi esterni, tra cui Tonino Pulci, Walter Manfrè. Nel febbraio 2002 la compagnia veronese è stata scelta a rappresentare l’Italia alla grande festa per l’euro a Francoforte sul Meno.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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'na specie de cadavere lunghissimo". Il Pasolini di Fabrizio Gifuni -- "L'Espresso", 2 febbraio 2013 -- Kult-Ex di Emanuela Caserta

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LA SAGGISTICA - TEATRO
'na specie de cadavere lunghissimo".
Il Pasolini di Fabrizio Gifuni e Giuseppe Bertolucci
"L'Espresso", 2 febbraio 2013 -- Kult-Ex di Emanuela Caserta
Giuseppe Bertolucci


Assistendo allo spettacolo che Fabrizio Gifuni porta in scena fino a domenica 3 febbraio al Teatro Vascello di Roma, ci si chiede: dov’è che abbiamo sbagliato, perché siamo ancora quelli di trent’anni fa? E la riflessione potrebbe apparire anche fin troppo indulgente, forse siamo diventati qualcosa di peggio di quello che eravamo trent’anni fa

'na specie de cadavere lunghissimo, tratto da alcuni scritti di Pier Paolo Pasolini, e dal poemetto Il pecora di Giorgio Somalvico poeta milanese, fa parte del progetto Gadda e Pasolini:antibiografia di una nazione che Fabrizio Gifuni porta in scena dal 2004. Lo spettacolo è un viaggio intenso come solo le parole di Pasolini sanno essere, attraverso le trasformazioni di questa società. La regia è del compianto Giuseppe Bertolucci, con cui la coppia di attori Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco ha condiviso un pezzo della propria vita professionale. 
'na specie de cadavere lunghissimo, è la metafora da cui riemerge la nostalgia visionaria del poeta, la sua provocatorietà, le fragilità dell’uomo, e la voce sopra al coro anche quando amici e colleghi scrittori si trasformavano in detrattori. Quella voce Gifuni la fa mirabilmente sua, il viaggio nell’Italia pasoliniana, prende corpo con un monologo lunghissimo, che ipnotizza il pubblico e incanta per la capacità mnemonica dell’attore, che corpo e anima denudandosi e cambiando pelle, attraversa lo sguardo degli spettatori e porta in scena un Pasolini vivo, presente, che non sembra affatto venire dal passato. Un’ora e mezza di viaggio, che supera i confini temporali e linguistici, il testo portato in scena passa dall’italiano al dialetto con musicalità, è un corpo a corpo tra le invettive del Pasolini autore e i suoi ragazzi di vita. Il “riccetto” che drammaticamente emerge nella seconda parte dello spettacolo, è il figlio che Pasolini non riconosce più, è la sorte che lo aspetta. Sì forse è vero, Pasolini non disse nulla di nuovo rispetto a Marx o a Marcuse, non era un profeta, non presagiva nulla che non fosse intelligibile, ma se tutti avessero il suo sguardo sulla società “tutti potrebbero essere veggenti e tutti sarebbero creduti”.

Dopo 'na specie de cadavere lunghissimo racconteretePasolini in Un’amicizia in versi che reciterai insieme a Sonia Bergamasco, un altro omaggio indiretto al regista Giuseppe Bertolucci, come è nata l’idea?
Insieme a Sonia Bergamasco abbiamo deciso di dedicare a Giuseppe Bertolucci questa nostra permanenza di due settimane al Vascello. Intanto perché ha curato la regia di due dei quattro spettacoli in programma. Il recital su Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini lo riguarda evidentemente molto da vicino, e poi perché con Giuseppe noi abbiamo lavorato tanto, per noi è stato un punto di riferimento artistico e anche un grandissimo amico, la sua scomparsa è stata una perdita molto dolorosa. 
Al Vascello portiamo in scena quattro appuntamenti molto diversi, ma il teatro Vascello era comunque la sede naturale per il progetto su Pasolini, perché in via Giacinto Carini proprio a pochi metri da dove si trova il teatro, hanno abitato nello stesso palazzo Pasolini e Bertolucci. Lunedì in questa serata unica, in questo reading solo voce, in qualche modo rimetteremo insieme l’amicizia tra questi due poeti.
Karénina-prove aperte d’infelicità in scena il 5 e 6 febbraio interpretato da Sonia Bergamasco, nasce invece dalla collaborazione con lo scrittore:Emanuele Trevi. È un testo originale, che parla del processo creativo che porta Tolstoj a inventare il personaggio di Anna. Hanno messo insieme una serie di diari molto belli, che sono i diari di Tolstoj e della moglie, il rapporto con Puškin, che aveva cominciato a lavorare sullo stesso personaggio diversi anni prima di Tolstoj, ed è stata l’ultima regia di Giuseppe Bertolucci.
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Il teatro è una scelta di vita per una coppia di attori come voi?
Per quello che riguarda noi il teatro è un po’ la nostra casa. Siamo nati in teatro, il nostro da tanti anni è un lavoro più a 360 gradi, nel senso che il lavoro di interpretazione è l’ultimo segmento di un lavoro precedente che parte dall’ideazione dello spettacolo e dal lavoro di drammaturgia molto centrale nel nostro lavoro. Quindi diciamo siamo quasi sempre autori. Il cinema ogni volta che si presenta l’occasione è un’esperienza molto bella da vivere, ma è il gioco puro dell’interpretazione diciamo, dell’incontro con il personaggio e con l’autore che dirige il film.

Come nasce 'na specie de cadavere lunghissimo?
L’idea di partenza non è stata immediatamente Pasolini, ma la voglia di organizzare un grande racconto sulla trasformazione del nostro Paese, per capire come fosse stato possibile arrivare a tutto questo. Per fare ciò, partendo da quest’idea, ho pensato che le parole di Pasolini da una parte e di Gadda dall’altra, potevano essere straordinariamente interessanti per ricostruire una sorta di mappa cromosomica del Paese. Per capire cosa eravamo, cosa siamo diventati, e cosa siamo sempre stati che è un po’ la visione di Gadda.

E come mai siamo rimasti fermi alla visione di Pasolini?
Questo è dovuto a due elementi: da un lato le parole di Pasolini erano in oggettivo anticipo rispetto al sentire comune, quando Pasolini parlava alla fine degli anni '60 di questo Paese, quasi nessuno riusciva a capire le sue parole, tanto è vero che i suoi amici da Moravia a Calvino eccetera lo criticavano non comprendendo questa nostalgia dell’età dell’oro. Da un lato quelle parole erano in netto anticipo, perché Pasolini aveva una lucidità straordinaria rispetto al sentire comune, e dall’altra questo effetto speciale che producono le sue parole oggi, è dovuto al fatto che il Paese è molto poco cambiato rispetto ai suoi tempi. Se mettiamo insieme le due cose, viene fuori la sua capacità di leggere in anticipo i segni, Pasolini diceva sempre: “io non faccio profezie, io mi limito a guardare con estrema attenzione i segni: l’urbanistica, il paesaggio, gli oggetti, gli uomini, i corpi”. Il discorso sui corpi è uno dei motivi per cui abbiamo dedicato questa permanenza al teatro Vascello con Corpo di scena, il corpo è una delle riflessioni principali di Pasolini, perché guarda a quella che lui stesso definiva la mutazione antropologica del Paese. La osserva soprattutto attraverso i corpi dei ragazzi che lui aveva tanto amato, e che si trasformano sotto i suoi occhi in corpi che non gli piacciono più.
Questa nostalgia di Pasolini, sembra quasi un’accusa alla classe intellettuale contemporanea.
Pasolini è uno dei due cadaveri insepolti di questo Paese, su cui inciampiamo continuamente, uno è quello di Pasolini e uno è quello di Moro, perché sono due capitoli della nostra storia con cui non abbiamo saputo fare i conti. Nel caso di Pasolini, sicuramente c’è anche il fatto che certamente lui non appartiene alla schiera degli autori dimenticati, e poiché Pasolini è stato un intellettuale eretico, ha messo in campo una serie di riflessioni urticanti nei confronti della società. È molto facile prendere dei pezzetti di quelle cose e utilizzarle a proprio piacimento.

Oppure vuol dire che una certa intellighenzia non è mai cambiata, e parafrasando Pasolini non si sporca abbastanza le mani con la società?
Ma sai, Pasolini è stato un caso abbastanza unico da questo punto di vista, è stato un intellettuale abbastanza anonimo rispetto al contesto italiano. L’unico motivo per cui non accetto per Pasolini la categoria di anti italiano, è perché Pasolini amava furiosamente questo Paese. È stato e continua a rimanere un caso abbastanza unico, la sua vita è qualcosa di unico. Quello che tu dici è vero, molto spesso è come se la sfera intellettuale rimanesse separata dalla società, ma anche da un’esperienza diretta, da uno sporcarsi le mani e questo Pasolini lo faceva, mentre oggi si fa molto poco. È pure vero che non è facile farsi ascoltare in un Paese che ha uno sguardo verso la cultura e verso tutto il sistema dei saperi e della conoscenza completamente devastato, per cui per quale motivo dovrebbero essere ascoltati? Io quello che sono lo porto in scena, e questo mi sembra un modo possibile di entrare nel vivo della questione, dal mio punto di vista il teatro siccome instaura un corpo a corpo con lo spettatore, mi sembra il modo più giusto per farlo.

La seconda parte dello spettacolo è un testo metrico in endecasillabi che ha un tessuto molto musicale, e in effetti l’autore il poeta Giorgio Somalvico l’aveva pensato come melologo.
Sapendo che quel testo era stato scritto anche per essere musicato, io ho cercato di lavorare anche in quella direzione, ho cercato di lavorare su più linee, sia per quanto riguarda il lavoro vocale che quello sul corpo. Credo che sia un poemetto davvero straordinario quello che ha scritto Giorgio Somalvico. Ha fatto un’operazione in fondo un po’ simile a quella che aveva fatto nei suoi romanzi Pasolini, come per esempio in Ragazzi di vita e Una vita violenta, usando un romanesco che da friulano non conosceva ma che ha reinventato. Giorgio si è basato abbastanza fedelmente sui glossarietti che Pasolini metteva in coda ai suoi romanzi. Ho pensato di utilizzare questo testo perché lavorando sui testi di Pasolini, vedevo che il tema del doppio, della luce e del buio, del padre e del figlio, della vittima e del carnefice, della natura e dell’opera d’arte, era un tema dominante che ricorre in tutta la sua opera. Il tema dello sdoppiamento, ricorre anche nel suo ultimo romanzo Petrolio, dove lui sdoppia, spacca in due il protagonista. Quindi ho pensato che anche questo nuovo lavoro che stavo realizzando si potesse riorganizzare anche in termini di opposizione. In fondo è un po’ come se le parole del figlio nascessero dall’interno della riflessione delle parole del padre, è come se tutta questa visione logica pasoliniana desse vita a questa figura del riccetto.

In tempi di elezioni cosa speri per questo Paese?
Pasolini diceva la parola speranza l’ho rimossa dal mio vocabolario, per me non è così. Ma la speranza intanto sarebbe quella di lasciarsi alle spalle uno dei periodi più brutti della storia italiana dall’ultimo ventennio. Ovviamente però non si può ragionare solo in termini di opposizione, perché in questi termini siamo sprofondati nelle paludi.

Esiste o no un complotto sulla morte di Pasolini?
Questo non è un lavoro giudiziario ma poetico, e lavorando sul tema poetico e dell’immaginario mi sembrava interessante mettere insieme le sue parole, e mi sembra sia difficile non tenere conto delle tante cose che Pasolini aveva in qualche modo disseminato all’interno delle sue opere da un certo momento in poi. Ma da qui a parlare di complotto ce ne vuole, io non posso non tenere conto di quello che Pasolini disse a Furio Colombo sei ore prima di morire, quando gli rispose: “Vi piacerebbe che mentre noi stiamo qui a parlare, qualcuno stesse facendo un piano per farci fuori, perché domani parlereste solo del complotto. Perché il complotto ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità". Un’accusa che muoveva anche alla sinistra, quando diceva: “Non vi rendete conto che in qualche modo la sinistra italiana ha un vocabolario vecchio, che voi guardate due treni che si scontrano, ma avete in mano l’orario ferroviario di vent’anni fa”.
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Il corpo tragico della storia. Pasolini e Debord , di Carla Benedetti

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Il corpo tragico della storia. 
Pasolini e Debord 
di Carla Benedetti
28 gennaio 2013, "Il primo amore"

Come nelle antiche tragedie, le immagini di repertorio che Pasolini ha montato nel film La rabbia (1962), tratte dai cinegiornali del tempo, portano in scena i conflitti, le vittorie gioiose e i lutti della storia recente dell’umanità, colte in una prospettiva ampia, planetaria e universale. La voce fuori campo che le commenta, ora in prosa ora in versi, ha il ruolo di un coro tragico. Pasolini ha messo in scena alcune tragedie antiche (Medea, Appunti per un’Orestiade africana). Ma in questo film fa qualcosa di più: secondo l’ipotesi di lettura che qui propongo, La rabbia ricrea la forma della tragedia con i mezzi specifici del cinema, in particolar modo il montaggio.

1. Il montaggio

Per mettere in risalto la particolarità e la forza di questa moderna riattualizzazione della tragedia, può essere utile confrontare La rabbia con un analogo film di montaggio, La società dello spettacolo, che Guy Debord realizzò nel 1972. L’analogia tra i due film consiste innanzitutto nel fatto che entrambi fanno del cinema usando le immagini del cinema. Nessuna sequenza è stata girata dal regista. Pasolini usa principalmente i cinegiornali di Mondo libero e altri materiali di repertorio, Debord i film di registi come John Ford e Nicholas Ray e di “cineasti burocratici dei paesi detti socialisti”. [1]
A quell’epoca il film di montaggio aveva già alle spalle una consistente tradizione internazionale. E anche in Italia era attestato: ad esempio Cavalcata di mezzo secolo di Luciano Emmer è del 1950; All’armi siam fascisti, di Cecilia Mangini e Lino Micciché, commentato da Franco Fortini, è del 1961. Ma si trattava per lo più di panoramiche costruite con intento documentario o di analisi storica. Pasolini fa invece qualcosa di diverso, più simile al film che dieci anni dopo avrebbe realizzato Debord che non a quei documentari storici. Egli definisce La rabbia “saggio ideologico e polemico sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni". [2]. Altre volte lo chiama “saggio ideologico e poetico, o anche “poema cinematografico”, ma è comunque consapevole di stare sperimentando “un nuovo genere”, come si legge in questa dichiarazione:

“Ferranti [il produttore] ha affidato a me il materiale di repertorio e i residuati di un cinegiornale – Mondo libero – che dirigeva da anni. Una visione tremenda, una serie di cose squallide, una sfilata deprimente del qualunquismo internazionale, il trionfo della reazione più banale. In mezzo a tutta questa banalità e squallore, ogni tanto saltavano fuori immagini bellissime: il sorriso di uno sconosciuto, due occhi con una espressione di gioia o di dolore, e delle interessanti sequenze piene di significato storico. Un bianco e nero in massima parte molto affascinante visivamente. Attratto da queste immagini, ho pensato di farne un film, a patto di poterlo commentare con dei versi. La mia ambizione è stata quella di inventare un nuovo genere cinematografico. Fare un saggio ideologico e poetico con delle sequenze nuove” [3]

Pasolini non usa dunque quei materiali audiovisivi in quanto documenti o “immagini-verità”. Al contrario è consapevole della loro parziale falsità. Sono le immagini attraverso le quali la società del tempo si racconta e si autorappresenta. Per poterli usare occorrerà tagliarli, decontestualizzarli e piegarli a un nuovo significato. Un analogo lavoro di taglio e decontestualizzazione, ma ancora più accentuato, farà Debord, sottraendo le immagini già esistenti al flusso narrativo originario per caricarle di un nuovo senso, critico o sovversivo. Egli chiama il suo film "détournement di film preesistenti” (anche questa definizione compare nei titoli di testa del film). Una tecnica che diventerà prassi tipica del situazionismo, anche al di fuori del cinema: elementi culturali già esistenti vengono decontestualizzati e usati per nuovi obiettivi. Il montaggio assume così un carattere di resistenza allo spettacolo capitalista, avendo in sé la forza di straniare ciò che esiste, creando una consapevolezza critica nello spettatore. E’ del resto una tecnica compositiva che oggi ci è diventata familiare, usata non solo nel cinema ma anche in televisione e in rete. La trasmissione Blob, ad esempio, deriva direttamente dal détournement situazionista.


2. La voce fuori campo e altre analogie

L’altro elemento comune ai due film è la densità del commento, che non ha semplicemente una funzione informativa o didascalica. Nella Società dello spettacolo una voce fuori campo legge brani tratti dall’omonimo trattato pubblicato da Debord nel 1967. Nella Rabbia due voci (una di Giorgio Bassani, l’altra di Renato Guttuso) leggono rispettivamente i testi in prosa e in versi, scritti da Pasolini appositamente per il film. Ma anche se dalla forma compositiva scendiamo sul piano dei contenuti i due film rivelano altre analogie. Entrambi hanno per oggetto il mondo contemporaneo sospeso su di un futuro che inquieta. Entrambi tematizzano criticamente il potere, o meglio una nuova forma di potere prodotta dal tardo capitalismo, che Debord chiama “società dello spettacolo” e Pasolini “nuova Preistoria” (in altri testi parlerà di “Nuovo potere” e di “distruzione antropologica”). In alcuni casi persino le immagini usate sono simili, in quanto ritraggono gli stessi soggetti: Marilyn Monroe, Fidel Castro, gli astronauti, l’Unione Sovietica, De Gaulle, le folle, i cortei, le armi, le bombe, gli aerei militari, la televisione. 
Eppure, nonostante le analogie, i due film sono diversissimi, quasi opposti nell’esito. La rabbiaè un film di forte impatto emotivo che, come le antiche tragedie, mobilita la capacità degli spettatori di provare pietà per ciò che vedono, mentre La società dello spettacolo coinvolge più che altro la dimensione intellettuale. Nel film di Debord la voce fuori campo descrive la mutazione che sta per accadere nel mondo in una forma dottrinaria e sistematica. In quello di Pasolini invece, anche nei momenti concettualmente più impegnativi, la voce resta poetica, tragica, a volte enfatica. Del diverso esito non è però responsabile l’accompagnamento musicale, che non è poi così diverso nei due film (anche se nella Rabbia certamente l’Adagio di Albinoni, nelle sequenze sulla guerra d’Ungheria, contribuisce a innalzare le immagini dei cinegiornali, e i rumori di artiglieria e di aerei militari che accompagnano il comizio di De Gaulle in Algeria hanno un forte effetto straniante) e nemmeno solamente il registro del commento verbale, ma anche il montaggio e il rapporto che il commento intrattiene con le immagini.


3. In un saggio di Giorgio Agamben...

In un saggio intitolato Il cinema di Guy Debord, Giorgio Agamben si chiede cosa abbia spinto questo pensatore e esponente dell’Internazionale situazionista proprio verso il cinema invece che verso la poesia o la pittura, come accade per altri situazionisti. “Credo - risponde Agamben - che ciò abbia a che fare con lo stretto legame che unisce cinema e storia” [4]. E precisa che si tratta non di una storia cronologica ma di una “storia messianica”, cioè una storia della Salvezza in cui qualcosa deve compiersi, ma in un altro tempo. Inoltre ad attrarlo fu ovviamente il montaggio, tecnica connaturata al cinema, ma - osserva Agamben - portata da Debord per la prima volta allo scoperto, e mostrata nelle sue stesse condizioni di possibilità. 
Si fa del cinema a partire dalle immagini del cinema, ripetendole e interrompendole, sottraendole al potere narrativo per esporle come tali. Le immagini entrerebbero così - secondo Agamben - in una zona di indecidibilità, dove non vale più la distinzione tra vero e falso, né tra documentario e finzione. La società dello spettacoloè del resto per Debord una condizione in cui “il vero è un momento del falso". Le immagini del film vengono piegate a significare e a rendere criticamente visibile questa condizione.
La rabbia però ci mostra non solo che Debord non è stato il primo, ma soprattutto che da quella stessa tecnica compositiva, da quelli che Agamben chiama “i trascendentali del montaggio”, può scaturire un esito assai diverso da quello tipicamente situazionista, che di solito viene invece considerato come il quintessenziale di quella tecnica. 
Anche per Pasolini i cinegiornali sono la “voce della menzogna”. Eppure in mezzo a quel flusso insincero si incontrano immagini che sono portatrici di una verità universale, la quale riesce a emergere anche dalle sequenze più corrive. Volti di bambini, di donne, di uomini, volti di chi “nulla sa e in sé ha la coscienza dell’universo intero”, portatori di “pianti antichi”, rigati da “lacrime ereditarie”. La realtà della vita è infatti sempre sovrabbondante rispetto alla visione e agli schemi ideologici di chi la riprende e la racconta. Ciò che emerge dal montaggio di Pasolini non è l’indistinzione di vero e falso, ma una verità che riesce a bucare il falso. E in questo si vede l’istanza tragica al lavoro.


4. Marilyn

La sequenza dedicata a Marilyn è in questo senso particolarmente esemplificativa. Nella Rabbia essa è accompagnata dalla nota poesia:

Del mondo antico e del mondo futuro 
era rimasta solo la bellezza, e tu, 
povera sorellina minore, 
quella che corre dietro ai fratelli più grandi, 
e ride e piange con loro, per imitarli, 
e si mette addosso le loro sciarpette, 
tocca non vista i loro libri, i loro coltellini,
tu sorellina più piccola, 
quella bellezza l’avevi addosso umilmente, 
e la tua anima di figlia di piccola gente, 
non ha mai saputo di averla, 
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza. 
Sparì, come un pulviscolo d’oro.

Il mondo te l’ha insegnata. 
Così la tua bellezza divenne sua. […]  [5]

Siamo nel 1963, un anno dopo la morte di Marilyn. In quello stesso anno Andy Warhol ne riprodusse il volto in una serie di serigrafie. Nella Marilyn di Warhol spariscono sia il corpo che l’anima, e il volto diventa mera icona, proiezione di uno stereotipo, di un oggetto di consumo di massa. Così anche nel film di Debord. Inserita nella sequenza delle “vedettes”, assieme a i Beatles e ad altre figure della cultura di massa, Marilyn resta mera immagine. L’immedesimazione ci è impedita. 
Invece Pasolini ci mostra la sofferenza segreta di quella creatura ingaggiata dall’industria dello spettacolo, senza dimenticarne la morte (“Sparì, come un pulviscolo d’oro”), e cogliendola anche attraverso le foto di lei bambina, inconsapevole della bellezza che porta addosso come un carico, come “una fatalità che rallegra e uccide”. E così ci permette di rivivere quella storia particolare come una storia universale, in una parabola dell’innocenza, dell’inconsapevolezza del proprio ruolo nel mondo (tipica dell’eroe tragico), e del mondo che gliela provoca. Quasi ne fa una martire, dentro a uno scenario collettivo di paura, sotto i cieli neri rischiarati dalla nube atomica. In un breve fotogramma, la sua immagine viene persino accostata al Cristo frustato in una processione, nel folklore cristiano paesano.

Dello stupido mondo antico 
e del feroce mondo futuro 
era rimasta una bellezza che non si vergognava 
di alludere ai piccoli seni di sorellina, 
al piccolo ventre così facilmente nudo. 
E per questo era bellezza, la stessa 
che hanno le dolci mendicanti di colore, 
le zingare, le figlie dei commercianti 
vincitrici ai concorsi a Miami o a Roma. 
Sparì, come una colombella d’oro. 
[…].
Ora sei tu, la prima, tu sorella più piccola, 
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso, 
sei tu la prima oltre le porte del mondo 
abbandonato al suo destino di morte.

(Prima parte. Continua)

[1] L’intero elenco, che compare nei titoli di testa del film, è: Rio Grande di John Ford, Johnny Guitar di Nicholas Ray, Shanghai Gesture di Josef von Sternberg, La charge fantastique di Raoul Walsh, Arkadin di Orson Welles, Pour qui sonne le glas di Sam Wood e diversi cineasti burocratici dei paesi detti socialisti”.
[2] Dichiarazione a Carlo di Carlo, in A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, 1979, p. 147)
[3] Uscita su “Paese sera” del 14 aprile 1963, ora in P. P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, 2001, pp. 3066-7.
[4] G. Agamben, «Il cinema di Guy Debord», in E. Ghezzi e R. Turigliatto (a cura di), Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro, 2001, pp. 103-107. Il saggio è uscito in francese in G. Agamben, Image et mémoire, Hoebeke, 1998
[5] Sceneggiatura di La rabbia, in Pasolini. Per il cinema, cit., pp. 397-8.
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Teatri di Vita, Bologna: Pas de Deux -- Ideazione, regia e coreografia: Raimund Hoghe

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LA SAGGISTICA - TEATRO
Pas de Deux
Ideazione, regia e coreografia: Raimund Hoghe
Danzatori: Raimund Hoghe, Takashi Ueno
Collaborazione artistica: Luca Giacomo Schulte

E’ stato per quasi vent’anni anni il drammaturgo e più stretto collaboratore di Pina Bausch. Poi, la scoperta di Pier Paolo Pasolini l’ha spinto a “gettare il suo corpo” sulla scena: un corpo piagato da una grave malformazione. Oggi è una delle punte di eccellenza del teatrodanza internazionale. E’ Raimund Hoghe, che è arrivato per la prima volta a Bologna con il suo ultimo spettacolo Pas de Deux, che lo vede in scena con il danzatore giapponese Takashi Ueno.

Pas de Deux di Raimund Hoghe - in Prima nazionale ai Teatri di Vita gli scorsi 31 gennaio e 1° febbraio 2013 - è un gioco  delicato di differenze e affinità; si dischiude, sottile ed eterno, in un inquietante dialogo di gesti e movimenti tra Raimund Hoghe e il suo alter ego, Takashi Ueno. Pas de Deuxè il risultato dell’ incontro tra Raimund Hoghe e il danzatore giapponese Takashi Ueno. Rendendo omaggio al tradizionale ‘passo a due’ derivato dal balletto classico, Hoghe ne offre un’interpretazione minimalista ed esplora la natura della dualità in un gioco di gesti speculari e di movimenti profondamente radicati sia nella formazione professionale di entrambi i danzatori, sia nella propria storia personale e culturale.
Ambientato sulle musiche di Bach e Purcell, il duo - tutto al maschile - esplora un ampio spettro di somiglianze, differenze e “deviazioni”, che dischiudono lo spazio immaginario tra i due individui ‘compagni di viaggio’. Raimund Hoghe concepisce questo lavoro come un cammino comune che conduce le personalità di ciascun perfomer/danzatore al loro punto di partenza, esplorando le possibilità di attraversamento l’uno nella dimensione dell’altro.
Pas de Deux ha debuttato nel novembre 2011 al Théâtre de la Cité Internationale di Parigi, con il sostegno dei Hermès Fondation d’entreprise, come parte del 40° Festival d’Automne di Parigi.

Raimund Hoghe è il più sorprendente danzatore tedesco, facendo della propria diversità fisica uno straordinario elemento di espressività scenica. Descritto dal New York Times come “il coreografo tedesco amante del romanticismo e della bellezza”, Hoghe è stato il drammaturgo di Pina Bausch al Tanztheater di Wuppertal dall’inizio degli anni ottanta alla fine degli anni novanta. La lettura di Pier Paolo Pasolini, e in particolare del verso “gettare il corpo nella lotta” lo ha portato a varcare la linea di separazione del palcoscenico e a diventare egli stesso performer.


“Prima di lavorare con Pina Bausch ero un giornalista. Ho sempre scritto delle storie, ritratto le persone e la loro vita. Avevo voglia di raccontare anche di me, del momento storico in cui avevo vissuto, del mio corpo diverso. Ricordo le parole di Pier Paolo Pasolini, che incoraggiava a lasciare andare i propri corpi in battaglia, e fui così spinto a salire sul palcoscenico”.

Spaziando dalla ritualità del teatro giapponese (particolarmente significativa la scopertta del butoh e l’incontro con Kazuo Ohno) alla performance americana, dall’espressionismo tedesco alle domande sociopolitiche, i testi di Hoghe esprimono le contraddizioni di un’epoca e le aspirazioni dell’uomo. Ha presentato i suoi lavori nei maggiori festival internazionali in Europa, America e Asia; ha vinto numerosi premi (tra cui “Miglior danzatore” nel 2008 dalla prestigiosa rivista europea “Ballet-Tanz”).

Teatri di Vita
via Emilia Ponente 485
40132 Bologna – Italia
servizio informazioni: +39.051.566330
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Pasolini eterno contemporaneo. Intervista a Giuseppe Bertolucci, di Cristiana Paternò

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - CINEMA
Pasolini eterno contemporaneo
Intervista a Giuseppe Bertolucci
di Cristiana Paternò settembre 2006, Cinecittà News


"Il sadomasochismo è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano". La voce di Pasolini strazia anche più delle immagini del Salò, l'insostenibile capolavoro del regista, intellettuale, poeta, per qualcuno profeta. Le parole sono quelle di una lunga intervista raccolta da Gideon Bachmann sul set di quello che sarebbe divenuto l'ultimo film; le immagini, come in un disturbante "fotoromanzo", sono una (minima) parte degli scatti di Deborah Beer, puntuale documentazione del modo di lavorare di Pier Paolo, testamento visivo e angosciosa via crucis.
Diciamo che le parole sono l'etica e le immagini l'estetica: il lavoro di Giuseppe Bertolucci che ce le ripropone (Pasolini prossimo nostro), prodotto da Angelo Draicchio con Ripley's Film e Cinemazero, alla Mostra come evento speciale di Orizzonti, hanno fatto il tutto esaurito qui a Venezia lasciando fuori dalla sala molti giovani. Quei giovani di cui Pasolini parla con una lucida analisi di quella che sarebbe diventata la società del Grande Fratello: vittime designate del consumismo, oggetto della manipolazione dei corpi e della seduzione del potere, preda della dittatura della (falsa) liberazione sessuale. "Non mi illudo di essere capito dai giovani, perché la gioventù oggi è diventata odiosa", diceva allora Pier Paolo. A Giuseppe Bertolucci, che Pasolini l'ha portato anche a teatro con Il pratone del Casilino e 'na specie de cadavere lunghissimo abbiamo fatto qualche domanda su questo documentario che sarà presto reperibile in dvd (con due scene inedite del Salò: un ballo e alcune sequenze non montate del reclutamento dei ragazzi).

Partiamo dal titolo: da cosa nasce?
Pasolini, all'inizio dell'intervista con Bachmann, cita una sorta di bibliografia del film che sta girando: Nietzsche, Baudelaire, Klossowski. Proprio a quest'ultimo si deve il "Sade mon prochain", dove "prochain" va inteso nel duplice significato di vicino e futuro. Come le parole di Pasolini, che hanno trent'anni ma ci aiutano a rileggere il nostro presente.

Colpisce la sua polemica contro i giovani in una società come la nostra, che ha fatto della gioventù una religione.
Pasolini si pone in un posizione socratica di contraddizione e spesso le sue parole sono paradossali rispetto alle attese dell'interlocutore. In quel momento, a metà degli anni '70, percepiva un'omologazione nascente e sentiva di non poter più parlare al popolo come aveva fatto nei primi film, da Accattone e Mamma Roma fino a Uccellacci. In seguito prova a spostarsi indietro nel tempo, con la Trilogia della Vita. Rispetto a quella, Salò o le 120 giornate di Sodomaè in sostanza un'abiura.

Pensa, come molti, che Pasolini fosse un profeta?
Non credo, anche se ha lasciato grida d'allarme che nessuno ha raccolto e che neppure ora, dopo cinque anni di governo del centrodestra, vengono ascoltate. Purtroppo bisogna dire che il modello della televisione commerciale ha omologato tutta la società. Per me Pasolini non era né filosofo né un politico né un antropologo. I suoi sono sempre discorsi di una poetica: cercava il bello, non il vero, anche se poi incontrava il vero. E questo anche nei saggi e negli articoli, come in "Scritti corsari" e "Lettere luterane": non dimenticava mai di essere un poeta.

Ricorda quando vide "Salò" per la prima volta?
Tre giorni dopo la morte di Pier Paolo, in quel novembre del '75, in una proiezione che il produttore aveva organizzato per Bernardo. Ricordo che uscimmo quasi in trance. È un film unico, ma ripensando al cinema di quegli anni devo dire che film così non sono più fattibili né concepibili. Il 1975 è anche l'anno di Novecento e L'albero degli zoccoli.
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"La forma della città", un film di Pier Paolo Pasolini e Paolo Brunatto (1973)

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LA SAGGISTICA - CINEMA
La forma della città (1973)
Un film di Pier Paolo Pasolini (testo) e di Paolo Brunatto (regia)



"Una chiave del suo ideale di paesaggio Pasolini la fornì in una trasmissione televisiva (...) di cui non so se sia stata ravvisata l'importanza e che converrebbe a ogni modo tesaurizzare opportunamente. La rubrica si intitolava Io e..., era gestita con vera intelligenza da un'allieva di Longhi [...] ed era dedicata a un monumento o a un’opera d’arte di cui un intellettuale denunciava la sopravvivenza minacciata. Pasolini scelse La forma di Orte. E denunciò gli oltraggi edilizi inflitti a questo luogo della Teverina un tempo frugalmente ma nobilmente compatto nella sua pensilità rupestre: un campione dunque dell'ideale bellezza italiana secondo Pasolini, povero, genuino, assoluto, ai limiti del deserto e dell'arsione vulcanica. Mi dicono che questo canone valga anche per il castello che Pasolini si era scelto nella non lontana regione di Viterbo [il Castello di Chia]. Ma certo vale per la landa anatolica di Medea, per le muraglie arabe delle Mille e una notte: oggetti retrocessi nel tempo, arcaici, retrospettivi" [Gianfranco Contini].

Pasolini e... la forma della città risulta essere un film di circa quindici minuti, prodotto dalla RAI TV e diretto da Paolo Brunatto nell’autunno del 1973 (la trasmissione avvenne il 7 febbraio 1974), nell’ambito della rubrica televisiva citata da Contini, dove, appunto, veniva chiesto ad alcune personalità della cultura italiana di esporre le ragioni della loro predilezione per una particolare opera d’arte. Il regista Brunatto diresse oltre una decina di cortometraggi della rubrica, la cui configurazione non obbediva al rigido impianto di una serie di interviste televisive, ma si modellava assecondando e accogliendo la presenza fisica, le idee e il pensiero dell’illustre intervistato di turno.
Proprio per simili assunti programmatici, un cortometraggio della serie Io e... si prestava, quasi naturalmente, all’eventualità di trasformarsi in una "emanazione" dello sguardo, della visione, della poetica, dello stile cinematografico di Pasolini. Infatti, fin dalle prime inquadrature quando Pasolini afferma

"Io ho scelto una città, la città di Orte [...], ho scelto come tema la forma di una città, il profilo di una città. [...] Io ho scelto un'inquadratura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta, ed è più o meno l’inquadratura così; basta che io muova questo affare qui, nella macchina da presa, ed ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città, è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo, che è quella casa che si vede là a sinistra. La vedi?"



appare evidente che La forma della città non è un semplice documento audiovisivo, non è un’intervista filmata, non è una registrazione di risposte alle domande poste da un intervistatore, perché racchiude alcune immagini, inquadrature, sequenze che possiedono le medesime connotazioni figurative e pittoriche del cinema di Pasolini (l’indugiare della macchina da presa sui paesaggi naturali e sugli edifici antichi, con riprese frontali), e perché il commento (tanto "improvvisato" quanto lucidamente e attentamente meditato) è opera interamente pasoliniana e al poeta-regista risale anche la concezione dell’idea che informa il cortometraggio.

Analizzato in dettaglio, La forma della città rivela le peculiarità di un vero e proprio film breve di Pasolini (anche se non va dimenticato, come vedremo, che alcune scelte sono da attribuire esclusivamente a Brunatto e che, comunque, l’apporto tecnico di quest’ultimo non è stato certo trascurabile). Il film è scandito dall’armonia dialettica fra le immagini di Pasolini che parla, muove la macchina da presa, sceglie le inquadrature, si sposta dai dintorni di Orte, si avvicina all’interno della città, ripercorre gli sconvolgimenti paesaggistici nel Terzo Mondo (a Yazd in Persia, ad Al Mukalla nello stato di Aden, a Sana’a nello Yemen del Nord, a Bhatgaon nel Nepal), e, infine, arriva a Sabaudia, dove, su una spiaggia ventosa dalla quale si domina il paesaggio del litorale, pronuncia un’ultima, vivida requisitoria, dall’integrazione dialettica fra queste immagini, che hanno "trattenuto" la presenza fisica e la voce di Pasolini, e le immagini del paesaggio a cui le sue parole via via si riferiscono (appunto il promontorio di Orte, Sana’a, Sabaudia), quando accusa la degenerazione ambientale, urbanistica e quindi culturale del nostro Paese ("la situazione dell’Italia, delle forme delle città nella nazione italiana [...] è decisamente irrimediabile e catastrofica").
Quale breve "film-saggio", "film diaristico" La forma della città potrebbe essere considerato il corrispettivo filmico di uno degli Scritti corsari, un breve pamphlet cinematografico.

Qui di seguito è trascritto il testo integrale del film La forma della città dedicato da Pasolini alla città di Orte


PASOLINI (con una telecamera e rivolto a Ninetto)  Io ho scelto una città, la città di Orte, cioè praticamente ho scelto come tema la forma di una città, il profilo di una città. Ecco, quello che vorrei dire è questo: io ho fatto un'inquadra­tura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta, ed è più o meno un'inquadratura così... Basta che io muova questo affare qui nella macchina da presa, ed ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo. C'è quella casa che si vede là a sinistra, la vedi? Ecco, questo è un problema di cui io parlo con te, perché non sono capace di parlare in astratto, rivolto al vuoto, al pubblico televisivo che non so dov'è, dove si trova. Parlo con te che mi hai seguito in tutto il mio lavoro e mi hai visto molte volte alle prese con que­sto problema. Tante volte sono andato a girare fuori dall'Italia, in Marocco, in Persia, in Eritrea, e tante volte avevo il proble­ma di girare una scena in cui si vedesse una città nella sua com­pletezza, nella sua interezza, e quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualco­sa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c'entrava con questa forma della città, con questo profilo della città, così severo.

Siamo adesso di fronte a Orte da un altro punto di vista. C'è la solita bruma azzurro-bruna della grande pittura nordica rina­scimentale. Se la inquadro, vedo un totale ancora più perfetto di quello di prima. Cioè la forma della città è proprio nella sua perfezione massima. Ma se panoramico da sinistra a destra, quello che ti dicevo prima risulta in modo ancora molto più grave. Infatti la città, dal nostro punto di vista all'estrema destra, finisce con uno stupendo acquedotto su quel terreno bru­no. E immediatamente attaccate all'acquedotto ci sono altre case moderne, dall'aspetto non dico orribile, ma estremamente mediocre, povero, senza fantasia, senza invenzione; insomma case popolari, che sono assolutamente necessarie, non dico di no, ma che lì sono un altro elemento disturbatore della perfe­zione della forma della città di Orte, come la casa che abbiamo visto prima. Ora cos'è che mi dà tanto fastidio, anzi direi quasi una specie di dolore, di offesa, di rabbia, nella presenza di quelle povere case popolari, che comunque devono esserci? Il problema era semmai quello di costruirle da un'altra parte, in­somma, di prevedere di poterle costruire da un'altra parte. Dunque, che cos'è che mi offende in loro? E il fatto che appar­tengono a un altro mondo, hanno caratteri stilistici completa­mente diversi da quelli dell'antica città di Orte e la mescolanza delle due cose infastidisce, è un'incrinatura, un turbamento della forma, dello stile.
Questo io forse lo soffro in modo particolare, non soltanto per­ché ho un senso estetico forse esagerato, eccessivo, da anima bella, ma anche perché ho tanto lavorato su dei film storici, in cui questo problema era proprio un problema pratico. Perché questo non è un difetto solo italiano, ma è un difetto di tutto il mondo ormai, soprattutto del Terzo Mondo. Non so, per esem­pio in Persia, dove c'è un regime completamente diverso dal no­stro, dove c'è una specie di imperatore, lo Scià, lì succedono le stesse cose, forse ancora peggiori. Per esempio, mi viene in men­te una stupenda città che si chiama Yazd, sul Golfo Persico vici­no al deserto, una città meravigliosa perché tutte le città aveva­no un sistema di ventilazione antico, di due, tremila anni fa, che era rimasto intatto: delle colonnine che raccoglievano il vento e lo facevano entrare dentro la città. Quindi il panorama della città era dominato da questa specie di ventilatori che sembrava­no un po' dei tempietti greci arcaici o egiziani, insomma, una cosa stupenda. Beh, questa città, quando sono arrivato lì io, era distrutta, come se ci fosse stato un bombardamento a tappeto. Lo Scià la faceva distruggere per dimostrare ai suoi sudditi, al suo popolo, che la Persia era un paese moderno, che avanzava, eccetera eccetera. Ma questo succede anche in paesi che sono esattamente il contrario della Persia, cioè in paesi comunisti: lo stato dell'Aden del Sud, lo stato di Aden, dove c'è al governo addirittura un gruppo di comunisti estremisti. Bene, lì, c'era un'antica città sul mare che si chiama Al Mukalla. Questa città di Al Mukalla aveva verso la terraferma una stupenda porta, gigantesca, di granito, bianca come tutto il resto della città. Ora siccome an­che ad Al Mukalla un pochino il traffico è aumentato, dopo la liberazione dello stato di Aden dagli emiri eccetera eccetera, c'era qualche furgone in più e la porta era stretta, cosa hanno fatto? L'hanno fatta saltare, ed erano fieri di aver fatto saltare questa stupenda porta. Dicevano addirittura con grande fierez­za «la rivoluzione ha liberato Al Mukalla da questo ingombro del passato». Senza parlare di Sana'a, ti ricordi? Quella stupen­da città dello Yemen del Nord posata sul deserto come una specie di rustica Venezia, che stanno già distruggendo, hanno già praticamente finito di distruggere tutte le mura che la ci­condavano e quindi davano la sua forma, quella assolutezza meravigliosa delle città antiche.
Oppure nel Nepal, che è effettivamente ancora molto intatto, soprattutto la città di Bhatgaon, è ancora quasi com'era tremila anni fa, però Katmandou è già praticamente distrutta in quan­to forma, rimangono i monumenti, ma non è dei monumenti che si tratta, non son quelli il problema, quelli è facile salvarli, è l'intera forma della città che è difficile salvare. Dunque questo è un problema che si pone in tutti i paesi del mondo, ma naturalmente ciò che mi turba e mi ferisce di più è che questo avvenga in Italia.
Una fotografia recente della città di Orte. In primo piano, l'acquedotto, seminascosto dagli alberi

Ora, a proposito della città di Orte, vorrei aggiungere una cosa: avendo io scelto come tema del mio argomento la forma della città, vorrei precisare che la forma della città si manifesta, appa­re, si rivela se confrontata con un fondale naturale. Perciò la for­ma della città di Orte appare in quanto tale perché è sulla cima di questo colle bruno, divorato dall'autunno, con questa curva­tura davanti e contro il cielo grigio. Ora, quelle case che ti ho ci­tato prima, quelle case popolari, che cosa vengono a turbare? Vengono a turbare, soprattutto, il rapporto fra la forma della città e la natura. Ora il problema della forma della città e il pro­blema della salvezza della natura che circonda la città, sono un problema unico. Ma sempre si pone il problema di rispettare il confine naturale tra la forma della città e la natura circostante. Ora il caso della città di Orte è un caso ancora bellissimo. Ecco, il panorama è ancora praticamente perfetto, a parte questo di­fetto sia pur doloroso che ti ho detto. Ma mentre per Orte si può parlare soltanto di lieve danneggiamento, di difetto, per quel che riguarda in generale la situazione dell'Italia, delle forme del­le città nella nazione italiana, la situazione è invece decisamente irrimediabile e catastrofica.
Questa strada per cui camminiamo, con questo selciato sconnes­so e antico, non è niente, non è quasi niente, è un'umile cosa. Non si può nemmeno confrontare con certe opere d'arte, d'autore, stupende, della tradizione italiana, eppure io penso che questa stradina da niente, così umile, sia da difendere con lo stes­so accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore con cui si difende un'opera d'arte di un grande autore. Esatta­mente come si deve difendere il patrimonio della poesia popola­re anonima come la poesia d'autore, come la poesia di Petrarca o di Dante, eccetera eccetera. E così il punto dove porta questa strada, quella antica porta della città di Orte, anche questo non è quasi nulla, vedi? Sono delle mura semplici, dei bastioni, dal co­lore così, grigio, che in realtà nessuno si batterebbe (con rigore, con rabbia) per difendere questa cosa. E io ho scelto invece pro­prio di difendere questo. Quando dico che ho scelto come og­getto di questa trasmissione la forma di una città, la struttura di una città, il profilo di una città, voglio proprio dire questo: voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende e che è opera, diciamo così, del popolo, di un'intera storia, dell'intera storia del popolo di una città. Di una infinità di uomini senza nome, che però hanno lavorato all'inter­no di un'epoca che poi ha prodotto i frutti più estremi, più asso­luti, nelle opere d'arte d'autore. Ed è questo che non è sentito, perché chiunque, con chiunque tu parli, è immediatamente d'accordo con te nel dover difendere un'opera d'arte d'un auto­re, un monumento, una chiesa, la facciata di una chiesa, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico ormai è assodato. Ma nessuno si rende conto che invece quello che va difeso è pro­prio questo anonimo, questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare.


[sullo schermo compaiono le immagini di Sabaudia]



Eccoci di fronte alla struttura, alla forma, al profilo di un'altra città immersa in una specie di grigia luce lagunare, benché in­torno ci sia una stupenda macchia mediterranea. Si tratta di Sabaudia. Quanto abbiamo riso noi intellettuali sull'architettu­ra del regime, sulle città come Sabaudia. Eppure adesso osser­vando questa città proviamo una sensazione assolutamente ina­spettata. La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico. Metafisico in un senso veramente europeo della parola, cioè ricorda mettiamo la pittura metafisica di De Chirico, e realistico perché, anche vista da lontano, si sente che le città sono fatte, come si dice un po' retoricamente, a misura d'uomo. Si sente che dentro ci sono delle famiglie costituite in modo regolare, delle persone umane, degli esseri viventi com­pleti, interi, pieni, nella loro umiltà.

Come ci spieghiamo un fatto simile che ha del miracoloso? Una città ridicola, fascista, che improvvisamente ci sembra così in­cantevole? Bisogna esaminare un po' la cosa, cioè: Sabaudia è stata creata dal regime, non c'è dubbio, però non ha niente di fa­scista, in realtà, se non alcuni caratteri esteriori. Allora io penso questo: che il fascismo, il regime fascista, non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto in realtà fare niente, non è riuscito a incidere, nemmeno scalfire lontanamente la realtà dell'Italia. Sicché Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante, ac­cademico, non trova le sue radici nel regime che l'ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha domina­to tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire. Dunque, è la realtà dell'Italia provinciale, rustica, paleo-industriale eccetera eccetera, che ha prodotto Sabaudia, e non il fascismo.
Ora invece succede il contrario. Il regime è un regime democra­tico eccetera eccetera, però quella acculturazione, quella omo­logazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottene­re, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenere perfettamente: distruggendo le varie realtà particuolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l'Italia ha, che l'Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distrug­gendo, in realtà, l'Italia; allora posso dire senz'altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l'Italia. E questa cosa è avvenuta talmente rapi­damente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto, è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni. È stato una specie di incubo, in cui abbiamo visto l'Italia intorno a noi di­struggersi e sparire. Adesso, risvegliandoci forse da questo in­cubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c'è più niente da fare.
(1974)
In Pasolini per il cinema, II, Meridiani Mondadori, Milano 2001
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"Ero un ragazzo di vita". Franco Citti ricorda, con rabbia, di Paolo Conti - ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA" 27 luglio 1992

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LA SAGGISTICA
"Ero un ragazzo di vita".
Franco Citti ricorda, con rabbia
di Paolo Conti

ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 27 luglio 1992

Pasolini lo scelse per "Accattone". Ora l'allievo racconta in un libro la sua carriera, dalle borgate alla regia.
"Vita di un ragazzo di vita" di Franco Citti, edizioni Sugarco 

Com'è il volto di un ragazzo di vita quando invecchia? No, non è il "grugno", per dirla in romanesco, di un uomo qualsiasi. E una faccia giovane sfigurata da un vetriolo gettato con calcolo: rughe, solchi, borse sotto gli occhi sono una tela raggrinzita sulla strafottenza di un ventenne. I capelli non sono cambiati, solo che paiono pieni di farina. Franco Citti è insomma rimasto il ragazzo conosciuto da Pier Paolo Pasolini chissà quanti anni fa. Si squadrarono subito. Pasolini disse "piacere, Pasolini" con una misura che faceva il paio con quelle sue giacche sobrie a tre bottoni da professore di liceo. Citti rispose "io so' Franco", e dietro la ruvidezza c' erano le borgate. Per anni il loro rapporto fu improntato a quel "piacere, Pasolini" e a quel "io so' Franco". Uno a parlare, a spiegare, a insegnare. L' altro a capire e, a sua volta, a mostrare le budella africane delle periferie romane. 
E adesso l'ex ragazzo di vita racconta il suo Pasolini in "Vita di un ragazzo di vita", strano libro scritto per la Sugarco a quattro mani col giornalista Claudio Valentini che ha avuto il compito di radunare e scegliere il materiale, traducendo i ricordi di Citti in italiano da un dialetto denso e oscuro che non conosce contaminazioni. Libro strano perché sembra la cronaca di una nottata calda e insonne passata davanti a un registratore con un "baby" in mano. Racconti, lacrime, risate e giù un sorso. "Baby": cosi' chiama Citti il suo whisky, come si faceva negli anni Sessanta. Non trovi una data, nelle pagine del libro, non un personaggio scolpito più degli altri. Solo l'attore inventato dal regista e il regista che segue la sua creatura. Traditori 
Chi era Pasolini per Citti? "Un caso di purezza. Impossibile tradirlo. E invece molti hanno tradito Pasolini sfruttandolo dopo la morte". Ma chi? "Leggetevi bene il libro. Non solo, ma quando lo ammazzarono qualcuno ha anche pensato: "Meno male, ci siamo tolti di mezzo una persona scomoda". Adesso, eh... adesso! Adesso i giovani in Europa, ma non in Italia dove sono imbecilli, stanno riscoprendo Pasolini. Col ricordo riescono fuori pure gli sciacalli. Certo, lui s'è pure autotradito. Ha dato troppa amicizia, si concedeva con facilità, potevi prenderlo in qualsiasi momento, parlava. Quanto gli piaceva parlare". 
Citti parla proprio come appare sul libro, dove una pagina viene dedicata all'odio per la propria madre ("è stata il pilastro della mia rovina") e quella successiva al racconto di un pomeriggio passato con Ninetto Davoli e la Callas alla borgata Alessandrina dove alcuni ragazzotti, alla domanda su chi fosse la grande cantante Maria Callas, si avvicinarono a un juke.box e risposero: "Qui 'a Callase nun c'è, c'è 'a Caselli." 
Buffo, questo ex ragazzo di vita che confessa nel libro di conoscere da attore solo il Pasolini cineasta e di non aver mai letto i suoi libri. Buffo anche perché sostiene che "Lui", come spesso lo chiama, non era omosessuale. Anzi, "uomosessuale". "Uomosessualità". "La sua uomosessualità? A me mi risultava che si doveva sposare con Maria Callas, e che aveva avuto una storia con Laura Betti. Io poi non sapevo niente di lui. La sera ci salutavamo, ciao, ciao, ognuno per la propria strada. Ma mettiamo anche che lo fosse stato. Adesso il vostro mondo mi sembra pieno di uominisessuali. Li fate pure sposare". Dice "vostro" perché proclama di essere ormai vecchio, a cinquantotto anni, e di non avere più alcun ruolo attivo in questo mondo. 
A proposito di questo mondo. Chissa' cosa avrebbe detto Pasolini, mettiamo, delle tragedie di Falcone e Borsellino? "Lui l'aveva anticipato vent'anni fa, che arrivavamo allo sfracello. Comunque, non sarebbe arrivato vivo, lo avrebbero ammazzato. Infatti lo hanno ammazzato. Ma non Pelosi da solo. Erano in quattro, sulle motociclette, abbiamo fatto le indagini io e mio fratello Sergio, il regista, nelle borgate. Siamo sicuri. Nessuno parlò perché venivano minacciati di morte. Comunque, alla fine, meglio così. Pensa tu Paolo vecchio e rincoglionito, come tanti registi costretti per mangiare a girare le Piovre, che spiegano ai ragazzi come si spara. Perché così succede, o no?" 
Pasolini e i ragazzi vita, ancora un flash: "Lui scoprì grazie a noi la libertà del pallone per strada. Veniva dal mondo degli intellettuali, quelli con la cravatta. Difficile giocare a pallone con la cravatta. Lui se l'è tolta e ha giocato con noi. Siamo stati il suo rifugio. Adesso, ancora con questo adesso. Be', adesso i borgatari si sono tutti rifarditi". Rifarditi? "Ma sì, cambiati di brutto, non sono più gli stessi". 
Il prossimo film. Citti butta giù l' ultimo sorso del suo "baby" e scruta quel Tevere nero come la serata afosa. La presentazione del libro l'hanno organizzata sull'"Isola del sole", un barcone di antichi "fiumaroli", tra fiaccole e filetti di baccalà fritti. Ride, l' ex ragazzo di vita, e sogna il suo prossimo film che vorrebbe cantare le gesta del popolo dei borgatari, la loro redenzione e quindi la caduta nell' inferno di cemento delle nuove periferie. L'ultimo ricordo coincide con un'affermazione: il testamento spirituale di Pasolini a Citti è stato rispettato. "Gli dissi: A Pa' , mi hanno chiamato in America per un film. E lui: vacci pure ma ricordati di una cosa, non imparare la lingua. Non ti modificare. Perché se ti modifichi diventerai stronzo. E io, eccomi qui, sono rimasto me stesso". 
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Il fiore delle Mille e una notte di P.P.Pasolini, di Antonio Di Fiore

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA  - CINEMA
Il fiore delle Mille e una notte, di P.P.Pasolini
di Antonio Di Fiore
www.liniziativa.net, 2 febbraio 2013



Anche se qui ci limitiamo a parlare di un Pasolini in chiave cinematografica, mi permetto un lieve, quanto essenziale, prologo. Parlare di Pier Paolo Pasolini è sempre difficile. Pasolini, come tutti i più grandi che sono risultati scomodi a qualcuno, o lo si ama o lo si odia. Non ci sono vie di mezzo e, soprattutto, ogni suo scritto, poesia o film non lascerà mai indifferente colui che lo analizza. Anche se non lo si comprende da subito, infatti, il messaggio di Pasolini è lì, pronto a cambiare la vita di colui che apprende.
Concepito molto più complesso durante la sceneggiatura ma poi cambiato in fase di montaggio, “Il fiore delle Mille e una notte” si articola principalmente su una storia che funge, tra l’altro, da linea guida alle altre. Protagonista di questa vicenda è una giovane coppia di amanti, Nur-ed-Din, figlio di un ricco mercante e Zumurrud, un’affascinante schiava. A questa vicenda ne seguono altre che, in forma di varie sezioni cinematografiche, formano la pellicola.
“Il fiore delle Mille e una notte” è il terzo lungometraggio di una delle due trilogie che caratterizzano fondamentalmente la carriera registica dell’autore bolognese. Come nel “Trittico della morte”, tra l’altro rimasto incompiuto, “La trilogia della vita” ripercorre gli stessi temi ormai cari a Pasolini. In tutti i vari episodi che potremmo definire - per scene, tematiche e stile - ai limiti della indecenza, si racconta la storia dell’amore, del suo frutto. Come bene superiore che scende dal cielo, Pasolini usa l’amore, vuoi che sia per una schiava o per un amante, per indicare la via, la via della vita. Non c’è odio né rancore ad impedire la proliferazione del bene. Nessun altro sentimento può essere paragonato ad esso. 
Ma non c’è giorno senza notte, né pace senza guerra come diceva un filosofo greco. Non ci sarà quindi tantomeno quell’amore puro e inviolato senza la violenza, la brutalità e la prepotenza di uomini vuoti. Odio, quindi, indifferenza, viaggio, rabbia, realismo, essenzialismo, antilirica (nella poetica come nei film), sono questi i maggiori cardini della trilogia e del film che stiamo analizzando ora nel particolare. Tematiche che hanno reso Pasolini un uomo solo, la cui arte, come succede sempre a coloro che per rimpianto osiamo definire “grandi”, è stata riscoperta solo dopo la sua morte. Ovviamente in larga scala, come ce ne rendiamo conto oggi. Sarà la moda vintage del momento, ma Pasolini comincia sempre più a invadere ognuno di noi. I suoi versi come i suoi film iniziano “per fortuna”, oserei dire, ad essere visionati e, come detto nel breve prologo in alto, a cambiare la vita. Si, perché è questo lo scopo dell’arte pasoliniana e in particolare del cinema pasoliniano. 
Come Welles, anche Pasolini usa il cinema come mezzo per illuminare la gente sulla bellezza, sull’amore, sulla verità, sulla giustizia. Il tramite che dalla pellicola o libro che sia vada nella mente dello spettatore che, per anni impassibile, vede il cinema per quello che è: intrattenimento. Non è sempre così. Il cinema, oltre che ad essere una delle più alte forme di alienazione, deve informare, far riflettere e pensare. Anche se ambientati sempre per la maggior parte in epoche ben lungi dalle nostre, i film di Pasolini sono - e anche un bambino se ne accorgerebbe - di una attualità sconvolgente. Con “Il fiore delle Mille e una notte” siamo quindi, senza neanche accorgercene, di fronte ad uno dei massimi pilastri del nostro cinema e del nostro fare cinema. Ovviamente con la “C” maiuscola.
Come detto prima, Pasolini è essenziale. Non ha bisogno di ambienti hollywoodiani (nonostante le sue scenografie siano dirette dal pluripremiato agli Oscar Dante Ferretti), come non ha bisogno di una fotografia che incanti lo spettatore. Gli attori, solo quelli devono essere bravi. E in questo film c’è Ninetto Davoli, che già di per sé potrebbe bastare al film intero. Le musiche dirette dall’eclettico e geniale Morricone danno, infine, quel tocco che manca ad ogni film senza la colonna sonora adatta.
Denunciato per oscenità dal tribunale di Milano, il film ne uscì per fortuna intatto e senza censure. Fu decretato, infatti, che il lungometraggio era un’opera d’arte e di conseguenza libero da ogni vincolo di censura. [...]
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
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Pasolini e Caravaggio. La compassione per gli ultimi, per i brutti, gli sporchi e i cattivi

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Caravaggio, David e Golia, Roma, Galleria Borghese 1605-06 (1609-10). È universalmente
riconosciuto, fin da Bellori e da Longhi, che in questo dipinto il Caravaggio
si è rappresentato nella testa di Golia, tagliata dal giovane David.


Pasolini e Caravaggio. La compassione
per gli ultimi, per i brutti, gli sporchi e i cattivi

Caravaggio e Pasolini, due vicende esistenziali dalle forti affinità, come vedremo. Scriveva nel dicembre 2004 Davide Varì nel suo saggio Nel labirinto delle passioni, in "Liberazione": «Difficile resistere al richiamo di due esistenze vissute sotto il segno dell'eresia e dello scandalo. L'una, quella del pittore, nel cuore della Roma papalina, "nella città tra manieristica e bigotta di Sisto V - scrive Roberto Longhi, magnifico critico di Caravaggio - dove egli doveva sembrare un irregolare se non proprio un eretico"; l'altro nel cuore dell'Italia piccolo-borghese degli anni sessanta-settanta, spesso altrettanto bigotta e chiusa. Problemi con la giustizia, risse, alcove, censure ed infine la morte, violenta e prematura, consumata per entrambi a pochi passi dal mare». 
Un richiamo, quello della comparazione tra i due, cui non ha resistito neanche Cesare Garboli, l'ultimo dei grandi critici letterari italiani. Nel numero di aprile-giugno 1970 della rivista "Nuovi Argomenti" lo stesso Garboli ricordava quanto fosse difficile scindere l'esperienza "eversiva" del Pasolini "romano" dall'immagine del Caravaggio: «Si direbbe che il Pasolini lavorasse, allora, non allo specchio del Caravaggio ma allo specchio del Caravaggio "romano". Quello, per intenderci, che finge per Maddalena la povera ciociarella tradita, gli sciolti capelli che si asciugano al sole nella stanzetta smobiliata, o quello dei bacchi rifatti su torpidi e assonnati garzoni d'osteria, o quello, infine, della Vergine morta e gonfia a gambe scoperte, come una popolana del rione, a dirla gentilmente, o una mignotta agli ultimi rantoli nella stanzaccia spartita dal tendone».
Caravaggio, Morte della Vergine (1604), Parigi, Musée du Louvre

Ed è a Napoli che i due, Pier Paolo Pasolini e Michelangelo Merisi da Caravaggio, sembrano in questi giorni [mostra dedicata alle ultime opere di Caravaggio, dicembre 2004-gennaio 2005] incontrarsi nuovamente e per la prima volta. La Napoli che lo stesso Pasolini definiva «l'ultima metropoli plebea, l'ultimo grande villaggio». La Napoli di Gennariello, lo scugnizzo immaginato dalla penna dello scrittore che miracolosamente e quasi fedelmente ritroviamo dipinto in molti quadri del Caravaggio. «I tuoi occhi devono essere neri e brillanti, la tua bocca un po' grossa, il tuo viso abbastanza regolare, i tuoi capelli devono essere corti sulla nuca e dietro le orecchie, mentre non ho difficoltà a concederti un bel ciuffo, alto, guerresco e magari anche un po' esagerato e buffo sulla fronte», scrive Pasolini in Lettere Luterane. Una descrizione, quasi, di molti soggetti caravaggeschi. Tratti fisici e immateriali che ritroviamo nel Suonatore di liuto e nel volto, inondato dalla luce divina, del protagonista della Vocazione di san Matteo.
Caravaggio, Suonatore di liuto (1595-1596), San Pietroburgo, Ermitage


Caravaggio, certamente, vuol dipingere la realtà, ma è molto probabile che - e gli ultimi studi l'hanno ampiamente dimostrato - tutto questo avesse in lui anche una finalità simbolica. Pensiamo alla luce che entra da una finestra ne La vocazione di Matteo di San Luigi dei Francesi; essa è una luce di salvazione, è una luce divina. E' il raggio della salvezza che arriva sugli uomini per riscattarli dal loro essere uomini. Quindi, anche se noi siamo fatti di carne, non possiamo rinunciare alla speranza che qualcosa arrivi per salvarci e portarci al di là. La luce diviene protagonista con Caravaggio e da questo momento in poi si entra nell'attimo luminoso, in quell'istante di luce dovuto al cambiamento continuo delle condizioni atmosferiche, che sarà caratteristica della pittura impressionista. Si giunge all'idea dell'attimo luminoso, di un attimo quasi fotografico. Non per nulla l'impressionismo è quasi contemporaneo della fotografia. Da qui si entra proprio in quell'idea di attimo fuggente che viene catturato dall’opera pittorica, che sarà la chiave stessa di tutta la raffigurazione del Ventesimo Secolo e che fatalmente è ancora la chiave sia della pittura che del cinema dei nostri tempi.
Parlare di realismo e di tenebrismo non è più sufficiente per definire questo grande e geniale pittore. Infatti i brani di vita popolare e gli effetti dei suoi «notturni» sono caratteristici di tutta la pittura della fine del XVI secolo, e in particolare dell'Italia del Nord, nell'opera di artisti di primo piano quali Bassano e perfino Tintoretto. L'originalità di Caravaggio consiste nell'uso della luce per affermare la pienezza delle forme e dei volumi, ma anche per drammatizzare i personaggi più umili. Soprattutto questo aspetto eroico ha colpito l'attenzione degli storici dell'arte contemporanei: quest'arte plastica, espressiva, diretta, che esprime un sentimento semplice e profondo della vita umana, rispondente alle aspirazioni della Controriforma. Quello del realismo è, da sempre, uno dei grandi problemi della storia dell'arte. La radice del problema sta nella stessa ambiguità e polivalenza del termine, che ne ha permesso l'applicazione alle realtà più disparate. Nel Seicento in particolare, il termine è stato usato per indicare situazioni diversissime, compromettendone in questo modo la comprensione per secoli: realista Caravaggio, realista Vermeer, realisti i fiamminghi autori di nature morte, realisti i pittori di scene di genere.
La spada di Damocle dell'incomprensione ha pesato in maniera particolarmente preoccupante sul capo di Caravaggio e di tutti quegli artisti che hanno saputo coglierne e svilupparne le conquiste più alte: Velázquez, Ribera, Zurbarán, Rembrandt, La Tour (per citare solo i nomi più eclatanti). Quanto a Caravaggio il nostro secolo ha ampiamente sfatato il mito dell'artista maledetto, dedito a un realismo fine a se stesso e che si compiace degli aspetti più crudi, violenti e urtanti della realtà. Per restare su un piano divulgativo e accessibile, il Calvesi del primo, mitico Art Dossier, dedicato proprio al Merisi, ha ben evidenziato, forse addirittura cadendo nell'eccesso opposto, il coacervo di simboli e di significati di matrice essenzialmente Oratoriana e Gesuitica che la 'presa diretta' di Caravaggio dissimula e nello stesso tempo potenzia in massimo grado.
E tuttavia non è mai stato messo sufficientemente in rilievo un fatto fondamentale: ciò che, in Caravaggio, conferisce verità e concretezza alle cose, ciò che le rende quasi fastidiosamente vive agli occhi di chiunque si accosti alla sua opera, è la Luce: non una luce puramente fisica, ma La Luce, la luce vera, quella divina. Questo, e solo questo, rende il 'realismo' di Caravaggio così poco 'naturalistico': la Luce, che conferisce verità alle cose, è nello stesso tempo la Luce della Verità, "la luce vera che illumina ogni uomo", e che le tenebre non ricevettero (Vangelo secondo Giovanni). La luce ha sempre avuto un significato mistico-religioso: è una delle più alte manifestazioni del divino, e come tale ha tutti i carismi per essere vista ora come attributo di Dio, ora come mezzo con cui Dio si manifesta, ora come simbolo di Dio stesso. [...]
In Caravaggio la luce è insieme protagonista fisica e metafisica, portatrice della parola divina e non del reale, cornice mistica in cui compiere la trasmutazione dell’umano che anela al divino. Anzi, il discorso è ancora più complesso per il nostro. La luce ha in Caravaggio una funzione costruttiva e una funzione simbolica, metafora della grazia redentrice, irradiata spesso in modo tangenziale, con un'azione costruttiva sui corpi che spesso emergono da fondi indefiniti.
E questo modo di vedere la luce reale e non naturale, metafisica ed insieme materia, richiama alla mente la maniera "pittorica" di Pier Paolo Pasolini. [...] Ma c'è una cosa ancora, su tutte, che unisce i due, attraverso la luce e l’apparente, complessa, descrizione del reale. La compassione per gli ultimi, per i brutti, gli sporchi ed i cattivi (titolo di un film di Scola, che proprio Pasolini avrebbe dovuto girare). "Qui degli umili sento compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via», scrive Umberto Saba in Città Vecchia. Ma il poeta triestino è solo di passaggio. Nutre la propria coscienza con la visione di quelle vite disperate e gettate via nelle ombre delle strade, ma non si ferma assieme alla "prostituta, al marinaio, al vecchio che bestemmia alla femmina che bega". C'è pietas, ma non compartecipazione.
Pasolini e Caravaggio invece no, loro passano e si fermano. Vivono fino in fondo il mondo che rappresentano. Il pittore perso nel sottobosco delle osterie del Seicento e lo scrittore perso nella Roma delle borgate. Li spinge qualcosa, una necessità, che arriva direttamente dall'anima e dal ventre. L'amore febbrile per la vita. La "strana gioia di vivere" (così ha scritto Sandro Penna) che li pervade.
In entrambi i due grandi autori la vera protagonista a è la luce, atta a farci percepire l’essenza della vita come spirituale, come lascito della parola divina. Essa irradia dalle loro opere e vuole sempre accentuare il significato della fede: la chiamata di Dio è sempre rivolta a tutti gli uomini, ma ciascuno è libero, secondo la propria coscienza, di aderirvi o di respingerla. E, in entrambi, via via che procede la maturazione creativa, la luce si fa ampia ed ingombrante, quasi unica protagonista della tela o delle inquadrature.
L’esempio è, per Caravaggio, La resurrezione di Lazzaro (1609), e la Vocazione di San Matteo dipinta qualche anno prima (1599-1600) per la chiesa di S. Luigi dei Francesi, ma con una luce più soffusa e guizzante, che crea un effetto di maggiore drammaticità, tendente quasi a "cancellare" i personaggi, come accade a Pasolini da Il fiore delle Mille e una notte in poi. 
Non a caso, nel mai realizzato e conclusivo film Porno-Teo-Kolossal (che, secondo quanto da lui stesso dichiarato, avrebbe concluso la sua carriera cinematografica), la luce si sarebbe fatta sempre più viva e avrebbe scolorito gli stessi personaggi, durante il racconto morale e metafisico di un re mago, che insieme al suo servitorello (suo angelo custode travestito) parte per seguire la Stella Cometa, ma giunge in ritardo davanti alla grotta, che ormai è vuota, morendo di dispiacere e di stanchezza.
Qui di seguito, ecco un ampio stralcio di ciò che scrisse Roberto Longhi su Caravaggio nel suo Da Cimabue a Morandi, uscito da Mondadori nel 1973. Un libro che Pasolini, che aveva una vera e propria venerazione per Longhi, conosceva benissimo e di cui fece una splendida recensione ora in Descrizioni di descrizioni.  In "Pagine corsare" avevo parlato della recensione pasoliniana qualche settimana fa (http://pasolinipuntonet.blogspot.it/2013/01/pier-paolo-pasolini-roberto-longhi-da.html) e ben volentieri torno su quest'opera fondamentale di Roberto Longhi, che fu docente di Pasolini e gli instillò l'amore per l'arte che lo scrittore-regista avrebbe coltivato per tutta la vita. [A.M.]
* * *
Caravaggio, di Roberto Longhi

Qui di seguito, una lettura di alcuni dei più importanti dipinti del Caravaggio (1571-1610) attraverso le pagine di Roberto Longhi (1890-1970), maestro indiscusso degli studi artistici del nostro paese e figura eminente della cultura europea del Novecento. Massimo critico d’arte, Longhi fu anche grande scrittore. "Piazza de’ lumi entro il gran fiotto d’ombre": l’invenzione di un verso endecasillabo compendia il metodo compositivo del Caravaggio. La sua prosa inimitabile riesce a tradurre il fatto figurativo e a renderlo leggibile anche senza l’ausilio del corredo illustrativo. Basandosi proprio su questo assunto, Gianfranco Contini raccolse i principali saggi longhiani sulla pittura italiana e li pubblicò, nel 1973, in un famoso Meridiano Mondadori, Da Cimabue a Morandi, senza note né apparati figurativi, per far conoscere il livello espressivo dello scrittore e diffondere la sua prosa fuori dai canali strettamente specialistici. La monografia sul Caravaggio (prima edizione, 1952; seconda edizione, Editori Riuniti, 1968) è l’ultimo scritto di ampio respiro licenziato da Longhi prima della morte e il principale fra i tardi lavori longhiani. In quest’opera, l’autore torna, per l’ultima volta, su un argomento appassionatamente indagato in numerosi interventi precedenti, a cominciare dalla tesi di laurea (1911), che già avevano trovato un momento di felice sintesi in una famosa mostra del 1951 a Milano, che stabilì la completa rivalutazione del naturalismo caravaggesco.

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da Roberto Longhi, "Caravaggio",
in "Da Cimabue a Morandi", Mondadori 1973

Educato in quella cerchia di provincia lombarda di cui si è dato qui un breve abbozzo e giunto a Roma, giova crederlo, già con quel suo chiodo fisso di una pittura fedele alla realtà, era prevedibile che, nella città tra manieristica e bigotta di Sisto V, egli dovesse sembrare un irregolare, se non proprio un eretico. A Roma non si chiedeva verità alla pittura, ma «devozione» o «nobiltà»; nobiltà di soggetti e di azioni, a qualunque mitologia appartenessero, e secondo un’inventiva che poteva oscillare dalla tetraggine della stretta Controriforma alla volante ma vacua fantasia degli ultimi manieristi: dal Pulzone e dal Muziano, insomma, al Barocci e al D’Arpino.(…)
Caravaggio, Bacchino malato (1593-1594)
Roma, Galleria Borghese
E, infatti, valga il vero: già il primo biografo competente, perché pittore anche lui, ci asserisce che i primi quadri del Caravaggio furono «da lui nello specchio ritratti». Che mai significa? Si è giunti a proporre che, forse per risparmiare la spesa del modello, egli non attendesse che a dei successivi, continui autoritratti; proposizione assurda, oltre che smentita da tutti gli esemplari restanti, salvo quello del Bacchino malato. Ma allora, perché ritrarre quei tanti modelli diversi «nello specchio»? (…)
Ogni nuova personale verità nell’arte è una nuova scoperta che gli idoli artistici precedenti miravano a precludere. Che cosa aveva impedito sino a lui di rendere fedelmente ciò che egli chiamò per primo un «pezzo» di realtà, se non l’antica fabula de lineis et coloribus che egli avvertiva ormai come mitologia da lasciare finalmente cadere? Guardava intorno a sé e la realtà gli appariva in «pezzi» bloccati di universo dove non era luogo né a contorni, né a rilievi, né a colori come formule astrattive. E perché la rètina, da sé sola, ha un campo visivo sempre sfocante, svagante, non era meglio stagliarlo come ci appare nel quadro veridico dello specchio che ci dà sempre l’«unità del frammento» immerso nella sua luce: una specie di «realtà-acquario»?
E’ possibile insomma che, naturalizzando l’antica metafora che la pittura deve essere il rispecchiamento della realtà, il Caravaggio, da schietto San Tommaso, provasse di attenersi al sodo dello specchio vero che gli dava finalmente il vano della visione ottica già colmo di verità e privo di vagheggiamenti stilizzanti. Così egli venne a scoprire - e fu quasi una scoperta scientifica, fu in ogni caso un’esperienza - la sua personale, empirica «camera ottica»; ciò che meno sorprende ai tempi del Porta e, ormai, di Galileo. D’accordo che, da grande spirito qual era, egli non poteva che scoprire il senso poetico, la portata sentimentale di una realtà allora tutta sconosciuta, anche non avendone piena coscienza. La sua ostinata deferenza al vero poté anzi dapprima confermarlo nella ingenua credenza che fosse «l’occhio della camera» a guardare per lui e a suggerirgli tutto. Molte volte egli dovette incantarsi di fronte a quella «magia naturale»; e ciò che più lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non è punto indispensabile la figura umana; se, uscita questa dal campo, esso seguita a rispecchiare il pavimento inclinato, l’ombra sul muro, il nastro lasciato a terra. Che cosa potesse conseguire a questa risoluzione di procedere per specchiatura diretta della realtà, non è difficile intendere. Ne conseguiva la tabula rasa del costume pittorico del tempo che, preparandosi gli argomenti in carta e matita per via di erudizione storico-mitologica e di astrazione stilizzante, aveva elaborato una partizione in classi del rappresentabile, che, trasposta socialmente, non poteva idoleggiarne che i gradini più alti. Ma il Caravaggio si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici e persino all’aspetto feriale degli oggetti, delle cose che valgono, nello specchio, al pari degli uomini, delle «figure». (…)
Caravaggio, Ragazzo che monda un Frutto (1593)
Roma, Collezione Privata
Cominciò del resto con dipinti che non erano neppure in grado di intitolarsi. E’ già molto che i biografi scrivano per esteso: «un putto morso da un racano che tiene in mano», un «fanciullo che monda una pera con il cortello» (…). E quando si avvertì ch’essi celavano anche un nuovo contenuto, si cercò di correre ai ripari infliggendo loro una condanna morale. Essa verrà codificata circa mezzo secolo dopo, quando si concluderà che il Caravaggio non aveva dipinto che i «simili»; un gradino appena più in su del Bamboccio che addirittura «dipinse i peggiori»; e cioè, diciam pure, la povera gente che fa soggetto di strada, ma non di «historia».
E perché questo del soggetto feriale fu il pensiero fisso del Caravaggio fin dai primissimi giorni, si può star sicuri che, su quella via, egli non sarebbe mai riuscito a farsi largo, ma soltanto a mettersi in cattiva luce come pittore di novità sospette perchè senza «decoro». Che, avvertendone tuttavia l’innegabile talento pittorico, gli si chiedesse presto ben altro, e ch’egli non potesse rifiutarvisi se voleva crescere e primeggiare come uomo dell’arte, è cosa altrettanto certa, naturale, umana. Guai a dimenticare che a quei giorni quasi non si dipingeva che per soggetti imposti, su commissione, e che questa era appannaggio esclusivo o di ordinatori ecclesiastici o di nobili collezionisti discretamente colti anche in favole antiche. (…)
Dopo i primi dipinti di vena lombarda, come il Ragazzo del fruttaiolo e l’autoritratto vagamente arieggiante un Bacchino convalescente, ma che s’incorona per ischerzo non avendo in suo dominio che un rametto d’edera, due pesche duracine e due grappolini d’uva da tavola, il più dichiarato Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse s’ingolfa subito in una polemica palese per chi rievochi nel corso del secolo i Bacchi di Michelangelo o del Sansovino, o persino quelli del Bellini e di Tiziano.
Caravaggio, Bacco (1596-1597), Firenze, Galleria degli Uffizi

Recuperi, codesti, di un’antichità vista con occhi diversi, se nel primo caso gravano di più sull’apologia del corpo umano e nell’altro sull’accordo corale tra uomo e natura egualmente magnificati, in ciò almeno convengono, nel non aver nulla da spartire con questo torpido e assonnato garzone d’osteria romanesca, incoronato a caso da pampini d’ogni colore, con un calice di lusso (l’unico rimasto nell’osteria?) tenuto leziosamente con la sinistra (da un mancino dunque, ma perché ritratto dallo specchio!), in contrasto col vassoio di terraglia rustica e con la caraffa comune; a non parlar di quello stramazzo ad uso di triclinio plebeo.
In tanto palese impaccio, l’aspetto del quadro sembra, col consenso ironico del pittore, già pronto a sopportare qualunque pesante motteggio popolare trasteverino («me sembri tal e quale un Bacco in India», o qualcosa di simile); ma, nei punti di sutura più sottile tra tema e visione, il pensiero, per quei tempi, è più moderno che non sia stata, tanto più vicina a noi, la Barista di Manet al banco di zinco delle «Folies Bergère».
Il Caravaggio non mancò di insistere nell’ambito di quel realismo feriale che ebbe un seguito lunghissimo nei seguaci d’ogni nazione e risorgerà, come soggetto pretestuale, nelle tranches de vie della pittura moderna (…). In quest’àmbito rientra anche il ritratto così semplice, ma intimamente episodico, della Sposa romana perdutosi a Berlino nel 1945; e così pure quello che, a detta del Caravaggio stesso, fu «il più bel pezzo, che facesse mai»: il Suonatore di liuto [vedi illustrazione sopra, ndr] passato dal cardinale Del Monte al Giustiniani ed oggi a Leningrado.
La bilancia di luce, ombra e penombra che avvolge nella stanza il giovane incantato e lambisce il tavolo visto in tralice «nello specchio», rende la perfetta equivalenza mentale tra la figura e la mirabile natura morta di fiori e frutta a sinistra, e il famoso riflesso della camera entro la caraffa (e non già, per malposta e bigotta sottigliezza manieristica, nella pupilla).
Così, meno sorprende che il Caravaggio possa instaurare, negli stessi giorni, la rubrica, per Roma affatto nuova, della «natura morta» per sé sola. 

Uscito che sia il Bacco dal vano colmo dello specchio, vi restano ancora il vassoio di frutta, il nastro dimenticato; receduto il suonatore o il commensale dal tavolo, vi rimangono ancora lo strumento di bellezza indecifrata o «Il Postpasto» non consumato: la caraffa smezzata, l’anguria e il melone affettati, la pera intatta e la mela mezza, le mosche che saltellano sulla propria ombra. Seguita così la realtà nella vita di queste cose silenti e ferme sotto il crescere o il diminuire della luce e dell’ombra; una forma d’incanto quasi autonomo che sembra portato dalle cose lasciate a se stesse, ma che pure riflettono lo sguardo inclinato dell’uomo e, in primis, di colui che l’ha prodotto, quell’incanto. Un’altra eretica innovazione, insomma, alla quale il pittore teneva moltissimo come dimostrano le sue stesse parole riferite dal più intelligente fra i suoi amici: «e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure». Sorprende che l’amico trascrivesse un motto così fondamentale nel contesto di una lettera critica dove, classificando la pittura in dodici gradi, dal basso all’alto, non poneva la specialità di «fiori e frutta» che al quinto posto.
Non intendendo cioè, (…), che con quel motto il Caravaggio aveva annullata la distinzione tra una natura superiore glorificata nell’uomo e una «inferior natura», come il Rinascimento aveva chiamato queste cose (…) che si andavano dipingendo per bizzarria o svago decorativo; o magari per acrostico figurale come nel passabilmente stupido Arcimboldi a Milano; ma sempre senza presa diretta di verità; e che, del resto, si relegavano in cucina o nelle stanze della servitù. Ai giorni stessi del Caravaggio poi, che pure aperse la nuova strada ma fu inteso da pochi (che oggi stanno lentamente recuperandosi e che vanno da Tommaso Salini al nipote di lui Mario dei Fiori), la natura morta tentò di rimontare di classe almeno con la scelta scrupolosa degli oggetti di pregio: bicchieri di Murano, cristalli di Boemia, antipasti e dolciumi sceltissimi; bocconi, come si diceva, da cardinali.
Caravaggio, Canestra di frutta, 1596, Milano Pinacoteca Ambrosiana

Il Caravaggio aveva invece dipinto la cestina comune dell’affittacamere colma di frutta a buon mercato; dove, perciò, accanto alla mela sana, non mancava mai quella bacata; così come nei pampini del Bacco, accanto alle foglie virenti, ci sono anche quelle vizze e scolorite, come Dio manda. Proprio quella cestina, finita a Milano nel museo di Federico Borromeo, veniva a trovarsi accanto alle lussuose specialità sul tipo di Flegel o di Jan Brueghel. Il contrasto non poteva essere più schietto. Se però il cardinal Federico lo avvertisse davvero, questa è un’altra faccenda (…)
Già qualche antico biografo non mancava di avvertire che, in codeste opere, [Giuditta, Santa Caterina], in confronto a quelle trasparenti dell’adolescenza, il Caravaggio cominciava a «ringagliardire gli scuri». La cosa, lì per lì, sorprende anche noi che, versati nei fatti della pittura naturalistica posteriore, quasi ci saremmo attesi che il Caravaggio puntasse subito sulla pittura limpida e obbiettiva degli spagnoli o dei nordici, Velázquez, Hals o Vermeer. La verità è che ogni pittore non dà alla fine che ciò che il mondo gli chiede. (...) La chiesta era allora del quadro di evento sacro e patetico: questo è a spingere il Caravaggio sulla nuova via. Gli scuri che si ringagliardiscono sono dunque pur essi, preventivamente, affare di contenuto: che, fortunatamente, nell’occhio di un grande pittore, porterà con sé anche una forma atta ad incidere rapidamente sul contenuto stesso. Questo è il costante circolo di scambio fra arte e mondo sociale.
Caravaggio, Santa Caterina d'Alessandria (1597), Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

Ben vero che l’antico biografo, formalizzante come ogni strenuo idealista, dice che egli escogitò gli scuri gagliardi per «dar rilievo alli corpi»: E che altro poteva dire chi, a spiegare una così ostica rivoluzione, ardua persino per chi la fece, non aveva a disposizione altra grammatica da quella cinquecentesca?
Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell’apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello e da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ciò che gli andava balenando era ormai non tanto il «rilievo dei corpi» quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il grumo drammatico della realtà più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora si impadroniva, gli appariva come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non può indugiarsi sulla durata sentimentale della trasparenza, anzi inevitabilmente s’investe del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dell’ombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si sarebbero ora impigliati in quel tragico scherzo. Per restare fedele alla natura fisica del mondo, occorreva far sì che il calcolo dell’ombra apparisse come casuale, e non già causato dai corpi; esimendosi così dal riattribuire all’uomo l’antica funzione umanistica dirimente di eterno protagonista e signore del creato. Perciò il Caravaggio seguita, e fu fatica di anni, a scrutare l’aspetto della luce e dell’ombra incidentali.
Inutile, a questo punto, chiedersi se vi siano stati stimoli particolari al mutamento. Quanto più alti i frangenti, sempre ve ne furono. Dalla vita stessa? Meglio non indagare in quel mare di miseria che gli cresceva attorno, anche doppiato il capo della povertà materiale. Dall’arte? Nel bene e nel male, tanto poteva servirgli riguardare, obtorto collo, un brano di Michelangelo o di Raffaello o qualche modello antico (e concludere che tutto questo era già stato fatto e perciò perento), quanto sbirciare il D’Arpino o i suoi accoliti sui palchi di San Giovanni in Laterano (al solo fine di rinfocolarsi nell’indignazione che è pur un pungolo a fare tutt’altro). O mormorare accanto al Giustiniani sull’arrivo dei primi quadri bolognesi a Roma e poi di Annibale in persona; smozzicando che proprio il meglio di quei dipinti s’era già visto altrove più schietto e che questa verità dimidiata tornava a «macinar colori» e non «carne» com’egli faceva (e come si dice che Annibale stesso gli abbia riconosciuto). Quanto ai quadri veneti, ne conobbe i migliori quando giunsero da Ferrara, nel 1599, forse scortati dal suo rivale D’Arpino; ma a quella data egli aveva già dipinto a San Luigi le tavole a più riprese cancellate, variate e corrette, della sua nuova realtà. Nulla di meglio, perciò, che guardar subito ad esse.
Le vicende dei due famosi dipinti, una volta accertato ch’essi cadono nel cuore dell’ultimo decennio del secolo e, specificando, dopo la fase speculare di adolescenza e prima della «grande maniera personale» che si apre col secondo San Matteo, potrebbe anche omettersi nei particolari così poco decifrabili sulle carte….
Ben presto sentiamo aprirsi la vicenda dei due grandi «pensieri» per San Luigi: la Vocazione e il Martirio di San Matteo.
Caravaggio, Vocazione di San Matteo (1599-1600), Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi

E per prendersi dalla Vocazione. Che il primo e palese spunto mentale dell’artista sia stato di raffigurarla come una scena di «giocatori d’azzardo» (…) è indice di quasi immediato attacco con le precedenti opere di soggetto feriale, coi Bari soprattutto; mentre è del pari segno di giovanile e spregiudicata esperienza (o inesperienza) che il Caravaggio ardisca cimentarvisi proprio in un’opera di gran mole e di pubblica destinazione chiesastica. E’ stata anche rievocata, e opportunamente, la preziosa indicazione di un biografo germanico (il Sandrart), che il Caravaggio, per il suo dipinto, avesse tratto qualcosa dall’incisione dello Holbein con i Giocatori e la Morte; indicazione assai più portante che non fosse stata sul finire del Cinquecento quella di Federico Zuccari quando tacciava il Caravaggio di plagio da un’improbabile opera di Giorgione: calunnia presto rinforzata, in quella stessa cerchia ostile, con il disegno «alla giorgionesca» (oggi agli Uffizi) insidiosamente atteggiato a guisa di modello per il dipinto di San Luigi, dal quale invece desume; e con tali refusi da svelare subito l’inganno. Giovi insistere che la incisione holbeiniana è ben altrimenti significativa, proprio per la concezione poetica di un tema di vita dissoluta che si cangia ad un tratto per forza di un destino che sopravviene: la Morte nello Holbein, il Cristo salvatore nel Caravaggio; due simboli di eternità nel senso di quei tempi e per due diverse nazioni. Restò fermo anche per il Caravaggio (da quella stampa) che il più dello svolgimento del tema era nella tavolata dei giocatori; e così ne provenne al Cristo un che di citazione iconografica suppletiva; e non pienamente risolta finché egli non intese quanto più risolutivo, anche come struttura di luce e di ombra, fosse l’appello creato dalla folata di luce radente che penetra, nello stanzone, col Cristo, e con la velocità del suo raggio lo precede. Ed è in questa parte, infatti, che l’esame radiografico ha rivelato le corretture più forti.
Su questo punto, insomma, il Caravaggio dovette meditare in un secondo tempo, quando cioè, su quell’iniziale impianto di scena mondana che anche la scelta dei colori vividi mostra legato allo spirito dei primi anni (il giovinetto piumato visto di fronte è probabilmente lo stesso modello della Buona Ventura), procedette a rinforzare via via ombre e luci fino a un colmo drammatico che richiama l’immagine poetica dello Eliot … (rispondenza significativa, anche se casuale, tra un pittore della fine del Cinquecento e un poeta neoelisabettiano…) (…).
Caravaggio, Buona ventura (1593-1595), Roma, Pinacoteca Capitolina

Ma che il pittore, rinforzando con gli strati successivi della esecuzione il quadrante della partitura tra la luce e l’ombra, venisse sempre più a gravare sulla fatale rilevanza dell’evento, questo è il segno di una nuova capitale esperienza che succede a quella dello «specchio» degli anni adolescenti; ed è l’esperienza ad uso pittorico (leggi poetico) della «camera oscura».
Questa nuova esperienza del Caravaggio non disdice al costante avvicendarsi delle idee artistiche; anzi, come già la prospettiva ai tempi del Brunelleschi, essa costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della nuova epoca. Non maraviglierebbe che il Caravaggio dichiarasse d’intendere ormai con le sue ricerche a una specie di «magia naturale» che era, fin dal 1558, il titolo di un libro famosissimo di Giambattista Porta. E quando, sul 1620, leggiamo in un biografo questa descrizione dello studio, dell’atelier del Caravaggio: «Un lume unito che venga dall’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza con le pareti colorite di nero che così avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto oscure, vengano a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto né pensato da altro secolo o pittori più antichi», non sorprende che la definizione sia molto simile a quella della «camera oscura», che negli anni quasi del Caravaggio il Porta ci descriveva come sua propria invenzione. (…)
Nel Caravaggio, invece, è la realtà stessa a venir sopraggiunta dal lume (o dall’ombra) per «incidenza»; il caso, l’incidente di lume ed ombra diventano causa efficiente della nuova pittura (o poesia). Non v’è Vocazione di Matteo senza che il raggio, assieme col Cristo, entri dalla porta schiusa e ferisca la turpe tavolata dei giocatori d’azzardo.
In effetto, l’artista stagliò questa sua descrizione di luce, questo poetico «fotogramma», quando l’attimo di cronaca gli parve emergere, non dico con un rilievo, ma con uno spicco, con un’evidenza così memorabile, invariabile, monumentale, come, dopo Masaccio, non s’era più visto. La luce che rade sotto il finestrone, spartita dall’ombra come in un quadrante regolabile, lascia riflessi fiochi sulla sordida impannata: sospende nell’aria greve la mano del Cristo mentre l’ombra corrode il suo sguardo cavo; striscia sulle piume, si intride nelle guance, si specchia nelle sete dei giocatorelli; sosta su Matteo mentre, raddoppiando ancora con la destra la puntata, addita se stesso, quasi chiedesse: «Vuol me?» (e il viso scocca dall’angolo delle palpebre sbarrate il ciglio dell’ombra); spiuma confusamente la canizie del vecchio importuno in occhiali; per ultimo, fruga viso e spalle del giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nell’ombra lurida della propria perplessità.
Concepita dunque, di seguito alle cose più giovanili, come evento di costume moderno (…), la scena non poteva non intoppare nell’ostacolo del Cristo e dell’apostolo che pur bisognavano di figurarvi ma che, in quel costume, non si ritrovavano; e il Caravaggio si ridusse, su quel punto, a concedere alquanto a una storica drappeggiatura, non senza soffrire di un contrasto che, soltanto nel corso del lavoro, la sopraggiunta unità drammatica di luce-ombra riuscirà, otticamente, a velare; ma che non è ancora il modo in cui il pittore saprà risolvere il problema più tardi, dopo ben altre meditazioni di «contenuto».
Di fronte alla Vocazione, il Martirio del Santo. (…) Così com’è, inutilmente sorretta nei primi piani dai nudoni retorici dei manigoldi scamiciati, l’opera non va immune da alcuni odiosi ricordi manieristici che non mancano di riconfermare precocità e relativa immaturità d’invenzione, respingendo ancora di alquanto l’abbrivio del dipinto.
Caravaggio, Martirio di San Matteo (1600-1601), Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi

E non che occorra trascurare, neppure in questo caso, la controparte più geniale del giovine rivoluzionario. Sebbene si trattasse di una leggenda situata in Etiopia (…), ..il Caravaggio (…) ha l’ardire di trasformarlo in un fattaccio di cronaca nera entro una chiesa romana dei suoi giorni. Violata la santità del luogo, vi è entrata da più parti la squadraccia dei bravi e il santo, già trafitto, è ora rovesciato sotto i gradini dell’altare dal manigoldo che sta per finirlo. Degli astanti, venuti per la messa, oltre il signorotto insolente che con un gesto fatuo sull’elsa ribatte nel fodero la lama ormai inutile, taluni sembrano assistere attoniti; altri più timorosi (e fra questi, strano a dirsi, il Caravaggio stesso che s’è fatto ora crescere baffi e moschetta come uno studente spavaldo) tirano a scampare come da una comune rissa di strada; altri ancora, nella luce di spiraglio (forse dalla porta laterale lasciata aperta dall’irruzione), levano le mani in gesti di stupore o di orrore. Nell’aria bruna che ancora grava sul centro della scena quasi galleggia il nudo fortemente inciso d’ombre del carnefice (memore sempre di quello del Moretto nel San Pietro Martire di Bergamo): fiorisce come un petalo grasso la cotta del chierichetto che, fuggendo sulla destra, ancora ripete la reazione fisica, momentanea del Giovinetto morso dal ramarro, della Maddalena, dell’Isacco«che grida»; poi, nella «ingegnosa descrizione dell’oscurità» che invade l’abside, il Caravaggio trova ancora modo d’indugiarsi sull’angelotto nudo, mentre si flette, dalla nube densa, a sporgere la palma del martirio; di osservare come si torca per la ventata dell’ala la fiamma della candelina; di perlustrare sulla destra, in penombra, la preziosa «natura morta» delle ampolline da messa nel bacile di peltro; un altro smorzato ricordo della fase «speculare» di adolescenza.(…)
Caravaggio, San Matteo e l'Angelo (1602)
Roma, 
Chiesa di San Luigi dei Francesi
Siamo al punto in cui il Caravaggio, quasi affatto risolta la lunga crisi, può sorridere dell’ingenuo San Matteo«che prima aveva fatto per l’altare di San Luigi» e chiede egli stesso, c’è da credere, di poterlo sostituire con una seconda invenzione che meglio accompagni, anche di proporzione, le due storie finalmente collocate sulle pareti della cappella Contarelli.
Che il formato della tela dovesse, così, crescere assai più d’altezza che di larghezza, non fu l’ultima ragione che suggerì al Caravaggio di concedere, e per la prima volta, che gli angeli, almeno gli angeli, possano volare. E sia pure che la sua solita dialettica lo stimolasse a immaginarne uno sorretto in aria dallo schiocco dell’enorme accappatoio, quasi a guisa di paracadute. Ma in tal forma, almeno secondo il «decoro» dell’epoca, l’angelo poteva dar le sue spiegazioni ab alto e il santo, non più duro di cervice come nella prima versione, semmai d’orecchio, doveva, per sentir meglio quel che trascrivere nel registro aperto sul tavolo d’architetto, rizzarsi dallo sgabello; poggiandovi un ginocchio però e, ad ogni attacco di frase, prillandolo verso di noi fino a farlo sbandare nel vuoto, oltre il dipinto stesso.
Questo forte effetto illusionistico, rinforzato dal punto di vista dal basso, trovò poi un magico accordo sia con l’adozione di un costume aulico, ma immanente, e cioè che indossa bene ogni tempo e quasi non si può datare, sia con l’invenzione di un colore inedito, quasi fluorescente sull’oscurità, e che accozza i due toni, affini e pur distinti, di giallo e arancione che si scorzano dall’alto nella tunica e nel mantello del santo; per questa parte, una rivelazione già rembrandtiana. Nell’insieme, tuttavia, non è da negare che il quadro fa più che una concessione al «decoro» richiesto dai tempi e dal luogo. Il manto ricade in basso con una falda lunga, lanceolata, elegante quasi come, più tardi, nel Mochi; e di nuovo sboccia con eleganza di sèpali attorno alle mani ch’eran già moderne; naturali, «senza disegno», tutte a incisi tonali, a tacche, a tasselli, a cordelle di vene, tra rughe e pelle. In questo innegabile contrasto v’è riflessi dell’ambiente pittorico a quei giorni? Non polemica, come per l’innanzi, ma discussione pacata con Annibale Carracci; nel «maneggio del colore», una comprensione maggiore dei classici veneziani appena giunti da Ferrara.
Del resto, un biografo ci avverte ch’egli «usò ogni sforzo per riuscire in questo secondo quadro»; e lo sforzo era palesemente anche di cultura. Non è indiscreto, insomma, ammettere che il Caravaggio voglia qui provarsi in una sua propria «maniera grande», quasi una «classicità» inclusiva al proprio «modo naturale». Ma ciò non era senza pericoli, ché la classicità aveva una storia e una autorità troppo lunghe e fondate.
Come egli evitasse quei pericoli si rivela (...) vedendolo all’opera nei due quadri commessigli da monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere papale, per le pareti laterali della sua cappella in Santa Maria del Popolo, con la Crocefissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. E quando, dalla premessa del contratto, si colleghi l’elogio dello «egregius in urbe pictor» con il fatto che il quadro dell’altare era stato invece commesso ad Annibale Carracci, non è dubbio che la duplice scelta stia ad indicare i due più famosi pittori di Roma.
Caravaggio, Crocefissione di San Pietro (1600-1601)
Roma, Basilica di Santa Maria del Popolo
I due dipinti, che il committente voleva condotti su tavola di cipresso e anticipati da modelli, ebbero, com’è noto, una prima redazione, subito passata in altre mani e ciò non già perché non piacessero al committente, come pure si è voluto insinuare (ché anzi chi li vide li dichiara quasi identici agli odierni), ma perché, è da credere, fu il pittore stesso a volerli sostituire con altri nella sua tecnica preferita ad olio su tela.(...)
Il Caravaggio, dopo le esperienze nella «stanza con le parete tinte di nero», è ormai signore delle tenebre e le disserra quel tanto che occorre a non diminuire mentalmente il suo tragico, virile pessimismo. Anche per gli uomini, ora a grandezza naturale per maggior certezza del fatto, non v’è quasi altro al mondo che la sopportazione della fine o una incondita, quasi incidentale, rivelazione.
Sopita ogni polemica, il pittore sa che per una Crocefissione di San Pietro non è ora più bisogno di misurarsi con i giochi di forza massicci svolti circa sessant’anni prima dall’altro Michelangelo nella cappella Paolina e neppure di gravare sulla crudeltà degli aguzzini o, tanto meno, di aggiungerne di bercianti e scamiciati come a San Luigi. Le cose accadono con un’evidenza incolpevole dove ognuno attende all’opera sua. La desolazione insomma è nel fatto stesso su cui sta allo spettatore di giudicare. Sulle rocce brune che saranno (con quella luce negli occhi) l’ultimo ricordo del martire, presso la cava di pozzolana o la calcara di San Pietro in Montorio, il pittore, impassibile, «gira» la fatica dei serventi (il cui gesto, è doveroso riconoscerlo, è di operai che si affaticano e non di carnefici che incrudeliscano nella bisogna), tutti in giubboni e brache frusti, baveri sgualciti (e pur rifiorenti nel lume), piedi fangosi e con i pochi attrezzi: E riprende da vicino il santo, forse notissimo modello buono di via Margutta, che, già infitto alla croce, ci guarda calmo, cosciente come un moderno eroe laico; mentre il mantello bigioazzurro va scivolando in angolo sotto l’ombra del badile brunito, accanto al pietrone friabile e caldo come un pane ancora impolverato dalla cenere del forno.
Caravaggio, Conversione di San Paolo (1600-1601)Roma, Basilica di Santa Maria del Popolo
Anche nella Conversione di San Paolo, fattasi inutile ogni disputa con Michelangelo (o magari con Taddeo Zuccari), il pittore si limita a sorridere di se stesso che tanti anni prima (otto o dieci, chi se ne ricorda più?) aveva pensato così confusamente sullo stesso argomento. Gli ritorna semmai il più antico, toccante ricordo del suo Moretto «a Sant Cels», così spinto, così ingenuo; ma pur caro ricordo per chi ora intenda che si può far di più e più semplicemente. Mettersi, cioè, come spettatore, dalla parte dello scavalcato che si ritrova a terra, e non sa come, tra i finimenti e le redini che spazzano al suolo; e si veda addosso la massa enorme del cavallone pezzato, la bava che cola dal morso e quell’intrigo indecifrabile, tra quadrupede e servente, di vene nodose e varicose; tutto stampatogli in mente d’un tratto da quel fascio di lume spiovente (ma non era forse la lanterna della scuderia?) che ora sigilla nelle sue palpebre richiuse l’aspetto delle pupille cieche nei busti romani.
Con questo sottinteso discreto che sta per sommessa ironia dell’erudizione corrente e che, eliminando fino all’osso la tradizione iconografica del tempo, non manca di fermare un punto nell’immenso percorso mentale del maestro, questi licenzia il dipinto forse più rivoluzionario in tutta la storia dell’arte «sacra». Non fosse che qui si trattava di un dipinto «laterale», potrebbe anzi sorprendere che il Caravaggio riuscisse a «pubblicarlo» senza incorrere in un rifiuto o almeno in serie censure. E quasi si amerebbe sapere se, nel ceto dei dilettanti, mancò chi, usando il titolo nel senso cinetico, galileiano, chiamasse il quadro «la conversione di un cavallo»; resta però lo stupore del biografo più famoso nel rilevare che «la storia è affatto senza azione». Lo stupore verrà corretto più tardi dall’elogio per «il cavallo pomellato che è simile al vero» o, addirittura, «mirabile». Ma queste sono già frasi di amatori. Nella vicenda comune.
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Pasolini, la pista del petrolio, di Paolo Di Stefano

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Un ringraziamento a Lorenzo Ruggiero di Kaos Edizioni per l'immagine e il testo dell'articolo di Paolo Di Stefano
Pasolini, la pista del petrolio   
L'omicidio, tra sfondo sessuale e documenti scomparsi su Cefis
di Paolo Di Stefano, "Corriere della Sera" 6 febbraio 2013

I tanti che, appena si sollevano dubbi sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini, sorridono invocando il complottismo, possono stare tranquilli: avranno sempre ragione. Nessuno riuscirà mai a dimostrare nulla sulla morte dello scrittore. Intanto, per gli altri, i cosiddetti «complottisti», gli interrogativi restano. Che Pasolini sia stato ammazzato per ragioni sessuali rimane la verità ufficiale: il diciassettenne Pino Pelosi lo uccise all'idroscalo di Ostia nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 in una rissa. Punto. Questa certezza aveva molti vantaggi: per i letterati confermava l'idea di una morte coerente con la figura anomala dell'intellettuale che aspirava a entrare nel mito; per il movimento gay diventava l'emblema della violenza subita dagli omosessuali. Prende piede da qui la messa a fuoco fatta da Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti nel libro Frocio e basta, edito da Effigie. 
La versione ufficiale subì un forte scossone quando, nel maggio 2005, Pelosi ritrattò la sua confessione, sostenendo di essersi accusato perché sotto minaccia: disse di poter ormai parlare perché gli autori della minaccia erano morti. Precisò che sul luogo del delitto c'erano due auto; che Pasolini si trovava lì per ricevere da un ignoto due bobine di Salò trafugate; che già conosceva lo scrittore. Emerse inoltre che il giovane con cui Pasolini cenò quella sera non era Pelosi ma un biondo con i capelli lunghi. Sono ritrattazioni che trovano conferma in altre testimonianze. Eppure nell'interpretazione dell'opera e della vita (compresa la morte) dello scrittore di Casarsa ha sempre funzionato una sorta di effetto metonimia: la parte (il sesso) per il tutto. «Pretendere di ricavare dalla sessualità dell'autore una verità sull'opera è una procedura fallace e criticabile - scrive la Benedetti -, ma volerne ricavare addirittura la verità del suo omicidio offende la logica, e ancor più il senso civile della verità, che non si fermano a ciò che è verosimile ma chiedono fatti e prove».
È vero che alle lacune probatorie non si riesce a rimediare nemmeno evocando Petrolio, ma ciò che non si può liquidare con una battuta è che l'elaborazione di quel libro, da parte dell'intellettuale più ascoltato del momento, entra in un insieme inquietante. È l'insieme delle morti che hanno come movente l'oro nero. Nel 2003 lo scriveva già il magistrato Vincenzo Calia nella Richiesta d'archiviazione del caso Mattei, citando appunto Petrolio. In quel romanzo incompiuto, che mescola l'allegoria erotica con i riferimenti alla storia e all'attualità politico-economica, l'autore arriva alle stesse conclusioni a cui venticinque anni dopo sarebbe giunto Calia dopo la sua lunga indagine. Lo scrive in uno schema riassuntivo intitolato Appunti 20-30. Storia del petrolio e retroscena: «In questo preciso momento storico (I Blocco politico) Troya (!) sta per essere fatto presidente dell'Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)». Troya è il nome che nella finzione lo scrittore attribuisce a Eugenio Cefis. Era quanto aveva rivelato, peraltro, un misterioso libro firmato con lo pseudonimo Giorgio Steimetz e intitolato Questo è Cefis. Il libro, uscito nel 1972 per l'Agenzia Milano Informazioni di Corrado Ragozzino, racconta la spregiudicata avventura di un capitano d'industria tra pubblico e privato, tra Stato e centri di potere occulto. L'Agenzia era finanziata dal democristiano Graziano Verzotto, della corrente rumoriana, braccio destro siciliano di Mattei e informatore segreto di Mauro De Mauro, il giornalista de «L'Ora» di Palermo ucciso nel 1970 mentre indagava sul caso Mattei, arrivando più meno alle stesse conclusioni riguardo alla responsabilità di Cefis. Il libro di Steimetz fu fatto sparire sistematicamente dalla circolazione, ma tra le carte di Pasolini, oggi depositate al Gabinetto Vieusseux, ci sono le fotocopie, che lo scrittore utilizzò come fonte. Tra quei materiali figurano anche altri documenti, sempre procurati da Elvio Facchinelli, animatore della rivista «L'Erba Voglio»: si tratta di tre conferenze (una inedita) di Cefis, compreso un discorso pronunciato all'Accademia militare di Modena il 23 febbraio 1972, che Pasolini voleva inserire nel romanzo, come cerniera tra la prima e la seconda parte.
Va inserito qui il mistero delle pagine di Petrolio che si presume siano sparite come cinque anni prima era sparito, con il suo autore, il dossier scritto di De Mauro che concludeva il lavoro commissionatogli dal regista Francesco Rosi sull'omicidio Mattei. Il libro di Benedetti e Giovannetti ricostruisce, sulla base di inchieste giudiziarie e giornalistiche, il complicato intreccio tra servizi segreti, politica, ambienti economici (centrale la figura dell'avvocato Vito Guarrasi, braccio destro di Cefis in Sicilia), gerarchie militari e criminalità organizzata che portarono alla morte non solo di De Mauro, ma anche del magistrato Pietro Scaglione, assassinato da Luciano Leggio e Totò Riina nel maggio 1971, il giorno prima che andasse in tribunale per testimoniare sulla vicenda De Mauro. E pure il vice questore di Palermo Boris Giuliano, il 21 luglio 1979, verrà fatto fuori dalla mafia dopo aver completato le indagini su Mattei. In coincidenza con questi omicidi spariscono sistematicamente i documenti più scottanti sugli affari e i delitti che riguardano il petrolio italiano. 
Ora, non è affatto scontato che il famoso Appunto 21, di cui nel manoscritto rimane solo il titolo (Lampi sull'Eni), sia stato trafugato. Ma ci sono elementi che concorrono a questa ipotesi: intanto nell'Appunto 22 Pasolini lo cita come un capitolo già scritto, che doveva contenere, tra l'altro, riferimenti espliciti al periodo partigiano di Cefis, oscurato da un episodio compromettente. Di un'effrazione in casa Pasolini nei giorni successivi all'omicidio parla un cugino dello scrittore, Guido Mazzon, che ricorda una telefonata in cui la cugina Graziella Chiarcossi comunicava quel furto. Nel marzo 2010, Marcello Dell'Utri annunciò che quelle carte sarebbero state esposte alla Mostra del libro antico di Milano, salvo poi tirarsi indietro. Nella mostra c'era, insieme al libro di Steimetz e altrettanto introvabile, un altro volume, intitolato L'uragano Cefis: autore misterioso, editore misterioso. Dell'Utri disse di aver visto i 78 fogli del capitolo Lampi su Eni: il caso vuole che Pasolini dichiarò di aver scritto 600 pagine e ciò che rimane sono 522 fogli. Dell'Utri aggiunse che si trattava di veline gialle, esattamente come tanti fogli Extrastrong di carta Fabriano che costituiscono il manoscritto del romanzo. Può darsi che il senatore avesse imparato a memoria la parte, al punto da far coincidere alla perfezione tutti gli elementi. Difficile dire.
Difficile sapere perché un senatore della Repubblica abbia fatto questo annuncio, per poi smentirlo. Incredibile che, legandoli a quel ritrovamento presunto, abbia fatto dichiarazioni su risvolti oscuri della storia italiana (Mattei, Cefis, Pasolini…) senza poi essere minimamente sollecitato a spiegare meglio e a metterci sulle piste del testo inedito. Dopo un'interpellanza parlamentare di Walter Veltroni, tutto è sprofondato nel silenzio. Gli anticomplottisti ne saranno felici.
VEDI ANCHE:
Frocio e basta
di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
Un libro pubblicato da effigie, Milano, ottobre 2012
E LINK COLLEGATI

PROBABILMENTE PUO' INTERESSARE ANCHE:
Enigma Pasolini
di Angela Molteni
Appunti su Pier Paolo Pasolini, su Petrolio, sull'assassinio
mai chiarito dello scrittore, sulle connessioni con i casi Mattei-De Mauro.
Protagonisti, ipotesi, testimonianze.
Un e-book in pdf da scaricare gratuitamente
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Il corpo tragico della storia. Pasolini e Debord, di Carla Benedetti - SECONDA PARTE

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Il corpo tragico della storia. 
Pasolini e Debord 
di Carla Benedetti
febbraio 2013, "Il primo amore"



5. La nuova estensione del mondo


Nel film di Pasolini le vicende storiche sono costantemente inserite in un orizzonte più vasto di quello a cui ha accesso la rappresentazione storico-sociale che l’epoca fa di sé: la cornice si apre fino ad abbracciare l’intera storia dell’umanità, nei suoi tempi lunghi, millenari, nelle sue speranze e nelle sue lacerazioni ricorrenti. Non solo viene abbandonata la prospettiva etnocentrica per accogliere nel canto i bambini di colore e i miserabili dell’intero pianeta, come si nota nelle sequenze sul Terzo mondo (“Si chiama colore, la nuova estensione del mondo”). Ma viene anche oltrepassato l’orizzonte della Storia, quello che ritaglia le vicende dal più vasto flusso della vita dell’universo per dare loro una concatenazione, una spiegazione e una parvenza di senso. Mentre sullo schermo scorrono le immagini dei morti e dei profughi in fuga dall’Ungheria, per l’invasione sovietica del 1956, la voce fuori campo così parla:


Queste nevi erano dell’altro anno 
o di mille anni fa, prima di ogni speranza.

Ciò che ci viene mostrato nella Rabbia, in questa cavalcata di dieci anni di storia, non sono le sequenze storicamente legate e interpretate, ma “le vecchie, sanguinanti strade della terra”. La continua tensione verso l’allargamento della cornice giunge persino a prendere dentro ciò che la storia non riesce a spiegare. Nelle sequenze su Cuba, che mostrano i combattimenti della guerra di liberazione, fino alla vittoria - una vittoria che “costerà terrore” perché “i nemici sono tra gli stessi fratelli”- alcuni versi vengono ripetuti due volte con una piccola variazione:

Ora Cuba è nel mondo: 
nei testi d’Europa e d’America 
si spiega il senso del combattere a Cuba. 
Una spiegazione feroce 
che solo la pietà può rendere umana 
nella luce del canto, il combattere a Cuba.

E poco dopo:

[...] una spiegazione feroce, - che solo la pietà può rendere umana - nella luce del pianto, il morire a Cuba [1]

Così si squarcia la spiegazione storica della rivoluzione cubana lasciando apparire quel vuoto di senso immedicabile che c’è anche in quella guerra, e di cui la collettività si fa carico con il suo canto corale. Rendere umana la ferocia nella luce del canto e del pianto non era forse ciò che spettava al coro nelle antiche tragedie?
La sequenza su Cuba che compare nel film di Debord non lascia adito a questo tipo di emozioni e di riflessioni. Si vede Fidel Castro che parla davanti alle telecamere, anch’egli risucchiato nella società dello spettacolo. Dentro a questa dimensione e nel perimetro di quei concetti ogni evento trova spiegazione.
L’allargamento della prospettiva da cui si guardano le vicende degli uomini si concretizza nella Rabbia anche nelle immagini finali che mostrano il primo volo spaziale e la terra vista per la prima volta dal cosmo. Il commento presta la sua voce all’astronauta russo, che racconta come da lassù gli uomini gli apparissero tutti fratelli.
Pasolini e Debord condividono una visione in senso lato apocalittica. Parlano entrambi di cambiamenti epocali in atto che si aprono su di un futuro che si immagina terribile. Eppure nel film di Pasolini il mondo non si chiude sul “funebre cappuccio” della bomba atomica, e ancor meno sull’”irrealtà” della vita dentro all’”enorme accumulazione di spettacoli”. Si apre invece su quell’insolita e toccante sequenza cosmica:


Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile... una soluzione che nessun profeta può intuire... una di quelle sorprese che ha la vita quando vuole continuare... forse... Forse il sorriso degli astronauti: quello forse, è il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.  [2]

Nel film di Debord il montaggio crea forti attriti tra le immagini, ma sempre restando all’interno di una prospettiva storico-sociologica, con la sua dimensione temporale corta: le cover girl, le armi, la pornografia, la polizia, la nomenclatura sovietica. Non solo resta fuori il mondo non occidentale ma anche i fenomeni naturali, i disastri, le pesti, gli tsunami da cui gli uomini continuano a essere colpiti anche nel tempo della società dello spettacolo. Pasolini invece li prende dentro al quadro, montando le immagini di una serie di alluvioni che hanno colpito in quegli anni diversi paesi, commentate così:

“Il male della vita è libero. Esso può rovesciarsi dal cielo, secondo le vecchie abitudini dei millenni, nel sonno dei continenti [...] In Francia la grande borghesia subisce l’onta del cielo scatenato: dal Delfinato al Dipartimento di Parigi, le Acque del feudalesimo sembrano smentire la Ragione, nei grigi dell’alluvione”).  [3]

Anche il montaggio di Pasolini provoca spesso attriti tra le immagini (ad esempio il quadro fisso del teschio che incornicia la sequenza di Sofia Loren che assiste alla lavorazione delle anguille), ma ciò nasce sempre dall’urto tra la prospettiva della storia sociale e politica e quello che le sta fuori, e che la fa apparire angusta, come vista dal cosmo. Nello stesso tempo questi cortocircuiti, benché inaspettati, non sono avvertiti come forzature, o come fuochi d’artificio dell’intelligenza: al contrario appaiono organici, perché tenuti assieme dalla forma tragica, che suscita la comprensione assieme alla pietà. Dentro al canto che le avvolge, quelle vicende conflittuali si allargano su di un piano di eternità.


6. Il mythos, il coro e il pathos


Pasolini dunque, più che inventare un nuovo genere, fa rinascere un genere antico. Della forma della tragedia La rabbia possiede non solo la tonalità alta ma anche tre dei suoi tratti fondamentali che la caratterizzano come genere.
Come nelle antiche tragedie, anche nella Rabbia le vicende e i personaggi mostrati sono noti a tutti. Il mythos, su cui il tragediografo costruisce il dramma, ha infatti come caratteristica necessaria di essere parte integrante del patrimonio di conoscenze degli spettatori. Spesso si tratta di materiale mitico, ma a volte anche storico. Nei Persiani, ad esempio, Eschilo mette in scena un evento storico recente, la vittoria sui Persiani, avvenuta appena otto anni prima con le battaglie di Maratona e Salamina. Così nella Rabbia ci vengono presentate le immagini dei cinegiornali che raccontano gli eventi noti del passato recente, dal dopoguerra al boom economico: le nuove guerre che si sono aggiunte a quella da poco lasciata alle spalle, i nuovi lutti, ma anche nuove gioie e vittorie: dalla bomba di Hiroshima alla guerra di Corea, dall’invasione dell’Ungheria alla liberazione della Tunisia, dalla rivoluzione cubana all’incoronazione della regina Elisabetta, dall’elezione di papa Giovanni XXIII all’arrivo della televisione.
Il secondo tratto della tragedia riattualizzato da Pasolini è il coro. Nella Rabbia ciò che vediamo sulla scena, che per noi è lo schermo cinematografico, viene accompagnato da un canto che ha i caratteri di un coro tragico. I versi già citati ne sono un esempio. Ma vediamone un altro. Secondo la sceneggiatura originaria, il film avrebbe dovuto iniziare con le immagini dei funerali di De Gasperi, accompagnate da questi versi: “Il tempo fu una lenta vittoria / che vinse vinti e vincitori”. Il commento porta così da subito il racconto su di un piano universalizzante, su quel tempo tipicamente tragico che lentamente disfa le vittorie e i trattati e accomuna chi vince e chi è vinto.
Nelle immagini immediatamente seguenti, che raccontano il ritorno delle ceneri dei combattenti morti a Cefalonia, il commento si complica in ben tre voci: alla “voce in poesia” e alla “voce in prosa” si aggiunge anche la “voce ufficiale”, cioè il commento originario del cinegiornale che dispensa a quei morti un tributo di circostanza. Subito la voce in prosa si affretta a commentarla:” Ah, voce senza affetto, voce senza pietà, voce della stessa patria di allora, voce della cattiva coscienza, voce che li ha mandati a morire!”
Tra tutti i caratteri della tragedia il coro, o stasimo, sembrerebbe quello più improbabile da riattualizzare in un’opera moderna. Pur essendo il momento più arcaico e fondante della tragedia, già scompare in epoca ellenistica. Inoltre, come osservava Leopardi, sulle bocche del coro risuonavano le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di compassione, espresse in versi lirici, che si cantavano accompagnati dalla musica, e noi oggi tutte queste circostanze le condanneremmo “come contrarie alla verosimiglianza” (Zibaldone, 2085). Eppure proprio il cinema, grazie alla sua caratteristica di poter usare due piani, le immagini e il sonoro - e quel particolare sonoro che è il commento fuori campo - rende possibile una riattualizzazione non artificiosa del coro. Nella Rabbia il coro può concretizzarsi come voce fuori campo e apparire non solo verosimile ma del tutto organico all’opera. Questa scoperta Pasolini la fa quasi inconsapevolmente. E la fa nel cinema, non nel teatro. In seguito tenderà a ricreare questa voce dislocata anche nel romanzo (alludo a Petrolio, e alla voce dell’autore che in quel testo resta sempre in primo piano, senza mai assumere le vesti di un narratore). [4]
Il terzo tratto della tragedia che Pasolini riattualizza è, come abbiamo già detto, la forte mobilitazione di emozioni attraverso il pathos. Nella sequenza sulla Televisione (restaurata da Giuseppe Bertolucci) il commento sonoro dice "voce dell’insincerità, voce della menzogna". E fin qui Pasolini non si discosta da ciò che Debord e molti critici successivi sostennero della televisione e del suo ruolo falsificante o irrealizzante. Ma commentando la voce ufficiale dei cinegiornali, egli aggiunge anche: "voce senza pietà”. Questa notazione invece non la troveremmo negli altri critici della cultura ed è il punto più saliente dell’intuizione di Pasolini e delle motivazioni artistiche che lo spingono a ricreare la tragedia, e in particolare il coro tragico, con i mezzi del cinema. I cinegiornali, o i telegiornali, ci mostrano quotidianamente, in un rapido montaggio, guerre, ingiustizie, delitti, disastri, sofferenze planetarie, fame, violenze sulle donne, sui bambini... E subito dopo inizia la pubblicità. Ricevere tutte queste atrocità senza potersi soffermare su ognuna per comprenderla e compiangerla, senza nessuna elaborazione emotiva, senza che si alzi un coro a accompagnarne lo strazio, è qualcosa di disumano. La televisione non solo manipola la verità, non solo sostituisce alla realtà una realtà virtuale, ma atrofizza la facoltà del compianto, e induce a un’accettazione paralizzata del male. E’ come una tragedia priva di coro.
Quel commento poetico con cui Pasolini ha accompagnato le immagini montate nella Rabbia è stato a volte considerato troppo lirico o troppo enfatico. [5] Non era in effetti il tipo di commento che ci si aspettava da un film di montaggio, sia documentario sia film-saggio. Ma non appena lo consideriamo come coro tragico, possiamo capirne il senso e apprezzarne l’efficacia. E’ il corifeo che ci parla, non un io lirico.


7. Il conflitto, la capitolazione


La differenza tra La rabbia e La società dello spettacolo rivela anche la distanza che separa Pasolini dalla forma mentis apocalittica e chiudente tipica di Debord e di molti altri “critici della cultura” del secondo Novecento [6], che hanno descritto il potere come un meccanismo privo di incrinature, capace di espandersi senza incontrare resistenze. Dalle loro analisi spariva il dolore, la sofferenza, le lacerazioni provocate da quelle macchine nel tessuto della vita, e quindi spariva anche il conflitto.
La diagnosi di Debord non è meno cupa e apocalittica di quella di Pasolini. Però il suo sguardo è privo di canto e di pianto. Non è tragico, cioè è senza conflitto. È uno sguardo che capitola sotto l’idea della necessità storico-sociale della macchina di dominio che sta denunciando. Quella di Pasolini invece è unaforma mentis tragica, che non solo dà voce alla pietà per il dolore degli uomini travolti dai nuovi poteri, ma ci fa anche percepire l’odierno corso della storia non come necessario ma come intollerabile. E’ uno sguardo che oppone resistenza, che non capitola.

(Parte di una relazione tenuta al Convegno “Filosofia, letteratura, tragico”
 Bologna, 16-17 novembre 2012, di prossima pubblicazione negli atti, a cura di N. Novello, Liguori.)

---------------
[1] Ivi, pp. 374-5.
[2] Sono le frasi conclusive del “trattamento” di La rabbia, in P.P. Pasolini, Per il cinema, cit., p. 411.
[3] Ivi, p. 362-3. Pasolini fu costretto a tagliare drasticamente il film, perché il produttore volle affiancargli una seconda parte, girata da Giovannino Guareschi, secondo lo schema del “visto da sinistra e visto da destra”, ritenuto di di maggiore impatto commerciale. Perciò nella versione finale del film queste immagini mancano. Resta però la sceneggiatura originaria, seguendo la quale Giuseppe Bertolucci, nel 2008, ha tentato una ricostruzione plausibile delle sequenze mancanti, attingendo dagli stessi cinegiornali visionati da Pasolini.
[4] Per un’analisi della forma compostiva e enunciativa di Petrolio rimando ai miei “Quattro porte su ’Petrolio’ , in AAVV, Petrolio, Cronopio, 2003 e Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri 1998.
[5] Questo ad esempio il commento del critico letterario Alfonso Berardinelli alla nuova edizione della Rabbia restaurata e integrata da Giuseppe Bertolucci: “Più che un film che si guarda, La rabbiaè un film che si ascolta. Spesso il ragionamento si spezza, si perde, e quando l’interpretazione politica gli sembra (gli suona) scontata o azzardata, Pasolini rimedia mettendo in azione il suo elementare, ossessivo, iterativo apparato metaforico e retorico. Pasolini come artista non era tecnicamente all’altezza di se stesso e delle sue visioni" ("Se il mondo intero si riassume nella ’rabbia’ di Pier Paolo Pasolini", in "L’avvenire" del 20.9.2008).
[6] Per un approfondimento di questa differenza di visione, o di forma mentis, rimando al mio Disumane lettere, Laterza 2011, cap. 2, “Storie di conflitto, storie di capitolazione”.
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Passione di Pasolini, di Gabriella Sica

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Gabriella Sica. Foto di Giovanni Giovannetti

Passione di Pasolini 
di Gabriella Sica

Passione di Pasolini è la poesia scritta da Gabriella Sica il 17 dicembre 2005 per il trentennale della morte di Pasolini, e accolta nel suo libro Le lacrime delle cose (Moretti&Vitali, 2009). 
Dell’attenzione di Gabriella Sica per Pasolini ricordiamo il saggio molto letto  
L’artista e la croce. Caravaggio e Pasolini (in Sia dato credito all’invisibile, Prose e saggi, Marsilio, 2000) e il video Pier Paolo Pasolini poeta realizzato per Rai Educational con il regista Barcelloni,  pubblicato in videocassetta da Einaudi nel 2001 e venduto in migliaia di copie: al link “i video” nel sito www.gabriellasica.com



Passione di Pasolini 
di Gabriella Sica

Perché la battaglia è sempre la stessa 
dopo trent’anni d’ansia, 
come i frassini fragili su un campo 
e inermi tra gli alberi-erinni 
i poeti, eretico poeta di verdi campagne  
tra una verzura e un usignolo 
ebbro d’erba nel temporale 
mentre la febbre sale e ancora sale  
ma tu a cercare a Roma tra i ruderi la gioia infinita.
Eri un uomo più moderno d’un moderno 
tu che venivi dai borghi e dalle pale d’altare 
con il tradizionale spirito vivo del grano  
la scandalosa forza del passato e la profezia 
tra i dolci ragazzi sul greto del Tevere 
tra i gatti soli come te al Testaccio 
sui pratoni polverosi al Tiburtino 
e sognavi una terra la tua terra buona  
ma tu camminavi sulle stragi-spine dell’Italia divisa.

Sì, tu sapevi che non c’è libertà per la parola 
che sono mandati nei gulag i poeti 
come Mandel’stam quel fiore tenero di mandorlo 
o il tuo Pound chiuso in una gabbia per animali 
sì, che gli scribi e i farisei non danno il permesso 
perché la poesia non avrà mai peso mai 
in questo paese dei mali  
e tu lì a forzare con il tuo segreto grimaldello 
ma non vuole i poeti e non lo sa l’Italia sbigottita. 

Le lucciole luminose nella Maremma 
ma le rondini no non le ho più viste 
brillano solo alla luce  
pura e antica dell’adolescenza 
con i lavori agricoli e le stagioni cristiane 
i bei viottoli di campagna come opere d’arte 
e le cose agricole immutate per duemila anni 
e i contadini cari e la fontana d’acqua del paese 
ma per te bestia da stile l’alba della lingua era in salita.

Hai provato a educare l’Italia del consumo 
(non più umile) con le parole e la morte 
povero Pier Paolo con il tuo nome uno e trino 
con i trentatré processi e la passione  
non c’è riuscito Cristo in duemila anni 
e sempre a sopraffare l’altro e i poveri della terra 
gli ultimi gli esclusi e i poveri cristi 
a portare la spada e non la pace 
ma troppo alto è lo sforzo inaudito per rifare la vita. 

Poeta assassinato  
tu sai, sai tutto poeta delle ceneri erede 
di secoli di poesia e storia  
poeta mai tiepido e a volte anche ossesso 
con le poesie a forma di rosa e croce  
e i versi urgenti non finiti 
con le tue ragioni e anche i torti 
con le tue unghie per segnare i libri amati 
ma il fragore delle unghie! e la battaglia non è finita.

Nel giorno dei morti amati che tu già abitavi 
alla foce di Ostia nel luogo caro alle anime salve 
il mondo ti ha trovato morto nella polvere steso  
al porto dopo gli affanni 
negli occhi avevi ancora il mare azzurro 
del Tirreno come Caravaggio 
sul corpo i segni della tua ultima nemica 
il pane dell’ostia in bocca
ma finché eri vivo mancava di senso la tua vita, ogni vita.
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I russi di Pasolini: Dostoevskij, i formalisti, il popolo di Mosca. Di Paolo Lago

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LA SAGGISTICA
I russi di Pasolini: Dostoevskij,
i formalisti, il popolo di Mosca
di Paolo Lagoda “Alias”, 19 febbraio 2012


I rapporti di Pier Paolo Pasolini con la Russia e con l’universo culturale russo sono stati fittissimi. A rivelarlo, soprattutto in relazione alla produzione poetica dell’autore, è ora un interessante saggio di Francesca Tuscano, La Russia nella poesia di Pier Paolo Pasolini, Book Time, pp. 192, € 11, 50 che ci offre un appassionato excursus sulla presenza della cultura russa in tutte le raccolte poetiche di Pasolini, fino alle cosiddette ‘poesie disperse’, quelle mai raccolte in gruppi unitari. 
All’interno del complesso laboratorio pasoliniano, contrassegnato da una naturale predisposizione al pastiche e alla contaminazione, non poteva mancare un sottile fil rouge che legasse molta sua produzione alla cultura russa, non solo letteraria. Secondo la Tuscano, la Russia che emerge dalla poesia di Pasolini è legata a due elementi: l’innocenza e la colpa; l’innocenza dei ragazzi di Mosca descritti ne La religione del mio tempo e la colpa di chi, con lo stalinismo, ha tradito gli ideali della Rivoluzione. 
Nel 1957 infatti, Pasolini si era recato a Mosca in occasione del Festival della Gioventù e, poco dopo, per il convegno degli scrittori italiani e sovietici. Il poeta a Mosca, secondo diversi aneddoti raccolti dall’autrice, più che dagli avvenimenti mondani era attratto dal popolo e dalla gente della strada, riscoprendo una Russia contadina come la ‘sua’ Casarsa. E, in una sezione della Religione del mio tempo, Pasolini avrebbe cantato proprio questa Russia, popolare e contadina, tratteggiandola «come un affresco degno delle feste del Maggio medievali, nello spirito del Decameron e dei Racconti di Canterbury». 
Inoltre c’è una sezione della raccolta,  comprendente diversi epigrammi, che si intitola Umiliato e offeso, titolo mutuato dal noto romanzo dostoevskijano. Dostoevskij, del resto, è un autore che Pasolini ha amato e ‘riutilizzato’ moltissimo, anche nella narrativa. Ed anche nelle successive raccolte poetiche i riferimenti al mondo russo non sono certo di minore importanza; si pensi soltanto al titolo dell’ultima sezione di La nuova gioventù, che suona Tetro entusiasmo. Ebbene, anche questa espressione è ripresa da Dostoevskij, da Delitto e castigo: il «tetro entusiasmo» caratterizza lo stato d’animo di Raskol’nikov durante la confessione del suo omicidio. Comunque, oltre ad essere di natura sociale o prettamente letteraria, i riferimenti pasoliniani al mondo russo investono anche la sfera culturale della critica: per il poeta bolognese i critici russi e, soprattutto, i formalisti sono stati un punto di riferimento fondamentale. 
A partire da Michail Bachtin, studioso assai importante per la costruzione dell’intera produzione artistica pasoliniana (è Gianni Scalia - come lei stessa afferma - a confermare a voce alla Tuscano la conoscenza dello studioso da parte di Pasolini), fino a Viktor Šklovskij, Roman Jakobson e Vladimir Propp. Anch’essi hanno contribuito a creare un fondamentale ‘substrato’ per la tessitura della poesia pasoliniana insieme agli scrittori e agli stessi poeti russi, primi fra tutti Vladimir Majakovskij e Osip Mandel’štam.
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Giovanna Gammarota, sulle tracce del paesaggio sacro di Pasolini

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Matera. Foto di Giovanna Gammarota

Giovanna Gammarota, sulle tracce
del paesaggio sacro di Pasolini
di Paola Ciccioli
PASOLINI NEI BLOG
4 febbraio 2013 - http://donnedellarealta.wordpress.com/


«Non ci vuole niente a distruggere la bellezza». Ancora “I cento passi”, ancora pensieri e riflessioni sul film che l’associazione “Adesso Basta” ha riproposto la sera del 1° febbraio alla Camera del lavoro di Milano. Nel film di Marco Tullio Giordana, Peppino Impastato osserva dall’alto l’aeroporto di Punta Raisi dove è in costruzione una terza pista di atterraggio e dice all’amico Salvo: «Bisognerebbe ricordare alla gente che cos’è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla». Sono le parole di un militante politico-poeta che, bambino, recita “L’infinito” di Leopardi a una tavolata di mafiosi di cui fa parte anche don Tano, Gaetano Badalamenti (interpretato da Tony Sperandeo), condannato nel 2002 come mandante del delitto Impastato. L’attualità de “I cento passi” sta proprio nell’indicare nella cultura e nel bello una delle armi del contrasto possibile alla razzia mafiosa. Peppino e i suoi compagni vogliono salvare il paesaggio siciliano e si nutrono di coraggio e idealità politica, ma anche dei versi di Majakovskij e Pasolini.
Pier Paolo Pasolini sul set del "Vangelo secondo Matteo"

Pasolini, il paesaggio. Torno a casa e prendo in mano il libro che Giovanna Gammarota mi ha regalato per il mio compleanno: “Sopralluoghi in Lucania. Sulle tracce del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini”. Giovanna, un incontro felice, dovuto ancora una volta a Ico Gasparri che nel suo spazio Ichome di via Stoppani, a Milano (purtroppo ora chiuso), ha riunito negli ultimi anni artisti, scrittori, donne e uomini impegnati nel volontariato che avevano, e hanno, la necessità di intrecciare le proprie sensibilità. Nel libro, Giovanna raccoglie le immagini scattate nel 2006 nei luoghi del nostro Sud, preferiti da Pasolini per il suo film del 1964 alla “vera” Palestina.
"Il Vangelo secondo Matteo". Gesù parla alla folla. Sullo sfondo, le case di Matera

Scrive Gigliola Foschi nel presentare le foto di Giovanna Gammarota: «…, invece che in Israele, questi spazi dalla compostezza misurata e ricchi di stratificazioni storiche, ancora perfetti per rappresentare il passato e lo scenario del Vangelo, Pasolini li trova nei Sassi di Matera, dove ambienta Gerusalemme; nella campagna appena fuori Barile (dove la gente fino a pochi anni prima viveva ancora nelle grotte), in cui “vede” i luoghi della Natività». E l’autrice del reportage, nel Diario di viaggio che chiude il libro, in un appunto del 18 agosto 2006 annota: «Tutto qui mi appare troppo povero, troppo isolato. Ripenso alle parole di Pasolini: “Tutto qui sta in un pugno”. Luoghi miseri, spogli, disadorni, per nulla spettacolari. Eppure densi di sacro».

VEDI ANCHE IN "PASOLINI.NET":

Giovanna Gammarota, Sopraluoghi in Lucania - Sulle tracce del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini
Mostra di fotografia, a cura di Gigliola Foschi - Milano, 18 settembre-13 ottobre 2007
http://www.pierpaolopasolini.eu/ggammarota_mostraMI01.htm

Le foto della mostra di Giovanna Gammarota
http://www.pierpaolopasolini.eu/ggammarota_mostraMI04.htm
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"Il Vangelo secondo Matteo. Una carica di vitalità", di Pier Paolo Pasolini

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IL CINEMA
Pier Paolo Pasolini sul set de "Il Vangelo secondo Matteo"
Il Vangelo secondo Matteo. Una carica di vitalità
di Pier Paolo Pasolini
in Pasolini per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, vol. I, Mondadori, Milano 2001



Mi secca molto dover parlare di un libro di duemila anni fa: mi sembra di essere un poeta ermetico, o una poetessa, o un professore che tiene una rubrica alla televisione. 
Parlare come di un’ultima lettura di un libro di duemila anni fa è sempre qualcosa che rende molto rispettabili, «grandi», o almeno partecipi della grandezza. Ma, per quel che mi riguarda, è stato un puro caso.
Ho riletto, per la quinta o la sesta volta in queste ultime settimane, il Vangelo secondo Matteo, per ragioni di lavoro. Infatti devo cominciare a trasporre il testo - senza la mediazione della sceneggiatura, ma così com’è, come se fosse già una sceneggiatura pronta - in un testo inalterato letteralmente, ma tecnicizzato. Per es.:
   
1 - [figura intera]  di  Maria,  vicina  a  essere  madre.
2 - [primo piano o primissimo piano] di Maria che guarda addolorata, umile, vergognosa.
3 - [primo piano o primissimo piano] di Giuseppe che ricambia lo sguardo addolorato, ma rigido, severo.
4 - [figura intera] di Giuseppe che si allontana in [panoramica] dalla stanzetta.
5 - [figura intera] di Giuseppe che sempre in [panoramica]  cammina  lungo  l’orto (o un piccolo brolo, o un vigneto) e si distende sotto un albero.
6 - [primo piano] di Giuseppe, che stanco, dolente chiude gli occhi, e dorme.
7 - [figura intera] dell’angelo che gli appare, dicendo: «Giuseppe, figliol di Davide, non temere di prender teco Maria, tua moglie...».
    
Pier Paolo Pasolini con Margherita Caruso,
la Vergine ne "Il Vangelo secondo Matteo"
E' la lettura migliore che si possa fare di un testo. Una analisi che mai stilista poté prevedere, quale studio della funzionalità dei lacerti, del potere di visualizzazione dei brani anche connettivi, degli elementi «acceleranti», oltre che di quelli «ritardanti», studiati da Spitzer (il san Matteo è pieno di queste accelerazioni stilistiche, l’ellissi e la sproporzione sono le sue caratteristiche romantico-barbariche) ecc, ecc.
Perché io abbia cominciato un simile lavoro, poi, sarebbe un discorso ben più lungo, è facile immaginarlo. Dirò solo un fatto (sempre tecnico: e chi ha orecchi per intendere, intenda): appena finita la prima lettura del Vangelo secondo Matteo (un giorno di questo ottobre, ad Assisi, con intorno attutita, estranea, e, in fondo, ostile, la festa per l’arrivo del Papa), ho sentito subito il bisogno di «fare qualcosa»: una energia terribile, quasi fisica, quasi manuale. Era l’«aumento di vitalità» di cui parlava Berenson - e ora nozione tanto cara alla mia «cerchia»: Soldati, Bassani, Bertolucci, Moravia... - l’aumento di vitalità che si concreta generalmente in uno sforzo di comprensione critica dell’opera, in una sua esegesi: in un lavoro, insomma, che la illustri, e trasformi il primo impeto pregrammaticale d’entusiasmo o commozione in un contributo logico, storico.
Cosa potevo fare io per il san Matteo? Eppure qualcosa dovevo fare, non era possibile restare inerti, inefficienti, dopo una simile emozione, che, così esteticamente profonda, poche volte mi aveva investito nella vita. Ho detto «emozione estetica». E sinceramente, perché sotto questo aspetto si è presentato, prepotente, visionario, l’aumento della vitalità.
La mescolanza, nel testo sacro, di violenza mitica (ebraica, in un senso quasi razzistico e provinciale della parola) e di cultura pratica, quella entro cui Matteo, alfabeta, non poteva non operare, proiettava nella mia immaginazione una doppia serie di mondi figurativi, spesso connessi fra loro: quello fisiologico, brutalmente vivente, del tempo biblico come mi era apparso nei viaggi in India o sulle coste arabiche dell’Africa, e quello ricostruito dalla cultura figurativa del Rinascimento italiano, da Masaccio ai manieristi neri. Pensate alla prima inquadratura, alla «F.I. di Maria, vicina a essere madre»: si può sfuggire alla suggestione della Madonna di Piero della Francesca a San Sepolcro? Quella bambina, di pelo biondo, o forse appena rossiccio, quasi senza ciglia, le palpebre gonfie, il ventre appuntito il cui profilo ha la stessa castità del profilo di un colle appenninico? E subito dopo, l’orto, o il brolo, in cui Giuseppe si raccoglie a riposare, non è uno di quegli spiazzi polverosi, rosa, con capre rosse, che ho visto nei villaggi egiziani intorno a Assuan, o ai piedi dei vulcani violetti di Aden?
Ma, ripeto, questo era l’aspetto esterno, stupendamente visuale, dell’aumento di vitalità. Nel fondo c’era qualcosa di più violento ancora, che mi scuoteva.
Era la figura di Cristo come lo vede Matteo. E qui col mio vocabolario estetico-giornalistico dovrei fermarmi. Vorrei però soltanto aggiungere che nulla mi pare più contrario al mondo moderno di quella figura: di quel Cristo mite nel cuore, ma «mai» nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo. Seguendo le «accelerazioni stilistiche» di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le «sproporzioni» delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile discorso della montagna), la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione.
(1963) 
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Cultura italiana e cultura europea a Weimar, di Pier Paolo Pasolini - "Architrave", 10 agosto 1942

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LA SAGGISTICA
Il numero di "Architrave" in cui appare lo scritto di Pasolini.
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Cultura italiana e cultura europea a Weimar
di Pier Paolo Pasolini
“Architrave”, II, 31 agosto 1942


... le illusioni quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile.
Leopardi, Zibaldone, 1106

(A scusare la forse troppo porosa e fiduciosa ingenuità di questo discorso, dirò che è stato, più che scritto, gri­dato, mentre, appena tornato da Weimar a Firenze, non mi ero ancora del tutto sciolto da quell'aria eccezionale e memorabile, in cui, nel sentirmi maggiormente europeo, mi sentivo maggiormente, e quasi disperatamente, italiano.)
Le condizioni di una cultura non sono misurabili nel vortice di una manifestazione che ha chiaramente un si­gnificato propagandistico, quale è stato l'incontro Weimar-Firenze. Lassù a Weimar, tuttavia, non in senso uf­ficiale, ma attraverso un'assidua attività privata, ab­biamo potuto circuire il sistema o la barriera della ceri­monia, giungendo quasi di soppiatto, alle spalle, a scan­dagliare nella sua probabile entità l'odierna cultura eu­ropea. E dico subito che questa è stata la prima cosa a farsi indovinare, e cioè che l'odierna cultura europea si è venuta automaticamente maturando, al di fuori di qualsiasi finalità politica, quasi a dimostrazione della libertà della creazione poetica e dell'amore alla poesia, non legata a nessuna ancora propagandistica; eppure straordi­nariamente viva e stretta ai contemporanei movimenti politici, sociali, economici. Voglio dunque parlare di una cultura i cui nomi, ad esempio, sono per la Spagna García Lorca, Juan Ramón, Machado ecc., per la Ger­mania Rilke, per noi Ungaretti, Montale, Campana, e così via. L'adesione della nostra cultura italiana, e, pos­siamo quasi dire, europea, alla nostra nuova concezione dello Stato e della società, non avviene secondo una so­miglianzà formale, di colore, di intendimenti e forse nemmeno, ancora, di spirito, ma le è una forza parallela e concomitante, che agisce contemporaneamente, in un altro campo, in un altro ciclo, con una fede e con un en­tusiasmo, che, pur essendo distaccati da quelli propria­mente politici e sociali, agiscono con la stessa forza e per lo stesso ideale di civiltà, fino ad identificarsi ed a for­mare una cosa sola con essi.
Questo, almeno, avviene in potenza, è, almeno, l'ori­gine di una prossima condizione culturale, come equili­brio tra cultura e vita sociale, che, adesso, appare a noi giovani come l'incerta luce dell'alba che è tuttavia una certezza del giorno. I semi gettati in tutta Europa dalla generazione che ci ha preceduti sono stati feracissimi; soltanto hanno dato in noi frutti diversi da quelli previ­sti. E vorrei insistere sul valore di questa metafora, dato che non c'è nessun giovane europeo, ora, che non pro­ceda nella storia della poesia della sua patria, senza co­noscere la poesia della generazione che l'ha immediata­mente preceduto: anzi, proprio da essa, educato ed iniziato alla poesia. La tradizione non è un obbligo, una strada, e neanche un sentimento o un amore: bisogna ormai intendere questo termine in un senso antitradizio­nale, cioè di continua e infinita trasformazione, ossia an­titradizione, scandita da una linea immutabile, che è si­mile alla storicità per la storia.
È del tutto antistorica, allora, quella tradizione ufficiale che, ora, in tutte le nazioni, si va esaltando da una malintesa propaganda, come unica risoluzione in arte dell'odierna condizione politica e sociale europea. Ma i giovani europei, con cui ho parlato, mi hanno privata­mente assicurato che nella vecchia Europa l'intelligenza, come libertà, è ancora ben viva; così viva da non soltan­to contrapporsi beffardamente e gagliardamente alla tradizione ufficiale degli organi propagandistici, ma da adeguarsi, per conto proprio, al tempo e alla storia con un atto imprevedibile, ma ormai giustificato, di parifica­zione o liberazione. (Parlo, s'intende, della cultura di noi giovanissimi, che noi avvertiamo, ma che è ancora soltanto probabile, ed ignota.)
Ed ecco la tradizione, tanto cara agli stessi mediocri ed agli interessati, eccola risolta nella migliore gioventù, e amata, come se fosse nata di nuovo, nuovamente vergi­ne, intatta, interamente da scoprirsi e godersi. Una tra­dizione passata attraverso il filtro dell'antitradizione, una tradizione studiata sui poeti nuovi.
Così passeggiando con ansia quasi tremante, come chi senta di respirare un'aria non più regionale, ma eu­ropea, e quasi sommerso e sconfortato in essa, lungo le favolose vie di Weimar insieme con i giovani camerati spagnoli, io potevo, conversando con essi, risalire a Calderón e a Cervantes o a Velàzquez, attraverso Garcìa Lorca o Picasso; soffermarci quindi, ciò che mi stava più a cuore, sull'ultima generazione di scrittori, i cui nomi a me erano nuovi, e, con tremore, li udivo scandire dalle voci di quei camerati: e quei nomi erano Dionisio Ridruejo, Gerardo Diego, Agustìn de Foxà, Adriano del Valle (che dovrebbero corrispondere, in Spagna, ai no­stri Betocchi, Gatto, Sinisgalli, Penna ecc.). E da ultimo ascoltavo non i nomi, non le opere, non i fatti, ma la pre­senza, densa e verdeggiante, dei giovanissimi, intorno a cui i camerati spagnoli non seppero dirmi altro se non che si nota in essi un intelligente ritorno alla tradizione.
Ma questo è bastato: è bastato a rivelarmi tutta una con­dizione, a ritrovare in quei giovanissimi spagnoli la mia immagine, e quella dei miei amici bolognesi o fiorentini.
Le stesse cose, seppur più vagamente, per le difficoltà pratiche del linguaggio, son pervenuto a conoscere in­torno all'Ungheria e la Germania; per quest'ultima, però, il «ritorno alla tradizione» avviene in un senso che si avvicina di più a quello che noi vorremmo abolire, da­ta forse la maggior semplicità del popolo germanico, che accoglie con animo ligio tutto ciò che gli viene seriamen­te suggerito e dettato; ed ora par si contenti di vivere, culturalmente, nelle acque morte della propaganda, o di un'arte realistica e di genere. (A riprova di ciò, nelle principali librerie di Weimar, la Firenze tedesca, non mi è stato possibile trovare un solo libro di poesie di autori classici o moderni; mancanza di carta? Non pare, per­ché molte e lussuose erano le edizioni di libri propagan­distici, che, si noti, il popolo tedesco legge.)
Se, infine, si suppone come definitivo l'attuale silen­zio della Francia, il retaggio del dominio culturale euro­peo, a chi dovrebbe spettare se non a noi? In realtà, in Italia si è venuta maturando una civiltà culturale vera­mente notevole, seppur ancora ristretta, e, direi, sche­matica. L'attività editoriale è molto superiore a quella degli altri paesi, più vasta, entusiasta, diffusa; l'interesse per le cose artistiche si può considerare nella via di prendere l'aspetto di un neoumanesimo; e poi la mag­giore duttilità del nostro ingegno sarà sempre un ottimo reattivo a qualsiasi suggerimento esterno più o meno de­ciso o minatorio. Ed è per questo che il grande macchi­nario culturale italiano non farà mai marcia indietro, ma, trasparente come l'aria e liquido come l'acqua, si in­sinuerà e poi irromperà al di là di ogni barriera, senza travolgerla. Così, noi giovani sentiamo l'amore e la ne­cessità di uno spirito tradizionale che venga a cementare la nostra opera, e tuttavia ce ne ridiamo del tradizionaleggiamento, che non detto, non precisato, e in fondo, insignificante, sembra gravare nella nostra coscienza di italiani giovani, come una sciagura (letteratura e vita!). Vincere gli ostacoli per forza d'amore, non abbatterli, ma scioglierli, come fa l'acqua con la terra. Così scioglie­remo gli ostacoli che, all'estero, per invidioso interesse o per ignoranza, ci verranno innalzati.
Infatti, ho visto a Weimar che se i giovani studiosi delle altre nazioni erano al corrente delle odierne condi­zioni delle letterature patrie, erano però all'oscuro di quelle altrui, compresa quella italiana. E ciò mi ha riem­pito di contentezza poiché, al contrario, noi giovani col­ti italiani abbiamo sentita un'ansia, direi umanistica, di guardare al di là dei confini, e di tendere l'orecchio alle più forti voci di poesia che ne giungessero. Mi pare allo­ra risulti chiara la nostra relativa superiorità sugli stra­nieri, se si pensa come, trovandomi con i miei amici, a discutere con i giovani spagnoli, noi potemmo discorre­re abbastanza agevolmente di Machado, García Lorca ecc., mentre essi non conoscevano nemmeno di nome Ungaretti, e come conversando con studenti di lettere tedeschi noi potessimo parlare con essi di Nietzsche ov­vero di Kokoschka ed essi non conoscessero nemmeno il nome di Papini ovvero di Carrà. Dalla coscienza di questa teorica superiorità all'imposizione di essa, il pas­so è breve. Insomma la cultura europea, tolta la vecchia Francia, è tutta in un punto analogo, in una medesima svolta; ma possiamo ottimisticamente notare che quella italiana soverchia le altre; e, per ragione di un antico amore che lega l'Europa alla civiltà italiana, noi possia­mo sperare di essere gli unici, in un prossimo futuro, ad avere tra le mani la cultura, ossia la spiritualità europea; il che sarebbe assai importante, anche politicamente.
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