Quantcast
Channel: Pier Paolo Pasolini
Viewing all 421 articles
Browse latest View live

Sulle ossa di Pasolini, di Alberto Sonego. "Nazione Indiana", 19 dicembre 2011

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Casarsa della Delizia, foto di Paolo Steffan

Sulle ossa di Pasolini
di Alberto Sonego"Nazione Indiana", 19 dicembre 2011


Ho scelto il 4 dicembre, ho scelto un giorno qualunque.
Il forte vento della mattina, nel pomeriggio si placa, ed è possibile intravedere nell’aria gli odori dei piatti serviti caldi sulle tavole di quel lembo di terra dove vivo, tra Pordenone e Cordenons. Rincaso tardi al sabato, ma stavolta la tavola era già apparecchiata e le bistecche si stanno cuocendo sul fondo bollente della padella. Mia sorella è di fretta, non ha quasi nemmeno il tempo di salutare che è già di sopra a sistemarsi: alle due e mezza va ad Udine, con amici. Io lentamente appoggio lo zaino, mi levo le scarpe, ed infilato un paio di pantofole mi abbandono tra i braccioli di una poltrona troppo comoda per ritrovar la forza di alzarsi, quando mia madre mi avrebbe chiamato a tavola.
Chissà perché si agitava tanto quella signora, che nell’auto dietro alla mia, al volante, sembrava impazzire. Più volte aveva tentato di superarmi sulla destra, sulla sinistra, poi di nuovo sulla destra… senza successo. Eravamo imbottigliati nel traffico, perché non riusciva a capacitarsene? Aveva gli occhi arrossati, iracondi: li riuscivo a scorgere oltre il vetro posteriore appannato, dal riflesso sullo specchietto retrovisore.
Spero sia arrivata a casa sana e salva.
Sento delle pentole agitarsi, ed il rumore della televisione calare… ma oltre a delle voci, non sento parole. L’orologio del dvd player segna: 13:45, ed intanto i passi di mia sorella, dal piano superiore, indicano il nascente affrettarsi collettivo. Le bistecche vengono calate sui piatti bianchi; la bottiglia d’acqua messa a centrotavola; il cane fatto entrare, l’odore di cibo liberato dalle finestre; le tende scostate; le voci e le grida; le andature più svelte. I capelli rossi di mia sorella rallentano sulle sue spalle: ora siamo tutti seduti attorno al tavolo.
Ho scelto il giorno 4 dicembre, ho scelto un giorno qualunque. Ma forse proprio per la sua casualità mi ha investito di una dolce e triste aura nostalgica.
Ieri si era rifatta viva la Diva, mi aveva chiesto un incontro, almeno per scambiarci qualche parola sugli ultimi fatti delle nostre vite. Un caffè amichevole, e come potevo rifiutare? Era previsto per la serata, ma poi mi ha dato buca. Me lo dovevo aspettare da lei, tuttavia che potevo dirle?
Uno scacco alla noia di essere uguali tra gli uguali, ecco cos’è stato il 4 dicembre. Diversamente uguale: ecco come voglio definirmi. Addentando la carne rossa che ancora spandeva qualche goccia di sangue, mi sono reso conto di essere diventato cannibale di me stesso, ma divorando i pezzetti di grasso cotto ho riflettuto sui miei programmi per l’immediato domani. Solo allora mi sono reso conto che se non l’avessi fatto oggi non l’avrei fatto più, e la mia domenica si sarebbe bloccata ed avrebbe assunto soltanto i ripetitivi retroscena di una serata tra amici. Avrei solo accumulato altre ore di sonno da recuperare, e poi che altro? Una svogliata ripetizione di biografie d’autori, probabilmente seduti al tavolino di un bar, infiacchito dal mio stesso modo di parlare piatto, scollato, mancante. Sarebbe stata una domenica di ulteriore noia, ed il lunedì sarei tornato a scuola con la stessa casacca invisibile, nuovamente uguale tra gli uguali.
Eppure la parte vicina all’osso era così succulenta, piacevole al tatto oltre che al gusto, e la serravo gelosamente tra le mani, ancora parlando e riflettendo allo stesso tempo due ragionamenti differenti.
Dovevo evadere dal sabato sera.
Casarsa della Delizia, Vecchio casale

Dovevo evadere da quel rito orgiastico ripetuto con cadenza frequente e puntuale, o almeno provarci. Dovevo riuscire a credere al di là della morte, per garantirmi una vita priva di peccati. Perché la mia follia non la ricavo dal vino, ma dalla liberazione di ogni mio istinto più mascherato, avendo compreso di essere in realtà contro ciò che è contro l’etica dei benpensanti spie.
Ho scelto il 4 dicembre, sperando che la gelida brezza della mia emotività ormai frantumata potesse in un qualche modo assiderare anche i sospiri nostalgici del mio spirito, ed ho scelto una data qualunque per onorare la mia stessa anonima morale.
Riorganizzando in fretta e furia l’acconciatura e con un trucco appena accennato sul viso, mia sorella era pronta per partire. Toccava a me portarla in stazione, ma già da dieci minuti la attendevo accanto alla mia macchina, e nel frattempo le due sigarette che avevo scroccato a mio padre si erano volatilizzate tra i miei polmoni e la lastra di vetro lucido dell’auto. Era una linea sottile, una bianca lucentezza a separare il finestrino dalla lamiera, e la cenere ci danzava attraverso, colpendolo con sporadiche smorfie di disgusto e disprezzo.
Sul viale di Sclavons non passava nessuno, e non fu difficile ingranare la terza, facendo scalare il cambio sul mio palmo asciutto, quindi accelerare voracemente, divorando la gomma degli pneumatici. Superata la prima curva la mia espressione si iniziò a rivolgere verso il basso, a seguire un tracciato invisibile fatto di percorsi ripetuti quotidianamente, a velocità più o meno istantanee a seconda dei ritardi. Mia sorella mi intimava di spingere il pedale dell’acceleratore. “I punti della patente sono i miei, decido io cosa farne”, le rispondevo. Intanto anche il primo semaforo era passato, a luce gialla lampeggiante. Strano, non ricordavo nessun temporale. Un guasto tecnico, ecco cos’era. Adesso un autobus fa segno di voler accostare. Lo supero, e sono già di fronte alle scuole medie di Torre, ed è la pelliccia sul cappuccio del cappotto di mia sorella che mi indica l’osteria lì vicino, dove i miei mi hanno detto si mangia molto bene.
Tutto il tragitto è quello che di solito intraprendevo per andare a Conegliano, ma la noia è cambiata, è più contenuta. La stazione di Pordenone si staglia fiera preceduta dal capolinea delle corriere. Qui al sabato pomeriggio ce ne sono poche, ed i rari studenti con lo zaino in spalla non si affrettano più scavalcando con un balzo solo le alture dei marciapiedi.
Stazione di Pordenone

Rido in faccia al segnale “dare precedenza”, mi immetto a gran velocità sulla corsia che incanala gli automobilisti che si dirigono all’ingresso della stazione. Un vecchio signore che porta una borsa in spalla ed un baule appeso al tremore delle sue mani mi ricorda me stesso, quando ero ancora vecchio: simile ad un anziano indugiavo ad abbottonare il kimono dell’inverno greco.
Non c’è la polizia, sebbene di solito un’auto sia sempre appostata davanti al lungo cancello verde che si affaccia sui binari. Anche pochi giubbotti neri di stranieri che sperduti marciano con passo cadenzato. L’odore di fumo dell’abitacolo pervade anche l’esterno quando arrestato il mezzo, mia sorella scende trascinando con sé le ceneri del Friuli: il trucco è respinto dal clima vivace e giocosamente ribelle, le spalle sono strette in un’improvvisa morsa. ”Mi aspettano nell’atrio” mi dice, e scompare saltando alla Fosbury il logorato kimono del vecchio.
Più tardi avrei scoperto che quella unta ed appiccicosa stazione fu sputata sulla carta del 1855, quando ancora l’Unità d’Italia non c’era, e qui era l’impero austro-ungarico a levigare le acque del Noncello con le prue delle sue barche.
Ma al di là della sua biografia mi sembrava consumata ieri, quel 4 dicembre scelto a caso tra i tanti.
La mia macchina prese una direzione spontanea, verso i campi che circondano la mia casa: ritornare per prendere il mio taccuino, perennemente in lotta col pc, e quella macchina fotografica digitale che da tempo aveva sostituito i rullini, i negativi e le giornate dal fotografo a far sviluppare le pellicole. Un bel duello continuo, quello che il mio computer combatteva con il quadernetto Quo Vadis, l’uno forte del nuovo, l’altro certo delle sue pagine ideate ancora quando c’era solo il papiro. Me li immaginavo - e non ero neanche all’altezza della rotonda di via Revedole - che si affrontavano piegandosi ed accendendo ogni spia, come del freno a mano, della riserva e delle frecce direzionali sul mio quadrante. Lampeggiavano ognuno con boati diverso, e chi si chiudeva, chi si sfogliava, chi singhiozzava un processore tremendo, chi sbriciolava dell’altro copertina o plastica nera. Traballavano passando da un tetto all’altro delle auto che scorrevano sul tratto di Pontebbana che dovevo attraversare, poi si staccavano dirigendomi un soffio, e la luce verde del semaforo si accendeva.
Una immagine suggestiva della vecchia Pontebbana (pedemontana)

Mi accompagnarono così fino all’incrocio di via Nogaredo, lì dove sotto il grande noce era già stato fissato un presepe fatto da bimbi ed educatori, poi mi lasciarono proseguire da solo.
Fu in quel momento che scelsi, e scelsi il 4 dicembre. Alla partenza dalla mia via mi soffermai ad osservare il profilo delle montagne, che innevate facevano capolino oltre la sagoma degli alberi, sul vial di Sclavons. Parevano guardare al Tramit. O forse al Pasch?
D’altronde io Cordenons l’ho sempre conosciuta così: un elenco di quartieri (avevo imparato i loro nomi assistendo alle sedute del consiglio comunale) che però non ero (e non sono tutt’ora) in grado di collocare geograficamente. 
San Giacomo a Cordenons

Di ognuno di essi posso accennare ad un raro dettaglio (un luogo o un nome), dettare una sconnessa indicazione, tanto che spesso fingo di essere foresto qualora un passante mi domandi un’indicazione. Ed allo stesso modo, quel paesaggio di fondo non sapevo dove guardasse, o cosa scrutasse del mio paese. Che fosse la punta del campanile della piazza a solleticarlo? Oppure il rumore di palle da basket che rimbalzano al centro sportivo di via Pasch? “Forse niente di tutto questo”, mi dissi arrendendomi. Forse quelle montagne rimanevano lì allacciate alla dura roccia coperta di neve, ed aspettavano. Probabilmente attendevano un esploratore che sorvegliasse i loro boschi, oppure si dolevano per le lame degli sci per le quali rischiavano terribili cicatrici.
Avevano smesso l’abito verde dei prati, le montagne. Con un cappuccio bianco canticchiavano lo Jodel nelle menti dei bambini, eppure per me erano meno attraenti vestite con fiocchi e rami secchi, sepolti.
Erano come un poster steso a coprire un muro sconquassato, perché il palazzo che era loro più vicino non assomigliava essere pervaso dal gelo, ed il suo mantello stonava col profumo tenue delle nubi acquerellate.
Avendole davanti, ero già sull’estuario, alla foce di un piccolo rigagnolo tra le acque dell’asfalto. Svoltai a destra appena il traffico me lo consentì.
Non riuscivo ancora a credere a quello che stavo facendo: andare a rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini. Un sabato all’inizio dell’inverno, declinando inviti ad aperitivi o incontri solitari al Primavera.
Per lui stavo intraprendendo quella in molti mi avrebbero indicato come atto di follia… follia pura follia vera! D’accordo ubriacarsi ed inventare scuse con i vigili per poi scappare via; d’accordo scommettere con il proprio amico di farsi un tot numero di ragazze; va bene rischiare il coma etilico in discoteca; più che accettabile suonare ai campanelli delle case per poi andarsene.
Ma rendere omaggio alla tomba di un autore…! Vera follia insomma.
Guardo il Noncello che mi passa vicino, scende da sinistra, s’infila sotto il ponte , e risbuca quando con la mia auto sono già lontano. Non ho tempo di notare il suo modo di adagiarsi sulle grate dell’allevamento di trote, sono a 70 km all’ora.
Mi ero davvero slegato dalla ripetitività del sabato? Un giorno scelto a caso. Ma forse, non del tutto a caso.
Con la mia macchina fotografica immortalavo le più bizzarre espressioni del cielo, per non dimenticarle. “Per quelle pagine che a lungo mi sono ripromesso di scrivere”, pensavo. Ora ce le ho qui, una ad una le faccio scivolare dentro e fuori dallo schermo, e l’Audi A4 ad un certo punto si tramuta in un prato verde, scolorito. Eppure il tramonto rimane lontano.
Questa parte di Cordenons la conosco molto bene: spesso me ne andavo con la canoa risalendo il fiume. Là sotto c’è lo stesso pontile che usavo da tramite per comunicare con la barca… piano la accarezzavo, come per prenderci confidenza, ed inarcavo il bacino accucciandomi fino a sfiorare con le ginocchia le tavole lì fissate. Una gamba e poi l’altra: così iniziavo a scalare la corrente. Il cemento del ponte mi scuriva lo sguardo, perchè mi sembrava di entrare in una galleria buia, senza torce nè lampade; poi ricominciava il sereno, che erano gli pneumatici di gomma dura fissati al lato di due rocce. Qui l’acqua era più violenta, tanto che spesso la prua del kayak dondolava indecisa prima di affossare la plastica nel minuscolo vortice della sponda. Mancava solo un altro gradino per restare come nell’olio e pagaiare tranquillo, ma ormai giunto alla rotonda che porta oltre via Bellasio dovevo pensare alla strada migliore da seguire.
Sebbene fossero le rosate nuvole dell’orizzonte a catturare la mia attenzione (quella sfumatura arancione involontaria, che al mio ritorno si sarebbe rivelata in un arcobaleno) capii di dover virare, sfrecciando con la mia Ka grigia come con un mulo scapestrato, cavalcando l’asfalto che mi faceva sussultare. Da qui, oltre una piattaforma di morena, guardavo le stamberghe e le ville dei contadini, gli stessi che siedono in piazza il sabato pomeriggio.
E quante se ne raccontano, su di loro! C’è chi dice che fino a cent’anni fa si appostassero poco lontano da dove abito (sul confine tra i due comuni), e quando calava la sera impugnavano i forconi, per impedire che la gente di Pordenone salisse, a mettere incinta la loro donne. Anche loro, in un modo più particolari, cultori della razza “perfetta”, del “sangue puro”, tanto che chiamavano meneghei quelli che nei primi anni Sessanta si trasferivano a Cordenons, provenendo da altre zone della Regione.
Non mi facevano paura, quei contadini, perché sapevo bene che oggi ormai hanno perso il loro potere, o quantomeno il loro prestigio. Ormai sono soltanto addetti a coltivare numerosi acri di terra, e sebbene la posseggano questo non fa di loro delle persone autorevoli. Ad esempio quel granaio bianco: sono sparite le riunione durante le quali ognuno parlava degli affari altrui; e pure sono scomparsi metaforici roghi, ai quali i ribelli erano plebiscitariamente condannati. No, non mi fanno più paura i contadini: le loro famiglie non si reggono più agli aratri ed ai trattori, le loro donne non so o più picchiate. E se Dio vuole, oggi i confini sono aperti.
Ma il sommerso è vanescente, e già sulla Pontebbana mi interrogo su quanto il nuovo possa essere effettivamente salvato. Pregando i miei dèi, sono già al quinto scatto, e da Fiume Veneto a Poincicco sono descritte solo celle d’erba, separate da filoni di capannoni chiari. Non sono lontano da Casarsa, ma anche casa mia mi sembra vicina… che sia questa terra ciò che in realtà mi è familiare? I freni del camion davanti a me stanno zitti, ed all’improvviso squillano i fari. Orcenicco inferiore, accendo la radio. Attorno a me si fa sera, ma non è ancora scuro: posso intravedere con relativa facilità le indicazioni, e poi la diramazione che più celermente mi condurrebbe a San Vito.
Ricordo lassù, sopra al bar, il vecchio appartamento di un’amica. Allora era questo il paese? Non gliel’avevo mai chiesto, mi importavano solamente direzioni meccaniche a partire dal bar Primavera.
Quante cose non conosco. Già me ne sorpresi navigando lo stradone fin dopo l’Emisfero, e qui volteggiando fino ad imboccare uno svincolo, dopo la rotonda. Ripensavo a quei contadini, che forse come Ippolito avevano intuito il progressivo disgregarsi di un’età dell’oro ancora fresca, di neanche cinquant’anni fa.
Ma io non potevo parlare a nessuno, se non ad una coscienza già marcia, perchè è per me impossibile cogliere le stesse sfumature di un vecchio.
Non ebbi il tempo di finire di contemplare le onde dei cieli, quando nuove indicazioni mi si pararono davanti: sbagliai strada più volte, finché il mio sguardo abbandonò gli insensati incroci ed i semafori, e si posò su degli alti cipressi, in lontananza. Piano, sterzando accuratamente ad ogni curva, arrivai alle porte del cimitero di Casarsa, e lì, prima dell’ingresso, i posteggi attendevano la mia auto a poggiarsi sulle loro strisce bianche (le pericolosa vernice che nemmeno un anno fa aveva fatto scivolare il mio scooter). Mi fermai, feci qualche manovra per piazzarmi bene, poi spensi il motore. Appoggiai la mano sulla portiera… no. La ritraggo. Guardo fuori dal finestrino del passeggero: le nuvole non si sono ancora acquietate, e sento delle voci giungere da dentro il cimitero.
E se non fossi riuscito a trovare la lapide? Cosa avrei fatto? Di chiedere a quella gente (chiunque fossero) non se ne parlava: sono sempre stato timido, e poi non mi sembrava il caso di fare la figura del pazzo (non credo siano in molti a domandare, quasi fosse un indicazione, “scusi, per la tomba di Pasolini…?). “Sono già abbastanza pazzo per conto mio”, mi ripetevo, non riuscendo ancora a credere di aver davvero fatto tutti quei chilometri per dondolare i miei pensieri sul sepolcro di un poeta.
E se mi avessero visto vagare per il cimitero? Mi avrebbero forse fermato, mi avrebbero chiesto “chi stai cercando”? No, no davvero: sarebbe stato indelicato fare questioni sull’identità del morto desiderato. Ancora qualcosa mi frenava…
Avevo chiesto a mio padre se era possibile fare delle foto, in un cimitero. Lui sorpreso mi rispose di sì, “perchè non si potrebbe?”, fece. Beh, non lo so neanche io… fatto sta che mi assicurai di aver la macchina fotografica ben nascosta nella tasca interna del giubbotto. Ma allo stesso tempo mi sentivo in colpa.
Verso chi, verso cosa? Probabilmente era un riflesso condizionato da tutti coloro che al mio ritorno (al solito meeting dei sabato sera), saputo della mia visita, mi risero in faccia. Mi è sempre stato così difficile assorbirmi in una mia identità, avvolgermi calorosamente in uno scialle di ricordi e di morali… questa terra può aiutarmi a farlo?
Intanto stavo ancora lì, in macchina, facendo attenzione che non passassero tipi loschi (non ho ben chiaro come si facciano a bloccare le porte dall’interno).
Mi decisi ad entrare nel cimitero fumando l’ennesima sigaretta e cuocendo un po’ i miei occhi alla spettrale luce del tramonto. Quindi chiusi la macchina, misi le chiavi in tasca, mi abbottonai il giubbotto, ed a passo lento varcai la porta piccola di destra dell’ingresso, l’unica aperta. Mi sorpresi di non trovare la ciotola d’acqua santa, ma può essere benissimo che non la vidi. Feci il segno della croce, da buon cristiano, e mi soffermai un attimo lì, sul ciottolato che rivestiva il perimetro delle lapidi, ne tracciava quasi un confine perché uno potesse distinguere il mondo dei vivi da quello dei morti. Gettai un’occhiata più in fondo, notando una piccola chiesetta (non era esattamente una chiesa, non so il nome preciso) e colombaie di recente costruzione.
Qui vicino scorsi una giovane donna che teneva per mano una bambina, sua figlia (la sentivo chiamare “mamma mamma”), e facevano su e giù da un lato nascosto, portano ogni volta ad un’effigie fiori di diversi colori. “Fa’ che non sia il marito, fa’ che non sia il padre” pregai, ad occhi chiusi.
Cercai a lungo la tomba dell’artista, scoprendo che Colussi (il nome della madre, accanto alla quale aveva espressamente fatto richiesta di essere seppellito) era un cognome molto diffuso, a Casarsa. Decisi, dopo un giro andato a vuoto, di individuare le lapidi più grandi, o i mausolei, e setacciarli: Pasolini sarà in uno di quelli. 
Cimitero di Casarsa, la tomba di Guido Alberto Pasolini

Ma neanche a metà giro mi accorsi che le personalità di spicco (tali dovevano essere, perché fossero deposte lontane dai loro cari ma celebrati con corone e bouquet) che giacevano tra le cappelle ed i pini erano per me perfetti sconosciuti. Pensai alla chiesetta laggiù, in fondo al camposanto…
No, c’avrei scommesso qualunque cosa mi avessero chiesto: non si trovava là. Scoraggiato, mi apprestai a compiere l’ennesimo giro di ricognizione, stavolta passando in rassegna lapide dopo lapide.
Non mi importava se avessi dovuto perdere tutto il pomeriggio: a cose iniziate non mi tiro indietro. La mia follia non era completa… avrei fatto davvero una figura barbina a tornare a casa, ed a domanda rispondere “non l’ho trovato”.
Eppure qualcosa veleggiava sulla destra: un altro Colussi. Ormai disincantato mi spostai sul nome di battesimo: Susanna. Susanna Colussi. Più a destra, sovrastato da un ramo d’alloro, leggo la scritta: "PIER PAOLO PASOLINI 1922-75"
L’avevo trovato.
Il suo corpo l’avevano scaricato lì sotto, a pochi centimetri dai miei piedi… sotto metri di terra. Murato vivo.
Quell’incisione suonò come in un eco di 35 anni, ma non invocava nomi, non chiamava a raccolta… i cipressi iniziarono a scavare il cielo quasi trivellando anche il mio respiro strozzato.
Sul suo corpo cresce un’edera che si confonde con le macchie di muro, ed una piantina d’alloro è l’unico segno della sua vita… guardo a terra. Un pezzo di carta sotto un sasso. E’ tutto bagnato, sgualcito.
Sulle prime mi allarmo: che sia un messaggio di odio che quelli che in vita lo tormentarono gli avevano lasciato ad eterna memoria sopra la bara? Infuriato lo raccolgo, e sono pronto a strapparlo quando (aprendolo pian piano) leggo pochi versi in friulano, forse di una di quelle poesie che compose quando viveva a Casarsa. Lo ripiego pallido, e lo ripongo sotto quello stesso sasso, nello stesso punto.
Quasi mi sembra d’aver profanato qualcosa…
Cos’ho fatto?
Un vortice di pensieri indescrivibile si riversa sul mio taccuino, e quella sera mi bastava il focolare della sala per distrarmi, immaginandomi di essere ancora accanto a te, nel cimitero.
Avevo scelto un giorno a caso, un 4 dicembre pescato dal calendario. Ma non l’ho lasciato a caso.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

Costruire il bello, di Marco Belpoliti

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Costruire il bello
di Marco Belpoliti"Nazione Indiana"


Pasolini e Ninetto sono a fianco della macchina da presa che inquadra la città di Orte. Il poeta spiega che ha una forma perfetta, ma se si allarga l’obiettivo, e s’include nella visione le case moderne, che sorgono lì accanto, ci si accorge che “la massa architettonica è deturpata, rovinata”. È il 1974 e il regista sta girando un documentario televisivo sulla forma della città, e si pone in modo diretto il problema della bellezza. È una visione che lo strazia, e di cui ha dato conto in alcuni degli articoli sul “Corriere”.
"Pasolini e... la forma della città", un film di Pier Paolo Pasolini e Paolo Brunatto
video di Pasquale della Monaco, 26 ottobre 2010
Prodotto da Rai-TV nell'autunno del 1973: la trasmissione televisiva avvenne il 7 febbraio 1974


Sono trascorsi quasi quarant’anni e il problema della bellezza esplode di nuovo, e in modo radicale, davanti ai nostri occhi. Un tempo era ritenuto un argomento di “destra”, come se l’estetica non potesse coniugarsi con l’etica; oggi gli italiani interrogati dal Censis, dentro questa crisi economica, scoprono che le loro città sono brutte, o rischiano di imbruttirsi ulteriormente, e capiscono in modo lampante che costruire un edificio bello non costa di più che costruirne uno brutto. Una città brutta fa vivere male, pensare male e anche sognare male. Pasolini aveva ragione: stiamo dilapidando la nostra ricchezza che consiste nella bellezza, nel vivere in città che possiedono il genius loci. E non è solo questione di architetture del passato. A Parigi, decenni fa, il Beaubourg, architettura high-tech, progettata da Piano e Rogers, ha creato uno spazio urbano vivibile e caratteristico, e persino bello. L’architettura non ha solo un valore estetico, ma, come spiega l’inchiesta del Censis, può avere anche un valore economico. Possono i sindaci delle grandi città italiane, come quelle di provincia, e i loro assessori all’urbanistica, pensare alla bellezza oltre che alle carte bollate e alla burocrazia?
Faccio un caso recentissimo ed esemplare. A Milano, proprio di fronte al Cimitero Monumentale, uno dei punti simbolici della città, ricco di sculture funebri, e con il celebre Famedio dei cittadini illustri, un infausto piano urbanistico, confezionato dalla giunta Moratti e proseguito e perfezionato dalla giunta Pisapia, prevede la costruzione di un albergo di nove piani dentro l’area di rispetto, un edificio in stile postmodernista in ritardo di vent’anni. Lì accanto un vecchio palazzo dell’Enel degli anni Trenta dovrà essere demolito per far posto a un ecomostro di nove piani in un quartiere di case che al massimo ne hanno quattro. Parte di questi edifici è di edilizia convenzionata, ovvero per le classi meno abbienti. Un’iniziativa opportuna, dare una casa a prezzi calmierati, ma per farlo si costruisce un bruttissimo palazzo fuori scala a venti minuti a piedi dal Duomo.
In un libro provocatorio ed efficace, Maledetti architetti, Tom Wolfe racconta la storia delle case popolari di Pruitt-Igoe a Saint Louis, progettate e costruite nel 1965 dallo sfortunato architetto Minoru Yamasaki, quello del World Trade Center di NY. Meno di vent’anni dopo in un’affollata assemblea plenaria gli inquilini suggerirono di abbatterle. Era la prima volta in cinquant’anni che si chiedeva un parere a chi abitava gli edifici operai. La vox populi intonò in coro: “Blow it…up! Blow it… up!”, Buttatelo giù! Nel 1972 i tre caseggiati centrali vennero demoliti con la dinamite. Erano un esempio di perfetta architettura modernista. Possibile che non si possano costruire case belle? Abbiamo in Italia più architetti che in tutti gli altri paesi d’Europa. Non è forse venuto il momento che si faccia una riflessione pubblica per questo? La bellezza non è né di destra né di sinistra. Dostoevskij pensava che potesse salvare il mondo. Possono il sindaco di Milano e il suo assessore all’urbanistica riflettere su questo senza ricorrere alla lingua dei regolamenti e dei piani edilizi? E con loro tutti i primi cittadini dell’ex-Bel Paese?
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini. Il tesoro della poesia italiana - Letteratura, RaiScuola

$
0
0
"Pagine corsare"
LA POESIA

Pier Paolo Pasolini. Il tesoro della poesia italiana
RaiScuola, 26 gennaio 2012

Guido Davico Bonino ricorda che il poeta Pasolini, a differenza del narratore, del filologo o del regista, continua a dividere la critica. La produzione poetica di Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 - Ostia 1975) è piena di contraddizioni: tra lingua e dialetto, cristianesimo e marxismo, poesia e saggio, tutte dicotomie vissute alla luce della contraddizione che, più delle altre, influenza la vita dell`artista, l`omosessualità. Sono stati scelti un testo giovanile ("En lenga furlana") e alcune poesie, emblematiche nell'esprimere lo sfogo commosso e la confessione dolorosa cari al Pasolini poeta. Luciano Virgilio legge, da "La meglio gioventù", "Mi contenti" (traduzione "Mi accontento"); da "L`usignolo della Chiesa Cattolica": "Carne e cielo"; da "Poesie inedite": "Correvo nel crepuscolo fangoso"; da "Le ceneri di Gramsci": "Il pianto della scavatrice" (parte II); da "Poesia in forma di rosa": "Frammento epistolare, al ragazzo Codignola". 
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

Il corpo & il potere. Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, di Diego Lucci

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - LIBRI
Erminia Passannanti
Il corpo & il potere. Salò o le 120 giornate
di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
Troubador Publishing Co., Leicester (UK) 2004, http://www.pol-it.org/
di Diego Lucci
Il libro può essere ordinato via internet alla Amazon inglese, alla seguente URL:
Il corpo & il potere, pubblicato in Gran Bretagna in lingua italiana, è opera della poetessa, saggista e traduttrice Erminia Passannanti, che vive a Oxford. Si tratta di uno dei più accurati e interessanti scritti sul più controverso film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Come nei suoi lavori su Franco Fortini e sulla poesia italiana contemporanea, anche nell’esaminare l’opera pasoliniana la Passannanti mette in campo un complesso di conoscenze ampie e profonde, che vanno dalla filosofia alla letteratura, dalla critica cinematografica alla psicologia e alle arti figurative. In tal modo, la trattazione non solo interessa lo sviluppo del film di Pasolini, i suoi obiettivi, il suo senso complessivo, ma indaga anche i suoi significati meno evidenti, meno diretti e più reconditi, e perciò più profondi, attraverso l’attento esame dell’extratesto nei suoi vari livelli: e tale esame si rivela un’operazione quanto mai importante, quando ci si confronta col poeta-regista Pasolini. 
Pier Paolo Pasolini sul set di "Salò"
La poetica del Pasolini regista si distingue infatti per l’esplicito riferimento alla poesia, intesa come percezione dei significati veri, essenziali, di una realtà resa banale dalla superficialità dell’industria culturale e dal carattere riduttivo dei linguaggi specialistici: come rileva Erminia Passannanti, "Pasolini dichiarava di volere continuare a portare avanti un discorso sulla ‘realtà’, ma nei termini di un ricorso radicale alla metafora da realizzarsi attraverso il medium cinematografico, per consentire alla verità di venire alla luce mediante la forza espressiva dell’immagine, fuori e oltre le barriere dei linguaggi specialistici.
Nel trattamento cinematografico dei suoi soggetti, mirava, pertanto, ad un’immagine allo stato puro, come linguaggio poetico dotato di potenza evocatrice. La lingua-cultura a disposizione del regista, come organismo vivo che ingerisce, assimila e reinventa incessantemente tanto i dati della realtà, quanto le sue forme di coscienza e le sue funzioni, riconducendo a un discorso organico la contraddittorietà della visione artistica e del pensiero filosofico, doveva potersi basare sulla figura del poeta quale fautore della funzione creativa dei mezzi espressivi e tecnici impiegati. Il cinema, secondo Pasolini, doveva poter svolgere una funzione non strumentale, diversamente da altri linguaggi, volti all’estrinsecazione di funzioni comunicative pragmatiche. Il proposito era, dunque, portare il linguaggio cinematografico a stretto contatto con la poesia per conferire al cinema le stesse specificità espressive" (pp. 9-10).
Pier Paolo Pasolini sul set di "Salò"
Il cinema di Pasolini si configura quindi come un’arte ibrida, fortemente caratterizzata da un’espressività di natura poetica e non strumentale - da un’espressività che, cioè, non si esaurisce in un’insensata catena di rimandi da un oggetto all’altro, ma mira alla stessa essenza delle realtà considerate. L’arte cinematografica di Pasolini risulta inoltre "contaminata" dal riferimento alle analisi di Freud, Foucault, Lacan, Merleau-Ponty, Bataille, Barthes sulle dinamiche di costituzione del potere e sull’uso della corporeità dei dominati da parte dei dominanti. La Passannanti osserva infatti che Pasolini, in Salò, realizza "un’estremizzazione non solo dei processi degenerativi della morale, o di quelli che, sul piano ideologico, politico ed etico, attengono alla formazione dei regimi totalitari, ma anche di altre forme di destituzione della libertà, quali possono avere luogo subdolamente all’interno di forme di governo a tendenza liberale.
Da questa prospettiva, Salò rappresenta un attacco sia alle dittature di partito sia alle forme di capitalismo avanzato, quali modelli che subordinano il singolo e la collettività, di cui si dichiarano garanti, all’autorità dei modelli sanciti. Presi nell’ingranaggio della macchina del potere, individuo e massa sono forzati a forme di consenso che stimolano, al contempo, comportamenti contrapposti di integrazione e alienazione, ottenuti, nelle dittature, attraverso norme disciplinari basate sulla cieca obbedienza, e nelle società liberali, tramite l’assimilazione dei codici imposti dalle élite, dalle classi dirigenti" (p. 15).
A questo proposito, è chiaro l’influsso che esercitano su Pasolini le tesi di Foucault sulle tecniche di costituzione e mantenimento del potere attraverso la formazione di un "corpo-potere", capace di condizionare e addirittura di plasmare le personalità dei governati: infatti, "come critica alle ideologie che partecipano alla creazione dello Stato assolutista e del dominio capitalistico, Salò nasceva dal bisogno di commentare l’effetto che il potere ha su chi il potere politico o economico lo subisce, primo tra questi i giovani […]. Ricorrendo ad un procedimento dialettico-allegorico, che poneva come paradigmi dell’opera le antinomie vittima/carnefice, bene/male, ordine/anarchia, il film rappresentava il modo in cui le masse si figurano lo Stato, e come l’assimilazione del singolo al ‘corpo-massa’ venga indotta al fine di rendere il popolo uno strumento acritico e passivo nelle mani delle oligarchie del potere costituito" (p. 12).
Le dinamiche di "educazione", o meglio di "sottomissione" del corpo-massa nei regimi dittatoriali si mostrano in modi piuttosto eclatanti, e tendono a limitare la personalità degli individui entro una gamma ristretta di concezioni e comportamenti: il divieto e la punizione assumono dunque un ruolo centrale nei processi educativi messi in atto dai regimi dittatoriali. Avviene quindi che "in Salò, il corpo-potere, costituito dai gerarchi riuniti alla villa, contempla varie tecniche di restrizione della libertà sia dei prigionieri sia dei collaboratori: queste comprendono l’assillo della prestanza fisica; la verifica costante dei livelli di obbedienza alla didattica normalizzatrice; la sottomissione al protettorato coercitivo sotto la minaccia continua della punizione. L’ossessione dei libertini per il rispetto delle norme fissate è, infatti, proporzionale alla severità dei castighi inflitti in caso di contravvenzione alle leggi fissate. Tale logica disciplinare, che mira a produrre corpi docili, dinanzi al fallimento delle istanze stabilite, crea vittime" (p. 28).
I percorsi di imposizione di modelli ideologici e comportamentali diventano più complessi nel sistema capitalistico e consumistico, sorretto dalle dinamiche di produzione e consumo e dalla loro perpetuazione attraverso una continua induzione di bisogni, - e attraverso il conseguente controllo dei bisogni da indurre e, dunque, delle aspettative di chi è persuaso a manifestare non più desideri "gratuiti" (e forse non realizzabili), ma la mera volontà di appropriarsi di oggetti, di beni, di merci, incessantemente proposti "dall’alto".
Il capitalismo ricerca infatti non soltanto l’obbedienza, bensì il completo appiattimento delle personalità su un determinato (ma non statico) apparato di concezioni e pratiche, su cui il sistema capitalistico si regge e che lo stesso sistema rielabora e propone in maniera parossistica; Pasolini ne è consapevole e, in Salò, illustra le tecniche con cui i dominanti ottengono non solo l’obbedienza, ma perfino la collaborazione e la complicità dei dominati-vittime: "Una delle condizioni", osserva Erminia Passannanti, "per ottenere la disciplina dai ragazzi catturati è la compresenza di vittime e persecutori negli stessi spazi, che diventano aree di gestione del codice prescrittivo, oltre ad offrire ai libertini spunti ed occasioni orgiastiche. La seconda condizione è il controllo dei movimenti dei prigionieri e delle loro più intime funzioni fisiologiche, della fame, dell’ingestione di cibo, della defecazione […]. Salòè una narrazione di racconti libertini gestita da quattro narratrici, le quali coadiuvano i gerarchi a mantenere la disciplina all’interno del reclusorio con attività quotidiane ‘ricreative’ e ‘celebrative’, imponendo ai detenuti condotte, di volta in volta, idonee alla creazione dell’atmosfera orgiastica. Ne consegue che la terza condizione per il controllo del corpo dei reclusi sia la verifica e la messa in scena delle lezioni da loro apprese mediante esami e manifestazioni che sono parodie delle attività che hanno normalmente luogo in caserma, a scuola, o in convento. La quarta e ultima condizione è la realizzazione dell’isolamento e la distruzione della solidarietà tra prigionieri, che entrano in uno stato di crescente sfiducia verso gli altri e paura di essere traditi, come avviene in qualsiasi regime punitivo" (pp. 28-29). La conseguenza delle pratiche disciplinari messe in atto dai dominanti-persecutori è quindi la rinuncia, nei dominati-prigionieri, "alla propria identità a favore di un’assimilazione del corpo individuale al corpo sociale tramite la gratificazione offerta dal corpo-potere" (p. 47).
L’antinomia fra terrore e gratificazione esprime il sadismo che è alla base delle tecniche persecutorie dei libertini di Salò: "Il predominio sociale, economico e corporativo dei libertini di Salò si esplica nella capacità di incutere terrore tramite abusi sessuali e sanzioni disciplinari imposti al gruppo dei giovani sequestrati sia sul piano fisico sia su quello psicologico. L’erotica assume la fisionomia di una forma traslata del potere, copertura retorica dell’aspirazione fallica di supremazia sul più debole, che si estrinseca non tanto nell’anomalia dei vari atti sessuali, quanto nel compiacimento di imporre la disciplina e infliggere la punizione attraverso pratiche perverse. Il potere di deliberare castighi corporali e condanne a morte traduce l’arroganza dei quattro libertini, che mercifica i prigionieri sulla base di una supremazia di classe" (p. 30).
La dimensione conflittuale che pervade Salò è attinente non soltanto alle differenze di classe, ma anche al divario generazionale e, quindi, alla tensione fra la reiterata frustrazione dei libertini e l’apertura al futuro incarnata dai giovani: a questo proposito, la Passannanti sottolinea ulteriormente, e in modo particolarmente pregnante, la significativa influenza, che esercitano sul poeta e regista italiano, le teorie di Foucault concernenti il rapporto fra educazione e repressione. L’atmosfera conflittuale di Salò è inoltre accentuata dalla netta spersonalizzazione, dalla de-umanizzazione dei perseguitati ad opera dei persecutori: la Passannanti rileva infatti che "nella condotta sadica dei protagonisti di Salò, il conflitto relazionale che intercorre tra l’oggetto interno (il desiderio) e l’oggetto esterno (il desiderato) evidenzia il senso d’onnipotenza che i gerarchi ricavano dai bisogni istintuali, soddisfatti tramite le metodologie del potere; le vittime, infatti, vivono in uno spazio intermedio tra realtà e immaginazione, che li rende oggetto di una libido essenzialmente narcisistica" (pp. 46-47).
Pier Paolo Pasolini sul set di "Salò"
Il riferimento a Sade risulta predominante nell’extratesto di Salò; Erminia Passannanti osserva tuttavia che Pasolini rilegge Sade dalla prospettiva di Bataille (Le lacrime di Eros, La letteratura e il male, L’erotismo); inoltre, la Passannanti nota che il poeta-regista tiene conto dell’invito di Barthes a "porre attenzione al messaggio etico e filosofico dell’opera del grande libertino" (p. 51). In questo senso - cioè nella valorizzazione del messaggio etico che, paradossalmente, la raffigurazione del sadismo produce - si può comprendere perché Pasolini, in Salò, offra al pubblico uno spettacolo che trascende qualunque concezione razionale dei rapporti interumani. In Salò, il corpo delle vittime viene dapprima abusato sessualmente, poi è reificato e costretto alla coprofagia (come ad esprimere, metaforicamente, anche gli effetti dei condizionamenti pubblicitari sulla massa dei fruitori-dominati), e infine viene torturato, stuprato, ucciso, cosicché l’erotico/osceno raggiunga i suoi limiti estremi. L’obiettivo primario di Pasolini consiste, infatti, proprio nel suscitare il disgusto dello spettatore nei confronti dei persecutori e dei loro metodi, giacché "l’osceno ha un suo campo d’azione ben delineato nel sociale, un suo attivismo etico e una sua utilità politica, agendo come una lancia conficcata nel costato del sistema, del suo ordine e delle sue leggi, che invade e destabilizza. Per antitesi, l’erotico/osceno sancisce la legge morale a cui si oppone nel momento stesso che, provocandola, ne sollecita l’intervento e l’autorità" (p. 64). E l’attacco di Pasolini è rivolto non soltanto contro il passato fascista e la sua retorica, ma anche contro il sistema neocapitalistico e le sue pretese umanitarie, edificanti, pseudo-liberali. Pasolini tende quindi a indirizzare il disgusto degli spettatori contro i gerarchi-persecutori, al fine di far emergere l’equazione fra sadismo ed esercizio del potere in contesti sociali, politici, economici non libertari, in quanto fondati sull’attribuzione di potere a un gruppo ristretto - cioè a un’oligarchia che perpetua la propria supremazia escludendo, massificando e mantenendo in uno stato di inferiorità e sottomissione la gran parte del popolo.
La Passannanti evidenzia quindi la valenza positiva dello shock-value prodotto da Salò: uno shock-value accentuato dagli espliciti rimandi non soltanto a Sade e alle dinamiche perverse che sorreggono tanto il fascismo quanto il capitalismo-consumismo, ma anche a canoni architettonici e pittorici e a concezioni estetiche che riducono l’arte a strumento utile per il regime o, nel caso del sistema capitalistico, a un oggetto riproducibile, commerciabile, usufruibile (ed è evidente, a tal proposito, l’influsso di Benjamin e Adorno).
Pier Paolo Pasolini sul set di "Salò"
In Salò, come rileva Erminia Passannanti nelle pagine conclusive del suo saggio, "ciò che si scempia sotto lo sguardo dello spettatore non è la morale sessuale, ma il concetto di coesione e solidarietà sociale, che è simbolicamente stuprata dal corpo-potere e dai suoi meccanismi di asservimento della libertà del popolo" (p. 75). Perciò "lo shock-value prodotto da Salòè momento di coscienza politica e strumento rivoluzionario" (p. 75). E non meno "rivoluzionario", oserei dire, si rivela lo scritto di Erminia Passannanti: infatti, nonostante molti pregiudizi nei riguardi di Pasolini e della sua produzione artistica siano stati superati, sostituiti da interpretazioni più accurate e penetranti, il saggio della poetessa e studiosa di origine salernitana si distingue non soltanto per la profondità della lettura di Salò che esso presenta, ma anche per la notevole erudizione che lo caratterizza, per l’eleganza dello stile e per l’agilità dell’esposizione, che ne rendono particolarmente avvincente e appassionante la lettura.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

"Pasolini", di Sandro Lombardi (in "Passione e ideologia")

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - LIBRI

Pasolini
di Sandro Lombardi


Alla mia statura di quindicenne, la Resurrezione di Piero della Francesca risultò collocata altissima. Così, ogni volta che piego il collo all’indietro e sento il leggero capogiro provocato dall’innaturale posizione, mi lampeggia negli occhi la luce rosa del manto indossato dal Cristo. 
Piero della Francesca, Resurrezione, affresco eseguito tra il 1450 e il 1463 circa
e conservato nel Museo Civico di Sansepolcro (Arezzo)
.

Avevo visto da poco al cinema Uccellacci e uccellini e sentivo un’affinità tra i soldati del quadro e i ragazzi che, nel film di Pasolini, ballano sulla soglia di un baretto di periferia, prima di scomparire nel polverone sollevato da una corriera che li porta chissà dove. Esprimevano la stessa beata incoscienza «di chi è partecipe alla storia / solo per orale, magica esperienza»... Che tentazione identificarsi in quello stato di natura, in quella creaturalità! Non potevamo farlo tuttavia: e dovevamo anzi trovare i modi e le forme di partecipare alla storia. Il teatro sarebbe stato per me il centro di questa partecipazione. Ma da ragazzo, spesso, mi recavo nella chiesa di san Francesco ad Arezzo, intimidito, come il giovane operaio del poemetto pasoliniano che:

Fa qualche passo, alzando il mento, ma come se una mano gli calcasse  in basso il capo. E in quell’ingenuo  e stento gesto, resta fermo, ammesso tra queste pareti, in questa luce, di cui egli ha timore, quasi, indegno ne avesse turbato la purezza...

Per non perdermi mi appigliavo a quella veduta di città dai tetti rosa, ocra e azzurri, svettante su volumi bianchi di mura cariche di luce. Nella sua parvenza cubista e metafisica, essa mi offriva la chiave di accesso più praticabile. 
Storie della Vera Croce è un ciclo di affreschi conservato nella cappella maggiore
della basilica di San Francesco ad Arezzo. Iniziato da Bicci di Lorenzo, venne dipinto soprattutto
da Piero della Francesca, tra il 1452 e il 1466, che ne fece uno dei capolavori di tutta la pittura rinascimentale.
La scena cui si riferisce Sandro Lombardi, qui rappresentata, è il “Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce”

Eppure adesso, ritrovo in quella lettura, in quel mio disorientato e profondo innamorarmi della pittura di Piero della Francesca, uno dei fattori più intensi del mio rapporto con l’opera e la figura di Pier Paolo Pasolini. 
A segnarmi e a educarmi non è stato, infatti, come per tanti, il Pasolini pedagogo, sociologo, poeta civile; ma il Pasolini dolce metafisico, quel Pasolini in lotta con le cose e, nel contempo, nella tenera adorazione di queste, nell’interrogazione del loro impenetrabile eppure materno mistero, nella passione quasi erotica – di un erotismo totale – per quell’appello che le cose sembravano sempre rivolgergli. 


Tutto, così mi sembra, nell’opera di Pasolini, rispondere a questa urgenza: quella di reagire rispetto all’iniziativa di una chiamata, di gettarsi con tutta l’anima in un corpo a corpo con la realtà in cui sempre, felicemente, la realtà doveva uscire vincitrice, e lui orgogliosamente segnato, dolorosamente felice di risultare sconfitto in quello scontro d’amore.

Che altro di diverso può fare il teatro? A che altro può tendere? Quale altro risultato sperare?
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini


Andrea Adriatico in "Passione e ideologia"

$
0
0
"Pagine corsare
LA SAGGISTICA - LIBRI
"Orgia" di Pier Paolo Pasolini nell'allestimento di Andrea Adriatico (2005, Teatri di Vita)

Andrea Adriatico
In Passione e ideologia. Il teatro (è) politico, di Stefano Casi e Elena di Gioia, Teatri di Vita edizioni




Un giorno, dei tanti, passati in qualche anticamera, si spalanca la porta di un ufficio di uno squallore indicibile, nella grande città caput mundi. 
In quell’ufficio c’è un omino, corpulento, giovane, sudato, con in mano un telecomando per controllare l’aria condizionata e il fare di chi sa che ha in mano i destini di molti.
Sa e dice. Senza scrupoli. Declama sprezzante il suo potere. Senza pudore. Sentenzia: “Qui comando io!”. E lo fa in maniera arrogante, cialtrona, sciatta. Ma efficace. È saltato su ogni cavallo disponibile, in barba a qualsivoglia idea di rigore e istituzionalità. E manipolando quel telecomando per l’aria condizionata, commentando le grazie di qualche attrice, esaltando i suoi mezzi per fregare il prossimo è arrivato a disporre dell’uso pieno della sua poltrona. La abita bene. Suda, ma la sua sola fatica è quella di premere bottoni e inchinarsi a poteri ancora più importanti.
Non è il solo. Di omini sudati, arroganti e sprezzanti, pronti a sentenziare: “Qui comando io!” è pieno il mondo.
Il teatro è il luogo dove tutto ciò entra in maniera prepotente. Sembra che gli artisti, nei secoli, non siano serviti ad altro che a questo: a generare nel potente di turno il piacere di avere un suddito con cui giocare al gatto col topo. Come posso credere al teatro se so tutto questo?
Se so cosa costa un contributo, una recensione, un premio in questo paese? Il teatro in Italia è stato più d’ogni altro il terreno di scorribande personali, di uomini forti che con la loro personalità hanno fatto il bene e il male, hanno determinato il giusto e l’ingiusto, il bravo e il non bravo a seconda del numero di inchini. Personalmente ho avuto qualche fortuna, ma in questo quadro il mio senso civile non mi permette gioia. Perché so di non essere un uomo del tutto libero. Non sono libero quando vedo le file delle intelligenze del nostro paese, umiliate e costrette a recriminare una sopravvivenza, un ascolto. Non sono libero quando capisco che l’economia che fa girare la cultura è fatta di telecomandi che regolano l’aria condizionata marcia e putrida. Allora come posso credere al fatto politico di un teatro che è politico molto prima di essere rappresentato e nel senso peggiore e più deleterio del termine? Che se in 
scena rappresenta valori e ideali, in cuor suo professa e pratica linguaggi di stigma, di prepotenza, di frustrazione?
La maggior parte di questo teatro è in fin di vita. Vive asfittico, piegato sulle proprie incrollabili miserie. E con lui, inevitabilmente, il senso di essere artisti, attori, registi in questo tempo.
Quando mi chiedono quale sia il mio mestiere, non so ancora rispondere. Potrò rispondere quando quelli del mio mestiere sapranno cosa vuol dire sciopero. Cosa vuol dire tutela. Cosa vuol dire categoria. Per ora provo disagio, quasi come se la scelta fatta mi ponesse ai margini della mia identità. Provo disagio quando vedo gli artisti francesi reagire ai tagli riempiendo le strade di Parigi. Provo disagio quando ascolto i nostri politici nei convegni, e non sento fischi. Credo di essere sempre pronto a definire e a ridefinirmi ma faccio fatica a trovare il senso a volte. Sono stato determinato da una passione indicibile. Ho combattuto e creduto che fare teatro fosse una sorta di missione funzionale alla storia umana e a quella strettamente personale. Come scrivere, dipingere, fare film. E man mano che la passione trovava conforto nella riconoscibilità e visibilità, cominciavo a star sempre peggio. E mi son passati davanti attori che si spogliano ai provini pronti a tutto, critici in grado di scrivere esaltanti prosopopee al solo prezzo di poter essere degni di una scrittura complice, compagnie che potrebbero dirti che sei biondo e hai gli occhi azzurri per recitare nel teatro che dirigi.
Miserie umane, comuni, ben note, ma che nessuno chiama. Mentre tutti chiamano l’artisticità, e sono pronti a declamare il bello del proprio valore, la profondità dei propri sentimenti, il proprio sentimento di fierezza politica. Sono documenti falsi, ora lo so. Perché nessuna di queste menti eccellenti, piena di energia furente e con mille brillanti negli occhi, è capace di accendersi davvero per un’ingiustizia. Perché nessuno rinuncia ad un pezzetto della propria storia quando si scontra con la miseria di un potere che umilia e divide. Perché nessuno sa dire un NO, NON IN MIO NOME.
No alle spartizioni, no alle anticamere. No. No alle caste, no a chi prova a zittirti perché scomodo, no al razzismo teatrale. No.
Possiamo cambiare le parole di questo discorso, rimovere la parola TEATRO, sostituirla con la parola UNIVERSITA', RICERCA, CINEMA, e molto altro.
Il paradigma e le verità restano le stesse. In questo senso, il teatro, è POLITICO.
Occorre una guerra, santa.

Andrea Adriatico: da Pasolini, al cinema, a Pasolini 
Dopo aver dedicato a Pasolini numerosi spettacoli ed eventi agli inizi degli anni novanta, Andrea Adriatico ha affrontato una tragedia pasoliniana, dopo aver attraversato autori come Koltès e Copi, Testori e Mishima, e dopo aver debuttato nel cinema come regista del fortunato Il vento, di sera. La sua Orgiaè condotta su un equilibrio della recitazione tra attenzione alla poesia e al senso delle parole di Pasolini e una fisicità estrema che viene sottolineata dalla vicinanza imposta agli spettatori [5 marzo 2005]. Dal 7 al 13 marzo 2005, Teatri di Vita.


"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

Teatro e Polis, di Fabrizio Gifuni. In "Passione e ideologia"

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - LIBRI
Fabrizio Gifuni

Teatro e Polis 
di Fabrizio Gifuni 




Il corpo a corpo con lo spettatore fa del teatro un’esperienza unica e irripetibile. Il campo magnetico prodotto dall’incontro tra il corpo degli spettatori e quello dell’attore può determinare, a patto che in scena accada realmente qualcosa, un corto circuito che non ha uguali dal punto di vista delle emozioni e della conoscenza.
Non mi vengono in mente altri luoghi, come il teatro, dove una comunità possa ritrovarsi, oggi, liberamente, per condividere un momento di pura conoscenza emotiva. Per questo sono sempre più convinto che i teatri siano il luogo dove poter giocare una battaglia decisiva sul piano delle politiche culturali di questo paese. E di questo, oggi più che mai, gli artisti devono essere coscienti per riuscire a trasmetterne il senso anche al pubblico, che rappresenta ogni sera un campione della comunità. Gli spettatori non dovrebbero mai essere testimoni passivi in un teatro ma parte attiva di quanto sta accadendo in quel luogo. Parte di un processo creativo.
Penso ai teatri come luoghi fisici dotati di un’anima. Spazi d’incontro e di confronto per la Polis. Piazze aperte sulla città. In questo senso il teatro sarà sempre politico.
Il teatro è anche uno degli ultimi luoghi dove si esercita ancora l’arte della memoria. Intesa sia come mnemotecnica (gli attori sono gli ultimi depositari di questa disciplina) sia come serbatoio di una coscienza storica collettiva. Per questo il Potere oggi – come sempre – è spaventato dal teatro. Perché molti italiani ricordano. E non sono disposti a dimenticare. Perché molti italiani sanno che la sistematica distruzione della memoria storica del nostro paese è stata e resta uno degli obiettivi più pervicacemente perseguiti negli ultimi decenni. Perché azzerare e annullare il valore della memoria significa poter dire e fare, oggi, tutto e il contrario di tutto.
Il teatro è sempre stato e resta, innanzi tutto, un Rito. E di questo, a mio avviso, gli artisti, in primo luogo, non dovrebbero mai dimenticarsi. In quello spazio e in quel tempo (il tempo della rappresentazione) dovremmo pretendere – sempre – che accada qualcosa che determini un cambiamento anche piccolo ma significativo nello svolgimento ordinario delle nostre vite. Sia gli artisti che gli spettatori dovrebbero essere più esigenti con il teatro. Un brutto spettacolo ci infastidirà sempre più di un brutto film: perché consciamente o inconsciamente ci farà sempre avvertire la sgradevole sensazione di un’occasione persa.
Il teatro non è un fatto intellettuale. Può anche esserlo (e personalmente mi piace che lo sia), ma questa dimensione da sola può non produrre nulla. Il Rito è in grado di creare una fascinazione misteriosa che non passa da canali intellettuali. La dimensione rituale è il prerequisito di uno spettacolo teatrale qualunque esso sia – come il carisma lo è di un attore. Le doti tecniche o la capacità di offrire un’interpretazione originale di un testo o di un personaggio possono non bastare se un attore non è in grado di produrre con la propria presenza una temperatura magnetica. Lo stesso vale per uno spettacolo: fili invisibili uniscono la scena agli spettatori. Se questi fili si spezzano tutto rischia di scomparire.


Fabrizio Gifuni e 'Na specie de cadavere lunghissimo
Un monologo, un atto unico di una sola ora, ma intenso come raramente capita di trovarne; un unico atto scomponibile in tre scene, tre tempi di una stessa unica musica, un requiem lento e inarrestabile al tempo stesso, una sinfonia di morte, un assolo di dolore. Sulla scena, ’Na specie de cadavere lunghissimo, lo spettacolo che ha fatto vincere al suo ideatore ed interprete, Fabrizio Gifuni, il Premio Hystrio 2005. In scena c’è solo Gifuni, il Pier Paolo Pasolini degli ultimi giorni, l’uomo critico che avverte tutto il peso e la responsabilità che la figura dell’intellettuale che si trova a incarnare porta con sé. Attraverso le sue parole, le parole luterane e corsare di tante lettere, di tanti scritti, prende progressivamente corpo l’immagine di un’Italia uscita dalla guerra, un’Italia libera dal fascismo, ma al contempo minacciata da un nuovo inquietante dio, un nuovo mostruoso idolo: il consumismo. A questa nuova dittatura del pensiero, il letterato contrappone il ricordo del passato. L’evocazione del mondo contadino non ha nulla di idilliaco né tanto meno di populistico: Pasolini è consapevole della vera natura dell’uomo, della realtà profondamente non edenica degli anni trascorsi; il suo vagheggiamento del passato è il desiderio di recuperare quei valori, quegli ideali che, nel bene o nel male, avevano permesso agli uomini di essere realmente tali, realmente liberi, realmente consapevoli di sé.
Il discorso portato in scena da Gifuni-Pasolini è un discorso profondamente drammatico, l’immaginario confronto dell’uomo con la società in cui si trova a vivere e che, non volendo, ha contribuito a (de)generare. È per questo che le parole acquistano la forma e i toni di una vera e propria orazione, la prosa diventa metateatrale, narrativamente e volontariamente letteraria. In questo discorso le colpe ricadono su tutti, sulla Chiesa e sul governo, sulla Democrazia Cristiana e sull’opposizione, sugli uomini e sulle donne, sui giovani e sui vecchi. Pasolini non risparmia nessuno, non risparmia neanche se stesso. E il senso è chiaro. È quel profondo velo di morte che ricopre lo spettacolo fin dall’inizio la vera spiegazione. La morte del protagonista è una morte cercata, una morte voluta, una morte che chiunque avrebbe potuto volere. La generale indifferenza è la vera condanna a morte, il silenzio la campana che annuncia il patibolo.
Fabrizio Gifuni in "'Na specie de cadavere lunghissimo"
.
E così Gifuni si spoglia dei panni dell’intellettuale e si avvia a passi lenti, solo, nudo, al giudizio. Nel passaggio dalla vita alla morte il protagonista si veste di bianco, riconosce le proprie colpe. Eroe tragico, Pasolini è il figlio che sconta le colpe dei propri padri, che sconta il dramma di non essere stato in grado di controllare il nuovo mondo desiderato, dottor Frankenstein incapace di dominare la sua creatura, Dottor Jekyll in balia di Mister Hyde. Ma al contempo Pasolini è il padre che deve morire per ristabilire l’ordine, l’eroe che ha peccato di tracotanza nei confronti del sistema e che deve essere punito perché tutto torni come prima, Laio che giace sulla terra colpito mortalmente da Edipo. Il protagonista è consapevole di questo, consapevole delle sue colpe, del suo destino, pronto ad affrontare quei figli, carnefici involontari in quanto pedine nelle mani del fato. L’uccisione del padre non ha qui nulla di rivoluzionario, nulla di quelle rivoluzioni culturali che tanta fortuna avevano proprio in quegli anni. L’uccisione del padre incarna qui il mantenimento dell’ordine; tutto deve cambiare perché tutto possa tornare a essere come prima.
Giuseppe Bertolucci
E così nel terzo e ultimo atto si realizza il sacrificio finale, Pasolini assurge al grado di capro espiatorio, vittima sacrificale da immolare all’altare della libertà e della tolleranza. E qui avviene il miracolo: dal suo corpo, nel suo corpo, prende vita Pino Pelosi detto er Rana, l’assassino dell’intellettuale, che porta con sé l’immagine di quel mondo che tanto a lungo il letterato aveva descritto e difeso. E inizia così una nuova parte del discorso drammaturgico, qui inizia il ricordo di quella notte, di quel "cadavere lunghissimo", di quella corsa per le strade di Ostia e di Roma a bordo di un’Alfa GT. Le parole di Pelosi passano attraverso il romanesco dei Ragazzi di vita, di Una vita violenta; passano attraverso il friulano delle Poesie a Casarsa; passano attraverso gli endecasillabi del poemetto Il Pecora di Giorgio Somalvico. Ne deriva un corpus linguistico complesso e articolato, una contaminazione linguistica che, se attinge all’utilizzo del dialetto proprio di Pasolini, giunge a ricreare il complesso ed intricato "gnommero" gaddiano.
La parola è la forza di questo spettacolo, la parola evocatrice, creatrice, ermetica che diventa la forza di un testo complesso, che rischia di insegnare poco a chi non ha mai sentito parlare delle vicende di trent’anni fa, ma che rischia anche di smuovere le corde dei sentimenti. Il merito è di un bravissimo Fabrizio Gifuni, ora razionalistico indagatore, ora idolo imperscrutabile, ora folle e allucinato borgataro. Il merito è nell’attenta regia di Giuseppe Bertolucci, non nuovo a indagare gli itinerari pasoliniani, non nuovo ad affascinare e incantare il pubblico con la magia della poesia, del cinema e del teatro. Il pubblico partecipa direttamente all’intera vicenda, protagonista involontario di un dramma collettivo. La tragedia greca era tragedia corale. La catarsi passa anche attraverso ’Na specie de cadavere lunghissimo. [Francesco Lucioli, CinemAvvenire]
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

Pasolini a New York Al MoMa una retrospettiva che celebra la figura dell'intellettuale, regista e poeta Pier Paolo Pasolini

$
0
0
"Pagine corsare"
LE NOTIZIE - MOSTRE
Pasolini a New York
Al MoMa una retrospettiva che celebra la figura
dell'intellettuale, regista e poeta Pier Paolo Pasolini
Vogue, gennaio 2012


"Vorrei aver diciotto anni per vivere tutta una vita quaggiù", raccontava Pier Paolo Pasolini nel 1966, per la prima volta a New York, a una giovane Oriana Fallaci. "New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent’anni". Comunista sentimentale, come lo chiamava Moravia, nonostante l’apparente contraddizione con il suo credo marxista e la critica anti-capitalistica, Pasolini non aveva mai celato di nutrire per gli Stati Uniti una forte passione irrazionale. Un sentimento ricambiato dal pubblico americano che oggi celebra l’eclettico artista al Museum of Modern Art, per la seconda volta, con una retrospettiva in corso fino al 5 gennaio.
Grazie a una collaborazione con Istituto Luce, Cineteca di Bologna, Fondo Pier Paolo Pasolini e Gucci che sponsorizza l’evento, l’intento è di offrire una panoramica onnicomprensiva della produzione artistica dell’autore italiano, tramite una serie di esposizioni, performance e screening tra la sala cinematografica del museo sulla 53a strada e il MoMa PS1 dall’altra parte del ponte.
Voluta in primis dal direttore del PS1, Klaus Biesenbach, la mostra è stata ideata privilegiando un nuovo linguaggio, di più facile comprensione soprattutto per i giovani. In parallelo alla programmazione di film a Midtown ecco la proiezione continua delle pellicole restaurate di Medea, Salò e Teorema, esposti alla stregua di art video nel museo di Long Island City. L’escursione continua tra il Queens e Manhattan, trasmette fisicamente una dualità tra presente e passato, facilitando la comprensione dell’onnipresente nostalgia di Pasolini per quella profonda umanità del mondo arcaico, agricolo e paleoindustriale frapposta all’alienante mondo tecnico contemporaneo post-industriale.
A ogni lato della creatività ed espressione artistica viene dato particolare riguardo: dalla riproduzione di dichiarazioni e interviste, all’interpretazione di saggi e poesie da parte di attori contemporanei come Alba Rohrwacher e Pierfrancesco Favino; dai ricordi personali di Ninetto Davoli e Dante Ferretti, al parallelo dell’impegno politico di Pasolini con quello di altri artisti stranieri contemporanei come Barbara Hammer e Paul Chan.
"Ogni generazione deve avere una propria retrospettiva di Pasolini," ha dichiarato Jytte Jensen, Dipartimento di Film e Media del MoMA, inaugurando la retrospettiva. E questa generazione sembra averne particolarmente bisogno. "L'Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo," diceva Pier Paolo Pasolini. Era il 1972, ma in tempi contraddistinti dal crollo del sogno americano, dibattiti costanti sulle dinamiche sociali e le politiche economiche, quando più e più persone sono famose solo per essere famose, il pensiero pasoliniano è più pertinente che mai.
Giovanna Maselli
4 gennaio 2013
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

The Delay of Death – Pasolini’s Trilogy of Life, by Gabriel Abrantes

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Giotto, Meeting at the Golden Gate, 1305

The Delay of Death - Pasolini’s Trilogy of Life
Written by Gabriel Abrantes
24 December 2012, http://mubi.com/

Pier Paolo Pasolini’s Salò (1975) was released by Criterion in 1998 and in 2004 they released Mamma Roma (1962). This past month they released a much belated box-set of his six-hour Trilogy of Life (1971-1974), in a beautiful restoration and accompanied with an awesome heap of great docs, essays and other goodies. On December 13 MoMA started a month-long retrospective dedicated to his work.


I. Defending Pasolini Against His Devotees

The prevailing view of Pier Paolo Pasolini has become subjugated to the misshapen reputation of his film, Salò (1975). The film’s unyielding serial descent into ever more severe cycles of mutilation, sodomy, coprophagia, and chronic rape of a group of 12-15 year olds has scandalized and influenced a culture that is frantic for any stimuli that can remind its constituents of their humanity. The film has furnished ample fodder for generations of filmmakers intent on appropriating and capitalizing on its capacity for shock, as a last ditch attempt to have any effect whatsoever on an audience, in an age where culture has lost all religious and political credibility. This tendency has degraded Pasolini to the status of a hollow pulpiteer of scandal, the type of fashionable figure that he so adamantly admonished during his lifetime. Yet Salò gains enormous depth when regarded as a punctuation to Pasolini’s entire discourse, and seen through the prism of his struggle to comprehend and wrestle with a society that was progressively debasing itself into a conformist and racist creed. The Trilogy of Life is the positive accumulation of his discourse, with a vision of culture that is far more elucidating than the adolescent fascination with the effect of violence: culture as the delay of death.


II. Cinema of Poetry

The system of contradictions which models the complexity of Pasolini’s cinema can begin to be revealed by the description of a few binary oppositions. His framing, lens variation, shot language, casting choices, art direction, musical choices, and editing strategies can all be seen as subject to a logic of conjoining ‘high’ and ‘low’ culture.

The title cards in his films already proffer a disorienting opposition of the aural and visual. The beginning of The Decameron blinds with a white field of grain and the black all capital roman lettering of the credits. The font on the background creates the distinct impression that the names intermittently appearing on screen (director, producer, cast, etc.), carry the weight of the Roman names engraved in their senate’s monument to peace, the Ara Pacis, but transformed by the flickering warmth of liquid emulsion. Over this dignified procession of letters, we are lambasted by Ennio Morricone’s vulgar cacophony of monorhythmic five-tone harmonicas, cornets, bells, bagpipes, Jews’ harps, tambourines, laughing, singing and percussive dancing. Already in the credits we are confronted with a complexity of class and cultural references scintillating into each other, on a scale that spans the entire social history of Roman culture (from the Republic’s Ara Pacis to the Cinecittà, and from the folk songs of Naples to Ennio Morricone’s trademark soundtracks).
Pasolini used an inverted version of this opposition in his first film, Accattone. He managed to sanctify a rapscallion pimp (played by Franco Citti) and a landscape filled with the most brute and crass (albeit charming) hoodlums by cuing them with sixteenth century ‘holy’ music:

“I think what scandalized [the audience] in Accattone was the mixture of violent Roman subproletariat with the music of Bach.” [1]

In this first film, along with his second, Pasolini developed an aesthetic that hinges on a dialectic, a style that he described as ‘reverential.’ In both Accattone and Mamma Roma he would film his thieving, pimping, and prostituting sub-proletarian protagonists in frames referencing Medieval and Mannerist religious paintings. Pasolini most often cites Masaccio, and in later films Giotto, Piero della Francesca as well as the colors of the mannerists Pontormo and Rosso Fiorentino. The pose and composition of a Masaccio crucifixion is replicated in the conclusion of Mamma Roma, with the proto-bourgeois teenage thief Ettore in the place of Christ, sweating from consumption, horizontally crucified in the isolation of a prison cell.
These references come from two shunned periods of art history, the Medieval and the Mannerist. Both are usually regarded as inferior to the periods that they frame: Ancient Rome, the Renaissance and the Baroque. Giotto, Masaccio, and Piero della Francesca are on the transitional cusp of the invention of perspective, the age of reason, and the nascent strands of industrial logic. Giotto’s malformed and disjointed perspectives, with each building receding towards its own horizon, are part of the same pre-industrial ‘reality’ and ‘innocence’ that Pasolini would later read in Boccaccio and Chaucer. Pontormo and Rosso Fiorentino, on the other hand, are protagonists of the Mannerist period, with canvases covered in supernaturally elongated figures and ethereal palettes of pastel pink, green and cerulean. This kitsch pastiche of exaggerated Renaissance forms was a clear disengagement from the rigid logic of its preceding period.
Masaccio, The Expulsion of Adam and Eve (before and after restoration), 1426

Pasolini eventually had to modify his ‘reverential style,’ and adapt these aesthetic references to a different subject matter. On the first day of shooting The Gospel According to St. Matthew, a film portraying the life of Jesus according to the Gospel of Matthew, Pasolini nearly gave up the project, intuiting the superfluity of his ‘reverential syle’:

“Already in Accattone my style was religious… Using a reverential style for The Gospel was gilding the lily: it came out rhetoric... Reverential technique and style in Accattone went fine, but applied to a sacred text they were ridiculous;… When I was filming the baptism scene near Viterbo I threw over all my technical preconceptions. I started using the zoom, I used new camera movements, new frames, which were not reverential, but almost documentary.” [2]

By understanding the redundancy of filming a religious subject with references to religious paintings, Pasolini discovered his revolutionary cinematographic methodology, and its transformative potential. In order to forge a new perspective of Christianity, he would have to film Jesus Christ as a man, as anything but holy. Pasolini decided to film the gospel with a profusion of verité techniques:

“The alternation of different lenses, a 25mm and a 200mm on the same face; the proliferation of wasted zoom shots, with their lenses of very high numbers which are on top of things, expanding them like excessively leavened bread; the continuous, deceptively casual shots against the light, which dazzle the camera; the hand-held camera movements; the more sharply focused tracking shots; the wrong editing for expressive reasons; the irritating opening shots; the interminable pauses on the same image, etc.” [3]

Casting would be one of the most creative aspects of Pasolini’s work, and (after the period of his Roman films) would manage a striking effect: every character in history would now become a sub-proletarian body. Pasolini’s imaginary worlds would become populated exclusively with rough local non-professional actors, regardless of whether they represented cuckolded bakers, sex-obsessed good-for-nothings, enthusiastic virgins, adulterous queens, perverted friars, or even the incestuous Oedipus Rex.
It is surprising that Pasolini refrained from positing Caravaggio as an influence, as he seems to have so much in common with him. Caravaggio, a 17th century Italian baroque painter, usually rendering mythical, religious, or moral themes, also exclusively cast his models from the lowest social classes of Naples. Further parallels can be found in Caravaggio’s sexuality, his attraction to violence, and his death, which like Pasolini, was from knife wounds on an Italian beach. Pasolini only once mentioned how he felt about Caravaggio, stating that he was not much influenced by him. He justified this, stating that everything Caravaggio painted had the patina of death, although he concedes that the world Caravaggio placed in front of the easel was a spectacular invention; ‘the neglected children of the greengrocer, disparaged women of the people, etc.’ [4] What made Caravaggio’s work revolutionary was his choice to alter his perspective, detailing the low, vulgar, and disparaged classes of society. The Entombment of Christ is painted from the point of view of beggars’ feet, the Conversion on the Way to Damascus consecrates a quarter of its surface to the chiaroscuro modeling of a horse’s rump, and all of his paintings are filled with representations of Christ, Mary, saints, and apostles modeled by the weathered faces, scum-filled fingernails, and withering breasts of bodies that suffered a lifetime of social oppression. This political dialectic of representing the holy with the marginalized factions of society is so analogous to the dynamic of Pasolini’s cinema that his denial reveals itself as all the more conspicuous.
These examples point to the centrality of Pasolini’s approach to casting and the dialectic that founds its political distention. As P. Adams Sitney established in his text Accattone and Mamma Roma, the source of the genealogical shrift in between Neo-Realism and Pasolini’s cinema arose from the mytho-poetic torque that Pasolini infused in his characters and actors. [5] In Mamma Roma, Anna Magnani incarnates the Mother Madonna as she hangs from the window of a social housing building, weeping for her son who lays feverishly bound to a crucifix.
These series of contradictions (camera, acting, music, casting, art direction, etc.) are then conjoined, sometimes forming overlaps of pairs (i.e. Bach contrasts with the sub-proletarian pimp, who in turn contrasts with medieval icon composition), creating a highly complex polymorphic network of contradictions, which establish the principal impetus of his discourse: the Nietzschean dialectic of Epic and Folk. Pasolini often refers to the notion of epic:
Pontormo, Descent from the Cross, c. 1525

“Dreyer, Mizoguchi and Chaplin, they are all epic, - not epic in the Brechtian sense of the word; I mean epic in the more mythic sense of the word - more natural epicness which pertains more to things, to facts, to characters, to the story, without Brecht’s detachment. I feel this mythic epicness in both Dreyer and Mizoguchi and Chaplin: all three see things from a point of view which is absolute, essential and in a certain way holy, reverential.” [6]

The juxtaposition of the epic and the folk lies at the center of his work, and all of its particular modular contradictions. It is intended to guide the films towards the mythic. This is why it is unjust to delimit his work as burlesque eclecticism. The structure of his individual works and of the body of work did not assemble a totemic pastiche, accumulating different symbolic forms one on top of the other, but, rather, through a flexible dialectic assembled the likeness of a new world, a world founded in the fragmentary oppositions of the subconscious.
In contradistinction to the dynamics described above, Salò works to elide the majority of techniques that Pasolini had elaborated and used until then. For the movie offers only a consistent and unyielding linearity of axis in camera angles, acetic limit of lens variety, overall restraint from camera movement (especially handheld), and the rigidity of an unidirectional climactic story. The film even manages to discard sentiment in its narrative construction, eschewing any pretense of suspense, preferring instead the more basic structure of a story without plot, where events merely proceed one after the other in spite of motivation (much like the primitive man’s fireside story, glued together with an endless ‘and then, and then, and then…’). This unidirectional frigidity permeates the majority of Salò, and if it were not for one particular scene, it could justifiably be seen as the equivalent to cheap nauseating snuff attacking sexually deviant fascists.
This singular scene rotates the hinge of the entire film, altering our moral perspective. The scene, the centerpiece of the film, reveals the four patriarch libertines lounging, brandy in hand, after an exhausting bout of torturing, degrading and defiling their pubescent captives. In one of the rare camera movements in Salò, a tracking shot introduces them, neckties loosened, arms and legs akimbo, sprawled over the carpet of a secluded drawing room. The cinematography, in an unusual movement and attitude for Pasolini, does not concentrate on their faces, but rather obfuscates their presence in the musk of their surroundings. It pivots in a measured and contrite half circle that leaves their conversation to be heard over the objects that surround them; a low voice can be heard quoting a Baudelaire verse as the camera moves over a vast industrial-erotic Fernand Leger fresco; another voice doubts that the quote is Baudelaire’s as we see a set of exquisitely framed Dada and Suprematist collages. Completing this measured half circle around the room, the camera settles into the familiar Pasolini close-ups (albeit in less frontal, three quarter portraits) where the men agree that they were in fact quoting Nietzsche. The men, cigars in hand and swiveling their glasses, exhibit bohemian postures transported directly from Manet’s Le déjeuner sur l'herbe. They assume, in context and persona, the port of left-wing intellectuals that fascists so vehemently excoriated. The modernist poetry, paintings, and bohemian lifestyle represented in the scene form a material list of the objects and social behaviors that the Fascist state had deemed ‘degenerate.’
Caravaggio, Entombment of Christ, 1602

This is the only scene in Salò that appeals to the revolutionary potential of Pasolini’s previously developed dialectic strategies. In an ironic reversal of the representation of the sub-proletariat as saints, Pasolini represents Fascists as left-wing intellectuals. In this he invests in the same leverage that his dialectical approach affords, but applies it as a gesture of masochistic self-effacement. At that moment the excoriating libertinage of the patriarchs is not seen as the objectionable pursuits of pathological reprobates, but as the sexually liberated experimentation of sensitive philosophically minded dandies. There is no doubt that by setting up this incongruous representation of fascists, Pasolini meant to momentarily unweave the gossamer filter that divides his radical left wing politics from the extreme right wing politics that he had so malevolently remonstrated throughout his life.


III. Delay of Death

The Trilogy of Life, although not yet subscribing to this pessimistic and auto-destructive perspective, is already a premonition of it. During its conception Pasolini had already lost confidence with all of his Marxist prerogatives, and so the trilogy operates as a conscious delay of death. In this sense it can be categorized as a six-hour elegiac rumination on the ruins of what Pasolini considered to be a perished humanity. With it, he forged the culminating statement his body of work, and wittingly went about it in a manner that was a wild critical and commercial success. This success, as well as the films’ faux naïveté and mock optimism, reinforces the grand irony of succeeding this trilogy with Salò.
The three sources for the trilogy, Boccacio’s The Decameron, Chaucer’s The Canterbury Tales, and the anonymous 1001 Nights are all products of medieval (pre-industrial) cultures that relish in caricature, vulgarity, sexuality and trickery. The structure of the books are similar, as they are all composed of a series of stories strung together by a frame narrative. The choice of medieval narratives for the trilogy, especially ones that lean so heavily on a blatant erotic crudity as a source of gregarious jest and joy, comes as an evident culmination of Pasolini’s previous interest in a pre-modern authenticity and view of liberated sexuality as the most effective tool against the bourgeoisie. In addition to these two facts underline the texts’ most significant particularity (which is also shared in common with Sade’s 120 Days): the main impetus for storytelling is to delay a confrontation with death.
How each frame operates as a ‘delay of death’ is clear in their summaries. In The Decameron a group of Florentine citizens barricade themselves in a countryside castle in order to avoid the black plague scourging the city. While they are barricaded each member of their party tells a story in order to pass the time. In The Canterbury Tales, a group of English men and women tell each other stories to pass the time as they proceed on their pilgrimage towards Canterbury. The relation of this frame to a delay of death is founded on its structure around a pilgrimage. These long voyages to visit holy relics (throughout history as well as today) most commonly function as a demonstration of faith entreating divine providence to cure personal illness. In 1001 Nights an artful young woman marries a sultan who has been chronically slaying his wives one after another on their wedding night out of spite for being cuckolded by his first wife. The young woman attempts to save herself (and the many women that would come after her) by telling an extended chain of stories, which, keeping the sultan in suspense, delay her immanent execution. In all three cases the frame characters set about telling stories in order to delay their confrontation with death, whether it be the black plague, divine providence, or the rancorous sultan’s sword.
Still from 35mm film of The Arabian Nights by Pier Paolo Pasolini, 1974

All three books posit storytelling as a form of entertainment in order to pass the time, as well as a form of escaping death. Regardless of the fact that Pasolini’s trilogy does away with the frame narratives (although he had originally filmed and edited over 20 minutes of the pilgrims in Canterbury, he ended up editing these out the night in between the press screening and the public screening at the Berlin Film Festival premiere), the films operate on this same, basic premise. The Trilogy arises out of a disillusionment with the political potential of cinema, and acquiesces to a conception of life that views culture as a manner to dream away time, as a way to postpone our irremediable existential condition of ‘throwness-towards-death.’
This logic arises out of the Pasolini’s desperation in regard to the political impotence of having an audience that was limited to the dominated factions of the bourgeoisie (artists and intellectuals). It also comes out of his disappointment in the aesthetics of anarchy proposed by the ‘cinema of poetry’; they were to readily appropriated into a fashionable canon of international filmmaking, much like Marxist posturing became fashionable for the youth of Europe. Pasolini and his producer, Alberto Grimaldi, evaded the politics of marginal, alternative and counter-cultural fashion, by attempting to formulate and market The Trilogy as a mass spectacle.
This strategy was enormously successful, and The Trilogy was widely awarded, critically acclaimed, and commercially successful. The Decameron won the Silver Bear at the 1971 Berlin International Film Festival, a year later The Canterbury Tales won the Golden Bear, and in 1974 Arabian Nights won the Grand Prize of the Jury at the Cannes Film Festival. Up till the production of The Decameron, Pasolini had only won one other major prize, grabbing the Special Jury Prize at the ’64 Venice film festival, with The Gospel According to St. Matthew. The films’ commercial success can be linked to a politics of the producer’s publicity strategy and Pasolini’s content. All three films were advertised as salacious farces celebrating the joy of a liberated sexuality, the puerile delight of extramarital foolhardiness, and the comic mishaps of beguiled naïfs. The posters mimicked the styles of pornographic B-films, with the inevitable display of nudity, burlesque grimaces, wide mouthed pantomimes, and a variegated saturation of exotic locations and costumes. The trailers exacerbate this logic even further, utilizing an alternating montage that flips rhythmically in between explicit sex and close-ups of grotesque hooting, cackling, moaning, and flatulence. They conclude with a boisterous tongue in cheek V.O. boasting of the films’ XXX rating. Such strategy would pander -quite successfully- to a mass audience craving commodities that fed their recently liberated senses of self, the same audience that had previously been alienated, wearied, or bored by Pasolini’s less jocular films. Such commercial mechanisms functioned so well that, by the end of the trilogy, the longest review of Arabian Nights ran a staggering eleven pages, punctuated over thirty spreads of Italian Playboy’s soft-porn bunnies. [7]
The Trilogy and Salò are very different, but they are founded in a common impetus, experimental research on how one can go about as a poet in a secular and politically flaccid culture. Both films posit the same answer, albeit in different typologies: one through the escapism of a gregarious popular form and the other through a melancholy fueled pessimism. They both revel in affirmations of the Elegiac form as the only justifiable genre of cultural production. They operate as a preemptive elegy, as a funeral oration, or a funeral speech: a discursive locus for collective mourning in order to usher the fabricated qualities of the dead back into a living corpus.

“Now hearing this gospel of universal harmony, each person feels himself to be not simply united, reconciled or merged with his neighbor, but quite literally one with him, as if the veil of maya had been torn apart, so that mere shreds of it flutter before the mysterious primordial unity (das Ur-Eine).” [8]

Special thanks to David Phelps.

---------
Notes

1. Stack, Oswald (ed.) “Accattone.” in Pasolini on Pasolini. (Thames and Hudson, London 1969.) 52.
2. Stack, Oswald (ed.) “Accattone.” in Pasolini on Pasolini. (Thames and Hudson, London 1969.) 83-84.
3. Pasolini, Pier Paolo. “The “Cinema of Poetry”.” in Heretical Empiricism. (New Academia Pubishing, Washington, D.C. 2005.) 184.
4. Pasolini, Pier Paolo. “La Luce di Caravaggio.” in Saggi sulla letteratura e sull’arte, Tomo II, (Meridiani Mondadori, Milano 1999.)
5. SITNEY, P. Adams. “Accattone and Mamma Roma.” in Pier Paolo Pasolini - Contemporary Perspectives. RUMBLE, Patrick (ed.) (Toronto Press Incorporated, Toronto 1994) 173.
6. Stack, Oswald (ed.) “Accattone.” in Pasolini on Pasolini. (Thames and Hudson, London 1969.) 43.
7. Pasolini, Pier Paolo. “Il fiore delle mille e una notte “Le mie mille e una notte”” in Italian Playboy. Sept. 1973. Print.
8. Nietzche, Friedrich. “The Birth of Tragedy” in The Birth of Tragedy And Other Writings. (Cambridge University Press, Cambridge 1999.) 18. 
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

Contatore accessi gratuito

Un caso di "remake" pasoliniano di cui si sarebbe potuto fare molto volentieri a meno

$
0
0
"Pagine corsare"
LE NOTIZIE
Un caso di "remake" pasoliniano di cui 
si sarebbe potuto fare molto volentieri a meno
di Angela Molteni


I nostri connazionali, oltre a fare la fila per il nuovo Iphone, fanno anche la fila per farsi fare gli autografi da Fabio Volo salvo poi esacerbarsi quando l’erede di Buzzati e Calvino non sorride e firma gli autografi a macchinetta. Quei duemila che fanno un’ora di fila per avere il libro autografato di Volo meriterebbero sei mesi di turno all’altoforno di Piombino assieme a quei duemila che fanno la fila per comprare un paio di mutande da Abercrombie.
E neppure Fabio Volo o qualcun altro può pensare di forgiare un "Pasolini a modo suo", cioè uno scrittore e regista di cui quel qualcuno possa dire, scrivere o mettere in scena ciò che gli pare e piace e nel modo che più gli aggrada. E' accaduto recentemente che Fabio Volo si sia cimentato in una tale squallida attività. E abbia trovato anche chi ha ritenuto "democratico" fargli pubblicità. Certo, si può scrivere qualsiasi cosa su chiunque, ma nel caso di Pier Paolo Pasolini non si può prescindere dal fatto che egli sia uno scrittore e un regista entrato a tutti gli effetti nella storia della letteratura e del cinema, con tutto ciò che questo significa, sul piano culturale e non solo. Se ne può parlare dunque con il rispetto, l'umiltà e la competenza di chi un Autore del genere si propone almeno di leggerlo e studiarlo per tentare di capirlo: far parlare altri col copia-incolla, senza indicare neppure le fonti (spacciando di fatto scritti altrui per propri) non è utile e non serve allo scopo che è fondamentalmente quello di comprendere e magari di spremere le proprie personali meningi (ammesso e non concesso, direbbe Totò...) per commentarne l'opera. Per parlare di Pasolini c'è un passaggio dal quale non si può prescindere, un aspetto al quale non  è permesso sottrarsi: è indispensabile leggerlo, non smetterò mai di ricordarlo, per conoscerne le opere e il loro significato, anche quello più recondito, che magari può sfuggire a un'analisi superficiale, affrettata o effettuata senza alcun valido strumento culturale. Se ne può parlare naturalmente, lo si può citare, ma occorre anche essere corretti, non farne una "macchietta", accantonando accuratamente tutti i possibili moralismi d'accatto, e rispettare prima di ogni altra cosa il suo lavoro, e anche i suoi diritti d'autore, tuttora esistenti ancorché spettanti a chi ne è legittimamente erede.
C’è chi capisce, e chi no. C’è chi accetta, e chi no. C'è chi è "pieno di sé" e non "pieno di se...". Tutto qui. Non c’è da scandalizzarsi, ci sarebbe soltanto da esercitare il proprio, personale e inalienabile, diritto/dovere di autocritica che nasca perlomeno da un minimo di conoscenza. Con ciò non mi riferisco soltanto a singole persone, ma soprattutto alla televisione, e ai suoi programmi e personaggi orrendi. Oltre alla disinformazione, ai telegiornali pilotati, alle cosiddette trasmissioni di intrattenimento, a odiose parodie, e al nulla rappresentato dalla mancanza totale di proiezioni cinematografiche o di altre programmazioni di qualche spessore, la Tv offre una totale assenza di contenuti perlomeno “passabili”. E c'è ancora chi di Tv si nutre, chi non riesce a liberarsi da una dipendenza tanto odiosa. Non è sufficiente che qualche nuovo canale televisivo, per esempio, trasmetta in diretta una “prima” della Scala per riscattare un mezzo di comunicazione di massa il cui unico motivo di esistenza è ormai la pubblicità, cioè quel comportamento consapevole che induce gli spettatori a non essere “persone”, “cittadini responsabili”, ma esclusivamente “consumatori”. Così, intanto, dilagano “L’ha detto la Tv”, “La Rai l’ha mandato in onda”, eccetera eccetera… riferiti a programmi e a pseudo parodie che definire "miserabili" è quasi un complimento. Cioè programmi che sono quanto di più omologante, consumistico, conformista e “antipasoliniano” si possa immaginare... e l'aspetto maggiormente vergognoso, sia chiaro, è che chi si esprime in questo modo si richiami proprio a Pasolini. Niente complimenti nei confronti di chi non si mette in grado di comprendere (... né un originale né una miserabile parodia). Nessuna considerazione per chi neppure sospetta che una persona possa farsi possedere, almeno per un attimo, da pura e semplice ’’ombra di un dubbio”… Scriveva lo stesso Pasolini nei primi anni settanta a proposito della trasmissione televisiva "Canzonissima":

«[…] Per me i responsabili di questa trasmissione sono dei veri e propri criminali, e non in senso traslato della parola. […] Purtroppo gli alti dirigenti della Tv che vogliono questa orribile trasmissione (che del resto, benché più clamorosamente, è a livello almeno dell'80 per cento di ciò che è trasmesso alla televisione) si sono creati intorno una catena infinita di omertà, perché, essendosi, con la violenza, conquistata l'opinione pubblica, hanno trascinato nel loro criminale disegno anche tutti coloro che della pubblica opinione devono tener conto: per esempio, i giornalisti, i direttori di settimanali e di quotidiani, ecc. E si è dunque creata la impopolarità più dura e intrasgredibile intorno a chiunque manifesti il suo dissenso contro un simile obbrobrio [...]. Obbrobrio che viene con uguale leggerezza (ed effettiva brutalità) accettato dalla piccola borghesia e dalla classe operaia. Esso (tale obbrobrio) è quindi una delle manifestazioni più clamorose di quella cultura di massa che il capitalismo impone e vuole come interclassista. Quando gli operai di Torino o di Milano cominceranno a lottare anche per una reale democraticità di questo ente fascista che è la Tv, si potrà realmente cominciare a sperare. Ma finché tutti si ammasseranno davanti ai loro video, borghesi e operai, a lasciarsi umiliare in questo modo, non resta altra soluzione che la più impotente disperazione». ("Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società", Meridiani Mondadori, Milano 1999)
.
Lo stesso - o forse perfino peggio - si potrebbe scrivere oggi a proposito della parodia pasoliniana oggetto del programma (ospitato dalla televisione pubblica) di Fabio Volo, qualcuno di cui si arrossisce anche soltanto a pronunciarne il nome.  Scrive a questo proposito Daniele Luttazzi: "A me sembra chiaro che per essere ammessi in Tv bisogna appartenere alla nuova specie televisiva creata negli anni berlusconiani, ma che va sempre di moda: la figura del paraculo, quello che non si schiera mai, che si mimetizza, che fa del qualunquismo una bandiera. Bonolis che dichiara di non sentirsi né di destra né di sinistra, Fabio Volo che si vanta di essere qualunquista, Simona Ventura che si definisce equidistante. Gene Gnocchi, Fiorello, Fabio Fazio, Baudo stesso. Sono gli eroi dell'opportunismo Tv, quelli con la maschera patinata. Lavorano rispettando la condizione di non disturbare, non accorgendosi che l'opportunismo è una forma di corruzione".
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.


Contatore accessi gratuito

Naldini: " L' ultima accusa di Guido Pasolini" - Archivio storico del "Corriere della Sera" (1997)

$
0
0
"Pagine corsare"
LA VITA
Partigiani della Osoppo a Topli Uork (inverno 1944-1945)

Naldini: " L' ultima accusa di Guido Pasolini "
di Cesare Medail
ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 20 agosto 1997


Pier Paolo ricevette una lettera dal fratello partigiano poco prima dell'esecuzione. A portargliela fu il cugino, che qui racconta come andarono i fatti. Naldini: "L'ultima accusa di Guido Pasolini". Il poeta esibì le pagine del giovane ucciso ai processi che poi avrebbero condannato gli esecutori dell'eccidio. "Ci volevano far togliere le mostrine tricolori e mi puntarono la pistola" "Hanno l'obiettivo di costruire la Repubblica sovietica del Friuli" 

Guido Alberto Pasolini
Mentre fioccano le polemiche sulla strage di Malga Porzûs in vista della presentazione a Venezia del film di Renzo Martinelli, una voce è ancora rimasta inascoltata, quella di Guido Pasolini, fratello del poeta e partigiano della Osoppo, la vittima più famosa dell'eccidio. 
"Mi meraviglio", dice Nico Naldini, scrittore e cugino dei Pasolini, "che nessuno finora si sia ricordato che esiste una lunga lettera inviata da Guido a Pier Paolo il 27 novembre 1944, in cui vengono descritti gli eventi che hanno portato alla tragedia del 7 febbraio '45". 
La lettera occupa sei pagine nell'introduzione all'epistolario pasoliniano che Nico Naldini curò per Einaudi nel 1986 e sono un forte atto d'accusa nei confronti dei partigiani garibaldini e filo-titini che tre mesi dopo avrebbero teso l'agguato di Malga Porzûs  non solo, ma offre anche una traccia per capire i rapporti fra i due Pasolini. Guido non vuole soltanto comunicare a Pier Paolo una "situazione penosissima e grave" ma gli chiede aiuto: "La nostra parola d'ordine per ora è di rispondere a una sleale propaganda anti-italiana con una propaganda più convincente. Abbiamo fondato un nuovo giornale: "Quelli del Tricolore", dovresti scrivere qualche articolo che fa al caso nostro con qualche poesia, in italiano o in friulano, qualche canzone su arie note...". 
Qualcuno, molti anni dopo, scrisse che questo appello cadde nel silenzio ("Il fratello di Pasolini fu ucciso dai comunisti. Avrebbe chiesto invano aiuto al fratello Pier Paolo", Il Tempo, 26 marzo 1970), ma non poteva essere altrimenti perché quella sorta di "messaggio nella bottiglia" arrivò a Pier Paolo dall'inferno dei monti proprio nei giorni in cui Guido veniva ucciso. "Fui io a recapitarlo a Pier Paolo nel febbraio '45", racconta Naldini, "dopo che per tre mesi era passato da una mano all'altra. Una donna che faceva la staffetta partigiana con la pianura lo recapitò a un amico di Udine, che a sua volta lo passò a me. Nessuno sapeva ancora qual era stata la sorte di Guido, a causa delle reticenze di chi aveva paura e delle intimidazioni da parte comunista nei confronti di chi poteva parlare". 
Guido Alberto Pasolini
La notizia ufficiale della morte di Guido arrivò solo nel maggio '45. Ma l'importanza che ebbe per Pasolini quella lettera è confermata dal fatto, ricorda Naldini, che "Pasolini la portò in aula e divenne un documento base dei processi per la strage di Porzûs che si tennero a Brescia e a Lucca, e che avrebbero giudicato la colpevolezza degli assassini". Il lungo scritto di Guido parte da una descrizione della situazione militare che racconta nei dettagli strategici come brigate slovene e garibaldine avessero in più occasioni lasciato scoperti quelli della Osoppo di fronte ai tedeschi con improvvise ritirate ("Gli sloveni, incaricati di proteggerci le spalle, si ritirarono senza sparare un colpo! Le nostre postazioni sopra Subit furono sopraffatte dal numero e dai mezzi", "Ancora una volta ingannati!... Sul monte Joannes vi doveva essere un presidio garibaldino; infatti vi trovammo le truppe tedesche schierate come un plotone di esecuzione..."). 
La corda era tesa e si ruppe quando giunse per radio la voce che "gli inglesi nelle terre liberate stanno disarmando le formazioni partigiane". "A noi dell'Osoppo la notizia non fa né caldo né freddo: "una volta che l'Italia è liberata...", ma il commissario garibaldino Vanni fece subito un discorso nella piazza di Nimis: "Io vi assicuro che né Russi (la parola è detta di sfuggita) né Americani né Inglesi (qui la voce tuona) disarmeranno la divisione Garibaldi-Osoppo". 
Prosegue la lettera: "Negli stessi giorni giunge una missione slovena inviata da Tito: si propone l'assorbimento della nostra divisione da parte dell'armata slovena...". Le tensioni crescono e i toni di Guido si fanno drammatici: "I presidi garibaldini fanno di tutto per indurci a togliere le mostrine tricolori; a Memicco un commissario garibaldino mi punta sulla fronte la pistola perché gli ho gridato in faccia che non ha idea che cosa significhi essere "uomini liberi", e che ragionava come un federale fascista (infatti nelle file garibaldine si è "liberi" di dire bene del comunismo, altrimenti sei trattato come "Nemico del proletariato", nientemeno!, oppure "idealista che succhia il sangue al popolo", senti che roba!). A fronte dichiariamo di essere italiani e di combattere per la bandiera italiana, non per lo "straccio rosso". 
Guido Alberto Pasolini
Le parole mostrano quanto sia esasperato il giovane iscritto al Partito d'Azione, il quale più sotto annuncia: "Il 7 novembre, anniversario della rivoluzione russa, in tutti i reparti garibaldini si festeggia l'avvenuta unione con le truppe slovene. L'accordo era stata firmato prima delle famose solenni smentite!!!". Quattro giorni dopo si presenta "il famigerato commissario Vanni che intima a Bolla: "Per ordine del maresciallo Tito la prima brigata Osoppo deve sgomberare la zona"; e Guido conclude con l'ultimo allarme: "I commissari garibaldini (la notizia mi giunge da fonte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". 
Ma come visse il poeta la tragedia di Porzûs  Quali erano i rapporti fra i due fratelli? "In una lettera di Guido al padre prigioniero in Kenya, mai spedita e da me ritrovata in un cassetto, il futuro partigiano scrive che "Pier Paolo è ancora tranquillo a casa", mentre lui è "poco tranquillo": è un modo per far intendere che farà la scelta militare, mentre l'altro starà a casa a proteggere la madre. Guido aveva soggezione mista ad ammirazione per il fratello maggiore, intellettuale e poeta: Pier Paolo aveva un carattere impositivo, si imponeva, cioè, con la sua cultura". 
Scrive, per esempio, Guido alla madre dalla clandestinità: "Il mio pensiero ritorna per fissazione a Pier Paolo... Alle volte mi ossessiona l'idea che lui pensi a me con una certa amara ironia: ne rabbrividisco...". "Guido", spiega Naldini, "era un vero e proprio eroe, e come tutti gli eroi temeva un'ironia che mai Pier Paolo avrebbe fatto sul fratello. 
Dopo la tragedia, Pasolini ebbe una crisi esistenziale: semplificando, direi che le poesie dei due anni seguenti, raccolte come Diari, sono un colloquio con l'assoluto, permeate dal senso che, al di là delle cose, c'è un mistero, un infinito". 
Ma quando nel '47, Pier Paolo si iscrive al Pci, che riflessi ebbe il delitto di Porzûs nei rapporti con il partito? "Rispetto alla sua scelta politica, Pasolini tenderà a mettere come fra parentesi la morte del fratello, anche perché la sua militanza non era tanto partitica quanto ideologica, filosofica: dopo aver letto Marx, si era convinto che quelle teorie potevano spiegare la realtà, indipendentemente da colpe ed errori del Pci. Certo, Marx c'entrava poco con Malga Porzûs  ma il poeta, come ricorda Enzo Siciliano in Pasolini, cronaca giudiziaria (Garzanti), "ha continuato a riflettere su quella morte della quale si sentiva in qualche modo responsabile". "Io, poco più grande di lui", scrisse Pier Paolo nel '71 su Vie Nuove, "l'avevo convinto all'antifascismo più acceso con la passione dei catecumeni" e concludeva: "Credo che oggi non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l'operato del partigiano Guido Pasolini. Io sono orgoglioso della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo....". 
Casarsa - I funerali di Guido Alberto Pasolini

Certo, i rapporti di Pasolini col Pci furono travagliati, dall'espulsione da parte della Federazione di Pordenone (1949) in seguito a una denuncia per atti di libidine verso minori (per la quale fu assolto nel '52) agli attacchi da parte della critica comunista contro Ragazzi di vita ("Tutto trasuda disprezzo e disamore per gli uomini...", Giovanni Berlinguer). Ma la morte del fratello rimase pudicamente fuori da ogni contrasto. 
"Nell'immediato dopoguerra", conclude Naldini, "Pier Paolo aveva aderito ad "Autonomia friulana" perché credeva che l'autonomia, anziché disgregare l'unità nazionale, favorisse la nascita di un Friuli più maturo, e quindi più forte baluardo dell'italianità contro la slavizzazione. Erano le idee per le quali è morto Guido, che io considero come gli eroi del Risorgimento, morto per difendere la Patria. Sì, proprio la Patria, senza nessuna retorica".



"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

Contatore accessi gratuito

Ad Arezzo il 20 gennaio 2013: "Vie et mort de Pier Paolo Pasolini", di Michel Azama"

$
0
0
"Pagine corsare"
LE NOTIZIE - TEATRO
Michel Azama

Arezzo, “Vita e morte di Pier Paolo Pasolini”
La pièce teatrale andrà in scena domenica 20 gennaio 2013 alle ore 21:15all’auditorium Le Fornaci di Arezzo
Lo spettacolo, tratto dal testo Vie et mort de Pier Paolo Pasolini di Michel Azama, sarà rappresentato dalla compagnia teatrale “Dritto e Rovescio” sotto la regia di Riccardo Vannelli. L’autore francese Michel Azama ha pubblicato la sua opera nel 1984 per rendere omaggio allo scrittore italiano che più di tutti ha trovato nelle situazioni di esclusione e di emarginazione sociale fonte di ispirazione poetica.
La pièce è basata sugli atti processuali riguardanti Pier Paolo Pasolini, la scenografia si sviluppa in una serie di non luoghi funzionali alla struttura narrativa del testo, senza alcun riferimento esplicito ai luoghi reali della vicenda narrata. L’allestimento scenico dello spettacolo è volutamente scarno e libero da orpelli scenografici fatta eccezione per l’oggettistica strettamente funzionale alla rappresentazione, tale scelta è motivata dalla potenza evocativa della pièce di Azama.
I personaggi, fatta eccezione di Pasolini, hanno due stereotipi: il potere costituito e chi è garante della giustizia, da qui l’idea di rappresentare il potere nelle sue molteplici forme unite dallo stesso interprete. Per la musica sono stati presi in considerazione autori vicini a Pasolini e altri autori funzionali alla narrazione; alcune tracce sono volutamente in arrangiamento originale.
Lo spettacolo fu presentato a PARIGI nel 2000: se ne parla qui in "pasolini.net"
Nel 2004 Michel Azama portò il "suo" Pasolini a CARACAS (Venezuela), al TEATRO CAMAGÜEY dove il lavoro ottenne ampi riconoscimenti, tra cui un "Premio speciale della Critica". Da quella messa in scena sono tratte le immagini riportate in questo post.

*  *  *

Nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 Pasolini, poeta, romanziere, cineasta, morì assassinato da un prostituto conosciuto occasionalmente, su una spiaggia non lontana da Roma. Dal Friuli della sua giovinezza alla spiaggia di Ostia, la pièce di Michel Azama esplora i rapporti di una persona con il mondo, con la società in cui viveva in eterna ribellione. Mostra la sua esclusione dal Partito comunista italiano, le sue lotte, le sue gioie, i suoi amori. Lontano dall'agiografia, in un linguaggio chiaro, sottile, poetico e contemporaneo, senza pudore, in una costruzione "cinematografica" aldilà della psicologia, Azama ci mostra un uomo combattente, un uomo lacerato, un personaggio pubblico e privato. Un uomo nel suo intimo. Un uomo poeta che raggiunge Sade, Baudelaire, Copernico, Rimbaud, Giordano Bruno, Villon. Uno di quelli che dicono "NO" 

*  *  *


Michel Azamaè considerato l’autore più rappresentativo della drammaturgia contemporanea francese. Tradotto e rappresentato in molti paesi è presidente dell’E.A.T. (Ecrivains Associés du Théâtre). Da diversi anni collabora con Prima del Teatro, Scuola Europea per l’Arte dell’Attore, che nasce dalla stretta collaborazione tra la Fondazione Teatro di Pisa e l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica «Silvio D’Amico». Nata nel 1985, ha avuto il sostegno della Comunità Europea per diversi anni. Dal 1994 ha sede a San Miniato. E' un momento unico di confronto tra le maggiori Scuole teatrali – non solo europee – grazie alla simultanea partecipazione di loro docenti ed allievi insieme a giovani e professionisti che si iscrivono individualmente.
QUI - http://repertoire.chartreuse.org/auteur367.html - una sua nota biografica (in francese).
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.
Contatore accessi gratuito

Una canzone per Pier Paolo Pasolini

$
0
0
"Pagine corsare"
LE NOTIZIE - MUSICA
Oggi è domenica...

Una canzone meravigliosa dei CSI - Consorzio Suonatori Indipendenti (uno dei migliori gruppi italiani di sempre) dedicata a Pier Paolo Pasolini. Qui di seguito il testo in lingua friulana citato da Ferretti e la traduzione italiana. Un ringraziamento a Lorenzo Gane per la segnalazione.

                       Friulano:

Vuei a è Domènia,
doman a si mòur,
vuei mis vistís
di seda e di amòur.

Vuei a è Domènia,
pai pras cun frescs piès
a sàltin frutíns
lizèirs tai scarpès.

Ciantànt al me spieli
ciantànt mi petèni.
Al rit tal me vuli
il Diàul peciadòur.

Sunàit, mes ciampanis,
paràilu indavòur!
Sunàn, ma se i vuàrditu
ciantànt tai to pras?"

I vuardi il soreli
di muartis estàs,
i vuardi la ploja
li fuèjs, i gris.

I vuardi il me cuàrp
di quan'ch'i eri frut,
li tristis Domèniis,
il vivi pierdút.

"Vuei ti vistíssin
la seda e l'amòur,
vuei a è Domènia
domàn a si mòur".


Italiano:


Oggi è Domenica,
domani si muore,
oggi mi vesto
di seta e d'amore.

Oggi è Domenica,
pei prati con freschi piedi
saltano i fanciulli
leggeri negli scarpetti.

Cantando al mio specchio,
cantando mi pettino.
Ride nel mio occhio
il Diavolo peccatore.

Suonate, mie campane,
cacciatelo indietro!
"Suoniamo, ma tu cosa guardi
cantando nei tuoi prati?"

Guardo il sole
di morte estati,
guardo la pioggia,
le foglie, i grilli.

Guardo il mio corpo
di quando ero fanciullo,
le tristi Domeniche,
il vivere perduto.

"Oggi ti vestono
la seta e l'amore,
oggi è Domenica,
domani si muore".

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

Contatore accessi gratuito

Pasolini, il vero pittore è un poeta, di Andrea Cirolla

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Pier Paolo Pasolini, Autoritratto con fiore rosso in bocca

Pasolini, il vero pittore è un poeta
«Il contatto con l'ineffabilità di Dio crea immagini della sua bellezza»
Andrea Cirolla, "Corriere della Sera", 16 Gennaio 2013

UN RINGRAZIAMENTO A GIORGIO DI COSTANZO PER LA SEGNALAZIONE

Nel Fondo Pasolini dell'Archivio Bonsanti di Firenze è conservato un saggio inedito dal titolo Se la pittura odierna possa stimarsi un genere poetico. La sua datazione è dubbia, ma riferimenti al filosofo francese Jacques Maritain, pressoché identici a quelli presenti nel lavoro di laurea su Pascoli, portano alla primavera del '45, quando fu conclusa la stesura della tesi (Le frasi che seguono tra virgolette, che provengono dall'inedito, si propongono di superare la frammentarietà del testo, e sono autorizzate da Graziella Chiarcossi).
Il saggio muove da alcune pagine di Maritain sulla poesia come esperienza spirituale, dove — scrive Pasolini — «ho trovato espresso quanto da tempo mi lampeggiava nella mente». La poesia è riconosciuta «come il frutto di un contatto dello spirito con la realtà in sé ineffabile e con la sua sorgente la quale, in verità, è Dio medesimo, nei movimenti d'amore che lo portano a creare immagini della sua bellezza». «Boccaccio non aveva già detto che "poesia è teologia"? In ogni caso è ontologia, perché, se autentica, essa scaturisce dalle misteriose sorgenti dell'essere».
Pasolini applica il discorso al campo pittorico, distinguendo tra una pittura poetica e una pittura pura. Si riscontra lo stesso criterio in alcuni articoli pubblicati sul «Setaccio» tra marzo e maggio '43. In Giustificazione per De Angelis il pittore ischitano è associato più a «un gusto poetico, che ad un piacere schiettamente e puramente pittorico»; il Commento allo scritto di Bresson parla di un'«aria poetica espressa con mezzi unicamente e coscientemente pittorici che tante volte i nostri Carrà, Morandi, De Pisis ecc... hanno saputo realizzare». L'inedito tenta una teorizzazione: «Anche la pittura è poesia, se per questa s'intende, col Maritain, un'esperienza spirituale. E così, io credo, l'intendono i grandi pittori da Giotto all'Ottocento. L'Impressionismo dei francesi ne è la prima cosciente reazione. Psicologia e poesia (...) si arrendono dinnanzi alla purezza della pittura (...) ma la loro eternità risiede in un colpo di pennello, in un'ombra, in una luce, in un colore». 
«Era una posizione che non si poteva mantenere a lungo senza vacillare»; già di fronte alla pittura di Van Gogh «il sentimento è certamente più poetico che pittorico. Noi cogliamo subito quello che egli ha voluto darci, cioè della lirica. Una lirica, o un brano di diario, che nella Camera dell'artista vogliono esprimere una desolata solitudine». Quella «cameretta è un faro situato, e volutamente, alle sorgenti dell'essere, nel luogo ancora inesplorato e terribile che è dentro di noi». Sono immagini tipiche del giovane Pasolini, di matrice esistenzialistica. Nel saggio postumo I nomi o il grido della rana greca ('45-46), scriveva di «chi avverte o sente in sé quell'infinito, dentro l'esteso deserto che è la sua vita», laddove nell'inedito si legge dell'«esteso deserto che è la nostra vita interiore ove ci avventuriamo da soli».
Pablo Picasso, Violino e chitarra, olio su tela, 1912-13

Il testo prosegue con analisi di opere del filone «poetico»: Picasso (Chitarra e violino), Carrà (L'amante dell'ingegnere), De Pisis. Picasso «ci fa assistere a una poetica decomposizione del senso delle cose, e ci porta a un inspiegabile disagio, ad una febbrile indisposizione, cioè ad uno stato poetico (...) un improvviso grido di ironica angoscia». 
Carlo Carrà, L'amante dell'ingegnere, olio su tela, 1921

«Carrà nell'Amante dell'ingegnere, vuol giungere senza indugi a quella fermezza ed eternità che sono l'inaspettato esito della grande pittura (...). Era uno sbaglio, un'illusione. Tuttavia poiché solo gli sbagli e le illusioni nutrono il poeta, queste cadono; l'opera vuole restare; e non è detto che la Moglie dell'ingegnere (sic!) non sia una pittura davvero poetica (quella sua strana solitudine, quel suo pauroso silenzio). Anche tecnicamente è un quadro senza storia, cioè senza una storia particolare (...) un colore inaspettato, un segno o una sporcatura fantastici... un'improvvisa linea che si interna nello spazio, segnano le date visibili, drammatiche di un'ideale cronologia (...). In questa Amante dell'ingegnere che io prendo come esemplare di pittura antimpressionista, o poetica, dove l'eterno e l'ineffabile sono per se stessi ricercati, quella storia manca; la perfezione vi affiora indifferente e accesa (...). La mortale solitudine di quell'orizzonte da diluvio, un chiarore temporalesco, della testa deforme contro il buio impossibile dello sfondo, l'abbandono maligno e significativo di quell'oggetto oblungo, che sferzando tutte le linee orizzontali e verticali della composizione sembra puntare indifferente senza una dimensione mai scoperta ed atroce... vogliono essere un linguaggio desolatamente preciso, dichiaratamente poetico».
In tredici fogli manoscritti emergono tracce di diverse esperienze. Idee sulla poesia e sulla pittura sono appuntate in modo piuttosto slegato, e non suscitano forte interesse se considerate isolatamente, ma assumono valore in rapporto alla biografia. Una curiosa corrispondenza lega queste pagine inedite, sospese tra poesia, arte e filosofia, alle tre tesi che Pasolini progettò tra l'agosto '42 e il marzo '47. Della prima, concordata con Roberto Longhi sulla pittura italiana contemporanea, scrisse brevi capitoli dedicati a Morandi, Carrà e De Pisis, poi persi in una fuga da disertore verso Casarsa dopo l'8 settembre. Dunque, com'è noto, riparò su Pascoli. Di una terza tesi, in filosofia, dà notizia l'epistolario: «I rapporti tra esistenzialismo e poetiche contemporanee». Ma non fu scritta, o almeno non se n'è mai avuta traccia.
Tale varietà di interessi conferma fin dall'inizio non l'eclettismo, ma il «relazionismo» di Pasolini, sempre disciplinato dall'urgenza di poesia. Enzo Paci, filosofo a lui caro lungo gli anni Quaranta, scriveva: «Di fronte al mistero della poesia come comunicazione nel tempo, di fronte all'accadere ed al realizzarsi di questo fatto impossibile (...) noi ci domandiamo: che cosa ho sentito? che cosa sento? che cosa è avvenuto e che cosa deve avvenire in me?».
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.
Contatore accessi gratuito

Centro Studi Pasolini di Casarsa, "Giovanna Bemporad. Un ricordo"

$
0
0
"Pagine corsare"
LA VITA - IL PERIODO FRIULANO
San Giovanni di Casarsa della Delizia

Giovanna Bemporad. Un ricordo

Si è spenta un’altra luce legata al periodo friulano di Pier Paolo Pasolini. 
E così domenica 6 gennaio 2013 se ne è andata Giovanna Bemporad, con la sua voce e figura di “sorda e disumana tristezza”, come  Pier Paolo le scrisse da Casarsa in una lettera del 20 gennaio 1947. 
Giovanna Bemporad

Giovanna, amica dai tempi della formazione universitaria a Bologna, era stata coinvolta dal confidente Pasolini nell’esperimento didattico di San Giovanni di Casarsa, dove fu insegnante di greco e inglese nella scuola privata che nell’autunno del 1943, prima di quella “contadina” attivata poi a Versuta, il generoso Pier Paolo aveva aperto, chiamando a raccolta “colleghi” del posto e da fuori. L’iniziativa, si sa, fu chiusa d’imperio dopo pochi mesi: il “preside” Pasolini non era ancora laureato e non aveva tutte le patenti necessarie. 
Si può comunque immaginare la novità dell’arrivo in Friuli di questa non conforme Giovanna, poliglotta e poetessa preceduta dalla fama eccentrica di enfant prodige. Indossava - ricordò poi Nico Naldini nella sua rievocazione del “paese di temporali e di primule” - “un soprabito grigio che grida il suo disprezzo per ogni linea femminile”. Al crepuscolo passava ai “calzoni maschili”, imbiancandosi “il volto con il borotalco”. Un’equilibrista, come disse a sua volta Pier Paolo citando Cocteau, che come tutti gli equilibristi “cammina sul vuoto e sulla morte”.  
Giovanna avrebbe stupito ancora, quando, ritornata nel capodanno tra il 1946 e il 1947 a Casarsa, anzi a Versuta, lasciava imbambolate le donne che filavano e cucivano nelle stalle, dove lei parlava  di Teocrito e - così descrisse Pasolini in una lettera del 1947 a Fabio Cavazza -  di “un mare di latte”. 
Una meteora “altra” che il Centro Studi ora ricorda insieme a Roberto Roberto, che ci autorizza alla pubblicazione di un suo articolo-omaggio apparso sul quotidiano “Il Piccolo” di mercoledì 8 gennaio 2013.  [Angela Felice]
      
*  *  *

Giovanna Bemporad © Danilo De Marco

“È scomparsa, domenica sera, all’età di 84 anni Giovanna Bemporad, una delle voci più raffinate, ma anche (o forse proprio per questo) più appartate, della poesia e della cultura italiana del secondo Novecento.
Poetessa, traduttrice, presenza “irregolare” e “non conforme”, se guardiamo al quadro generale della letteratura italiana dal secondo dopoguerra in poi, gli esordi di Giovanna Bemporad si debbono alla frequentazione, in età giovanile, di Pier Paolo Pasolini, conosciuto negli anni in cui questi studiava all’Università di Bologna.
Siamo in tempo di guerra e dal settembre del ’43 Pasolini è a Casarsa, da dove nel 1944 si sposterà poi a Versuta, una piccola frazione del paese, per abitarvi con la madre e il fratello sfollati. Lì il poeta mette in atto tutta una serie di iniziative culturali, tra cui la più importante è una sorta di “scuola popolare” in cui impartisce gratuitamente lezioni agli studenti del luogo, per lo più figli di contadini, impossibilitati a seguire i corsi regolari a causa degli eventi bellici. Prima di quella esperienza, Pasolini aveva già aperto una scuola appunto a San Giovanni, dove ad affiancare Pasolini come docenti giungono alcuni amici del milieu bolognese. Giovanna Bemporad è una di loro, accanto a Riccardo Castellani, Cesare Bortotto, il pittore Rico De Rocco e la violinista Pina Kalč.

Pina Kalč

Nella scuola di Pasolini viene insegnata la letteratura italiana, quella delle straniere moderne, quella latina e greca. L’esperienza in realtà dura solo pochi mesi (dall’ottobre del ’43 al febbraio del ’44) perché la scuola viene chiusa dalle autorità in quanto ritenuta illegale. A questa esperienza fa in parte riferimento la finzione narrativa di Atti impuri, il romanzo in larga misura autobiografico pubblicato soltanto dopo la morte di Pasolini.
Alla scuola di San Giovanni, in particolare, Giovanna Bemporad, che era nata a Ferrara nel 1928 da una famiglia di origine ebraica, porta, insieme a un certo anticonformismo di atteggiamenti che la avvicina psicologicamente allo stesso Pasolini, la propria competenza nel campo delle letterature classiche. Aveva infatti realizzato, ancora adolescente, una traduzione in endecasillabi dell’Eneide di Virgilio. In seguito si dedicherà alla traduzione, sempre in endecasillabi, dell’Odissea di Omero. Un’esperienza, questa, di traduttrice dell’Odissea, che la impegnerà per molti decenni. Il testo omerico da lei tradotto uscirà, ma solo con alcuni canti del poema, nel 1968 e nel 1970 per le Edizioni Eri e successivamente, nel 1990, per la casa editrice Le Lettere. Anche quest’ultima edizione fu un’edizione definitiva ma non completa, a testimoniare il perfezionismo quasi maniacale di un lavoro di cesello e di rifinitura mai interrotto. Non è un caso che tre anni dopo, nel 1993, la sua Odissea in endecasillabi le fece guadagnare il Premio Nazionale per la Traduzione Letteraria (Einaudi ne pubblicherà un’edizione scolastica nel 2003). Il poeta Giovanni Raboni ebbe modo di definirlo un lavoro “di infinito perfezionamento ritmico e sonoro, teso a restituire all’endecasillabo il suo diritto a esistere nella Poesia del Novecento con una pronuncia originale e moderna. È quasi impossibile, nel suo caso, fare distinzione fra testi originali e testi derivati”. L’ultimo lavoro della sua vita sarà una traduzione del Cantico dei Cantici, che verrà pubblicata da Morcelliana nel 2006.
Dell’esperienza con Pasolini, invece, molto transiterà nella sua produzione poetica “in proprio”. Echi della prima raccolta poetica pasoliniana, Poesie a Casarsa (1942), sono rinvenibili nel suo primo libro di poesie, Esercizi, uscito nel 1948. Una poesia, quella della Bemporad, fortemente legata a riferimenti preziosi - da Ungaretti a Cardarelli, fino a Valery - che sono, guarda caso, gli stessi del Pasolini della prima stagione. Ma reinterpretati da parte di Giovanna Bemporad alla luce di un’originalissima sensibilità personale, che punta sulla valorizzazione della parola in una chiave simbolista molto più forte che in Pasolini”.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.
Contatore accessi gratuito

Pier Paolo Pasolini Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Roberto Longhi, Ritratto a 35 anni  nel 1925

Pier Paolo Pasolini
Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi
In Descrizioni di descrizioni
A cura di Graziella Chiarcossi. Prefazione di Giampaolo Dossena, Garzanti Editore, Milano 1996


Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-1940?) ho seguito i corsi bolognesi di Rober­to Longhi, mi sembra di pensare a un'isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce. E anche Longhi che veniva, e parlava su quella cattedra, e poi se ne an­dava, ha l'irrealtà di un'apparizione. Era, infatti, un'apparizione. Non potevo credere che, prima e do­po aver parlato in quell'aula, egli avesse una vita pri­vata, che ne garantisse la normale continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimo­strava almeno tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. Non sapevo nulla di inca­richi, di carriere, di interessi, di trasferimenti, di inse­gnamenti. Ciò che Longhi diceva era carismatico. Non vuoi dire nulla che, per istinto, io fossi incuriosito in lui anche dall'uomo, che era un po' incuriosito di me, e che provassi della simpatia profonda (credo anche un po' ricambiata). Il rapporto era ontologico e nega­to assolutamente a ogni precisazione pratica. Forse anche per questo tutto ciò appartiene a un altro mon­do. Solo in seguito ho tentato qualche ricostruzione: ma non è detto che abbia mai perso la mia timidezza fino al punto da far questo con reale senso pratico e con la reale capacità di rompere il diaframma idealistico che mi separava dal maestro. Dopo, si può dire che siamo diventati amici, anche se la frequentazione è sta­ta sempre così rara. E anzi, solo dopo, Longhi è di­ventato il mio vero maestro. Allora, in quell'inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Ri­velazione.
Una delle ultime fotografie di Roberto Longhi 
Che cosa faceva Longhi in quell'auletta appartata e quasi introvabile dell'università di via Zamboni? Del­la «storia dell'arte»? Il corso era quello memorabile sui Fatti di Masolino e di Masaccio. Non oso qui entra­re nel merito. Vorrei solo analizzare il mio ricordo per­sonale di quel corso: il quale ricordo è, in sintesi, il ri­cordo di una contrapposizione o netto confronto di «forme». Sullo schermo venivano infatti proiettate delle diapositive. I totali e i dettagli dei lavori, coevi ed eseguiti nello stesso luogo, di Masolino e di Masaccio. Il cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una «inquadratura» rappresentante un campione del mondo masoliniano - in quella continuità che è appunto tipica del cinema - si «opponeva» drammaticamente a una «inquadra­tura» rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco. Il manto di una Vergine al manto di un'altra Vergine... Il Primo Piano di un Santo o di un astante al Primo Piano di un altro Santo o di un al­tro astante... Il frammento di un mondo formale si op­poneva quindi fisicamente, materialmente al fram­mento di un altro mondo formale: una «forma» a un'altra «forma».
Gianfranco Contini - devo dire che è attraverso di lui, che Longhi mi si è rivelato il mio vero maestro? - ha raccolto ora in un volume di 1139 pagine stampate fitte, e che quindi normalmente sarebbero almeno il triplo, un'antologia degli scritti di Longhi, ivi inclusi i miei Fatti di Masolino e Masaccio, naturalmente; ne ha fatto la prefazione, arricchita da un compendio critico su Longhi (Cecchi, Contini stesso, De Robertis, Mengaldo), e da una magnifica Nota bibliografica generale. In una nazione civile questo dovrebbe essere l'avveni­mento culturale dell'anno. Sì, ma l'Arte non è «con­trollo amministrativo della vita» (come suona la defi­nizione canzonatoria affibbiata da Longhi ai «filistei» nel 1913!)
Devo dire che, a prima vista - sfogliando il libro, os­servando «com'era fatto» e leggendolo qua e là - tro­vavo da ridire sul lavoro di Contini proprio a proposi­to di ciò su cui egli aveva previsto che si sarebbe tro­vato da ridire. Cioè la mancanza delle riproduzioni dei quadri cui i saggi di Longhi si riferiscono; la successi­vità non cronologica dei saggi (quello che ho citato, del '13, è uno degli ultimi) per cui il lettore è costretto a ricostruire molto faticosamente da sé ciò che più gli importa, cioè la storia dello stile di Longhi stesso; infi­ne la struttura mentale che nasce da tale successività dei saggi, che è la struttura di una «storia dell'arte ita­liana» dal cui senso Longhi era profondamente (ma anche, bisogna dirlo, ambiguamente) alieno: così che il lettore è costretto a seguire ciò che in fondo meno gli importa, appunto quella «storia dell'arte italiana».
Pier Paolo Pasolini, ritratto di Roberto Longhi, 1975
Contini non ha difeso nella sua prefazione con la so­lita eleganza ipnotica e la solita sorridente infallibilità, il proprio operato; sicché è il lettore stesso a dover sbrigarsela col grande testo, affrontandolo pratica­mente senza alcun conforto, alcuna preparazione e al­cun metodo. E' un'avventura. La prima chiave di lettu­ra è ovviamente quella di «Longhi prosatore», o me­glio «Longhi prosatore grande almeno quanto Gadda». E infatti la prima continuità di questo testo è do­vuta proprio ai pezzi dove la grandezza di Longhi pro­satore si manifesta in tutta la sua riottosa ispirazione. Il canone primo di tale prosa è la reticenza. Non si di­mentica mai, neanche per un istante, nel leggere Longhi prosatore, il Longhi critico, impegnato, sempre molto rischiosamente, in ipotesi, scoperte, riordina­zioni, attribuzioni: il cui fondamento è semprela lettu­ra del quadro, maila lettura di documenti che riguar­dano il quadro, e che quindi possono dare, del qua­dro, informazioni oggettive. Nell’attribuire un quadro a un autore, o addirittura nel ricostruire l'intera perso­nalità di un autore (come in uno strabiliante romanzo giallo), Longhi non è mai ricorso a dati esterni, filolo­gici. Egli si è attenuto strettamente alla logica interna delle forme. Il rischio era dunque enorme, sempre. Di qui la cautela, e quindi l'ironia. Prodotto diretto, for­male, nella prosa di Longhi, della sua reticenza (la cautela, appunto, più l'ironia, maieutica) è lo «scor­cio». Tutte le descrizioni che Longhi fa dei quadri esa­minati (e sono naturalmente i punti più alti della sua «prosa») sono fatte di scorcio. Anche il quadro più semplice, diretto, frontale, «tradotto» nella prosa di Longhi, è visto come obliquamente, da punti di vista inusitati e difficili.
A introdurre lo «scorcio» è linguisticamente un'i­potesi, o un'esortazione o una clausola finale (il c.d.d. del teorema, ma mai trionfalistico). Gettate là per ca­so, in fretta, in mera funzione di un'ipotesi, o a mera conclusione di un ragionamento, le descrizioni dei quadri (o, meglio, della realtà rappresentata da quei quadri) finiscono con l'essere di una esattezza lanci­nante, visionaria.
È proprio seguendo la vitale, esaltante, accanita, os­sessa ricerca di Longhi - che consiste sostanzialmente nel far coincidere la verità critica con i vari aspetti che la realtà doveva assumere nei pittori lungo i secoli - che, piano piano si rivela il senso riposto di questo libro. E a questo senso va predicata certo una conti­nuità: che non è però, soltanto, la continuità della se­rie dei risultati spesso supremi dell'espressività (della «prosa»).
La continuità del senso di questo grande libro di saggi consiste, io credo, in una «storia delle forme». Storia, intendo, proprio come evoluzione, ma nel sen­so puramente critico, vitale, concreto della parola. Ta­le evoluzione si presenta lentissima: i suoi passaggi hanno un ritmo quasi al «rallentatore», per quanto il loro susseguirsi sia logico fino alla fatalità. Ma ammet­tiamo che tali forme in evoluzione - anziché essere in­traviste attraverso gli acmi descrittivi del discorso di Longhi, che s'ingorga quasi proustianamente nella «ri­cerca» - ci si presentassero, materialmente, attraverso le diapositive che ho detto a proposito di quel mitico corso bolognese. E ammettiamo che il proiettore po­tesse imprimere al susseguirsi di tali diapositive il rit­mo dell'accelerazione più buffa: ecco che il senso del­la «evoluzione» di quelle «forme» apparirebbe sinteti­camente, quasi in una inarrestabile conseguenzialità meccanica.
Amerigo Bartoli, Ritratto di Roberto Longhi, 1924
Supponiamo poi che tali diapositive rappresentino, in dettaglio, la «forma» delle pieghe del manto della Vergine su un ginocchio o sul grembo; oppure la «for­ma» di un piccolo paesaggio del fondo; oppure anco­ra la «forma» del viso di un Santo o di un Devoto; e carichiamo nel proiettore, per prima, la diapositiva di una «forma» di Cimabue (o di Giotto «spazioso», o di Stefano fiorentino), e, per ultima, diciamo, una «for­ma» del Caravaggio. Facciamo in modo che la proie­zione sia accelerata. Ed ecco, ecco, davanti ai nostri occhi, passare l’Evoluzione delle forme, come un me­raviglioso film critico, senza principio né fine, eppure perfettamente escatologico. Il Longhi ancora ingenuo della «Voce», scrivendo ad Alba (il 18 marzo 1913) aveva già intuito tutto: «Ogni volta che l'arte raggiun­ge una saturazione di staticità, di corporeità, s'aggiun­ge, o combinandosi o imponendosi, la ricerca del mo­to. Molto comprensivamente, questo rappresentano i Greci di fronte agli Egiziani, i Gotici ai Romani, l'ar­chitettura del Quattrocento all'antica, l'architettura Barocca a quella del Rinascimento... E bene: il proble­ma del futurismo rispetto al cubismo è quello del Ba­rocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento... una tavola di pietra spessa e robusta s'incurva pressa da una for­za gigante... Al cerchio, succede l'ellisse...».
Da allora in poi ad altro Longhi non ha accudito, in cuor suo, che a osservare tale «successione». Poiché si tratta di una successività disinteressata, assolutamente priva di utopie e di illusioni o terrorismi progressisti, e la finalità si autocostituisce e si autodefinisce, in so­stanza, momento per momento, atto per atto, inven­zione concreta per invenzione concreta, ecco che la critica di Longhi non può essere che di una estrema purezza, perfettamente contemplativa. Una sola, e ir­relata, è l'illusione: quella della possibilità di esprime­re indefinitamente la realtà, attraverso un seguito di drammatiche riscoperte (vedi il Caravaggio!): tutte le altre sono piccole illusioni storiche, più o meno servi­li, più o meno ipocrite. Le meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe, non son nul­la in confronto del suo lucido, umile ascetismo di os­servatore del moto delle forme.

18 gennaio 1974
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

Contatore accessi gratuito

"ISTAMBUL KM. 4.253": attraverso il Mediterraneo di Pier Paolo Pasolini, di Gian Maria Annovi

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
"ISTAMBUL KM.4.253":
attraversoil Mediterraneo di PierPaolo Pasolini
Gian Maria Annovi

Nell’ottobre del 1974, durante una conferenza stampa della Lega italo-araba, viene proiettato a Roma un breve Documentario in forma di appello all’UNESCO intitolato Le mura di Sana’a: il suo autore è Pier Paolo Pasolini. 
Un palazzo di Sana'a
Quattro anni prima, nella capitale dello Yemen, ultimate le riprese dell’episodio di Alibech del Decameron (1971), Pasolini aveva deciso di utilizzare la pellicola avanzata per rivolgere un appello all’UNESCO - e dunque all’Occidente industrializzato - in merito alla salvaguardia del patrimonio artistico e dell’identità culturale del paese arabo, simboleggiate dalle mura della città, distrutte nell’ansia di modernizzazione del nuovo governo. Pur non essendo lo Yemen “un paese propriamente mediterraneo,” Lelio Basso, introducendo in quell’occasione la visione del documentario, si dichiarava colpito dai forti legami che quasi naturalmente lo uniscono ai “popoli mediterranei,” includendo tra questi anche la civiltà araba. [1] Questo richiamo alla millenaria e comune matrice tra “i popoli latini, i popoli italici e i popoli del Medio Oriente” non è privo di significato nel caso di Pasolini, tanto che il suo documentario, violando i limiti della contiguità spaziale e storica, traccia un ideale parallelo tra la deturpazione di Sana’a e quella della cittadina medievale di Orte, nei pressi di Viterbo. D’altra parte, anche la decima novella della terza giornata del Decameron, che il regista ambienta a Sana’a, si svolge invece nelle intenzioni di Boccaccio nell’antica città tunisina di Capsa, l’odierna Gafsa. L’episodio di Alibech, poi escluso dal montaggio finale per ragioni ancora da chiarire, [2] era però stato ambientato da Pasolini tra lo Yemen e la Campania, tra i palazzi di quella “Gerusalemme medievale”[3] che a suo parere Sana’a incarnerebbe, e le pendici del Vesuvio. L’immaginario mediterraneo pasoliniano è dunque attivo anche nella sua visione della capitale dello Yemen, un luogo che si affaccia idealmente sul “golfo / affricano di Napoli,” [4] e si estende fino alla costa opposta del Mediterraneo, a un’immaginaria Tunisia yemenita. Di questi piccoli slittamenti geografici è costellata l’intera opera pasoliniana e proprio il documentario su Sana’a offre un esempio di come Pasolini abbia costantemente riguardato i luoghi, “nel duplice senso di aver riguardo per loro e di tornare a guardarli,” [5] riconsegnandoli a sempre nuove ipotesi di senso. Non è allora un caso che Franco Cassano concludesse il suo volume del 1996, Il pensiero meridiano, dedicato alla riformulazione di un’immagine del Sud come centro di una complessa identità mediterranea, con un capitolo dedicato a Pasolini, pur non entrando nel merito di analisi specifiche della mediterraneità dell’autore. Se il Mediterraneo è un confine tra popoli e civiltà, Pasolini è sicuramente tra coloro che hanno messo al centro tale confine, ricreando - attraverso il proprio sguardo di artista - una geografia mediterranea che muta al mutare della sua poetica: una vera e propria géopoétique. [6] È questa mutevole geografia che proverò a definire in queste pagine, un breve viaggio in cui cercherò di rintracciare una mappa approssimativa del suo Mediterraneo.


Tutte le strade portano a Istanbul

Iniziare un viaggio nel Mediterraneo dal mare è qualcosa di estremamente banale. Sembra offrire prospettive assai più stimolanti iniziarlo da ciò che si avvicina maggiormente all’idea della vastità marina: il deserto. 
In quanto terra che appare infinita, priva di variazioni, ripetizione della stessa forma, il deserto serve come il mare a separare, a stabilire delle discontinuità. Proprio l’immagine del deserto è presente con evidenza nell’opera di Pasolini almeno a partire dall’ultima scena di Teorema, [7] in cui fa da sfondo al grido disumano di Paolo, il padre della famiglia borghese che nel film viene progressivamente sconvolta dalla visita di un misterioso ospite. Nel film del 1968, il deserto rappresentava per il regista “il paesaggio del contrario della vita [che] si ripeteva dunque non offuscato o interrotto da niente. Nasceva da se stesso, continuava con se stesso, e finiva con se stesso.” [8] Se il mare è da sempre metafora e fonte di vita, il deserto, pur rappresentando il suo contrario, mantiene la medesima idea di sameness, identità con se stesso. Nella prospettiva della famiglia protagonista del film, ciò che rappresenta il contrario della vita è però anche lo spazio più lontano dalla propria condizione borghese, quello ad esempio delle periferie ai margini delle grandi città, che di fatto il padre deve attraversare prima di raggiungere il deserto, come se tra le due realtà vi fosse una contiguità spaziale. Pasolini, infatti, ha parlato spesso della periferia - una delle sue ossessioni tematiche a partire dall’incontro con Roma e la scrittura di Ragazzi di vita (1955) - nei termini di una realtà desertificata, proprio come in questo splendido appunto dal suo incompiuto e postumo romanzo Petrolio (1992), dove le borgate appaiono - in una omologia diretta con la sua idea di deserto - come “ripetizioni di una stessa forma”:
.
Come costellazioni, questi gruppi di abitazioni, si spingevano dal deserto desolato verso costellazioni più fitte. Ma il silenzio era meno profondo che nel deserto. Negli enormi cortili di materiale povero, cemento spruzzato per parere marmo, mattoni che parevano finti, il vuoto era assoluto. In qualcuna soltanto due o tre donne stavano raccolte, profilandosi oscure contro le [pareti metalliche], con in mano sacchetti di plastica bianca, semitrasparente. C’erano anche dei bambini, lontani, silenziosi, per lo più oltre i cortili, tra i muretti di cinta e i fossati secchi e colmi di rifiuti oltre i quali si stendeva il deserto. [9]

Dopo Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), fortemente legati alla necessità di mostrare una precisa topografia delle borgate romane, la rappresentazione cinematografica davvero più prossima all’immagine di anonimità geografica della periferia-deserto, che alla fine degli anni ’50 appariva a Pasolini come “inesistente sulle piante,” [10] si trova in Uccellacci e uccellini, girato tra l’ottobre e il dicembre del 1965, “ai margini di una periferia che sembra infinita, gremita d’inverosimili riferimenti stradali.” [11
Nel film, il padre e figlio protagonisti della vicenda, interpretati da Totò e Ninetto Davoli, camminano ininterrottamente su strade vuote, cantieri apparentemente abbandonati, borgate fatiscenti, campi che sembrano affacciarsi sul niente. Pasolini fa di tutto per creare il più totale senso d’indeterminatezza circa la loro collocazione, provenienza e direzione, perché essi non rappresentano tipi particolari, ma sono la metafora di un’intera umanità che procede senza meta. Proprio gli “inverosimili riferimenti stradali” di cui parla l’autore, che formano una toponomastica surreale, come nel caso dei nomi delle vie delle borgate attraversate a piedi dai due protagonisti“contribuiscono ad aumentare il nostro senso di disorientamento mentre attraversiamo un luogo senza geografia.” [12] Tuttavia, essi sono segni che - se si presta attenzione alle riflessioni di Pasolini contenute in Il cinema di poesia, il suo primo importante saggio sulla semiologia cinematografica datato proprio 1965 - servono comunque a leggere visivamente la realtà: quella dello spazio poetico pasoliniano.
Nel saggio del ’65, con un chiaro richiamo ad Uccellacci e uccellini, Pasolini chiede al lettore di compiere lo sforzo di immaginarsi nell’atto di “camminare soli per strada” (proprio come Totò e Ninetto) mentre si osservano volti, gesti e persone ma anche “cartelli segnaletici, indicazioni, direzioni rotazionali in senso antiorario, e insomma oggetti e cose che si presentano cariche di significati e quindi ‘parlano’ brutalmente con la loro stessa presenza.” [13] Infatti, all’inizio del film, mentre i due protagonisti discutono in maniera ingenua del potere della luna sulle maree lungo una desolata strada sterrata, a parlare brutalmente è proprio un’indicazione stradale, che davvero è il caso di considerare attentamente. Si tratta di un cartello che ci informa che Istanbul (“Istambul” nel film) si trova a 4.253 km di distanza. L’effetto di straniamento prodotto da questo cartello è accresciuto da un’altra indicazione, che incontriamo dopo molte delle peripezie dei due protagonisti: “km. 13.257 CUBA
Le distanze indicate sono ovviamente casuali e non permettono né di stabilire l’esatta collocazione dei due personaggi, né quella delle due località su un ipotetico planisfero. Non altrettanto si può dire però della precisa scelta delle località indicate.
È forse più immediato comprendere le ragioni del riferimento a Cuba, cui Pasolini aveva già dedicato una parte rilevante in quel suo saggio-polemico-visivo che è La rabbia (1963): “Ora Cuba è nel mondo: / nei testi d’Europa e d’America / si spiega il senso di combattere a Cuba.” [14] Nel 1965, l’anno delle riprese di Uccellacci e uccellini, l’isola era da poco diventata un avamposto del marxismo internazionale, dopo il successo della rivoluzione guidata da Castro. Uccellacci e uccellini, che voleva infatti rappresentare nelle intenzioni di Pasolini la crisi del marxismo vissuta da “un marxista non disposto a credere che il marxismo sia veramente finito,” [15] non poteva che tenere conto di questi eventi.
Infatti il personaggio del corvo parlante, che incarna l’epitome dell’intellettuale di sinistra e che accompagna Totò e Ninetto nel loro viaggio per finire con l’essere mangiato dai due affamati e scocciati protagonisti, è di fatto una rappresentazione autobiografica dello stesso Pasolini. [16] Mentre la scena dei funerali di Togliatti e la cruenta fine del corvo lasciano intendere che la crisi ideologica sia soprattutto italiana o comunque legata al contesto politico e sociale europeo successivo al boom economico, Cuba pare allora rappresentare una possibile direzione verso quella utopica città chiamata “Città del Futuro” che il corvo indica scherzosamente come capitale della propria patria: “Ideologia.” 
Istanbul
.
Che dire però di Istanbul? Non è azzardato ipotizzare che questo richiamo a una città divisa tra Oriente e Occidente, ma soprattutto  antica  capitale  culturale  e  politica  del  mondo  mediterraneo,  sia  il  modo  per indicare un altro tipo di alternativa, quella dell’ipotesi regressiva verso ciò che Pasolini considera il mondo non ancora trasformato dal modello razionale capitalistico: il Terzo Mondo.
Nel lessico pasoliniano l’espressione Terzo Mondo indica innanzitutto “il mondo di Bandung,” ossia l’insieme dei 29 paesi che, nel 1955, si erano riuniti nella città indonesiana sulla base della loro comune arretratezza economica, per porre le basi di un progetto di sviluppo alternativo al modello capitalistico. Pasolini lo spiega efficacemente in un’intervista rilasciata ad Alberto Arbasino:
.
Adopero questa parola [Bandung] in tutta l’estensione del suo significato, ivi compresa anche la rinascita, la lotta per la rinascita, la strada da percorre per raggiungerci quaggiù nella nostra magnifica storicità. […] Ma adopero soprattutto questa parola come senhal geografico per comprendervi la fisicità dei “regni della Fame”, il “fetore di pecora del mondo che mangia i suoi prodotti” [17]

Occorre prestare attenzione a questo “senhal geografico,” perché la topografia pasoliniana non segue i tracciati delle mappe comuni, ma si delinea piuttosto come “topografia mobile,” nel senso attribuitole da Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni. Anche nel caso di Pasolini, infatti, attraversare la sua geografia “significa immergersi nel flusso e riflusso di una psicogeografia personale e tuttavia sociale.” [18] Lo si verifica con efficacia se si legge una delle poesie non incluse in Poesia in forma di rosa (1964), intitolata proprio “L’uomo di Bandung,” dalla quale Pasolini cita alcuni versi nell’intervista con Arbasino. La poesia, che rappresenta una sorta di viaggio fisico e mentale, inizia con un’esortazione a fuggire ad Oriente, che sembra ridursi a una semplice escursione in macchina nella periferia romana: “Ah, fuggiamo a Oriente!” Dopo i primi versi, la ridefinizione topografica è però immediata; le borgate di Cecafumo, ambientazione di Mamma Roma, diventano infatti i confini dell’India: “Occhieggia di cubi brulicanti / il Quarto Miglio, a destra, tinge / di calce l’orizzonte, a sinistra Cecafumo: / poi, ecco Cochin.” [19
Con il medesimo procedimento che accosta e sovrappone spazi geografici non contigui, il viaggio procede attraverso Kenia, Sudan, Kerala, Bombay, Roma e Aversa, la cittadina italiana ai margini di Napoli, perché - come recita un verso - “non è nello spazio, ma è nel tempo” che vive la geografia pasoliniana dei “regni della fame,” un tempo che è fuori dalla Storia che caratterizza il modello di sviluppo occidentale. Come ha sottolineato Sapelli, “Pasolini mostra che la Storia come tempo unico non esiste: il concetto di tempo unico assoluto, totalizzante, è una convenzione” [20] tanto che ciò che lega, o per meglio dire, sovrappone i territori geograficamente disomogenei del Terzo Mondo pasoliniano è proprio la loro astoricità, data dalla distanza dal modello di sviluppo capitalistico. È per questa via che il Terzo Mondo appare iniziare a Pasolini “alla periferia di Roma, comprende il nostro Meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente” [21].
Ritornando agli indici spaziali di Uccellacci e uccellini, si comprende allora come proprio Istanbul, per la sua collocazione geografica e la sua storia, sia la direzione ideale per indicare questa ipotesi alternativa al modello del capitalismo produttore, un’ipotesi che coincide anche con il mondo del Mediterraneo, i cui abitanti vengono definiti “dei sottoproletari addirittura preistorici.” [22] Quelli appunto delle borgate di Roma e delle poverissime terre del Meridione. Da questo punto di vista, se si esclude il progetto cinematografico mai andato in porto de Il padre selvaggio, che vedrà luce in forma di volume solo nel 1975, Uccellacci e uccelliniè il primo film di Pasolini a introdurre in maniera esplicita il tema di questo Terzo Mondo comprendente i paesi del Mediterraneo, in particolare attraverso il tema della fame, che percorre tutto il film - come ha anche mostrato recentemente Marco A. Bazzocchi [23] - fino all’acme del pasto cannibalico del corvo. In particolare, c’è una scena che risulta particolarmente significativa: quella dell’uomo costretto dall’indigenza a cibarsi – come secondo la vulgata comune farebbero i cinesi – di un nido di rondine. 
Nel montaggio il primo piano dell’uomo viene fatto seguire, creando un forte effetto di straniamento, da quello del volto di un bambino africano, che solo in seguito si scoprirà far parte della felliniana famigliola di teatranti girovaghi incontrati dai due protagonisti. La soluzione di continuità che si produce tra la rassegnata tristezza dei loro sguardi è chiaramente intenzionale e serve a creare una sovrapposizione tra il mondo del sottoproletariato e quello dei paesi sottosviluppati.
Il fatto che il capocomico della compagnia di artisti girovaghi sia poi indicato come “profondamente napoletano” [24] non è casuale, ma è un esempio peculiare della sovrapposizione tra Terzo Mondo e mondo sottoproletario mediterraneo incarnato, secondo Pasolini, dalla città di Napoli:
.
Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso - in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte - di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quello che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità.” [25]

Napoli, città simbolo del Mediterraneo per la sua apertura all’incrocio tra mondi e culture differenti, coincide con l’Africa - quella che già ne La Guinea Pasolini aveva indicato come “mia unica alternativa” [26]  - un luogo fuori dalla Storia e dalla modernità. Lo stesso tipo di sovrapposizione è rinvenibile nell’“Appunto 41” di Petrolio, dove Pasolini racconta di un giornalista inglese chiamato Tristram, il quale, proprio durante un viaggio in Africa, incontra e fa sua schiava sessuale una bambina di nome Giana, salvo affidarla poi alle cure di un missionario per un’improvvisa crisi di coscienza derivante dalla difficoltà del “rapporto tra due culture che non potevano integrarsi tra loro.” [27] Tristram si reca dunque a Napoli, dove - in uno squallido giardinetto pubblico - vede, “selvaticamente in disparte, una ‘scugnizza’, scura e lacera” che sente istintivamente appartenere “a una ‘cultura’ uguale”[28]  a quella di Giana.  Questi  parallelismi  tra  la  cultura  partenopea  e  l’Africa  -  iscritti  in  un  quadro violentemente e consapevolmente coloniale - sono particolarmente interessanti se si ricorda che proprio un ragazzetto napoletano - Gennariello - è l’immaginario destinatario ideale del trattatello pedagogico che Pasolini pubblica sulle pagine de “Il Mondo” nel 1975, scelto per “un’idea di rispetto quasi mitico”[29] per Napoli e la sua cultura. 
Anche Pasolini, infatti, nonostante il suo forte impegno civile rispetto alle problematiche del rapporto tra Occidente e Terzo Mondo, non è completamente immune da una certa ingenuità rispetto alle dinamiche del pensiero coloniale. Proprio le strategie retoriche del discorso coloniale che fissa e blocca l’oggetto della narrazione in un’atemporalità mitica sono state analizzate con attenzione da Homi Bhabha nel suo imprescindibile I luoghi della cultura, dove sottolinea che “un tratto importante del discorso coloniale è la sua dipendenza dal concetto di “fissità” [fixity] nella costruzione ideologica dell’alterità.” [30] Se si leggono le pagine di Pasolini dedicate alla cultura popolare napoletana, e in particolare le sue riflessioni su Salvatore di Giacomo, non è difficile tracciare un parallelo tra la pasoliniana funzione “fissatrice” legata all’“astoricità” della cultura mediterranea e il concetto di fixity espresso da Bhabha:
.
In una cultura popolare urbana, invece, la storia della cultura dominante è intervenuta continuamente con violenza, imponendovi e depositandovi i suoi valori: la tipica “astoricità” della cultura popolare, che è essenzialmente “fissatrice”, è stata così costretta a dei mutamenti incessanti: a cui essa, sistematicamente, ha dovuto applicare i caratteri della “fissazione.” [31]

Non è però completamente corretto insistere troppo su questi aspetti, considerato che le riflessioni di Pasolini sono legate a un contesto culturale in cui gli odierni Postcolonial Studies non erano nemmeno ai loro albori. Come ha infatti mostrato recentemente Luca Caminati, analizzando in particolare “l’orientalismo eretico” [32] delle descrizioni del primo contatto pasoliniano con il continente indiano nel suo diario di viaggio L’odore dell’India (1961) messo a confronto con il “film da farsi” Appunti per un film sull’India (1969), lo sguardo di Pasolini rispetto al Terzo Mondo e le culture subalterne è essenzialmente “partecipatorio.” Nel definire il mondo subalterno, infatti, Pasolini lo incorpora - lasciandosi penetrare dall’Altro [33] - nel tentativo di ridefinire la propria identità come contigua, se non coincidente, a quel mondo. È dunque sufficiente la rilevanza assunta dai temi del colonialismo e del terzomondismo nella produzione artistica e saggistica pasoliniana a dar prova del suo straordinario respiro intellettuale.
Ne è un esempio importante quello che avrebbe dovuto costituire il primo episodio di Uccellacci e uccellini. Espunto per ragioni artistiche e commerciali, [34] esso rende davvero esplicita la pregnanza del tema del colonialismo nel film, a partire dal titolo: [L'AigleL’uomo bianco [si veda anche Totò al Circo, qui di seguito uno spezzone che fa parte dell'episodio citato, ndr]. In questo episodio Totò avrebbe dovuto interpretare la parte di Michel Courneau, un piccolo borghese, razionale ed educato, che funziona da tipico uomo medio nel sistema pasoliniano, ossia, secondo la descrizione datane da Orson Wells ne La ricotta: “un mostro. Un pericoloso delinquente. Conformista! Colonialista! Razzista! Schiavista!” [35]  
Nel tentativo d’insegnare ad un’aquila a parlare la propria lingua “di uomo bianco civile,” [36] di fare cioè dell’aquila - posta a rappresentare l’alterità assoluta del Terzo Mondo - un piccolo borghese come lui, Courneau si ritrova ad un certo punto tra le gabbie di un improbabile Grand Cirque de France per mostrare al rapace come bestie e pagliacci  “tutti gli animali del Terzo Mondo (compreso Ninetto del Prenestino)” [37] - abbiano abbracciato di “buon grado” - dopo essere stati rinchiusi dietro le sbarre! - il modello di vita che lui rappresenta. Per farlo interroga sui loro desideri per il futuro un Coccodrillo del Congo, uno scimpanzé del Ruanda, un Pitone delle Amazzoni, una Jena del Sahara e un cammello del Ghana. La loro provenienza è ovviamente simbolica e tutti si dimostrano interessati solo ad emigrare in Europa per diventare professori, giornalisti, sarti o parrucchieri, ad essere cioè integrati completamente nella società piccolo borghese del capitalismo avanzato. L’unica gabbia vuota è quella del Leone d’Algeria: “il leone non c’è la gabbia è vuota. M. Courneau ha compiuto distrattamente una gaffe.” [38] La gaffe non è di poco conto, perché l’Algeria, dopo la sanguinosa lotta per l’indipendenza dalla Francia, aveva finalmente ottenuto l’indipendenza il 3 Luglio 1962. Proprio alle sanguinose vicende algerine Pasolini aveva dedicato ne La rabbia una parte assai consistente, ricostruendo - tramite i propri testi poetici e le immagini di repertorio - le tormentate vicende del paese dai primi moti popolari alla festa per la liberazione: “sulle misere genti di Algeria / sulle popolazioni analfabete dell’Arabia / sulle classi povere dell’Africa / sui popoli schiavi del mondo sottoproletario / scrivo il tuo nome // libertà!” [39]  Il leone d’Algeria non è dunque nella sua gabbia perché ha spezzato le sbarre della sua prigionia coloniale, un particolare apparentemente irrilevante per la mentalità piccolo borghese del domatore-protagonista.
Nonostante Pasolini dichiari in un’intervista che il passaggio tra Accattone e Uccellacci e uccellini e il suo personale bisogno di fare film più problematici, difficili e non più rivolti al popolo, sia motivata dal fatto che “effettivamente il mondo come lo vedeva Gramsci e come l’ho visto io fino a qualche tempo fa è cambiato,” [40] proprio Gramsci sembra alla base della metafora del circo impiegata da Pasolini per affrontare la questione del Terzo Mondo. Nei Quaderni del carcere, infatti, riferendosi alla “Quistione meridionale,” punto nevralgico delle sue riflessioni, Gramsci arriva a discutere del modo in cui Verga, esponente tipico della borghesia italiana, rappresenti i contadini meridionali nei suoi romanzi veristi. Lo fa sostenendo che il punto di vista dello scrittore siciliano sia lo stesso adottato da Carl Hagenbeck nel suo volume autobiografico Io e le belve, [41] in quanto “il popolo della campagna è visto con ‘distacco’, come ‘natura’ estrinseca sentimentalmente allo scrittore, come spettacolo.” [42]  Padre del circo moderno, Hagenbeck aveva raggiunto la fama in tutta Europa grazie all’invenzione dello “zoo umano” [43]: un’esposizione di esseri umani considerati selvaggi e altre bestie feroci, catturati soprattutto in Africa e Asia. Così come Gramsci aveva denunciato il fatto che gli intellettuali italiani considerassero gli umili contadini meridionali dal punto di vista della “società protettrice degli animalI” o come se fossero “cannibali della Papuasia,” [44] anche Pasolini, con un intento più marcatamente anticolonialista, sceglie la via provocatoria dell’animalizzazione dei “selvaggi” per dare concretezza alla rappresentazione dell’Altro della borghesia occidentale. D’altra parte, come spiega in un’intervista a Ferdinando Camon, anche per Pasolini tra razzismo e mondo contadino, ossia mondo preindustriale sottoproletario, esiste una relazione diretta:
.
Il razzismo - non se l’è mai chiesto? - non è altro che l’odio dei borghesi verso i contadini. Un borghese non è mai razzista a proposito degli operai […]. Il borghese dunque prova quel suo mostruoso dolore razzista solo a proposito dei più poveri, lasciati indietro dalla storia: i sottoproletari e i contadini. [45]

Ma torniamo alla sceneggiatura di Uccellacci e uccellini che sembra si stia rivelando sempre più esplicitamente terzomondista rispetto alla versione poi ufficialmente uscita nelle sale. Colpisce allora che a concludere la rassegna dei personaggi del circo ci sia anche, chiuso in gabbia come gli altri animali, quello che viene definito come esemplare di “Pagliaccio mediterraneo”:
.
M. COURNEAU Et vous, s’il vous plaît, Monsieur le Pantin Méditerranéen? 
PAGLIACCIO MEDITERRANEO (parla in francese)
Didascalia: Ballare la Pirimpella-pirimpà, la nostra danza nazionale, davanti alla Regina d’Inghilterra! [46]

La presenza in questo contesto di un pagliaccio caratterizzato dalla mediterraneità risulta insolita e porta a interrogarsi sul senso dell’aggettivo mediterraneo nell’ottica pasoliniana. La sceneggiatura pare di scarso aiuto ma, fortunatamente, Pasolini aveva girato parte di questo episodio, poi scartato. Si tratta di soli 8 minuti privi di sonoro, conservati al Fondo Pasolini della Cineteca di Bologna con il titolo [L'AigleTotò al circo.
In questo frammento cinematografico, dove ritroviamo la stessa ambientazione circense e le relative gabbie per animali, possiamo visualizzare ciò che Pasolini intendeva con l’espressione “pagliaccio mediterraneo.” L’uomo in piedi nella gabbia, dalla carnagione olivasta e gli occhi scuri, potrebbe benissimo essere siciliano o marocchino, andaluso o libanese. Ciò che colpisce è però il suo abbigliamento. Un lungo berretto di stoffa bianca che ricade sull’omero, simile ai copricapi tradizionali sardi; un’ampia gonna anch’essa bianca, che richiama la veste cerimoniale dei dervishi della Turchia e insieme il gonnellino della guardia presidenziale greca o la gonnella che caratterizza gli antichi costumi maschili albanesi. Anche la camicia, dalle larghissime maniche a sbuffo, rimanda ai medesimi costumi e così il panciotto e gli stivali neri, unici tratti a differenziare questo pagliaccio dall’immagine di uno strano Pulcinella che ha attraversato l’intero Mediterraneo. La sua immagine è insomma un coacervo di riferimenti a tradizioni differenti, unificati nella visione di Pasolini perché considerate come culturalmente prossime o intercambiabili. Va poi notato che tra le attrazioni del circo di Courneau, proprio come nello “human zoo” di Hagenbeck, il pagliaccio sia l’unica figura umana, e che rispetto ai coatti desideri piccolo borghesi formulati dagli altri animali (desideri di omologazione al modello di società europea), egli sia il solo a formulare un pensiero apparentemente privo di senso non funzionale al modello di integrazione a cui aspirano gli animali. La “pirimpella,” infatti, il ballo che il pagliaccio vorrebbe eseguire alla corte d’Inghilterra, è di fatto un gioco di piazza caratteristico di alcune zone del Sud Italia, una specie di danza folclorica come la tarantella o la pizzica, di antichissima origine greca. Mentre “gli animali del Terzo Mondo” esprimono la propria ansia d’integrazione attraverso il desiderio di lavorare - desiderio, si noti bene, assunto passivamente da quel sistema coloniale che li vede come animali inferiori e che li ha imprigionati - il pagliaccio mediterraneo, dichiarando così la sostanziale improduttività e gratuità della sua figura, esprime il desiderio di giocare. 
Questa dicotomia tra lavoro e gioco, non può che rimandare alle ben note riflessioni di Herbert Marcuse contenute in Eros e civiltà, pubblicato negli Stati Uniti nel 1955 e uscito in edizione italiana nel 1964, proprio mentre Pasolini, che sostiene di averlo letto ben “prima che diventasse di moda,” [47] stava scrivendo la sceneggiatura di Uccellacci e uccellini.
Riprendendo le tesi di Fourier e distaccandosi da Marx che lo aveva invece criticato sostenendo che “il lavoro non può diventare gioco,” [48] Marcuse sostiene che  nel  lavoro l’uomo viene continuamente allontanato da se stesso, alienato, in quanto asservito alle leggi del sistema produttivo della società industriale. Contro questa idea di lavoro limitativo della libertà umana, associato all’idea di passività - la stessa, per intenderci, degli immigrati del Terzo Mondo che passano da una condizione di schiavitù lavorativa all’altra nel tentativo di essere assimilati dai paesi che li accolgono - Marcuse propone l’ipotesi di un lavoro inteso come “libero gioco.” [49] La danza del pagliaccio mediterraneo pare rappresentare questa dimensione marcusiana del gioco e nel farlo indica una sostanziale disomogeneità tra il proprio mondo e quello degli animali. Pur essendo tutti prigionieri del medesimo sistema repressivo, i soggetti postcoloniali incarnati dagli animali vengono da una storia di sottomissione cieca all’ordine Occidentale, come l’allievo protagonista de Il padre selvaggio, mentre il pagliaccio posto a rappresentare il Mediterraneo fa parte di chi ha contribuito a costruire storicamente quell’ordine, pur essendo rimasto ai margini delle logiche del potere e dello sviluppo europeo: un modello di umanità degradata, stereotipata, ridicolizzata. 
Tuttavia, proprio tramite il rimando al gioco, Pasolini pare ancora associare alla cultura del Mediterraneo  un  potenziale  di  sovversione,  dato  anche  dalla  sua  prossimità  al  nucleo irrazionale dell’istinto. Marcuse, infatti, attribuisce proprio al gioco la via d’accesso a una società non repressiva, nella quale oltre alla creatività, anche l’eros è liberato. Non è allora un caso che una delle poche occorrenze in cui Pasolini impiega esplicitamente la formula “Paesi mediterranei” sia contenuta in una recensione al volume Gli omosessuali di Marc Daniel e André Baudry, [50] e che “giocare alla pirimpella” sia una tipica espressione romagnola - il padre di Pasolini era di Ravenna - per indicare il rapporto omosessuale. 
In quella recensione, Pasolini specifica che la sua personale convinzione che un omosessuale ami e voglia far l’amore “con un eterosessuale disposto a una esperienza omosessuale, ma la cui eterosessualità non sia posta minimamente in discussione” sia verificabile “nell’enorme maggioranza, almeno nei Paesi mediterranei.” [51] Questa disponibilità sessuale del maschio mediterraneo, la stessa dei suoi ragazzi di vita prima della mutazione antropologica che Pasolini inizia a diagnosticare con lancinante dolore negli anni ‘70, è il segno che in quella civiltà permangono le tracce di una mitizzata purezza istintuale priva dei tabù della morale occidentale. La stessa che Pasolini finirà poi col proiettare nei popoli contadini arabi, protagonisti del sogno erotico di un’omosessualità vissuta liberamente e senza sensi di colpa affidata al Fiore delle Mille e una notte (1974), prima della tragica negazione di ogni valore positivo della sessualità contenuta in Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975) e nell’Abiura dalla Trilogia della vita. [52] D’altra parte, già nel 1968, proprio citando Eros e civiltà, Pasolini ricordava che “non possiamo più considerare i tabù sessuali come unica e sola possibilità di progresso della civiltà.” [53]
È ovviamente complesso stabilire quanto l’eros pasoliniano abbia pesato nello sviluppo e articolazione del suo pensiero. Ciò che è chiaro è che nel suo Mediterraneo, il gioco - inteso anche come creazione estetica - e il desiderio svolgono un ruolo importante, tanto che la figura di Ninetto, pasoliniano ideale di erotismo e purezza sottoproletaria, sia sempre associato ad immagini ludiche e di ballo. Emerge poi soprattutto come questo Mediterraneo sia completamente idealizzato, un luogo mitico - e per questo minacciato - che Pasolini, per fronteggiare al dilagare del modello omologante che distrugge l’autenticità di luoghi e corpi, tenterà di ritrovare e ricostruire proprio nei paesi dell’Africa e del Medio Oriente.

Edipo al bivio

I segnali stradali di Uccellacci uccellini ci hanno portano, deviando attraverso le porte del Bosforo di Istanbul, dal deserto di un’anonima periferia al tendone di un circo assai particolare. Un'altra indicazione ci conduce finalmente al centro del Mediterraneo, in Grecia, dove iniziano le ben note vicende di Edipo narrate da Sofocle e scelte da Pasolini per il suo film del 1967, Edipo re, che inizia proprio con l’inquadratura di un’indicazione topografica, la scritta “Tebe” su un cippo stradale. 
L’importanza rivestita dalla Grecia nel sistema pasoliniano è stata analizzata capillarmente da Massimo Fusillo nel suo La Grecia secondo Pasolini, dove lo studioso ricorda come proprio il mito antico e la tragedia greca rappresentino una delle “ossessioni” di Pasolini a partire dalla sua traduzione dell’Orestea di Eschilo del 1960. [54] Con ragione Fusillo sostiene che il rapporto di Pasolini con il mondo greco oscilli “tra una lettura viscerale e barbarica (senz’altro dominante) e una lettura ideologica e didascalica: due poli che corrispondono grosso modo ai due media con cui Pasolini ha riscritto i modelli greci, il cinema e il teatro.” [55]  Qui è opportuno soffermarsi innanzitutto sul primo di questi poli, quello viscerale e barbarico, che rifiuta ogni immagine razionale della Grecia antica per concentrarsi su un modello atemporale e prerazionale, quello appunto della sua trasposizione della tragedia sofoclea, “momento in cui il gioco della ragione non può avere luogo.” [56] Siamo insomma vicini alle clownerie del pagliaccio mediterraneo, che diventa però portatore di un messaggio assai più tragico: quello delle vittime innocenti, inconsapevoli e incolpevoli, che Edipo è chiamato ad evocare.
Nonostante l’aspetto vagamente preistorico del cippo stradale che s’incontra all’inizio del film, e che traccia un ideale parallelo con la pellicola dell’anno precedente, lo spettatore non si ritrova di fronte a una stereotipica cittadina ellenica ma ad una trasposizione della friulana [Casarsa] degli anni ‘20 [...]. Per motivi di produzione, la location fu scelta in realtà nelle verdi campagne della Lombardia, sufficienti però a rievocare i paesaggi dell’infanzia dell’autore, che in questo film - il suo più autobiografico - si propone di affrontare anche il proprio complesso d’Edipo. All’indicazione di Tebe, in pratica, non segue una rappresentazione della realtà, ma una serie d’immagini significanti, che sembrano corrispondere a ciò che Pasolini - nelle sue riflessioni sulla semiologia cinematografica - indica con l’espressione “im-segni,” legate al “mondo della memoria e dei sogni.” [57
Non è allora un caso che egli abbia dichiarato che con la pellicola del ‘67 il suo intento fosse stato quello di “ricreare il mito visto come un sogno” [58] tanto che al mondo agreste  piccolo borghese della [Casarsa]-Tebe dei natali di Edipo-Pier Paolo segue, senza condizione di continuità - proprio come avviene nella grammatica onirica - il paesaggio desertico del Marocco, su cui si staglia il “cielo ardente del Mediterraneo africano.” [59] Ancora una volta, la geografia pasoliniana dimostra la propria natura instabile ed emozionale, rimarcata dall’importanza che nel film assume il tema del viaggio di Edipo. Come ha infatti scritto Bazzocchi riflettendo sull’immaginazione mitologica, proprio “il viaggio dell’eroe  viene usato per estendere i confini dell’immaginazione verso gli estremi di una potenziale carta geografica,” [60] carta che Pasolini si premura di tracciare proprio attraverso la ripetuta inserzione di pietre miliari che indicano le città di Tebe e Corinto , quasi a rimarcare la volontà che lo spettatore identifichi totalmente il paesaggio marocchino con quello della Grecia del mito. Sennonché, proprio l’immagine stereotipica della Grecia, culla della civiltà mediterranea idealizzata nel nitore statuario della ragione filosofica, viene ribaltata da Pasolini nel suo contrario: una terra rossa dove il mare non appare mai all’orizzonte, dove tutto sembra selvaggio (“erbe selvagge,” “viso selvaggio,” “aria selvaggia,” “silenzio selvaggio,” “cespugli selvaggi”) e barbarico (“musica barbarica,” “barbara violenza,” “riso raggiante e barbaro”). Il senso è quello di una profonda lontananza, tanto che nella sceneggiatura anche la strada che Edipo percorre, un cammino irrimediabilmente a ritroso, “si perde nella regione verso un orizzonte immensamente lontano.” [61] In Marocco, infatti, visto da Pasolini come “una grande distesa di paesaggi mediterraneo-africani,” [62] il regista ritrova le tracce di una civiltà contadina che gli ricorda quella che aveva caratterizzato la cultura dell’Italia e di tutta l’area mediterranea, ancora sopravvivente nelle zone più arretrare del Nord Africa e del Meridione italiano. Lo stesso Re Polibo, sovrano di Tebe, è descritto nella sceneggiatura come “feroce e dolce: un contadino tra i contadini.” [63]
Già nei sopralluoghi per Il Vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini si era ritrovato di fronte al problema degli effetti prodotti dal contatto delle culture contadine con la modernità, tanto che girando il documentario Sopralluoghi in Palestina (1964), si era convinto che il sottoproletariato arabo fosse “l’unico ad essere rimasto veramente antico e arcaico,” [64] un’idea destinata ben presto a cambiare. Proprio in quel documentario sono numerosi i paralleli tra il paesaggio semidesertico della Palestina con le regioni dell’Italia meridionale: le montagne che si innalzano di fronte a Cafarnao appaiono come “molto simili alle montagne del Crotonese […] sulle rive dello Ionio,” [65] i villaggi “somigliano molto a certi luoghi pugliesi” [66] come Massafra o Bari, “una zona spaventosamente desolata e brulla, sembra uno dei luoghi più abbandonati della Calabria o delle Puglie” [67] e in generale l’impressione è che il paesaggio non “si discosti molto dal paesaggio dell’Italia meridionale,” [68] seppur contaminato dalla modernità portata dall’occidentalizzazione israeliana. Per questa ragione, Pasolini sceglierà poi di ambientare il suo film sulla vita di Cristo proprio in quei luoghi: in Basilicata, nei dintorni di Potenza, a Matera, nella campagna tra Barletta e Taranto, a Massafra, in Calabria e nella Valle dell’Etna, dove ritrova il “mondo piuttosto miserabile, pastorale, arcaico, frantumato” [69] della Palestina.
L’operazione compiuta con l’Edipo re necessitava però di un senso di ulteriore primitività, da qui la scelta del “quadro ctonio, desertico, ricco di implicazioni simboliche” [70] del Marocco, ma soprattutto l’impiego di costumi “barbari e arbitrari,” di un “barbaro indistinto.” [71] Come era avvenuto nel caso del pagliaccio, anche i costumi dell’Edipo re attraversano le tradizioni dell’intero Mediterraneo. 
Costumi in Edipo re: (dall'alto) Pasolini gran sacerdote,
Re Polibo, l'Oracolo
.
.
Lo testimonia anche una recente mostra intitolata proprio “Pasolini mediterraneo” che ha reso omaggio al genio creativo del regista e del costumista Danilo Donati. 
Alcune immagini della Mostra "Pasolini mediterraneo" Museo di Palazzo Mocenigo, Venezia, 28 ottobre -
30 Novembre 2008 - Danilo Donati ha realizzato i costumi per alcuni film di Pier Paolo Pasolini,
viaggiatore sulle rotte del Mediterraneo: non solo per i luoghi fisici descritti, ma anche per
i temi trattati e per la sua ricerca sull’uomo. I costumi sono stati creati da

Danilo Donati (a destra in basso nella foto) per i film
"La ricotta" (1963), "Il Vangelo secondo Matteo" (1964), "Uccellacci e uccellini" (1966),
Edipo re" (1967), "Porcile" (1969), "Decameron" (1971), "I racconti di Canterbury" (1972),
"Il fiore delle Mille e una notte" (1974), "Salò o le 120 giornate di Sodoma" (1975)
.
.
Questo pastiche, che spazia ben oltre i confini dell’Europa per attingere alle tradizioni dell’Africa e dell’Oriente, come nel caso delle scelte musicali (“la solita musica popolare antica, simile a quella dei negri, che obbedisce ad altre regole che le nostre” [72]) rende chiara la concezione pasoliniana di un Mediterraneo inteso come spazio aperto di continua osmosi culturale, dove anche la cultura della Grecia sembra oscillare tra i ritmi musicali africani e le danze del meridione italiano, come nel caso della tarantella, evocata più volte nella sceneggiatura.
C’è però anche un aspetto marginale che mi sembra non sia stato sufficientemente sviluppato dalla critica ma che riveste, ai fini di questa ricerca, un’importanza non secondaria. Mi riferisco alla scelta di Pasolini di doppiare molti dei personaggi del film utilizzando voci dalla cadenza o dall’accento siciliano, come nel caso del pastore e del re di Corinto, del Gran sacerdote - interpretato dallo stesso Pasolini - e di Creonte. [73] Il doppiaggio straniante è una delle caratteristiche del “cinema di poesia” pasoliniano, spesso motivato dalla scelta di impiegare attori non professionisti per l’intensità dei volti e la presenza fisica, o necessario nel caso di attori stranieri, come Orson Welles ne La ricotta o Maria Callas protagonista di Medea. Tuttavia, è mia convinzione che il doppiaggio dell’Edipo re svolga una funzione differente e preminentemente concettuale, che suggerisce qualcosa non solo dell’immagine della Grecia pasoliniana, ma anche di quella del suo Mediterraneo.
Se doppiare l’attore marocchino Ahmed Belhachmi che interpreta Polibo e Giandomenico Davoli nel ruolo del suo fido pastore può apparire motivato dalle “ragioni pratiche” appena esposte, risulta più complesso comprendere la scelta pasoliniana di doppiare se stesso e, soprattutto, Carmelo Bene, che interpreta il ruolo di Creonte. Una scelta, quest’ultima, che provoca ancora oggi un certo disappunto tra i sostenitori del mito attoriale dell’interprete salentino. Proprio Bene, infatti, rappresentava già nel 1966 un modello d’interprete molto lontano dall’idea pasoliniana di attore italiano: “umano nei lineamenti del viso o degli occhi, nel naso o nei capelli, nel modo di gestire, diventa improvvisamente un cadavere parlante quando parla, perché parla una lingua morta, una lingua imparata alla accademia, con tutto il ‘birignao’ che c’è in questa lingua.” [74] La voce antiaccademica di Bene, [75] viene comunque sostituita con quella che Pasolini considera “un’altra voce, vera” [76] dal timbro siciliano, come quella scelta per il personaggio del Gran sacerdote, impersonato proprio dal regista. Nonostante Pasolini non si avvalga direttamente del dialetto, inteso gramscianamente come “lingua arcaica e preborghese” [77] caratteristica del mondo contadino e sottoproletario italiano, la contaminazione dell’italiano cinematografico del suo film con accenti e cadenze siciliane, ossia con ciò che non è altro che la traccia del dialetto, è un ennesimo espediente per aumentare l’effetto di arcaicità e lontananza del suo Edipo. Mi pare che ci si trovi di fronte al medesimo tipo di “regressione dell’autore nell’ambito descritto” [78] che Pasolini attribuisce a Verga nelle sue riflessioni sul problema della dialettica tra italiano e dialetto nella narrativa italiana, dove la “contaminazione” verghiana tra lingua italiana e lingua dei parlanti subalterni corrisponde al “pastiche” [79] del doppiaggio pasoliniano, da intendersi a sua volta come un’“operazione esplorativa e mimetica di regresso.” [80] Come si legge nel saggio Il cinema e la lingua orale, per Pasolini - che considera immagine e parola come un unico topos cinematografico - è però proprio “il suono […] che deraglia, deforma, propaga per altre strade il senso,” [81] tanto che anche la scelta di un accento può funzionare come una delle indicazioni stradali che abbiamo seguito finora, e modificare dunque ulteriormente la topografia immaginaria pasoliniana. La scelta di doppiare alcuni dei personaggi con accento siciliano, provoca così anche un particolare effetto di straniamento spaziale, creando una sovrapposizione ulteriore tra Grecia, Marocco e Italia meridionale, l’antica Magna Grecia. Data la componente autobiografica del film, a emergere è allora anche quel “sangue mediterraneo” [82] che Pasolini si attribuisce nel secondo componimento de La scoperta di Marx, dialogo edipico con la madre e insieme “punto d’incontro tra passato e presente, mito e storia, sragione e ragione,” [83] temi affrontati non a caso in Edipo re.
Che il doppiaggio svolga qui una funzione concettuale è reso esplicito nell’ultima parte del film, ambientata - con un ulteriore effetto di oscillazione spaziale - tra Bologna, città che Pasolini associa alla propria formazione intellettuale, e la reinventata Sacile. Qui, Ninetto Davoli, l’angelo messaggero che accompagna Edipo nel suo volontario esilio, riacquista la propria vera voce, dal riconoscibilissimo accento di borgataro romano. Doppiato da una voce pressoché priva di accento quando interpreta il barbaro ragazzetto di Corinto, nel momento in cui la geografia mediterranea sembra dissolversi, egli ritorna rappresentante di quel “Terzo Mondo meridionale” [84] in cui Pasolini vede sopravvivere le culture differenti del Sud, della Grecia e dell’Africa, associate proprio alla “vocalità arcaica” [85] del ragazzo, come è altrove evidente nella descrizione delle sue grida di stupore di fronte alla visione della neve:
.

Una vocalità dovuta a un memoriel, che congiunge in un continuo senza interruzione, il Ninetto di adesso a Pescasseroli, al Ninetto della Calabria, area marginale e conservatrice della civiltà greca, al Ninetto pregreco, puramente barbarico, che batte il tallone a terra come adesso i preistorici, nudi Denka del basso Sudan. [86]

L’idea di un “continuo senza interruzioni” corrisponde perfettamente all’immaginaria geografia mediterranea fin qui delineata, da intendersi anche - alla luce delle riflessioni pasoliniane sul colonialismo - come third space, ciò che Bhabha identifica con uno “spazio postcoloniale di liminalità e ibridazioni che permette la possibilità di nuove negoziazioni di significato e di  rappresentazioni.” [87]   Pasolini, infatti,  proprio  nell’Edipo  re,  pare ancora credere al progetto utopico di una sintesi tra l’irrazionalismo della cultura primitiva e la razionalità moderna, dove Sofocle può essere riletto attraverso Freud e Marx. Una sintesi destinata però a trasformarsi in conflitto irrisolvibile nella successiva pellicola dedicata al mito greco, Medea (1969), girata in parallelo agli Appunti per un Orestiade africana (1968- 1969).


La zattera di Medea

Le città di Tebe e Corinto che ci siamo appena lasciati alle spalle recavano con sé un’immagine barbarica della cultura ellenico-mediterranea, che Pasolini aveva ritrovato tra le kashba e i paesaggi desertici del Marocco, dove “le case emergono, sgretolate e rosse, oltre le muraglie sgretolate e rosse” tra “piccole tozze torri, coi merli fatti da artigiani, con barbarica raffinatezza.” [88] Non è certamente barbarica la raffinatezza della medievale Piazza dei Miracoli di Pisa, scelta a rappresentare il centro di Corinto nella versione pasoliniana del mito di Medea, solo parzialmente ispirata alla tragedia di Euripide.
Per la sua pellicola del 1969, infatti, a pochissimi anni di distanza dalla Corinto berbera di Edipo re, Pasolini pone lo spettatore di fronte a un dilemma simile a quello posto dalla sfinge. Com’è possibile, infatti, che dall’immagine di un Mediterraneo di pastori e contadini, polvere e mura sgretolare, si passi alla bianchezza e razionalità dell’architettura gotica di Pisa? Occorre innanzitutto ricordare che la produzione cinematografica pasoliniana ha avuto ritmi sfrenati e che tra l’Edipo re e Medea, nell’arco di soli due anni, Pasolini realizza, oltre a progetti minori come Che cosa sono le nuvole? e La sequenza del fiore di carta, anche i suoi unici film interamente dedicati all’analisi della borghesia: Teorema (1968) e Porcile (1969). Nel momento in cui il regista si ritrova a dover rappresentare il conflitto di culture fra civiltà occidentale e civiltà orientale, ossia tra il mondo greco di Giasone e quello barbarico di Medea, non può che ricollocare la città di Corinto, luogo in cui si compie il destino razionalistico e borghese dell’argonauta, nel medioevo italiano, il mondo commerciale all’origine della borghesia mercantile, non a caso interessata ai traffici e agli scambi con il mondo orientale ben oltre i confini del Mediterraneo. Non è allora certamente un caso che, proprio qui, faccia la sua comparsa il mare, [89] quel mare Mediterraneo da cui avevo deciso di non iniziare questa indagine, sicuro che prima o poi vi si sarebbe giunti.
Fusillo ha giustamente notato che tutto il film del ‘69 è “basato sulla figura retorica dell’antitesi” [90] e tuttavia alle serie antitetiche che secondo Nowell-Smith caratterizzerebbero il cinema pasoliniano, [91] nessuno ha pensato di aggiungere quella tra mare e terra, che sembra invece assai rilevante nell’economia poetica di Medea. La figura di Giasone pare infatti legata sin dall’inizio del film all’acqua; le scene della sua infanzia, girate nella laguna di Grado, rimandano proprio a un mondo affacciato sul mare, e lo stesso Centauro che lo educa, attraverso la desacralizzazione dei miti, alla razionalità e al realismo - tipiche appunto di una coscienza borghese in formazione - prima di rivelargli i suoi veri natali aveva fatto credere a quel bambino dall’”occhietto meridionale” [92] di averlo trovato nel mare. La Colchide, al contrario, regione primitiva, magica e sacrale abitata da Medea è “al di là del mare,” [93] luogo caratterizzato da quella che Heidegger avrebbe chiamato una profonda “fedeltà alla terra” resa da Pasolini attraverso l’insistenza con cui si sofferma sui dettagli dei riti di fertilità, in particolare il sacrificio umano con cui si apre il film, ispirati dalla lettura del Trattato di storia delle religioni di Mirice Eliade [94] e del Ramo d’oro di Frazer. Anche i  costumi, realizzati da Pietro Tosi, sembrano rimarcare questa dicotomia: alla Cappadocia sono associati i colori della terra, in tutta la gamma dei toni di bruno, e i monili ricavati da materiali quali sughero, ossa, corna, pigne e spighe di grano, mentre a Corinto le stoffe rimandano alla coloritura dei quadri del Pontormo, alla raffinatezza del manierismo. [95]
Se si legge il Trattamento di Pasolini è possibile notare come due degli aspetti che avrebbero dovuto caratterizzare la Colchide e Medea siano stati in seguito estromessi completamente dal film. Innanzitutto la componente “lunare” [96] della Colchide, considerata terra talmente solare che, nel passaggio dal Trattamento alla pellicola, Pasolini esclude tutte le scene notturne e i riferimenti al rito lunare, legato “soprattutto alle acque,” [97] che Medea avrebbe dovuto officiare. È insomma chiaro che ciò che rende Medea tanto diversa dal mondo di Giasone è anche il suo essere estranea alla dimensione acquatica, la sua distanza dal mare, da quel Mediterraneo che gli Argonauti - per primi - attraversano e antropizzano. Lo provano le scene immediatamente successive al furto del Vello d’Oro e alla fuga via mare degli Argonauti su quella che dovrebbe essere “la prima nave del mondo,” [98] rappresenta come una sorta di zattera che ricorda molto il celebre dipinto di Géricault La zattera della Medusa, [99] e dalla quale anche la terra appare a Medea “come liquefatta.” [100] Contemporaneamente a questo liquefarsi della terra si assiste a una quasi completa pietrificazione della sacerdotessa, una mimesi con la terra resa dall’immobilità assoluta del suo corpo e del suo sguardo: “non si è mossa di un centimetro, come una bestia che non trova altro modo di difendersi che l’immobilità.” [101] Che Medea si trovi di fronte a un elemento sconosciuto, lontano dalla propria cultura, lo provano anche le sue grida e la sua disperazione di fronte al tentativo degli Argonauti di piantare una tenda su una spiaggia qualsiasi della “costa mediterranea” [102]:
.

MEDEA Questo luogo sprofonderà perché è senza sostegno! Aaaah! Non pregate Dio, perché benedica le vostre tende! Non ripetete il primo atto di Dio… Voi non cercate il centro… non segnate il centro. No! Cercate un albero, un palo, una pietra! Ah. [103]
.
È la terra il dio di Medea, il fondamento della sua cultura agricola e del suo sistema di credenze, tanto che la scena successiva la vede gridare sola in mezzo a un campo riarso, nel tentativo di ristabilire un contatto con il proprio mondo: “Aaaah! Parlami Terra, fammi sentire la tua voce! Non ricordo più la tua voce!.” [104] È anche questo aspetto ctonio a renderla distante dal mondo di Giasone, [105] come era già stato annunciato dai canti delle donne della Colchide:
.
Noi conosciamo i campi di viti ma non il mare.
Noi conosciamo i campi di aglio e piselli ma non il mare ed egli viene dal mare, egli viene dal mare. [106]
.
La posizione di Pasolini rispetto a questa dicotomia tra terra e mare è ambigua. Con il rischio di incorrere nella facile trappola del “Pasolini autore di destra” pare interessante soffermarsi sulle riflessioni di Carl Schmitt contenute nel suo breve saggio Terra e mare, dove - nel tentativo di definire un rapporto tra ordinamenti politici e spazialità - Schmitt analizza gli opposti elementi della terra e del mare che divengono “caratterizzazioni generali che rinviano a differenti grandi possibilità dell’esistenza umana.” [107] L’uomo, originalmente un “essere di terra che calca il suolo,” [108] trova nel mare, che apre alla dimensione dello sconosciuto e della dismisura, dell’assenza di limiti e di centro, un principio di sradicamento e di smarrimento, che passa attraverso l’idolatria della tecnica:
.
L’ordinamento di terraferma, al cui centro sta la casa, ha necessariamente un rapporto fondamentalmente diverso verso la tecnica da quello di un mondo di esistenza al cui centro si muove una nave. [109]
.
Come ha notato Cassano, è possibile stabilire un parallelo tra la fobia del mare e della tecnica di Schmitt e la nostalgia per la vita rurale di Heidegger, che associa il mare e la tecnica al pensiero greco, al logos e alla nascita della metafisica occidentale. [110] Per questi autori il mare diventa insomma il centro di una polemica antimoderna.
È certo chiaro che anche per Pasolini, il mare - e nello specifico il Mediterraneo dei greci e di Giasone, non a caso indicato come “eroe barbaro ma ‘moderno’” [111] – arrivi a delinearsi come metafora spaziale della modernità e del logos della società borghese che tenta di distruggere e rimuovere le barbarie associate alla terra e alla civiltà agricola e rurale. L’insegnamento del Centauro infatti è che “il successo si ottiene attraverso lo scetticismo e la tecnica,” [112] quella che permette di costruire la prima nave e di attraversare il mare, di umanizzare ciò che prima era solo un limite. Il mondo mediterraneo è dunque associato anche da Pasolini all’ansia moderna occidentale di conquista del primitivo attraverso il potere della tecnica e della razionalità: “il Centauro ha subito una ulteriore trasformazione in tecnico: le sue case sono diventate una officina, in cui ai suoi ordini lavorano degli operai.” [113] Tuttavia, come avverte Fusillo, “Pasolini non propone un ritorno al mondo barbarico, in opposizione al capitalismo tecnologico […]; la sua utopia è la coesistenza fra i due poli psichici culturali,” [114] fra terra e mare, fra Medea e Giasone, concepiti infatti “come un unico personaggio.”
L’epilogo della tragedia non lascia però dubbi circa il fallimento di questa utopia di coesistenza e Pasolini sembra rendersene conto proprio durante le riprese del film, in quella Turchia che in Uccellacci uccellini poteva ancora indicare una possibile direzione verso il Terzo Mondo mediterraneo. Le scene della Colchide sono infatti girate tra gli straordinari paesaggi assolati della Cappadocia, dove Pasolini credeva inizialmente di aver ritrovato le tracce di un mondo primitivo e primordiale, quasi cavernicolo. In realtà, come si legge in alcuni articoli del 1969, scritti mentre sta girando Medea per la sua rubrica “Il caos” sulle pagine del quotidiano Il Tempo, anche la Turchia gli appare già sottoposta a una “trasformazione sacrilega,” [115] allo stesso tipo di desacralizzazione rappresentata da Giasone nel film. Com’era avvenuto durante le riprese per i Sopralluoghi in Palestina, Pasolini si ritrova di fronte alla contaminazione tra mondo antico e mondo moderno, vissuta come “degenerazione” [116] irreversibile ed equiparata a quella già sperimentata in Italia. La stessa Matera, che aveva potuto rappresentare la Gerusalemme medievale del Vangelo, è perduta: “vedere distruggere i vecchi villaggi cavernicoli della Cappadocia e veder distruggere i Sassi di Matera mi dà lo stesso dolore.” [117] Di fronte alla distruzione dell’immaginato mondo di Medea, a Pasolini non resta che ammettere il fallimento dell’utopia di una possibile coesistenza: “voglio, proprio da questo momento, impormi di non avere più questo sentimento del sacrilegio, che implica nostalgie ormai disperate, impotenti e quindi aride.” [118] D’altra parte, già durante la realizzazione di Appunti per un’Orestiade africana, l’utopia di una società capace di assimilare e integrare nella propria razionalità l’elemento irrazionale selvaggio e arcaico, sembrava votata al naufragio. Con questi appunti per un film da farsi, Pasolini aveva progettato di ricreare “delle analogie, per quanto arbitrarie e poetiche, e in parte irrazionali, tra il mondo greco arcaico, in cui appare Atena che dà, attraverso Oreste, le prime istruzioni democratiche, e l’Africa moderna,” simbolizzare dalla trasformazione delle Erinni in Eumenidi:
.
Tutte le persone avanzate sono d’accordo […] sul fatto che la civiltà arcaica - detta superficialmente folclore - non deve essere dimenticata, disprezzata, tradita. Ma deve essere assunta all’interno della civiltà nuova, integrando quest’ultima, e rendendola specifica, concreta, storica. [119]
.
Tuttavia, sono proprio gli studenti africani chiamati da Pasolini ad esprimersi sul progetto cinematografico a portare a galla le sue contraddizioni, convinti che la democratizzazione non abbia contribuito a un reale miglioramento delle condizioni di vita e soprattutto riluttanti all’immagine pasoliniana di un’Africa intesa come unità culturale e politica. Nel grido con cui si conclude Medea (“niente è più possibile, ormai”) c’è insomma già il segno della maturata convinzione pasoliniana che il processo di omologazione prodotto dall’industrializzazione e dalla pervasività del modello consumistico abbiano ormai portato a compimento il genocidio delle culture del mondo contadino e preindustriale, intaccando anche le potenzialità di sviluppo alternativo del Terzo Mondo. Il mare di Giasone ha insomma esteso il proprio dominio ben oltre i confini immaginati da Pasolini. La fredda razionalità del potere ha avuto la meglio, come confermerà l’approdo senza ormai più alcuna speranza sulle rive non di un mare, ma del lago che bagna Salò, luogo simbolo della cieca e insensata violenza del potere nell’ultimo film pasoliniano.
Così come Gramsci aveva creato una propria geografia discontinua, “an essentially geographical, territorial apprehension of human history and society,” [120] anche Pasolini nella sua complessa, contraddittoria ma affascinante analisi dei problemi tra Occidente e Terzo Mondo, fornisce un “explicitly geographical model” [121] che include e pone al centro il Mediterraneo. È un modello instabile, mobile, emotivo, caratterizzato da un movimento “ibridizzante” [122] e proprio per questo fedele all’essenza stessa della cultura mediterranea, fatta di scambi continui, di scontri, di influenze reciproche, di continue riterritorializzazioni. Colpisce allora che in Petrolio - sintesi allucinata della perdita delle illusioni pasoliniane - nel tentativo di rendere visibile il propagarsi della logica omologante neocapitalistica, Pasolini ricorra nuovamente a una metafora geografica e al topos del viaggio, quello di Carlo di Polis, nuovo Giasone che - sul modello delle Argonautiche di Apollonio Rodio - compie un viaggio in Oriente alla ricerca del nuovo Vello d’oro: l’oro nero. Il suo viaggio ha come effetto quella che Pasolini chiama la “banale mappizzazione di ogni luogo.” [123] L’uso del verbo mappizzare pare qui particolarmente importante, soprattutto se pensato in relazione alla periferia - “inesistente sulle mappe” - da cui è iniziato questo viaggio attraverso la geografia poetica del Mediterraneo pasoliniano. La mappizzazione di cui parla Pasolini è così la metafora dell’inglobamento definitivo del Terzo Mondo nell’Occidente, una fagocitazione che annulla le differenze e che ha tra i suoi effetti quello di fissare le coordinate di uno spazio non più libero. Alla fine del viaggio di Carlo-Giasone, l’unico “angolo non mappizzato” [124] resta non a caso nel deserto, qualcosa di totalmente altro rispetto al mitico, arcaico, irrazionale Mediterraneo sognato da Pasolini.

---------------
NOTE


1 Pier Paolo Pasolini, “Conferenza stampa della lega Italo-araba,” in Per il cinema. A cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Vol. II (Milano: Mondadori, 2001), 2113.
2 Roberto Chiesi e Loris Lepri, a cura di, Il corpo perduto di Alibech (Bologna: Centro studi – Archivio Pier Paolo Pasolini, 2005).
3 Pasolini, “Pasolini racconta con rabbia l’assurda rovina di una città,” Corriere della Sera, 29 giugno, 1974.
4 Pasolini, “L’Appennino,” Le ceneri di Gramsci, in Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Vol. I (Milano: Mondadori, 2003), 781.
5 Franco Cassano, Il pensiero meridiano (Roma-Bari: Laterza, 1996), 10.
6 Bertand Westphal, La Géocritique mode d’emploi (Limoges: Pulim, 2000).
7 Sul tema del deserto in Pasolini si vedano Marco Antonio Bazzocchi, “Corpi nudi nel deserto: Pier Paolo
Pasolini,” in Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento (Milano: Bruno Mondadori,
2005), 90-128 e Cesare Cesarino, “Pasolini in the Desert,” Angelaki 9 (2004): 97-102.
8 Pasolini, “Teorema,” in Romanzi e racconti, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Vol. II (Milano:
Mondadori, 1998), 961.
9 Pasolini, Petrolio (Torino: Einaudi, 1992), 492.
10 Pasolini, Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane (1950-1966). A cura di Walter Siti (Torino:
Einaudi, 1995).
11 Pasolini, “La trama secondo l’autore,” in Per il cinema. A cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Vol. I
(Milano: Mondadori, 2001), 832.
12 Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (Milano: Bruno Mondadori, 2006), 30.
13 Pasolini, “Il ‘cinema di poesia’,” in Saggi sulla letteratura e sull’arte. A cura di Walter Siti e Silvia De Laude vol. I (Milano: Mondadori, 1999), 1462-1463.
14 Pasolini, “La rabbia,” in Per il cinema. Vol. I, 374.
15 Pasolini, “Soggetto,” in Per il cinema. Vol. I, 817.
16 Cfr. “il corvo è estremamente autobiografico: fra esso e me l’identificazione è pressoché totale,” in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società. A cura di Walter Siti e Silvia De Laude (Milano: Mondadori,
1999), 1347.
17 Pasolini, “Intervista rilasciata ad Alberto Arbasino,” in Saggi sulla politica e sulla società, 1572-1573.
18 Giuliana Bruno, 3.
19 Pasolini, “L’uomo di Bandung,” in Tutte le poesie, vol. I, 1305.
20 Giulio Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini (Milano: Bruno Mondadori, 2005), 42.
21 Pasolini, “La resistenza negra,” in Saggi sulla letteratura, vol. II, 2353-2354.
22 Ibidem.
23 Cfr. Marco Antonio Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema (Milano: Bruno Mondadori, 2007).
24 Pasolini, Per il cinema, vol. I, 773.
25 Pasolini, “La napoletanità,” in Saggi sulla politica, 230. 
26 Pasolini, “La Guinea”, in Tutte le poesie, vol. I, 1085.  
27 Pasolini, Petrolio. (Torino: Einaudi, 1992), 169.
28 Ibidem, 170.
29 Pasolini, “Gennariello,” in Saggi sulla politica, 552.
30 Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura (Roma: Meltemi, 2001), 66.
31 Pasolini, “Gli uomini colti e la cultura popolare,” in Saggi sulla politica, 470.
32 Luca Caminati, Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo (Milano: Bruno Mondadori, 2007)
33 Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino (Torino: Bollati Boringhieri, 1998), 30.
34 Cfr. Pasolini, “Totò al circo,” in Le regole di un’illusione (Roma: Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991), 135.
35 Pasolini, “La ricotta,”in Per il cinema. Vol. I, 338.
36 Pasolini, “Uccellacci e uccellini,” in Per il cinema. Vol. I, 701.
37 Ibidem, 811.
38 Ibidem, 702.
39 “La rabbia,” ibidem, 395.
40 Pasolini, “Incontro con Pasolini,” in Per il cinema. Vol. II, 2962.
41 Carl Hagenbeck, Io e le belve (Milano: Quintieri, 1910).
42 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale (Roma: Editori Riuniti, 1996), 217.
43 Per una dettagliata storia sulle origini degli zoo umani si veda Nigel Rothfels, Savages and Beasts: the Birth of the Modern Zoo (Baltimore: The Johns Hopkins UP, 2002).
44 Antonio Gramsci, Scritti politici. A cura di Paolo Spriano (Roma: Editori Riuniti, 1971), 99.
45 Pasolini, “Intervista rilasciata a Ferdinando Camon,” Scritti sulla politica, 1642.
46 Pasolini, “Uccellacci e uccellini,” in Per il cinema, vol. I, 702-3.
47 Pasolini, “Intervista rilasciata a Ferdinando Camon,” in Scritti sulla politica,1642.
48 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Roma: La Nuova Italia, 1968-70), 411.
49 Herbert Marcuse, Eros e civiltà (Torino: Einaudi, 1964), 232.
50 Marc Daniel - André Baudry, Gli omosessuali (Firenze: Vallecchi, 1974).
51 Pasolini, “M. Daniel - A. Baudry: Gli omosessuali, in Saggi sulla politica, 493.
52 Ibidem, 599-603.
53 Pasolini, “La cultura contadina della scuola di Barbiana,” Ibidem, 834.
54 Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema (Roma: Carocci, 2007), 12.
55 Ibidem, 14.
56 Cassano, 27.
57 Pasolini, “Il cinema di poesia,” in Saggi sulla Letteratura, 1463.
58 Pasolini, Le regole di un’illusione, 160.
59 Pasolini, “Edipo,” in Per il cinema. Vol. I, 977.
60 Marco  A.  Bazzocchi,  L’immaginazione mitologica. Leopardi  e  Calvino,  Pascoli  e Pasolini.  (Bologna: Pendragon, 1996), 31.
61 Pasolini, “Edipo,” in Per il cinema. Vol. I, 998.
62 Pasolini, “Viaggio in Marocco,” in Saggi sulla politica, 1057.
63 Pasolini, “Edipo,” Per il cinema. Vol. I, 981.
64 Pasolini, “Sopralluoghi in Palestina,” ibidem, 659.
65 Ibidem, 659.
66 Ibidem, 660.
67 Ibidem, 656.
68 Ibidem, 665.
69 Ibidem, 662.
70 Fusillo, 35.
71 Piero Farani, Atelier Farani: Pasolini, il costume del film. Milano: Skira, 1996, p. 45.
72 Pasolini, “Edipo,” in Per il cinema. Vol. I, 999.
73 Qualcosa di simile avviene ne Il fiore delle Mille e una notte, dove il protagonista principale Nur-ed Din e molti dei personaggi secondari sono doppiati con voci dal fortissimo accento calabrese, in un ultimo tentativo di estendere la spontaneità - anche sessuale - delle culture del mondo mediterraneo rappresentate dalla Calabria, al
mondo arabo.
74 Pasolini, “Sul doppiaggio,” in Per il cinema. Vol. II, 2787.
75 L’attore, dopo essersi iscritto all’Accademia Drammatica, l’aveva ben presto abbandonata, dichiarandola inutile.
76 Pasolini, “Sul doppiaggio,” 2787.
77 Pasolini, “Risvolto di Alì dagli occhi azzurri,” in Saggi sulla letteratura. Vol. II, 2459.
78 Pasolini, “La mia periferia,” Ibidem, 2729.
79 Pasolini, “Sul doppiaggio,” 2787.
80 Pasolini, “La mia periferia,” in Saggi sulla letteratura. Vol. II, 2731.
81 Pasolini, “Il cinema e la lingua orale,” in Saggi sulla letteratura. Vol. I, 1597.
82 Pasolini, “La scoperta di Marx,” in Tutte le poesie. Vol. I, 497.
83 Antonio Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio (Roma: Carocci, 2005), 95.
84 Fusillo, 55.
85 Giuseppe Conti Calabrese, Pasolini e il sacro (Milano: Jaka Book, 1994), 72.
86 Pasolini, “Dal laboratorio,” Saggi sulla letteratura. Vol. I, 1332.
87 Bhabha, 220.
88 Pasolini, “Visioni della Medea,” Per il cinema. Vol. I, 980.
89 Nonostante l’episodio del viaggio degli Argonauti sia risolto da Pasolini molto brevemente, Medea è
certamente il suo unico film in cui il mare svolge una funzione non solo scenografica. Elemento associato
soprattutto alla regressione amniotica dopo la lettura di Talassa di Ferenczi, compiuta negli anni ’70, il mare è
completamente assente dalla produzione poetica precedente gli ‘50, e fa la sua comparsa nella poesia
pasoliniana a partire dalle Ceneri di Gramsci (1954), costantemente associato ad immagini d’ibridazione tra la
periferia romana e i paesi del bacino mediterraneo. Proprio all’inizio degli anni ’50, risale anche il progetto di
un romanzo che unisse storia di sé e storia del mare, da intitolarsi Per un romanzo del mare. Si veda a tale
proposito la nota di Walter Siti nel primo volume dei Romanzi e racconti.
90 Fusillo, 109.
91“Presente/Passato; Repressione/Liberazione: Tecnologia/Natura; Borghesia/Mondo contadino; Adulto /Bambino; Padre/Madre; Progresso/Regressione,” cfr. George Nowell-Smith, “Pasolini’s Originality,” in Paul Willemen, Pier Paolo Pasolini (London: British Film Institute, 1977), 4-20.
92 Pasolini, “Visioni della Medea,” Per il cinema. Vol. I, 1209.
93 Ibidem, 1218.
94 Per approfondimenti sulla trasposizione pasoliniana dei riti agrari di cui parla Mirice Eliade si veda Fusillo, 121-124.
95 Cfr. l’intervista a Pietro Tosi contenuta in Pasolini, Les Années 60, 3 DVD (Francia: GCTHV, 2003).
96 Pasolini, “Visioni della Medea,” Per il cinema. Vol. I, 1212.
97 Ibidem, 1213.
98 Ibidem, 1219.
99 Cfr. Alberto Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini: da Accattone al Decameron (Firenze: La Nuova Italia, 1994).
100 Pasolini, “Visioni della Medea,” Per il cinema. Vol. I, 1232.
101 Ibidem, 1233.
102 Ibidem, 1235.
103 Ibidem, 1278-79.
104 Ibidem, 1279.
105 Che proprio il mare risulti importante nella definizione del personaggio di Medea, lo mostra anche la scelta di girare gli interni della sua casa di Corinto sulla spiaggia di Anzio, vicino Roma, e gli esterni ad Aleppo in Siria. La casa risulta così, nella finzione cinematografica, schiacciata tra le mura del palazzo di Corinto e il
mare, sempre inquadrato attraverso la finestra, come se esso rappresentasse il limite invalicabile verso il suo
mondo lontano.
106 Ibidem, 1277.
107 Carl Schmitt, Terra e mare: una riflessione sulla storia del mondo (Milano: Giuffrè, 1986)
108 Ibidem, 33.
109 Ibidem, 103.
110 Cfr. Cassano, 36-37.
111 Pasolini, “Visioni della Medea,” Per il cinema. Vol. I, 1224.
112 Ibidem, 1213.
113 Ibidem.
114 Fusillo, 109.
115 Pasolini, “Una trasformazione sacrilega,” in Saggi sulla politica, 1194.
116 Ibidem, 1195.
117 Pasolini, “Un mondo in distruzione,” in Saggi sulla politica, 1222.
118 Pasolini, “Una trasformazione sacrilega,” 1196.
119 Ibidem, 1200.
120 Edward Said, Reflections on Exile and other Essays (Cambridge: Harvard University Press, 2000), 464.
121 Said, Culture and Imperialism (New York: Vintage Books, 1993), 48.
122 Paolo Matteucci, “Le colonie invisibili: Italia ed ‘Oriente’ in Petrolio di Pier Paolo Pasolini,”Quaderni del ‘900, 4 (2004): 105-114.
123 Pasolini, Petrolio, 145.
124 Ibidem, 37.


BIBLIOGRAFIA

Bazzocchi, Marco Antonio. Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento. Milano: Bruno Mondadori, 2005.
–––––. I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema. Milano: Bruno Mondadori, 2007.
–––––. L'immaginazione mitologica. Leopardi e Calvino, Pascoli e Pasolini. Bologna: Pendragon, 1996.
–––––. Pier Paolo Pasolini. Milano: Bruno Mondadori, 1998.
Bhabha, Homi K. I luoghi della cultura. Roma: Meltemi, 2005.
Bruno, Giuliana. Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema. Milano: Bruno Mondadori, 2006.
Caminati, Luca. Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo. Milano: Bruno Mondadori, 2007.
Cassano, Franco. Il pensiero meridiano. Roma-Bari: Laterza, 1996.
Cesarino, Cesare. “Pasolini in the Desert.” Angelaki. Journal of the Theoretical Humanities 9, 1 (Aprile 2004): 97-102.
Chiesi, Roberto, e Loris Lepri. Il corpo perduto di Alibech. Bologna: Centro studi - Archivio Pier Paolo Pasolini, 2005.
Conti Calabrese, Giuseppe. Pasolini e il sacro. Milano: Jaka Book, 1994.
Farani, P. Atelier Farani: Pasolini, il costume del film. Milano: Skira, 1996.
Fusillo, Massimo. La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema. Rome: Carocci, 2007.
Gramsci, Antonio. Letteratura e vita nazionale. Roma: Editori Riuniti, 1996.
–––––. Scritti politici. A cura di Paolo Spriano. Roma: Editori Riuniti, 1971.
Hagenbeck, Carl. Io e le belve. Milano: Quintieri, 1910.
Marchesini, Alberto. Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini: da Accattone al Decameron.
Firenze: La Nuova Italia, 1994.
Marcuse, Herbert. Eros e civiltà. Traduzione di Lorenzo Bassi. Torino: Einaudi, 1964.
Marx, Karl. Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica. Roma: La Nuova Italia, 1968-70.
Matteucci, Paolo. “Le colonie invisibili: Italia ed ‘Oriente’ in Petrolio di Pier Paolo Pasolini.” Quaderni del '900 4 (2004): 105-114.
Nowell-Smith, George. “Pasolini's Originality.” In Pier Paolo Pasolini, a cura di Paul Willemen, 4-20. London: British Film Institute, 1977.
Pasolini, Pier Paolo. “Pasolini racconta con rabbia l'assurda rovina di una città.” Il Corriere della Sera, 29 Giugno 1974.
–––––. Le regole di un'illusione. I film, il cinema. A cura di Laura Betti e Michele Gulinucci. Roma: Associazione "Fondo Pier Paolo Pasolini", 1991.
_____. Per il cinema. A cura di Walter Siti e Franco Zabagli. II vol. Milano: Mondadori, 2001.
–––––. Romanzi e racconti. A cura di Walter Siti e Silvia De Laude. Vol. II. Milano: Mondadori, 1998.
–––––. Saggi sulla letteratura e sull'arte. A cura di Walter Siti e Silvia De Laude. Vol. I. II vol. Milano: Mondadori, 1999.
–––––. Scritti sulla politica e sulla società. A cura di Walter Siti e Silvia De Laude. Milano: Mondadori, 1999.
–––––. Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane (1950-1966). A cura di Walter Siti. Torino: Einaudi, 1995.
–––––. Tutte le poesie. A cura di Walter Siti. Vol. I. Milano: Mondadori, 2003.
26
Rothfels, Nigel. Savages and Beasts: the Birth of the Modern Zoo. Baltimore: The Johns Hopkins UP, 2002.
Said, Edward. Culture and Imperialism. New York: Vintage Books, 1993.
–––––. Reflections on Exile and other Essays. Cambridge, MA: Harvard University Press, 2000.
Sapelli, Giulio. Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini. Milano: Bruno Mondadori, 2005.
Schmitt, Carl. Terra e mare: una riflessione sulla storia del mondo. Milano. Giuffrè, 1986.
Tricomi, Antonio. Sull'opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio. Roma: Carocci, 2005.
Westphal, Bertrand. La Géocritique mode d’emploi. Limoges: Pulim, 2000.
Filmografia
Coffret Pier Paolo Pasolini 3 DVD : Les Années 60. Pier Paolo Pasolini (2003).
Salò o le 120 giornate di Sodoma. Pier Paolo Pasolini (1975).
Il fiore delle Mille e una notte. Pier Paolo Pasolini (1974).
Medea. Pier Paolo Pasolini (1969).
Appunti per un film sull’India. Pier Paolo Pasolini (1969).
Appunti per una Orestiade africana. Pier Paolo Pasolini (1969).
Porcile. Pier Paolo Pasolini (1969).
Teorema. Pier Paolo Pasolini (1968).
La sequenza del fiore di carta. Pier Paolo Pasolini (1968).
Edipo re. Pier Paolo Pasolini (1967).
Che cosa sono le nuvole? Pier Paolo Pasolini (1967).
Uccellacci e uccellini. Pier Paolo Pasolini (1966).
La rabbia. Pier Paolo Pasolini (1963).
Sopralluoghi in Palestina. Pier Paolo Pasolini (1963).
Il Vangelo secondo Matteo. Pier Paolo Pasolini (1963).


"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.



Contatore accessi gratuito

Guido Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica - Presentazione e recensione

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - LIBRI
Guido Santato
Pier Paolo Pasolini
L’opera narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica.
Ricostruzione critica
Carocci editore, Roma

PRESENTAZIONE-RECENSIONE DI ANGELA MOLTENI

Pier Paolo Pasolini. L’opera narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione criticaè il titolo del volume di quasi seicento pagine dedicato alla “presentazione e all’analisi dell’intera opera di Pasolini”. Un libro scritto da Guido Santato e pubblicato da Carocci editore. Ultima pubblicazione in ordine di tempo - la più recente e completa - uscita sull’opera di Pasolini, è disponibile in libreria proprio in questi giorni: da giovedì 24 gennaio 2013, per la precisione.

Si tratta di un saggio critico in cui l'autore esamina analiticamente, con grande attenzione, partecipazione emotiva e competenza, tutto ciò che riguarda la produzione artistica pasoliniana fin dai suoi esordi friulani che risalgono all’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso. Una produzione artistica, vale la pena ricordarlo, che ha spaziato dalla narrativa al cinema e alla saggistica, dalla poesia alla pittura; e che ha impegnato Pasolini anche sul piano civile e politico se solo si tiene conto di come e in che misura egli abbia rivolto i suoi scritti, pungenti e spesso feroci, anche alle storture e alle anomalie del mondo politico e sociale che lo circondava.

Che il lavoro realizzato da Guido Santato sia frutto di competenza, conoscenza e cultura di prim’ordine lo svela il grande lavoro che si percepisce dietro la stesura dell’opera. Un lavoro per il quale l'autore, professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Padova e uno tra i maggiori esperti pasoliniani del nostro Paese, non si è certo risparmiato. Lo stesso Santato - che già nel 1980 si era cimentato con la figura e l’opera di Pier Paolo Pasolini - ne fa cenno nella sua “Premessa”:

«Confrontarsi di nuovo con un autore a notevole di­stanza di tempo comporta il rimettere in discussione l'impostazione cri­tica che prima aveva costituito un risultato acquisito: si sviluppano nuo­ve aperture interpretative legate a una sempre più articolata geometria della complessità. Lo studioso è costretto a fare i conti con il passato re­moto del suo lavoro critico, ma ancor più a operarne un radicale ripensamento: mentre ritorna a interrogare i testi, in realtà continua ad inter­rogare se stesso. Il "tempo interiore" del rapporto tra un critico e un au­tore ha dei limiti, anche se può esservi certamente una "lunga durata" o una "lunga fedeltà". Nel rapporto dialettico con l'autore possono verificarsi corsi, ricorsi, intermittenze, cambiamenti di interpretazione che seguono itinerari e logiche imprevisti».

Vi è poi il linguaggio utilizzato nella stesura del suo libro: Santato si avvale infatti di una prosa che anche quando tratta argomenti complessi non accantona la facilità di lettura, la semplicità di comprensione, in modo da far sì che il suo libro sia indirizzato a tutti e non rimanga destinato a un ambito meramente specialistico. È questo, a mio parere, uno dei grandi pregi mutuati proprio da Pasolini: il linguaggio di Guido Santato, anche se dotto e indice di grande, alta cultura, proprio in quanto tale si pone in armonia con ciò che definirei spirito comunitario che, quasi d’istinto, fa sì che nessuno debba rimanere escluso dalla fruizione di un’opera.
Foto di gruppo del corso di studi all'Università di Bologna. Pasolini è il quarto da sinistra nella seconda fila

Santato si occupa inizialmente del Pasolini degli anni della sua formazione a Bologna, e prosegue con un ampio e approfondito esame delle attività casarsesi del giovanissimo poeta che includono l’utilizzo-rielaborazione magistrale della lingua friulana e la vocazione didattica fondamentalmente antidogmatica con la quale sa coinvolgere i ragazzi di Casarsa e dintorni, mettendo a loro disposizione le sue conoscenze e le sue intuizioni. Attività in cui è insita anche la sua altrettanto appassionata inclinazione teatrale che proprio nel paese natale della madre conoscerà le sue prime e significative sperimentazioni.

L’autore del saggio critico dedica poi la sua analisi approfondita anche alle opere poetiche pasoliniane: alle raccolte de L’usignolo della Chiesa Cattolicae Le ceneri di Gramsci, per esempio, sono riservati interi capitoli. Esemplare poi è il capitolo che l’autore dedica a Ragazzi di vita e Una vita violenta, i due “romanzi romani” ai quali altri commentatori danno il più delle volte valenze pressoché coincidenti. Scrive Santato:

«Nell'impianto linguistico e narrativo di Ragazzi di vita operano in­sieme un'originale interpretazione del concetto gramsciano di lettera­tura nazional-popolare ed una passione plurilinguistica che aveva tro­vato codificazione teorica nei Preliminari sulla lingua del Petrarca continiani. I dialoghi del romanzo si articolano in battute scarne e brevi: il dialetto tende a degradarsi verso le forme più chiuse del gergo di vita e di malavita».
[…]
«Con Una vita violenta all'operazione mimetica di Ragazzi di vita, all'im­manenza della rappresentazione nel suo oggetto si sovrappone una sor­ta di programmaticità positiva, ovvero l'intento di delineare una vicen­da esemplare. […] Con Una vita violenta Pasolini cerca di conciliare l'operazione mimetico-regressiva di Ragazzi di vita con nuove ragioni ideologiche, anzi con una prospettiva ideologica: “Ma questo è il problema”: conciliare una ideologia nuova con un mondo stilisti­co già collaudato, assimilato [...]. Come, allora, conciliare una visione oggettiva, razionale, del mondo, una prospettiva ideologica - con la visione soggettiva, ir­razionale, che l'invenzione stilistica comporta necessariamente?Queste dichiarazioni danno la misura della svolta compiuta da Pasolini con Una vita violenta rispetto alle posizioni precedentemente espresse in Picasso e nei saggi pubblicati su "Officina": una svolta che era passata at­traverso la fondamentale esperienza del Pianto della scavatrice. Pasolini rinuncia all'originario immanentismo regressivo accettando di porre la propria poetica a confronto con una prospettiva ideologica, recuperando il tanto contestato prospettivismo e rischiando anzi la caduta in una trop­po scoperta modellizzazione ideologica della vicenda narrativa. In Ra­gazzi di vita non v'era alcuna “integrazione figurale”, come accade inve­ce in Una vita violenta. L'integrazione opera non tanto sulla costruzione della figura del protagonista, quanto sulla meccanica scopertamente esemplare della vicenda narrativa, con il progressivo passaggio dell'itine­rario politico del protagonista dal Msi alla Dc al Pci».

Sul cinema, Guido Santato evidenzia come l’attività cinematografica, attuata da Pasolini dopo il suo trasferimento a Roma, si aggiunga «a quella poetica, narrativa e saggistica all’interno di una sostanziale coerenza estetica». Poiché in effetti, per Pasolini anche quando si parla di cinema si deve sempre tener presente - e Guido Santato lo racconta e spiega in maniera ineccepibile - l’estro letterario, soprattutto poetico, che è il motivo conduttore di tutta l’opera pasoliniana. A questo proposito, scrive tra l’altro Santato:

«Lo stretto legame che unisce l'attività letteraria e quella cinema­tografica emerge anche nell'intenso lavoro di sperimentazione condot­to sul nuovo linguaggio. Nel realizzare i suoi film, dei quali scrive sem­pre sia il soggetto sia la sceneggiatura (spesso curando personalmente o in collaborazione con altri anche la scelta delle musiche), Pasolini fa poesia in forma di cinema. Fa poesia attraverso le tecniche di un nuovo e diverso sistema di segni elaborando un linguaggio iconografico assolutamente originale. Pasolini ha ribadito in più occasioni di aver girato i suoi film “come poeta”. Teorizza un “cinema di poesia” precisan­do anzi: “Se io mi son deciso a fare dei film è perché ho voluto farli esat­tamente come scrivo delle poesie, come scrivo i romanzi. Io dovevo per forza essere autore dei miei film, non potevo essere un coautore, o un regista nel senso professionale”».

Uno spazio assai ampio è riservato anche al teatro pasoliniano, le cui origini vanno fatte risalire alle inziative di Casarsa ma il cui sviluppo “romano” si deve soprattutto all’incontro con Laura Betti. Di tale sodalizio scrive diffusamente Santato, così come egli dedica, nel capitolo, un posto d’onore a Bertolt Brecht, alle traduzioni-interpretazioni di Eschilo (Orestiade-Agamennone, Le Coefore, Le Eumenidi) e di Plauto (Il vantone - Miles gloriosus) oltre a descrivere, sempre in chiave critica, le opere teatrali della seconda metà degli anni Sessanta, quando Pasolini costretto a letto da un’ulcera emorragica scrisse le sue opere - attualmente  le più note (per alcune di esse si tratta tuttora anche delle più rappresentate), di tutta la sua produzione per il teatro (Pilade, Orgia, Calderón, Affabulazione, Porcile, Bestia da stile). 
Rappresentazione di Orestiade (Eumenidi) a Siracusa

In Italia, in ciascuna programmazione di stagione teatrale i palcoscenici di città piccole e grandi ospitano compagnie che riservano una delle rappresentazioni in cartellone a opere pasoliniane appunto di quel periodo.

Il penultimo capitolo del libro Pier Paolo Pasolini. L’opera narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, dal titolo “L’infinita eresia. Il poeta, il saggista, il corsaro” riveste per me un fascino particolare. Apprezzo in modo speciale il Pasolini saggista - quello di Scritti corsari e Lettere luterane, ma anche quello di Descrizioni di descrizioni, di Caos dal settimanale “Tempo”, di Le belle bandiere. Per questi ultimi due titoli si tratta degli articoli scelti nelle pubblicazioni curate da Gian Carlo Ferretti per Editori Riuniti: libri che danno la possibilità di valutare nella sua interezza il fitto dialogo su problemi di attualità che Pasolini ebbe, in maniera diretta o indiretta, con un pubblico di lettori (in maggioranza comunisti) nel corso degli anni ‘60, dove si possono individuare, in nuce, i moventi politico-culturali di quella che sarà, negli anni ‘70, la sua polemica "corsara". Per altri lavori pasoliniani, ringrazio in particolare Guido Santato per avere analizzato opere all’interno delle quali non avevo ancora del tutto reperito fonti critiche che mi illuminassero. È il caso, per esempio, di Empirismo eretico, o delle poesie dedicate a Maria Callas.

Il volume termina con il capitolo “Nel magma di Petrolio”. Non è possibile nell’attuale circostanza riportare - come meriterebbe - l’intero capitolo: le riflessioni particolari e i notevoli spunti critici di Guido Santato aggiungono un importantissimo tassello a tutta la letteratura critica preesistente; mi ripropongo di tornare a parlarne da queste mie "pagine corsare" in un secondo momento. Su Petrolio, infatti, sono stati pubblicati anche altri saggi critici, anche importanti, nessuno dei quali ha potuto però, neppure in ipotesi, andare ovviamente oltre le pagine del manoscritto pasoliniano e riprodotte nella pubblicazione di Einaudi del 1992. Riporterò qui soltanto alcuni passaggi del contributo critico di Guido Santato.

«Petrolio è un magmatico romanzo allegorico dedicato alla rappresentazione delle trasformazioni antropologiche e sociali prodotte in Ita­lia dal tumultuoso sviluppo neocapitalistico, della prima crisi energetica, ma anche della crisi del marxismo gramsciano di Pasolini e della sua crisi personale. Quindi è anche un romanzo politico. Pasolini comincia a scrivere il romanzo nella primavera del 1972, dopo la crisi petrolifera mondiale. Nel corso della narrazione le vicende dei due Carli si intrec­ciano strettamente con gli avvenimenti degli anni della strategia della tensione e delle stragi. Da questo punto di vista Petrolio si presenta co­me un romanzo storico tout court, come stimma di un'esperienza vissu­ta insieme dentro e fuori dalla storia.»

«La più vistosa tra le conseguenze dello stato d’incompiutezza in cui l’opera è rimasta è costituita dallo squilibrio materiale dei blocchi che la compongono: la Seconda parteè molto più breve della prima e comprende gli Appunti 103b-133. Non va taciuto il rischio che l’incompiuta elaborazione formale possa favorire una lettura di tipo “contenutistico” dell'opera, non corrispondente alle intenzioni di Pasolini. I vuoti po­trebbero a loro volta accentuare il rilievo delle pagine di maggiore cru­dezza, come quelle dedicate alla rappresentazione estrema dell'eros trasgressivo del protagonista nell'episodio del Pratone della Casalina (Ap­punto 55),oppure delle parti che contengono un violento atto d'accusa contro gli uomini politici e di governo responsabili delle stragi (Appun­ti 100-103, L’Epochè). Vi è quindi il rischio di un'interpretazione sbilan­ciata, prevenuta o finalizzata alla dimostrazione di un'ipotesi critica che estenda la lettura di queste parti a un'interpretazione complessiva del­l'opera. Se Pasolini avesse potuto terminare Petrolio, l'opera nel suo in­sieme sarebbe certamente risultata molto diversa dal testo di cui dispo­niamo.»

«La seconda parte del romanzo appare ancora più disarticolata e frammentaria della prima, risentendo evidentemente dell’incompiutezza in misura ancora maggiore. Soprattutto negli ultimi appunti la stesura di questa parte appare vistosamente troncata dall’interruzione.»

«[Com’è noto] gli Appunti 20-30, Storia del problema del petrolio e retroscena, risultano mancanti. Il testo riprende con l'Appunto 31. Que­sta "lacuna" del testo ha originato varie ipotesi sulle sue cause, legate in particolare alla possibilità che essa sia conseguenza di un furto che sa­rebbe avvenuto nella casa di Pasolini pochi giorni dopo la sua morte, del quale si è molto parlato. [29]»

«[nota 29] Sull'ipotesi del furto di un capitolo di Petrolio, su quella ad essa collegata dell'assassinio di Pasolini come "omicidio politico" e sugli aspetti giudiziari della vicenda cfr. in particolare il libro-inchiesta di G. D'Elia, Il Petrolio delle stragi: postille a "L'eresia di Pa­solini'', Effigie, Milano 2006 (dello stesso autore cfr. anche L'eresia di Pasolini, Effigie, Mi­lano 2005). Cfr. inoltre G. Borgna, C. Lucarelli, Così morì Pier Paolo Pasolini, in "Micro-Mega", 2005, 6; G. Lo Bianco, S. Rizza, Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un'u­nica pista all'origine delle stragi di Stato, Chiarelettere, Milano 2009; Benedetti, Giovan­netti, Come corsari sulla filibusta, cit.; A. Molteni, Enigma Paso/ini, e-book pubblicato nel sito "Pagine corsare", wvvw.pasolini.net (2010). L'ipotesi del furto è stata esclusa da Graziella Chiarcossi, nipote di Pasolini, che viveva nella sua casa […] Allo stato attuale del­la documentazione di cui disponiamo - e in attesa di eventuali futuri "ritrovamenti" - l'ipotesi del furto e del "capitolo mancante" appare priva di fondamenti oggettivi.»

Il saggio nella sua complessità e nella sua completezza è un documento molto rigoroso con il quale Guido Santato ha analizzato l’intera opera di quell’”artista multimediale” che è Pier Paolo Pasolini. È dunque uno strumento di studio e di approfondimento, ma è anche una lettura piacevole, scorrevole, che cattura l’attenzione e l’interesse di chi vi si accosta; almeno per me è stato così. Molti aspetti del processo creativo di Pasolini sono chiariti, svelati e narrati con particolare perizia ed efficacia e sottintendono il grande impegno che ha guidato il pensiero e la mano di Santato. Lo consiglio vivamente a tutti coloro che apprezzano Pasolini e tutte le sue multiformi attività: aggiungerà notevole spessore alle conoscenze che ciascuno possiede su quel grande intellettuale, oppure aiuterà decisamente a svelare e chiarire il pensiero e la parola pasoliniani in tutta la loro complessità e in tutti i loro eccezionali contenuti artistici. 

Ricordo infine che il volume sarà disponibile nelle librerie italiane dal prossimo 24 gennaio 2013. Un sincero ringraziamento all’infaticabile Guido Santato per questo suo lavoro di grandissimo pregio.

SI VEDA ANCHE:
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

Contatore accessi gratuito

"Il Vantone" di Pier Paolo Pasolini al Teatro Mercadante di Napoli, 22-27 gennaio 2013

$
0
0
"Pagine corsare"
LE NOTIZIE - TEATRO
Il Vantone
di Plauto, traduzione di Pier Paolo Pasolini, regia Arturo Cirillo

22 - 27 gennaio 2013
Produzione Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival

Arturo Cirillo, con il suo gruppo consolidato di attori, si accosta a Plauto attraverso lo sguardo contemporaneo di Pier Paolo Pasolini che del Miles Gloriosus fece molto più di una semplice traduzione. Il lavoro dello scrittore è risultato infatti un vero e proprio rifacimento che rende l’universo di Plauto particolarmente attuale, restituendone il contesto più che la parola. Si tratta, in altri termini, di una traduzione “artistica” capace di reinventare e introdurre personaggi popolari e rionali, creando un meccanismo teatrale parallelo a quello plautino.
Il miles gloriosus di Plauto tradotto da Pasolini in una lingua tutta teatrale che nasce dall'avanspettacolo e si formalizza nella struttura metrica dei doppi settenari già usati da Molière e dall'uso della rima è - spiega Arturo Cirillo - al centro di questo lavoro, affidato ad una compagnia di soli uomini che, secondo un uso antico del teatro, si traveste nei vari personaggi della commedia, creando un rapporto tra le lingue teatrali del varietà. Un viaggio attraverso la musicalità del dialetto e la ritmicità del verso giocato in uno spazio vuoto, tra residuati teatrali e costumi dall'estroso repertorio, per narrare una storia semplice ed antica con la sensibilità del teatro di oggi. Una storia di servi e padroni, di generali alla Falstaff, di gabbati e torturatori, di donne scaltre ed innamorate, che danno vita ad un mondo basso da cui avvolte nasce la poesia”.
Con Arturo Cirillo, Michelangelo Dalisi, Rosario Giglio, Vincenzo Nemolato, Luciano Saltarelli
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Badar Farok
Musiche Francesco De Melis
Regista assistente Roberto Capasso
Produzione Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.
Contatore accessi gratuito

Teatro Vascello, Roma: rassegna dedicata a Pasolini: "La ricotta" di Pier Paolo Pasolini. 25, 26, 27 gennaio 2013

$
0
0
"Pagine corsare"
LE NOTIZIE - TEATRO
Rassegna dedicata a Pasolini
al Teatro Vascello di Roma 

Direttore artistico Manuela Kustermann

Stagione Teatrale 2012-2013

La rassegna aperta da Maddalena Crippa il 10 DICEMBRE 2012 con LA POESIA DI PIER PAOLO PASOLINIè proseguita con NESSUNA PIETÀ PER PASOLINI dall'11 al 20 gennaio 2013 di e con Caterina Venturini. Dal libro omonimo di Maccioni, Rizzo, Ruffino. Le rivelazioni inedite che hanno consentito di riaprire l'inchiesta sull'omicidio di Pierpaolo Pasolini, con la speranza che si faccia luce finalmente su un delitto ancora impunito, su uno dei fatti di cronaca più oscuri e inquietanti del nostro paese. Una ricostruzione lucida e serrata delle ultime ore del poeta, con inserti poetici e musicali, tra cui vibrano le canzoni scritte dallo stesso Pasolini. Un altro tassello al teatro di narrazione in musica di Caterina Venturini, nell'occasione accompagnata al pianoforte da Luis Gabriel Chami.

25, 26, 27 gennaio 2013
La ricotta

di Pier Paolo Pasolini

venerdì e sabato h 21 - domenica h 18

Con Antonello Fassari e Adelchi Battista

"La ricotta" (1964) è un racconto che è diventato l'episodio di un film dal titolo "Ro.Go.PaG" prodotto da Bini. Siamo sul set cinematografico dove si gira un film sulla Passione di Cristo. Stracci, il protagonista, che fa la parte del Ladrone buono, fra una pausa e l'altra della lavorazione cerca di trovare di che sfamarsi, poiché ha dato alla moglie e ai sette figli il suo cestino. Sullo sfondo, raccontati, i personaggi tipici del grande carrozzone cinematografico: il regista, illuminato e assente, il giornalista inconsapevole marionetta del sistema, il produttore, la Maddalena, le altre comparse. Una umanità fotografata nel suo rapporto con l'Assoluto e con il profano, come in una sorta di Giudizio Universale, dove Stracci, il generico che diventa protagonista, trasfigurato dalla ricerca del cibo, affronta un Calvario reale ma invisibile a tutti gli altri. (Antonello Fassari)


'Na specie de cadavere lunghissimo

dal 29 gennaio al 3 febbraio 2013 
Fabrizio Gifuni
dal martedì al sabato h 21 domenica h 18
Un'idea di Fabrizio Gifuni. Con Fabrizio Gifuni.

Materiali per drammaturgia: da Pier Paolo Pasolini "Scritti Corsari", "Lettere Luterane", "Siamo tutti in pericolo" (intervista di Furio Colombo a P.P.P. dell'1/11/1975), "La nuova forma della meglio gioventù", "Abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo" di Giorgio Somalvico "Il Pecora".


Un'amicizia in versi: Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini

4 febbraio 2013 h 21

Un'idea di Fabrizio Gifuni con Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni.

Il fiore profondo che si manifesta nel dialogo umano e poetico tra Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini è il riconoscimento vicendevole dell'altro come diverso e assoluto. Il rispetto amoroso dell'altro - così vicino, così distante. A Roma, nel quartiere di Monteverde, nello stesso palazzo, vivono i due poeti - entrambi "approdati" in quella città - e approfondiscono negli anni e nella consuetudine della familiarità un rapporto destinato anche a dare testimonianza di sé nella forma della parola poetica. In questa lettura, le voci di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni si alternano per esplorare attraverso il suono della parola il mistero luminoso di una amicizia.


Carissimo Pier Paolo

25 marzo 2013 h 21
Maurizio Donadoni

Di e con Maurizio Donadoni.

Collage di testi su e di Pier Paolo Pasolini: un percorso nella vita e nelle sue opere dello scrittore, in un gioco di rimandi che avvicina e mette a fuoco l'uomo, l'intellettuale, il poeta , il cineasta, il romanziere, il viaggiatore, il tifoso del Bologna nonché calciatore in proprio: alcune insomma tra le tante sfaccettature di cui la gemma "Pasolini" si componeva. Un avvicinamento per vie laterali che sfiora e utilizza materiali in prosa e poesie, documenti visivi, scritti poco noti, curiosità biografiche, lettere e testimonianze di amici, brevi di cronaca, referti di polizia, recensioni, risposte ai lettori, reportage, sopralluoghi, perizie psichiatriche. In modo da comporre un ritratto trasversale, più libero e meno "ufficiale". Un'immersione nel ricco tormentato "corpus" Pasoliniano, diviso in cinque capitoli, dalle prime esperienze friulane, all'impatto con Roma, dal cinema , al teatro, dal viaggio in India con Moravia agli ultimi scritti profetici di Petrolio, passando per gli infiniti processi, gli attacchi d'ulcera, le lettere a Silvana Mangano, Anna Magnani, Maria Callas, le interviste a Ezra Pound e, perché no, le amate partitelle di pallone dove, mezzala col soprannome di " Stukas", Pasolini, come nell'arte, si buttava anima e corpo: nella vita.

Teatro Vascello 06 5881021 - 06 5898031 - fax 06 5816623
promozione@teatrovascello.it / www.teatrovascello.it
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
* * *
Il contatore di accessi è stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data vengono visualizzate
tutte le visite a questo blog. Gli accessi pregressi sono quindi da sommare a quelli esposti
dal contatore di Shiny Stat sottoriportato. Dal conteggio statistico di "Blogger" nel periodo dal
15 febbraio 2012 (data di creazione del blog) a tutto il 12 gennaio 2013 gli accessi
risultano essere stati 499.939. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

Contatore accessi gratuito
Viewing all 421 articles
Browse latest View live