Pierpaolo Capovilla interpreta Pier Paolo Pasolini
Musiche di Kole Laca, Steve Reich, Scott Walker
Al pianoforte e campionamenti: Kole Laca
Il reading si articola in tre atti:
Ballata delle madri, La religione del mio tempo, Una luce
In tour da marzo a giugno 2013
[Seguiranno date e luoghi di appuntamento]
Perché Pasolini
Alla più che mai necessaria riscoperta della poesia di Pier Paolo Pasolini, il più lucido interprete della modernizzazione capitalistica e del mutamento antropologico della società italiana.
Nei suoi versi, la spietata disamina della dispersione dei valori della resistenza, nel segno del più miope individualismo edonistico nel quale è precipitato il paese.
La sua poesia, narrante il cuore oscuro della contemporaneità, è ancor oggi impietosa denuncia di come siamo cambiati, e cosa siamo diventati, in questi tempi di incertezza morale ed ostentato narcisismo.
Viviamo tempi di grande incertezza.
Negli ultimi vent'anni abbiamo assistito alla progressiva finanziarizzazione dell'economia, la libera economia di un libero mercato che ancora ostinatamente chiamiamo "capitalismo".
Che cosa abbiamo visto? Constatiamo che il valore d'uso dei beni di consumo ha ceduto il posto al "valore-spettacolo", come lo chiamerebbe Guy Débord, e contemporaneamente: il lavoro, fonte primaria di sostentamento e vita, di cultura collettiva e comunitaria, di solidarietà e fratellanza, ha ceduto il passo alla speculazione.
È un dato di fatto, sopratutto oggi, che in questo mondo tremendo un pugno di "rentier" sia venuto in possesso di una fetta spropositata della ricchezza mondiale.
Abbiamo assistito al mutamento antropologico della società italiana: la più spettacolare manifestazione storica recente di quella che i filosofi chiamano "eterogenesi dei fini": quando da un qualcosa nasce un qualcos'altro di completamente diverso, di segno opposto magari!
Tangentopoli. Ve la ricordate?
Sembrava che la società italiana si fosse svegliata, finalmente, inorridita e schifata da tanta dilagante e sistematica corruzione, affarismo, cieco individualismo.
Che cosa abbiamo ottenuto?: il berlusconismo.
Un bel guaio: vent'anni di questa "politica" lasciano il segno, un segno in tutto e per tutto simile ad un simbolico "bombardamento alleato".
Macerie, intorno a noi e dentro le nostre vite. Sgomento e angoscia, nei nostri sguardi. Come ricostruire questo paese?
Facile, troppo facile, asserire che Pasolini aveva predetto tutto ciò. Pasolini non fu un indovino, un profeta. Pasolini fu poeta.
In tutta la sua opera, narrativa, cinematografica, giornalistica se vogliamo, e poetica, appunto. La poesia narra il cuore delle cose. Per questo, la poesia dice la verità.
Pasolini seppe osservare, con sguardo chiaro e severo, il mutare inarrestabile della società italiana, che andava declinando i valori della resistenza nel più ottuso conformismo, nel consumismo del boom economico, nella dispersione delle ricchezze morali delle madri e dei padri fondatori della Repubblica.
Nel disconoscimento dei valori della resistenza: del suo valore più alto: l'uguaglianza nella libertà.
Certo non la libertà - tanto abusata e vilipesa questa parola in questo stupido presente - nella divaricazione sociale, nella prevaricazione, nell'ingiustizia.
Di una libertà così, cosa mai potremmo farcene, se non nasconderci nel nostro privato, ignorando il destino di un popolo di cui non ci sentiamo più parte (in causa).
Ecco la sconcertante attualità della poesia di Pasolini: ciò che intuiva Pasolini, o meglio, ciò che egli vedeva, era il progressivo imborghesimento della classe operaia, il suo nuovo, nuovissimo, asservimento alle regole più banali del capitalismo moderno: processo incessante e mai cessato, che da quegli anni è giunto all'oggi, con la spietatezza di cui soltanto il capitalismo italiano è stato capace, in Europa occidentale.
C'è una rabbia, nella poesia di Pasolini: è fatta di progresso: non nel senso della "crescita" - oggi non si parla d'altro - IL PROGRESSO!
Quello per cui il lavoro, non il denaro, è creatore di ricchezza: ricchezza materiale, certo, ma anche ricchezza morale, etica dell'esistenza, legame sociale, emancipazione.
Ecco perché Pasolini, qui ed ora
In questa terra dove le fatiche del lavoro sono dimenticate da un ceto politico privo di scrupoli, ignorante, ottuso e, anche quando non consapevolmente indifferente delle sorti di uomini e donne in carne ed ossa, comunque sempre ed inevitabilmente inadeguato e insufficiente.
Dimenticate da una società, quella italiana, che si è dimenticata di essere una società: un corpo vivente: nella disgregazione di ogni rapporto solidale, nell'indifferenza per il prossimo, nella rincorsa di un modello di vita la cui cifra è il disprezzo della vita stessa.
Il Reading si articola in tre parti:
BALLATA DELLE MADRI
LA RELIGIONE DEL MIO TEMPO
UNA LUCE
Alla voce: Pierpaolo Capovilla
Al pianoforte e "diavolerie elettroniche": Kole Laca
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
A 90 anni dalla nascita di Pasolini si è deciso di svelare i retroscena del film Il Vangelo secondo Matteo, in un'inedita video-intervista di Rossella Alimenti della Rai che racconta del rapporto dello scrittore e regista con monsignor Francesco Angelicchio, l'uomo che aveva suggerito l'inserimento delle scene dei miracoli e della resurrezione nella pellicola. Angelicchio, primo italiano a chiedere l'ammissione nell'Opus Dei, è morto nel 2009: «L'unica licenza poetica che Pasolini si è permesso di fare è stata quella di mettere il cappellino fez, che usavano i fascisti, agli erodiani per pennellarli socialmente in modo negativo» ha raccontato nel video. E per l'anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, il 5 marzo 2012, è stato fissata una presentazione dell'intervista nell'aula magna del Centro Elis a Roma, con la partecipazione di Liliana Cavani, Ettore Bernabei, il vicedirettore Rai Giancarlo Leone, Ivano Caradonna presidente del V Municipio di Roma Capitale, e Michele Crudele direttore del Centro Elis. Realizzata nel 1964, la pellicola venne considerata dalla critica una delle più belle mai girate sulla vita di Cristo, nonostante il rigore laico ed antidogmatico con cui affrontava la tematica religiosa. Nel video si parla anche di Roberto Rossellini, Federico Fellini e di altri grandi registi diventati amici del monsignore. Anche Liliana Cavani ha ricordato come fu proprio Angelicchi a dare il via libera alla proiezione del suo film su San Francesco d'Assisi, osteggiato in diversi ambienti.
ANGELICCHIO CONVINSE PASOLINI A TORNARE SUL SET. Il rapporto fra Pasolini e Angelicchio è nato da quando, nei primi anni '60, il monsignore venne incaricato da Papa Giovanni XXIII di istituire il Centro Cattolico Cinematografico per valutare la moralità dei film proiettati in Italia ed autorizzarne la distribuzione nei circuiti parrocchiali. Fu proprio Angelicchio a convincere Pasolini, a film ultimato, a tornare sul set per girare le scene dei miracoli e della resurrezione di Gesù. Nell'intervista si racconta anche di come lo scrittore e regista abbia scelto interpreti sconosciuti rispetto alle ipotesi del «produttore che avrebbe voluto attori famosi come ad esempio Burt Lancaster» per la parte di Gesù e non il giovane attore di Barcellona che alla fine lo ha intepretato, Enrique Irazoqui. Pasolini scelse il Vangelo di Matteo per il suo film del 1964 perché pensava evidenziasse maggiormente l'umanità di Gesù: l'obiettivo era, infatti, raccontare la dimensione più terrena, mostrando Cristo nella sua figura sociale di autentico rivoluzionario dell'epoca.
UN FILM ELOGIATO DALLA CRITICA E DALLA POLITICA. Un rivoluzionario che portava avanti con forza il suo messaggio di pace e di non violenza e che venne rappresentato attraverso un doppio punto di vista: quello del laico, del regista non-credente e quello religioso del suo personaggio, attraverso il quale mediare lo sguardo critico sulla realtà. Sul piano dei contenuti, il film ha risentito del clima culturale del periodo, con la lotta tra cattolicesimo e marxismo ed è stato girato prevalentemente a Matera senza proporre variazioni nè cambiamenti testuali del Vangelo, ottenendo così il plauso della critica di ogni parte. La sinistra privilegiò l'interpretazione del Cristo «uomo», capace di parlare alle masse, mentre al centro e da parte della critica cattolica la pellicola ottenne larghi consensi soprattutto per la rigorosa fedeltà illustrativa al testo sacro, adottato come sceneggiatura.
Gli interventi sono stati registrati e riportati nei video segnalati in spezzoni separati.
11:30 Saluti del Presidente del V Municipio, Ivano Caradonna e del Direttore del Centro ELIS, Michele Crudele
11:45 Videointervista a Mons. Francesco Angelicchio sul suo ruolo di direttore del Centro Cattolico Cinematografico
12:00 Liliana Cavani - regista: Don Francesco e il mio "Francesco"
12:15 Videointervista a Mons. Francesco Angelicchio sul suo rapporto con Pasolini e "Il Vangelo secondo Matteo"
12:30 Rossella Alimenti - giornalista RAI (al posto di Giancarlo Leone - vicedirettore generale RAI): Il ruolo di Pasolini nella storia del cinema
12:45 Videointervista a Mons. Francesco Angelicchio sul confronto tra gli "Atti degli Apostoli" di Rossellini e "Il Vangelo secondo Matteo" di Pasolini
13:00 [assente] Giampaolo Letta - amministratore delegato Medusa Film: La riedizione de "Il Vangelo secondo Matteo"
13:15 Ettore Bernabei - fondatore della Lux Vide: Il cinema con contenuto religioso
* * *
Citazione da Pier Paolo Pasolini, Romans, in Tutte le opere. Romanzi e racconti. 1962 - 1975, Mondadori, Milano 1998
Il lavoro del maestro è come quello della massaia, bisogna ogni mattina ricominciare da capo: la materia, il concreto sfuggono da tutte le parti, sono un continuo miraggio che dà illusioni di perfezione. Lascio la sera i ragazzi in piena fase di ordine e volontà di sapere - partecipi, infervorati - e li trovo il giorno dopo ricaduti nella freddezza e nell'indifferenza.
(…) per fare studiare i ragazzi volentieri, entusiasmarli, occorre ben altro che adottare un metodo più moderno e intelligente. Si tratta di sfumature, di sfumature rischiose e emozionanti… [Bisogna tener conto] "in concreto delle contraddizioni, dell'irrazionale e del puro vivente che è in noi. (...) Può educare solo chi sa cosa significa amare.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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«Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale stato gli piacerà di più, sa solo che vuole, che deve mangiarli tutti. Uno ad uno. E nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via». Così Pier Paolo Pasolini saluta New York e Oriana Fallaci, che lo intervista.
È la fine dell'estate del 1966, e Pasolini si trova in America per la presentazione di due film, "Accattone" e "Uccellacci e Uccellini", al festival di Montreal, in Canada. Prima di tornare in Italia trascorre dieci giorni a Manhattan, una permanenza tanto breve quando intensa, che accende un amore che qualcuno direbbe impossibile. Aprendosi con la Fallaci, Pasolini parla dell'amore, inaspettato e apparentemente contraddittorio di un marxista convinto per la città simbolo del capitalismo mondiale. Un amore presto ricambiato. Già dagli anni settanta la critica newyorkese scrive diffusamente di Pasolini, con Richard Schickel che spiana la strada recensendo "Il Vangelo secondo Matteo" su Life magazine come "il migliore film di tutti i tempi". I film di Pasolini cominciano a entrare nei circuiti cinematografici, le sue opere letterarie vengono tradotte.
Nel suo viaggio newyorkese, Pasolini incontra molti intellettuali americani. Con Allen Ginsberg, («Su New York esistono solo le sue poesie», disse), strige un'amicizia duratura, tanto che i due si rincontrarono già l'anno seguente a Milano. È accompagnato da Ninetto Davoli, il giovane e inseparabile "attore di borgata", scritturato per le strade di Roma "per interpretare se stesso". «L'impatto con la città è stato incredibile», ricorda Davoli di nuovo a New York questa settimana, in occasione della grande retrospettiva che il Museum of Modern Art dedica a Pasolini fino al 5 gennaio, in collaborazione con l'Istituto Luce.
L'accento romano che evoca il quartiere prenestino nel quale è cresciuto, il sorriso disarmante, i riccioloni folti, ormai completamente bianchi, Davoli ha seguito tutta la rassegna organizzata per il lancio della mostra. Era al PS1 (la "divisione sperimentale" del MoMA nel Queens), dove esprimendo la sua felicità per il successo dell'amico, ha alzato gli occhi al cielo esclamando "A Pà, lo stanno comincià a capì!".
Davoli era anche al MoMA giovedì, dove è stata presentata una versione restaurata di "Medea", il film del 1969 interpretato da Maria Callas.Tra il pubblico che affollava la sala, c'era anche il ministro Lorenzo Ornaghi, in America per l'inaugurazione dell'Anno della Cultura italiana negli Stati Uniti. Prendendo la parola prima dell'inizio del film, Ornaghi si è unito al coro degli ammiratori di Pasolini, sostenendo di amarlo per la sua «contemporaneità».
Davoli, come una sorta di alter ego di un nuovo viaggio di Pasolini a New York, era presente anche venerdì, sempre al MoMA, per leggere poesie e scritti insieme a una delegazione di attori, tra cui Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Beppe Fiorello e Lidia Vitale. E c'era anche domenica, al PS1, per la rassegna di performance che alcuni artisti contemporanei, tra cui Alfredo Jaar, Fabio Mauri e Barbara Hammer, hanno realizzato ispirandosi al lavoro di Pasolini. Ha infine visitato anche la mostra di disegni che da questa settimana il centro culturale non profit Location One dedica a un talento meno conosciuto del regista, scrittore e intellettuale italiano.
«Proprio i disegni sono l'unico aspetto dell'opera di Pasolini che non era ancora stato presentato negli Stati Uniti», spiega la curatrice del MoMA Jytte Jensen, che ha organizzato la retrospettiva. Seduta nel suo luminoso ufficio, Jensen ricorda di quando, nel 1990, collaborò con Laura Betti per l'organizzazione della prima grande mostra americana dedicata a Pasolini, sempre al MoMA, intitolata "Pier Paolo Pasolini, The Eyes of a Poet" (gli occhi di un poeta). «Quelli erano tempi in cui la gente si fermava dopo le proiezioni per discutere sui film», racconta. «In quell'occasione ho iniziato ad amare Pasolini, a capire quanto sia essenziale il suo lavoro. Lui è stato in grado di analizzare davvero il suo tempo, di comprendere le decisioni politiche per cui la gente credeva di aver votato». Inoltre, spiega Jensen, «è stato un regalo per me, mi ha aiutato a riconoscere un'opera d'arte, a capire cos'è un vero lavoro artistico». Per questo, presentando la mostra al pubblico americano, ha detto: «Ogni generazione dovrebbe avere il suo Pasolini».
La New York conosciuta da Pasolini era molto diversa da quella di adesso, più pericolosa, più estrema, più "esotica", ma lo spirito che anima i suoi abitanti, quello non è cambiato. Nel 1966, rispondendo alle domande di Oriana Fallaci, Pasolini descrive New York come «una di quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogniqualvolta scrivono un verso fanno una bella poesia. Mi dispiace non esser venuto qui molto prima, venti o trent'anni fa, per restarci. Non mi era mai successo conoscendo un Paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare per non ammazzarmi. L'Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti, una evasione. New York non è un'evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent'anni».
Dopo quel viaggio non venne più a New York, ma se non fosse morto prima del tempo ci sarebbe forse tornato. Magari per girare un film. Confessa alla Fallaci: «M'è venuta un'idea, conoscendoli: ambientare in America il mio film su san Paolo. Voglio trasferire l'intera azione da Roma a New York, situandola ai tempi nostri ma senza cambiar nulla. Mi spiego? Restando fedelissimo alle sue lettere. New York ha molte analogie con l'antica Roma di cui parla san Paolo. La corruzione, le clientele, il problema dei negri, dei drogati».
Scoprire di amare New York, per Pasolini, secondo Jensen «deve essere stato scioccante. L'idea di questa città incarnava l'antitesi della sua visione. Ma è quello che succede ancora oggi a molti europei, questo è quello che è successo a me». Nel 1966, parlando delle ragioni per cui New York lo stava conquistando, Pasolini nomina la miseria, paragonando la metropoli americana all'antico Egitto. C'è «lo stesso tipo di miseria, o povertà, che si trova nelle ex colonie divenute indipendenti da poco», spiega. «Non una miseria economica, la miseria di chi non ha da mangiare: una miseria, ecco, psicologica. Quella sporcizia diffusa, quella provvisorietà. Le strade male asfaltate, che quando piove si riempiono di gore. I muri neri o marroni, costruiti in fretta per esser buttati giù in fretta. E mai un angolo tirato a lucido, destinato a durare. C'è anche Park Avenue, siamo d'accordo, ci sono gli splendidi grattacieli di vetro: ma quelle son le piramidi. Esser qui oggi è come trovarsi in Egitto quando gli schiavi costruivano le piramidi. Sai, non è mica detto che gli schiavi in Egitto vivessero male».
New York, da chi non la conosce, è spesso immaginata come una città abitata da persone schiave del lavoro e del danaro. «E poi, quando arrivi - spiega Jensen - scopri che invece è piena di gente entusiasmente, innovativa». E anche elegante, aggiungerebbe Pasolini se ripensasse alle impressioni raccolte sui newyorchesi durante la sua breve visita. «Hanno un gusto favoloso: guarda come sono vestiti. Nel modo più sincero, più anticonformista possibile. Non gliene importa nulla delle regole piccolo-borghesi o popolari. Quei maglioni vistosi, quei giubbotti da poco prezzo, quei colori incredibili. Non si vestono mica, si mettono in maschera: come quando da piccola ti mettevi la palandrana della nonna», racconta a Oriana Fallaci.
Un amore reciproco, quello tra l'America e Pasolini, rapido, passionale, che tuttavia non sembra aver lasciato tracce evidenti, esplicite, nella sua opera e in quella dei registi contemporanei. Pasolini, in gioventù, si dichiarava affascinato dalla «brutalità e dalla violenza» dei film di Hollywood. «Nelle sue opere vedo violenza, ma non brutalità», spiega Jensen. «Quello che trovo piuttosto è compassione».
Riguardo all'impatto di Pasolini sugli artisti americani, la curatrice riconosce certamente «una grande influenza generale, sul modo di pensare, sul modo di considerare il cinema come una forma artistica seria, come strumento di conoscenza e comprensione della società. Ma non vedo nessuna eredità esplicita nelle opere dei registi americani di oggi, vedo artisti che traggono ispirazione dalla sua opera, ma nessun chiaro erede». L'unico a potersi considerare tale, «sarebbe forse l'italiano Matteo Garrone, che dimostra una sensibilità affine verso le persone ai margini della società, che affronta con la stessa forza temi politici e sociali e che lavora con lo stesso spirito con attori non professionisti». Tuttavia, precisa, «non è proprio giusto parlare di un erede».
Stando al numero di persone che ha seguito gli eventi per l'inaugurazione della retrospettiva, si potrà parlare quantomeno di ammiratori. Nella sala del MoMA, la sera della lettura degli scritti di Pasolini, sono stati proiettati alcuni frammenti di sue interviste. Il pubblico, un misto tra americani e italiani a New York, era visibilmente emozionato a sentir parlare di «nuovi padroni del regime democratico» che mirano allo «sviluppo», che produce «beni superflui», piuttosto che al «progresso», produttore di «beni necessari». Erano tutti attenti quando veniva nominato il «potere che manipola i corpi», quasi a precedere le contemporanee teorie sul tema di Slavoj Zizek. Applaudivano quando nella sala risuonava il riferimento «alla società del consumo che riesce a ottenere l'omologazione sociale e culturale che il fascismo non ha saputo creare».
Al tempo di queste dichiarazioni, «Pasolini aveva anche scatenato l'indignazione di una certa classe sociale americana, estremamente moralista», spiega Jensen. Ma ora è diverso. Ora tutti lo considerano «un maestro».
Pier Paolo Pasolini
13 dicembre 2012– 5 gennaio 2013
The Roy and Niuta Titus Theaters (MoMA)
Evento coprodotto da Istituto Luce Cinecittà, The Museum of Modern Art, Cineteca di Bologna
Main sponsor: Gucci
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
"Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre a livello della realtà.
E’ una specie di ideologia personale, di amore nel vivere
dentro le cose, nella vita, nella realtà"
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini arriva a Roma agli inizi degli anni ’50 dopo aver vissuto varie vicissitudini a Casarsa, luogo in cui fino a quel momento aveva lavorato come poeta prima e pittore poi. La sua è stata una vera e propria fuga dai problemi familiari, economici e di emarginazione legati alla sua omosessualità. A Roma entra in contatto con l’ambiente del cinema grazie a Mario Soldati. Dapprima lavora come attore-comparsa, poi come soggettista e sceneggiatore. Completamente impreparato tecnicamente, nel 1960 matura la decisione di diventare egli stesso regista: "Se mi sono deciso a fare dei film - afferma - è perché ho voluto farli così esattamente come scrivo delle poesie, come scrivo i romanzi". Il suo bisogno nasce principalmente dall’intenzione di voler parlare in un codice diverso: parte dalla consapevolezza della grande crisi storica, sociale e culturale del nostro paese e trova nel codice audiovisivo del cinema il mezzo migliore per poter esprimere poeticamente i suoi temi fondamentali.
Per Pasolini il cinema è strettamente legato alla realtà, ma ciò non deve essere inteso in senso naturalistico. Il suo cinema ha connivenze con la poesia e l’astrazione tanto che lo definirà "cinema di Poesia". Egli, infatti, ci propone attraverso una "sistemazione teorica subspecie semiologica del nuovo cinema in Italia" , una distinzione sostanziale tra "cinema di prosa" che si identifica nel cinema classico, e "cinema di poesia" in cui l’autore-regista svolge un ruolo predominante, esibendo i propri mezzi stilistici. Alla luce di tutto questo, definisce il cinema "lingua scritta dell’azione" poiché il regista a differenza dello scrittore non ha un dizionario al quale attingere e inevitabilmente per poter comunicare dovrà cogliere i segni della realtà che lo circonda. Ma c’è di più: noi tutti viviamo immersi in un mondo in cui vi sono immagini significanti, quelle che Pasolini definisce im-segni, e compito del regista, quindi, è quello di cogliere i suoi im-segni dalla realtà.
Interessante è, in quest’ottica, andare ad analizzare i criteri di scelta degli attori del regista bolognese. "Io ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho, però, sia ben chiaro, una prevenzione totale, e ciò perché non voglio sottoporre la mia attività a delle regole precise […] La mia idiosincrasia dipende dal fatto che un attore professionista è un’altra coscienza che si aggiunge alla mia".
Sicuramente si può dire che Pasolini nella scelta degli attori dei suoi film abbia avuto una certa propensione per la non professionalità: ma tale scelta rientra nella concezione tutta pasoliniana del cinema come esperienza poetica volta a superare costrizioni o regole di ogni sorta. "L’autore deve essere l’unico protagonista con la sua poesia in forma di cinema e lo spettatore deve essere in grado di coglierla. In questo contesto Pasolini chiede ai propri attori non una collaborazione, ma un totale abbandono, di modo che possa plasmare le figure presenti nel film secondo la propria visione".
Da ciò deriva che un attore professionista , essendo di fatto meno "plasmabile" in relazione alle scelte dell’artista-poeta, mal si adatta al cinema di poesia. Nonostante questo, Pasolini, in molti dei suoi film ha lavorato con attori professionisti: ricordiamo la Magnani in Mamma Roma (1962), Silvana Mangano e Massimo Girotti in Teorema (1968), Maria Callas in Medea (1969), Orson Welles in La ricotta (1963). C’è da dire che perlopiù sono state scelte imposte dai produttori che egli non ha gradito molto.
Un discorso a parte va certamente fatto per la scelta di Totò in Uccellacci e uccellini (1965). Lo stesso Pasolini afferma: "La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò al codice, cioè decodificarlo. Qual era il codice attraverso cui si poteva interpretare Totò, allora? Era il codice del comportamento dell’infimo borghese italiano, dell’infima borghesia portata alle sue estreme espressioni di volgarità e aggressività [...] Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi, non fa le boccacce dietro a nessuno".
Pasolini realizza una vera e propria trasformazione di Totò-attore non senza polemiche. Totò, come uomo, risultava un piccolo borghese, ma come artista era inscindibile dalla cultura napoletana sottoproletaria. Egli portava in scena una sorta di cliché di se stesso, il clown, la maschera. Ed è stata proprio questa doppia natura di sottoproletario e insieme semplice clown ad avere spinto Pasolini alla scelta di Totò. Coerente alla sua visione del cinema, il regista ha scelto Totò per come esattamente è, alla stessa maniera di come avrebbe preso un non professionista (elemento che è possibile rilevare nella scelta di Ninetto Davoli). "Quindi quando dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore".
Totò attraverso la collaborazione con Pasolini, dimostra di essere un grande attore: viene chiamato a un ruolo che riesce a svolgere con grande maestria; la stima reciproca che si stabilisce tra attore e regista, farà si che dopo Uccellacci e uccellini del 1965, Totò torni a lavorare con Pasolini anche in altri due episodi, La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole? rispettivamente relativi ai film Le streghe e Capriccio all’italiana, nei quali interpreterà, ancora una volta, ruoli impegnativi e problematici.
Uccellacci e uccellini (1965)
Subito dopo il gran successo di pubblico su scala internazionale de Il Vangelo secondo Matteo, nell’aprile-maggio del 1964 Pasolini ritorna all’opera pubblicando, sul settimanale "Vie Nuove", un soggetto cinematografico strutturato in tre principali episodi, intitolati: L’Aigle, Faucons et Moineaux e Le Corbeau. Qui collegata la pagina di "pasolini.net" in cui è pubblicato il testo originale di Pier Paolo Pasolini ("Vie Nuove", 1965, numeri 17 del 29 aprile, 18 del 6 maggio e 19 del 13 maggio. Il soggetto, se pur rivisto in alcuni punti, rappresenta un'indicazione abbastanza fedele di quella che sarà la struttura definitiva del film. In principio Pasolini aveva pensato Uccellacci e uccellini in tre episodi, ma lo realizzerà come unico film con «dentro» un altro film). Si tratta di tre favole, ognuna con un tema diverso.
L’Aigle racconta di un domatore francese (Monsieur Courneau) che cerca di ammaestrare un’aquila senza riuscirvi: la chiave di lettura di tale episodio è da ricercare nelle critiche che precedentemente erano state mosse, al Vangelo, da Michel Cournot, intellettuale francese e critico della Nouvelle Vague. Nell’episodio Cournot è il domatore esasperato e, l’aquila è il "Terzo mondo", l’irrazionalità che non si lascia "civilizzare" dall’intellettuale laico, convinto che tutto ciò che è difforme debba essere assimilato in relazione ai propri parametri.
In L’Aigle, Pasolini mette a confronto la razionalità e la magia, elementi che si traducono nell’incontro-scontro tra la cultura moderna e la cultura "preistorica" del Terzo mondo. Come afferma Serafino Murri, Pasolini in questo periodo "sembra essere mosso da un terzomondismo un po’ guevariano un po’ sartiano".
Faucons et Moineaux parla di due fraticelli impegnati, su ordine di S. Francesco, a convertire falchi e passeretti alla parola di Dio; riusciti in un primo momento nell’intento rimangono sbalorditi di come poi, nonostante tutto, i falchi continuino a predare i passeri e come nulla possano fare per evitarlo.
Le Corbeau racconta, invece, le vicissitudini di padre e figlio che camminano verso non si sa dove accompagnati da un corvo filo-marxista molto loquace.
Pasolini realizza tutti e tre gli episodi succitati, ma, in sede di montaggio, decide di eliminare il primo e di incorporare il secondo nel terzo come un racconto proferito durante il viaggio dal Corvo. La presenza di Totò ha grande rilevanza nell’intero film: da Pasolini viene utilizzato nei tre episodi come domatore-frate anziano e padre viandante.
Nei primi giorni di lavorazione di "Uccellacci" dilagava una perplessità reciproca tra Totò e Pasolini. Da un lato Totò, a riprese del film inoltrate, non riusciva a capire bene quali fossero le reali intenzioni dell’autore, dall’ altro Pasolini faceva fatica a contenere la personalità dell’attore dal quale non riceveva quel totale abbandono che richiedeva. La stima reciproca che legava i due fece sì che i lavori proseguissero senza intoppi: la situazione migliorò nel corso delle riprese e il film fu terminato.
Innocenti Totò e Innocenti Ninetto, padre e figlio, camminano lungo una desolata e anonima periferia. Entrano nel baretto di una stazione delle corriere. Totò beve qualcosa, Ninetto si scatena con alcuni ragazzi in un ballo moderno suonato dal juke-box.
Se ne vanno. Davanti ad una casa è radunata una piccola folla dall’aria mesta. Totò si ferma incuriosito a guardare. Ninetto va ad incontrare una ragazza, che trova vestita da angelo, mentre si sta preparando a una recita religiosa. Poi torna dal padre, insieme al quale assiste ad uno spettacolo terribile: vengono trasportati in quel momento fuori dalla casa i cadaveri di due coniugi, suicidi, si sussurra nella folla, per disperazione.
Camminando su un’autostrada in costruzione, padre e figlio incontrano un corvo parlante, che chiede se può accompagnarli nel loro viaggio.
Totò e Ninetto accettano la compagnia del corvo, che da questo momento comincia ad assillarli di domande. L’istinto pedagogico spinge il corvo a raccontare un apologo cristiano-marxista: la storia di uccellacci e uccellini.
Secolo XIII. Campagna umbra. Totò e Ninetto sono frate Ciccillo e frate Ninetto. S. Francesco li incarica di evangelizzare gli uccelli. I due frati si incamminano e trovano per primi i falchi.Frate Ciccillo dopo vani tentativi, riesce a trovare finalmente il modo di comunicare con loro. I falchi lo capiscono. Poi tocca ai passeri. Saltellando nel loro linguaggio, Frate Ciccillo predica la pace e l’amore. La missione è compiuta ma all’improvviso un falco assale e uccide un passero sotto gli occhi increduli dei due fraticelli. Tornano da S. Francesco sconfitti e delusi ma il Santo, dopo averli incoraggiati, li invita a ritentare e a riprendere il cammino. Totò e Ninetto continuano a camminare e incontrano nuove avventure. Trasgrediscono le leggi della proprietà privata, assistono allo spettacolo di una troupe di saltimbanchi e, arrivati davanti a un povero casolare, Totò, per nulla impietosito dallo spettacolo di miseria che gli si presenta davanti, minaccia di sfratto i suoi poveri inquilini che da tempo non pagano l’affitto.
Subito dopo Totò e Ninetto giungono in una lussuosa villa per un colloquio con un ingegnere col quale i due hanno dei debiti. Anche qui l’ingegnere non si fa impietosire e gli aizza i cani contro.
Il corvo, assistendo a tutti questi avvenimenti, puntualmente li commenta, con il suo consueto e tedioso moralismo marxista. Totò e Ninetto prendono l’autobus e vanno a Roma dove assistono ai solenni funerali di Togliatti. Lungo la strada incontrano una prostituta, Luna, con la quale fanno l’amore a turno in un campo. Il corvo continua a parlare mentre Totò e Ninetto, stufi e affamati, lo ammazzano e lo mangiano.
Riprendono il cammino. Si allontanano di spalle lungo una strada bianca come nei finali delle comiche di Charlot.
Uccellacci e uccellini s’inserisce in una fase dell’ attività artistica di Pasolini che potremmo definire del "cinema ideologico", di cui avevamo avuto già prova ne Il Vangelo. Ma se in quello, l’attenzione era concentrata sull’ideologia cristiana (predicatoria oseremmo dire), Uccellacci è permeato di ideologia politica, legata al malessere di Pasolini per una società destinata alla deriva, anche per la crisi del Partito comunista italiano.
Tale concezione di cinema s’insinua in un periodo storico (la metà degli anni ’60) che vede la nascita dei cosiddetti "film della crisi" legati alla scomparsa di Togliatti. Il "cinema ideologico" di Pasolini fa da ponte tra la fase del "cinema di borgata" (che comprende Accattone, Mamma Roma e La ricotta) e la fase del "cinema del mito"(che va da Edipo re a Medea).
Nel film si avverte il profondo senso di disillusione che il regista prova nei confronti dei partiti marxisti, italiani e non. Infatti, come egli stesso ha affermato, non intende una crisi del marxismo, ma proprio una crisi dei partiti marxisti. Questa svolta ideologico-politica raggiunge il suo punto di maggiore espressione con la pubblicazione della raccolta Poesia in forma di rosa nella quale possiamo leggere affermazioni come: "La rivoluzione non è più che un sentimento". Per Pasolini oramai sono passati i tempi in cui era possibile sperare in una rivoluzione e, "l’entusiasmo civile per la resistenza antifascista è oramai solo un ricordo".
La morte di tali illusioni coincide, nel film, con i funerali di Palmiro Togliatti: la morte di quella ideologia che il leader del Pci rappresentava. Pasolini monta materiale di repertorio, proponendo quindi i volti realmente disperati di chi assistette alle cerimonie. Senza dubbio, l’autore riesce a connotare di tragicità tale sequenza rendendola la parte più significativa e triste dell’intero film.
E ricostruisce anche particolari significativi da una grande tela di Renato Guttuso (1972, 340x440, MAMbo - Museo di Arte Moderna di Bologna. Il dipinto del maestro siciliano ritrae il corteo che nel 1964 partecipò a Roma ai funerali di Palmiro Togliatti, segretario e leader del Partito comunista Italiano. Al rosso acceso delle bandiere si contrappongono i grigi e i bianchi dei volti dei partecipanti, anacronisticamente mescolati nello stesso evento, quasi a significare che gli ideali sopravvivono agli uomini).
Di certo il pessimismo pasoliniano (perché è di pessimismo che si deve parlare), non è un "pessimismo cosmico leopardiano": spera, in cuor suo, che si possa prima o poi attuare quella "rivoluzione delle coscienze" che permetterebbe di capovolgere la situazione di impasse nella quale la società del periodo pare essersi adagiata.
Alla luce di tutto ciò, quindi, il regista arriva a Uccellacci e uccellini al termine di un processo ideologico individuale che lo vede ormai quasi rassegnato. Egli non può fare altro che constatare che la società che lo circonda è irrimediabilmente destinata ad assecondare il conformismo. Tema centrale quindi è la denuncia alla dilagante omologazione a cui si sta assistendo che produce in Pasolini non solo una crisi ideologica ma anche una crisi espressiva. Ed è proprio su questo che si avvertono le principali conseguenze: per comunicare decide di scegliere la favola, "che è astorica per definizione", quasi a volersi astrarre dal contesto, allontanare dalla realtà.
Pasolini cerca, attraverso il cinema di utilizzare un linguaggio (cinema che egli stesso definirà "linguaggio della realtà"), più legato all’elemento visivo, più metaforico: che inevitabilmente paga dazio alla comprensibilità, ma che aggira l’omologante lingua della borghesia. Ed è per questo che Uccellacci di primo acchito sembra di difficile soluzione, così pregno di metafore, sostrati ideologici e sottili ironie.
I protagonisti di questa "incomunicabilità" sono i protagonisti del film: Totò, Ninetto e il Corvo. E’ facile rendersi conto di come in realtà non venga mai a crearsi un dialogo significativo tra Totò e Ninetto da una parte, e il Corvo dall’altra: sembrano parlare lingue diverse. Totò e Ninetto sono i rappresentanti del proletariato, estranei alla storia e, "Innocenti di cognome e di fatto, camminano ignari verso un avvenire che la dottrina comunista non è più in grado di delineare".
Ma i due protagonisti non hanno solo connotazioni negative, ma portano con sé un bagaglio di speranza: "l’irrefrenabile vitalità di Totò e Ninetto è la sola via possibile per uscire dallo stato d’inerzia causato dalla predicazione ideologica affinché, nuovamente, fioriscano 'i garofani rossi della speranza'". I due hanno fisionomie opposte e al tempo stesso complementari, rimandano a due differenti modi di essere e a due generazioni: il giovane e il vecchio, il romano e il napoletano, il cittadino e il campagnolo. Pasolini decide di utilizzare Totò per cercare di sfruttarne il codice gestuale tipico della maschera comica: è evidente, in tal senso, l’intenzione del regista di connotare di allegria e spensieratezza la figura del sottoproletario.
Il Corvo, invece, "viene da lontano, dal paese Ideologia, abitante nella Città del futuro, in via Carlo Marx, al numero 70 volte 7, figlio del sig. Dubbio e della sig.ra Coscienza" . Ben presto ci rendiamo conto di come il Corvo possa essere considerato il protagonista implicito del film. E’ l’intellettuale marxista, l’incarnazione dell’ideologia, che sta attraversando una profonda crisi: una crisi che sta portando i sostenitori di tali ideologie a ripiegare in comportamenti sempre meno distinguibili da quelli dell’"infima borghesia" a riprova della dilagante omologazione alla quale si sta assistendo. E’ possibile identificare nelle spoglie del Corvo lo stesso Pasolini e la sua ideologia, anche se egli cercò, già in fase di realizzazione, di prenderne le distanze: "Dovevo staccare il marxismo del Corvo dal mio, […] doveva essere cosciente della crisi del marxismo ma con delle ragioni che non fossero strettamente le mie". Il Corvo è "cosciente" della sua fine e cerca di lanciare spunti per un ideologia che rinasca dalla fine del pensiero marxista ed è convinto al tempo stesso della sua "sconfitta pedagogica" nei confronti di Totò e Ninetto (elemento che ritroviamo in chiave metaforica anche nella sconfitta di frate Ciccillo nel suo tentativo di ammaestrare i falchi e i passeretti).
Il "racconto del Corvo", che è possibile considerare come il quinto mediometraggio di Pasolini, può essere interpretato, in chiave metaforica, come l’analisi del tema della lotta di classe, molto caro all’autore. I falchi e i passeretti rappresentano gli sfruttatori e gli sfruttati: ma la connotazione favolistica del film porta, inevitabilmente a una semplificazione binaria del mondo con la distinzione dell’esistenza nel creato di buoni e cattivi, oppressori e oppressi. Ma la denuncia vera e propria nei confronti della società classista che va sviluppandosi, Pasolini la realizza in alcune sequenze centrali del film: Totò dapprima è oppressore nei confronti di poveri contadini, impossibilitati a pagare l’affitto e costretti a tenere a letto i propri figli poiché non possono dar loro da mangiare e, successivamente, è oppresso dai debiti con l’ingegnere e dai cani feroci dello stesso.
Il regista inserisce un nuovo concetto della lotta di classe che abbraccia non solo la dottrina marxista ma anche l’induismo e il cattolicesimo. Nell’episodio del proprietario pestato da Totò e Ninetto, Pasolini, attraverso le parole del Corvo ribadisce il dogma dell’abolizione della proprietà privata senza l’utilizzo della violenza: "Bisogna sempre vincere con la non violenza, come Gandhi!, conciliando la rivoluzione comunista e il Vangelo".
Guardando il film in un’altra ottica, possiamo notare come si vengano a delineare due itinerari: quelli dei bisogni corporei e quelli degli aspetti fisici dell’esistenza. Il primo è un percorso che passa dalle feci alla fame e al sesso, il secondo va dalla nascita alla miseria alla morte. In Uccellacci l’elemento della fisicità è ridondante, si esprime attraverso varie forme: dai dolori al ventre che spingono Totò e Ninetto a defecare, al parto "in diretta" dell’attrice durante lo spettacolo, all’aggressione subita dai pastori tedeschi, fino ad arrivare ai rapporti dei protagonisti con una prostituta e all’uccisione del Corvo. "All’astratto simbolismo delle parole del Corvo influenzate dall’ideologia si contrappone l’impellente materialità del corpo proletario schiavo delle sue necessità".
Ma il viaggio dei protagonisti incrocia tantissimi altri elementi di forza metaforica: Totò e Ninetto percorrono una strada che simboleggia la loro vita, senza uno scopo, senza una destinazione. Il contesto che li circonda è semidistrutto: vi regnano le macerie, createsi in seguito al crollo delle ideologie, che non lasciano speranze di ricostruzione e di rinascita.
Il cielo di tanto in tanto è solcato da aerei rumorosissimi a riprova del crescente e "omologante" progresso al quale si sta assistendo e, gli autobus vengono continuamente persi a simboleggiare l’ormai svanita possibilità di rivoluzione. Lungo le strade sterrate ritroviamo segnali impossibili (come Istanbul Km. 4.253 o Cuba Km. 13.257) attraverso i quali Pasolini fa sentire la presenza del Terzo Mondo e vie improbabili (come via Benito La lacrima Disoccupato o via Lillo Strappalenzuola scappato di casa a 12 anni) "come lapidi alla memoria di personaggi che non ci sono più".
Con Uccellacci e uccellini si chiude, per Pasolini, il sogno di poter parlare a tutti: adotta un linguaggio metaforico e al tempo stesso ironico, un’ironia che s’insinua nella narrazione stessa. Stilisticamente, il film rappresenta una vera e propria svolta nel cinema pasoliniano che fino al Vangelo era stato dominato da una mescolanza di elementi a volte anche contrastanti. "In Uccellacci pervade l’ideologia, scompare il vezzo/vizio/virtù", che lascia spazio ad una surreale comicità.
In molti tratti del film la lingua e lo stile che vengono adottati sono quelli del cinema muto classico: ricordiamo la lotta tra Totò e Ninetto e i contadini del campo o, ancora, la battaglia a torte in faccia. Per Pasolini la vera comicità è quella del cinema muto: quella di Chaplin e di Keaton. Totò gli permette, in questo senso, di recuperare tale comicità, essendo per lo stesso regista "il più vigoroso tra i mimi comici".
Ma Uccellacci ha anche connnivenze con "Francesco Giullare di Dio" di Rossellini nonostante Pasolini constatasse che il neorealismo non doveva essere considerato come una "rigenerazione" del cinema ma come una vera e propria "crisi vitale".
Pasolini definirà questo suo nuovo modo di fare cinema "cinema d’èlite": egli si rivolge non alla tipica èlite d’intellettuali ma ad un’èlite che è la massa che necessita di essere disomologata.
Con Uccellacci prende avvio una proficua collaborazione del regista con Ennio Morricone, il quale musicò buona parte del film e collaborò per molti altri film successivi. Oltre a realizzare un blues rielaborò due opere mozartiane tratte dal "Flauto Magico" (duetto Papageno-Pamina e Aria di Sarastro) e la canzone partigiana di origine russa, Fischia il vento.
L’opera di Pasolini ebbe parecchi problemi dal punto di vista giudiziario. La censura ne vietò la visione ai minori di diciotto anni (solo in seguito si ebbe una riduzione del decreto ai minori di quattordici). Ma la critica più veemente venne proprio da quella sinistra italiana che non tollerò l’atteggiamento disfattista dell’autore e che portò a una completa rottura tra lo stesso Pasolini e il Pci.
Quasi contemporaneamente, però, il film fu presentato a Cannes dove fu accolto con trionfo e dove Totò ricevette una menzione speciale per la sua interpretazione. Da molti definito film unico della cinematografia italiana, Uccellacci e uccellini se pecca di qualcosa pecca di complessità ideologica, come afferma lo stesso Pasolini: "L’atroce amarezza dell’ideologia sottostante al film […] ha finito forse col prevalere e, evidentemente […] tale amarezza mi ha impedito di vedere le cose e gli uomini con lo sguardo allegro e leggero del perdono".
La terra vista dalla luna
Già durante le riprese di Uccellacci e uccellini Pasolini pensa alla possibilità di una nuova collaborazione con la strana coppia Totò - Ninetto Davoli.
Dapprima studia la realizzazione di un Pinocchio (in cui Totò avrebbe dovuto svolgere "stranamente" il ruolo di Geppetto e, Ninetto Davoli quello del burattino di legno), poi pensa di girare un intero film (Che cos’è il cinema?) suddiviso in quattro episodi: Che cosa sono le nuvole?, La Terra vista dalla luna, Le avventure del Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo, e Mandolini.
Ma nel 1966, Dino De Laurentiis gli offre la possibilità di girarne due in altrettanti film: Le Streghe e Capriccio all’italiana. Egli accetta ma il progetto originario non verrà mai più prodotto; non verranno realizzati né il terzo né il quarto episodio.
In Le Streghe gli altri episodi sono girati da Rosi (La siciliana), Bolognini (Senso civico), Visconti (La strega bruciata viva) e De Sica (Una serata come le altre). Nel suo episodio Pasolini è chiamato a trattare un argomento che potremmo definire inusuale per lui: la figura della donna-strega. Decide di rielaborare un racconto fiabesco intitolato Il buro e la bura al quale aggiunge un inizio e una fine. Il racconto narra di un uomo e di suo figlio che cercano una moglie/madre che si prenda cura di loro in sostituzione della precedente defunta.
Il regista comincia le riprese de La terra vista dalla luna nel novembre del 1966 e avverte: "si tratta di una favola surreale e comica […] una storia fuori dal tempo e come qualsiasi storia surreale, s’imparenta con la stregoneria".
Ciancicato Miao e suo figlio Baciù vivono in una borgata fuori dal tempo, dove le baracche sono multicolori e fantastiche come nei fumetti. Rispettivamente vedovo e orfano, piangono addolorati sulla tomba fresca della moglie e madre Crisantema, appena sepolta. Ma i due si rendono conto di non poter fare a meno di una donna e decidono di trovarne un’altra che piaccia a entrambi. Per diversi motivi la vedova, la prostituta e il manichino, che incontrano successivamente, non soddisfano le loro aspettative. Solo in Assurdina Caì, una sordomuta, Ciancicato e Baciù trovano la moglie-madre ideale. Si celebra il matrimonio. Arrivati a casa Assurdina, da perfetta massaia trasforma una disordinata baracca in una bellissima casetta da fiaba. Ma Ciancicato e Baciù non si accontentano e desiderano una casa più accogliente e spaziosa pur non avendo i soldi è per acquistarla. Allora organizzano un piano: Assurdina finge un tentativo di suicidio mentre padre e figlio, a Roma al Colosseo, cercano di impietosire i passanti e di raccogliere una colletta. Ma due strani turisti si arrampicano sul Colosseo, gettano una buccia di banana,e Assurdina scivolando cade di sotto.
Ciancicato e Baciù piangono disperati, ma al ritorno alla baracca Assurdina è lì vestita da sposa che li attende. Assurdina, muta è silenziosa è morta, ma si comporta come se fosse viva: una moglie-madre perfetta. Tutto è come prima. Ciancicato e Baciù sono felici. "Morale:- spiega la didascalia - essere vivi o essere morti è la stessa cosa".
"Visto dalla luna, questo film che s’intitola appunto La terra vista dalla luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla terra sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Paolo Pasolini".
In un primo momento, La terra vista della Luna, ci appare come la continuazione di Uccellacci e uccellini. Lasciati Totò e Ninetto, nel film precedente, lungo la strada, in un finale tutto chapliniano, li ritroviamo in vesti diverse in una società che potremmo definire inserita nel "dopo storia". Ma, ben presto, ci rendiamo conto che l’elemento ideologico, che aveva caratterizzato gran parte di Uccellacci, qui viene tenuto maggiormente a bada, facendo in modo che rimanga nella penombra del racconto. Ma sembra che non vi riesca del tutto: in una sequenza dell’episodio, Totò/Ciancicato afferma: "La vita è un sogno e gli ideali stanno qua (sotto la suola delle scarpe)". Alle prese con la "surrealtà" e con la "comicità", il regista bolognese aveva come primo obiettivo quello di formulare un nuovo linguaggio, "il linguaggio filmico", meno logico e comprensibile ma che al tempo stesso sfuggisse al "senso comune" e all’interpretazione omologante. Alla stessa maniera di come avveniva in Uccellacci, in La terra vista dalla Luna vi è "incomunicabilità" tra i personaggi: emblematici sono, in tal senso, il mutismo di Assurdina e gli sforzi di Totò/Ciancicato, costretto a movimenti da marionetta, pur di farsi capire.
Ma la vera grande novità del film è l’utilizzo del colore. "Proprio il colore, composto da tonalità accese ed evidenti contrasti, è la chiave espressiva dove risulta più evidente la sperimentazione pasoliniana". Egli cerca di fornire un nuovo punto di vista: una visione che superi la maniera comune di vedere le cose, una sorta di sguardo alieno: non a caso La terra vista dalla luna. Proprio l’utilizzo delle tonalità accese per primo comunica la connotazione favolistica dell’episodio. La folla grigia, che si accalca sotto il Colosseo quasi ad attendere il suicidio di Assurdina, rappresenta la società senza più individualità, uniformata dalla testa ai piedi. L’utilizzo dei colori richiama l’espressionismo che ha contraddistinto buona parte del cinema pasoliniano e che raggiunge qui la sua massima espressione.
Il contesto in cui i personaggi si muovono è caratterizzato da "paesaggi cromaticamente assurdi" quasi completamente deserti e privi della presenza umana. Totò/Ciancicato e Ninetto/Baciù vivono in un mondo che si potrebbe definire un "Terzo Mondo" all’interno dell’occidente. Pasolini si riferisce a quel Terzo mondo culturale, rappresentato dalla massa che è inconsapevole della sua sorte. Questa visione è arricchita dalla presenza di due turisti pronti a fotografare ogni aspetto dello squallore che li circonda: rappresentano la società dei consumi, l’industria culturale di massa. I due turisti causeranno la morte/non morte di Assurdina con la loro sete di scatti.
Ma La terra vista dalla luna fonda il suo significato principale sulla dicotomia vita-morte. "La vicenda è ridotta ai termini elementari e fondamentali dell’esistenza umana". Ma, in questo mondo "fuori dal mondo" (lunare possiamo dire), anche questa dicotomia viene superata: "Nessun personaggio può morire, per il semplice fatto che è già morto e appare ormai solo filmicamente come pura immagine e finzione narrativa".
In un’altra ottica, Pasolini analizza e discute, nel film, la condizione della donna in una società siffatta. Assurdina rappresenta il vero e proprio desiderio maschilista in persona: una donna bella, brava nelle faccende di casa, che sappia cucinare e che, perdipiù, non dica nulla. E, quindi, non è importante che sia viva o morta, ciò che conta è che continui a svolgere i suoi compiti di brava moglie-madre. Pasolini ci offre nel suo episodio una "strega" completamente inedita, che è ben lontana dal tipico cliché (e non vi erano dubbi) della strega-donna cattiva e spietata.
La morale, esplicitata da una didascalia finale, afferma: "Essere morto o essere vivi è la stessa cosa". Tale affermazione, tratta dalla filosofia indiana, non vuole essere solo e semplicemente critica e pessimistica, ma nasconde un’esortazione da parte dello stesso Pasolini: bisogna ricominciare a comunicare, innalzare gli ideali e le ideologie che stanno "sotto le suole delle scarpe", "essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette".
Senza dubbio in La terra vista dalla luna Pasolini si rifà, ancora più scopertamente di quanto non fosse avvenuto in Uccellacci e uccellini, al cinema muto di Chaplin. In questo episodio fa ancora più utilizzo, rispetto al precedente, delle immagini accelerate e delle gag clownistiche di Totò: il suo sembra un vero e proprio omaggio a Charlot.
Nonostante la centralità del ruolo della Mangano, Totò può essere considerato il protagonista del film: egli reindossa i panni del clown sfruttando la comicità che aveva contraddistinto le sue origini artistiche e, a distanza di anni, pare non essere affatto a disagio.
La terra vista dalla luna fu girato quando Pasolini già stava lavorando all’Edipo re e ancora una volta, come già era successo per Uccellacci, fu vietato ai minori di diciotto anni. Tornato dal Marocco, Pasolini, ritornerà ancora a lavorare con la coppia Totò-Ninetto per l’altro episodio in programma: Che cosa sono le nuvole?
Che cosa sono le nuvole?
Tra marzo e aprile 1967 Pasolini, appena tornato dal Marocco, è già al lavoro per la realizzazione del secondo episodio promesso a Dino De Laurentiis. Il film nel quale s’inserisce Che cosa sono le nuvole?è Capriccio all’italiana: ennesimo film della grande produzione di pellicole a episodi che ha caratterizzato quel periodo. Al film prendono parte vari registi di spessore come: Steno nell’episodio Il mostro della Domenica, Bolognini in Perché e La gelosa, Monicelli ne La bambinaia e Zac in Viaggio di lavoro. Pasolini girò il suo cortometraggio nell’arco di una settimana, utilizzando oltre al duo Totò-Ninetto, attori come Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e l’amico-scrittore Francesco Leonetti.
Tutto si svolge all’interno di un teatro, prima della messa in scena dell’Otello di Shakespeare: alle pareti sono affissi i quattro manifesti degli spettacoli in programma, si tratta, in realtà, dei quattro titoli dei progetti di film comici che Pasolini ha in mente in quel periodo che campeggiano su altrettanti capolavori di Velásquez. Sulla locandina che riproduce "Il nano don Diego de Acedo detto El Primo" è presente il titolo: La terra vista dalla Luna; sulla riproduzione de "Il principe Baltasar Carlos con un nano", il titolo Mandolini (film che avrebbe dovuto contenere una serie di sketch comici interpretati da Totò e Ninetto); e infine, sul manifesto che ritrae il "Filippo IV", il titolo Le avventure del Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo (che si trasformerà negli anni successivi nel progetto del Porno-Teo-Colossal).
Il cartellone de La terra vista dalla luna giace a terra, strappato, a indicare uno spettacolo che ha già avuto luogo. "Prossimamente" e "Domani" annunciano rispettivamente Mandolini e Re Magio Randagio. Escludendo La terra vista dalla luna nessuno di questi progetti di pellicole comiche fu realizzato: solo Sergio Citti nel 1996 realizzerà I Magi randagi.
Sul manifesto che indica lo spettacolo di "Oggi" ritroviamo su "Las Meninas" del pittore di Siviglia, il titolo Che cosa sono le nuvole?. "Las Meninas" può essere considerata una delle opere più importanti della storia dell’arte proprio per la sua carica innovativa. Essa viene considerata come il primo caso di mise in abyme (o struttura in abisso), che consiste nel prendere come punto focale dell’opera la creazione artistica, ovvero la rappresentazione nel suo realizzarsi, nel suo farsi. Quindi notiamo, come l’opera di Velásquez si leghi alla "rappresentazione nella rappresentazione" dell’Otello di Shakespeare che propone Pasolini. Detto questo, ecco la storia del film.
In uno scalcinato teatrino di periferia va in scena l’Otello di Shakespeare recitato dai burattini. L’azione è incentrata sulla gelosia di Otello provocata ad arte dal malvagio Jago, il suo cattivo consigliere.
Fuori scena il burattino Otello, che è appena nato (è stato appena costruito) e non conosce ancora il mondo, poco convinto del suo ruolo, chiede spiegazioni al burattino Jago, che gli risponde: "Siamo in un sogno dentro un sogno". La vicenda si sviluppa in scena come nella tragedia shakespeariana.
Quando Otello, costretto dal suo destino di burattino-attore e dall’odio che deve per forza recitare, sta per uccidere Desdemona, gli spettatori non trattengono la loro ira e, per salvare la povera fanciulla innocente, saltano sul palcoscenico e lo ammazzano insieme al malvagio Jago. Nello sgabuzzino-camerino gli altri burattini piangono addolorati la morte dei loro compagni. Arriva l’immondezzaro, carica sul suo camion i due burattini-cadaveri, li trasporta alla discarica e li butta via. Nel mondo reale i due burattini si rendono conto della "straziante, meravigliosa bellezza del creato!"
Con Che cosa sono le nuvole?, Pasolini decide di abbandonare definitivamente la trattazione ideologica (seppure in alcuni casi ceda alla tentazione), che già abbondantemente è stata utilizzata in Uccellacci prima e, in toni più sommessi in La terra vista dalla luna poi, lasciandosi andare alla pura creazione poetica.
All’interno dell’episodio i personaggi svolgono senza dubbio un ruolo importante; i più rappresentativi sono: Jago/Totò, che nel film svolge il ruolo del saggio che aiuta Otello/Ninetto nella ricerca di se stesso nel mondo reale, del senso della sua esistenza e, Otello/Ninetto appunto che, appena creato, è costretto a recitare in una tragedia che non conosce con un copione che non ha mai studiato. Sembra che sia spinto da una forza sovrannaturale che lo spinge a dire parole e a fare gesti che non condivide e che anzi egli stesso respinge. Ben presto Otello, con l’aiuto di Jago, si rende conto di non vivere nella realtà ma in una rappresentazione di essa in cui tutti gli altri burattini, come lui, sono costretti a svolgere azioni decise da qualcun altro per loro.
Inevitabilmente, vivendo in un "mondo nel mondo", gli stessi protagonisti hanno a che fare con due Dei: un Dio-marionettista che "regge le fila della rappresentazione" e che risponde alle domande con il "forse" e un Dio-autore che, seppur interpretato da Francesco Leonetti (lo stesso che aveva dato voce al corvo di Uccellacci), s’identifica nello stesso Pasolini. Infine vi è l’immondezzaro (interpretato da Domenico Modugno) Caronte di anime-inanimate traghettate al mondo reale. L’unica maniera per poter assaporare la "straziante meravigliosa bellezza del creato" è quella di morire per poter rinascere, ma solo per pochi attimi, quegli attimi che permettono a Jago e Otello di scoprire le nuvole. "Otello- Iiiiiih, che so’ quelle? / Jago- Sono…sono…le nuvole… / Otello- E che so’ le nuvole? / Jago- Boh! / Otello- Quanto so’ belle! Quanto so’ belle! / Jago- Oh, straziante meravigliosa bellezza del creato!"
E poi c’è il pubblico che decide di venir fuori dal suo ruolo e intervenire sulla scena per evitare che la tragedia si compia, regalando alla rappresentazione un finale diverso da quello che Shakespeare aveva pensato. Irrompe sul palco, impedisce a Otello di uccidere Desdemona, e dopo aver eliminato Jago e Otello, porta in trionfo Cassio. Rileviamo qui una doppia citazione di Pasolini, una riferita alle sceneggiate a cui il pubblico prendeva spesso vivacemente parte e l’altra a Don Chisciotte che, per correre in aiuto del valoroso Don Gaiferos, salì sul palcoscenico per fare strage di burattini.
Pasolini, in questa maniera, ritrae ancora una volta il pubblico/massa ignorante e inconsapevole che non è in grado di accettare qualsiasi evento esca dai canoni dell’ "etica borghese": questa interpretazione ci permette quindi di rilevare ancora una volta la sua insoddisfazione nei confronti della società, e d’individuare alcuni cenni della sua denuncia alla dilagante omologazione, già ampiamente trattata in Uccellacci.
Quindi, i personaggi di Che cosa sono le nuvole?, seppur marionette, sono in grado di provare emozioni alla stessa maniera degli esseri umani: hanno paura quando vengono trasportati alla discarica, piangono quando qualcuno di loro muore, rimangono estasiati dalla bellezza del mondo reale. Non hanno urgenti bisogni fisici come i personaggi delle due pellicole precedenti, ma bisogni morali. Ma se i nostri attori vivono una rappresentazione nella rappresentazione (o in un "sogno nel sogno" come afferma Jago/Totò), se hanno due Dei ai quali rivolgersi, allora vivono una doppia vita e una doppia morte al tempo stesso. Ed è qui che ritroviamo, forse con maggiore evidenza, la dicotomia vita-morte, già analizzata in La terra vista dalla luna. Lo stesso Pasolini, obbligato a indicare i rapporti che legano i due episodi afferma che, oltre allo stile comico-picareso che contraddistingue entrambi, un punto fondamentale d’incontro è quello che riguarda la definizione de "l’ideologia della morte": "Quell’ideologia che fa corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella disperata vitalità che assume valore e significato solo grazie al mistero del suo avere fine". In quest’ottica Pasolini ritrae la vita come un viaggio senza senso e la morte come nascita, come recupero del senso della vita.
Ma c’è un altro aspetto che lega Che cosa sono le nuvole? al cortometraggio precedente, ed è l’utilizzo del colore: la stranezza cromatica contraddistingue anche quest’ultima opera del regista bolognese. Jago, completamente colorato di verde dimostra la falsità dei personaggi nel loro non essere umani. Sicuramente il colore (utilizzato con la sapienza degli artisti) ha permesso a Pasolini d’incrementare l’espressività dei suoi film.
Per quanto riguarda le musiche utilizzate nell’episodio c’è da dire che, dopo la collaborazione con Ennio Morricone, che aveva caratterizzato le due pellicole precedenti, in Che cosa sono le nuvole? Pasolini realizza con Modugno una canzone (dallo stesso titolo del film) scritta dal regista bolognese e musicata e interpretata dal cantante polignanese: i due si ritrovano dopo l’esperienza di Uccellacci, quando Modugno aveva cantato i titoli di testa.
Pasolini dopo questo episodio per i suoi film successivi è pronto a dar vita a una vera e propria rivoluzione linguistica, che avrà inizio con la poetica dell’immagine, "sciolta dai legami logici, sbilanciata sul versante delle pure emozioni". Il suo primo tentativo sarà Edipo re, film che aveva già cominciato a girare in contemporanea con l’episodio trattato.
Con Che cosa sono le nuvole? si chiude la trilogia comica di Pasolini nata con Uccellacci e uccellini, consolidatasi con La terra vista dalla luna, e ha fine la collaborazione Pasolini/Totò/Ninetto a causa della morte del secondo che avverrà un mese dopo la fine delle riprese. Totò, quindi, non farà mai in tempo a vedere il suo ultimo lavoro: "La morte del burattino Jago si sovrappone a quella del principe dei comici: entrambi abbandonano le assi del palcoscenico, i fili tagliati da una Parca crudele". La morte di Totò interrompe, quindi, quel rapporto di collaborazione con Pasolini che finalmente aveva intrapreso i binari giusti. Egli era entusiasta del lavoro che stava svolgendo, proprio perché Pasolini gli permetteva di recuperare quella comicità dei primordi, quella del clown e del burattino. Alla luce di questo Pasolini abbandona definitivamente l’ambito grottesco-picaresco e, Che cosa sono le nuvole? rimarrà l’ultimo episodio del ciclo comico da egli stesso progettato.
Totò nelle parole di Pier Paolo Pasolini
Dicono che Totò fosse principe. Una sera che eravamo a cena insieme diede una mancia di ventimila lire a un cameriere. Di solito i principi non danno simili mance, sono molto taccagni. Se Totò era principe, era dunque un principe molto strano. In realtà conoscendolo risultava un piccolo borghese, un uomo di media cultura, con un certo ideale di vita piccolo borghese. Come uomo. Ma come artista, qual è la sua cultura? La sua cultura è la cultura napoletana sottoproletaria, è di lì che viene fuori direttamente. Totò è inconcepibile al di fuori di Napoli e del sottoproletariato napoletano.
Come tale Totò legava perfettamente con il mondo che io ho descritto, in chiave diversa perché il mondo da me descritto era in chiave comica e tragica, mentre Totò ha portato un elemento clownesco, da Pulcinella, però sempre tipico di un certo sottoproletariato che è quello di Napoli. Un comico esiste in quanto fa una specie di cliché di se stesso, egli non può uscire da una certa selezione di sé che egli opera. Nel momento in cui ne uscisse non sarebbe più quella figura, quella silhouette che il pubblico è abituato ad amare e conoscere e con cui ha un rapporto fatto di allusioni e di riferimenti.
Anche Totò ha fatto il cliché di Totò, che è un momento inderogabile per un comico per esistere. Entro i limiti di questo cliché, i poli entro cui un attore si muove sono molto ravvicinati. I poli di Totò sono, da una parte, questo suo fare da Pulcinella, da " marionetta disarticolata "; dall'altra c'è un uomo buono, un napoletano buono starei per dire neorealistico realistico, vero. Ma questi due poli sono estremamente avvicinati, talmente avvicinati da fondersi continuamente. È impensabile un Totò buono, dolce, napoletano, bonario, un po' crepuscolare, al di fuori del suo essere marionetta. È impensabile un Totò marionetta al di fuori del suo essere un buon sottoproletario napoletano.
Il problema del rapporto tra regista e attore è un tasto molto delicato. Non voglio certo pretendere di risolverlo qui. Quando dicevo che ogni comico oggettiva se stesso in una specie di figura assoluta, stilizzata, di cliché di se stesso, volevo dire che l'attore comico crea se stesso, inventa se stesso, quindi compie un'operazione poetica, artistica, di carattere e livello estetico e non semplicemente comunicativo e strumentale. E quindi nel momento in cui Totò ha creato e inventato se stesso ha continuato sempre a inventarsi; la sua opera di inventore continua, non cessa nel momento in cui si inserisce dentro l'invenzione di un altro. Praticamente il Totò in un film mio o in un film di un altro regista è inscindibile dal film; teoricamente invece lo è, si può scindere, e si può trovare dentro la creazione del regista il momento creativo dell'attore. Evidentemente egli è sempre inventore, è sempre un creatore, sempre un artista in qualsiasi film si trovi. Se lo si trova nel film di un autore, è difficile capire qual è il momento suo dell'invenzione, se invece lo si trova in un film mediocre o addirittura in un film brutto, allora invece questa operazione è molto più facile. Si scopre immediatamente il momento creativo di Totò, e lo si gode di più. Il recupero che viene fatto oggi di Totò mi sembra un recupero puramente casuale, che non ha altro senso che quello di proporre alla volgarità degli anni Settanta la volgarità degli anni Cinquanta. Sono convinto che i film che ha fatto Totò durante gli anni Cinquanta sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua, perché in questo caso bisogna ipotizzare una dissociazione assolutamente netta, precisa, drastica, tra autore del film e attore. In quanto attore Totò si è autocreato ed è vissuto autonomamente, ma i film che ha fatto sono oggettivamente brutti. Se ne salvano alcuni, ma non sono quelli del recupero attuale. Si recuperano i brutti film di Totò perché sostanzialmente nulla è cambiato, e anzi probabilmente quanto a volgarità e a sottocultura gli anni Settanta non hanno nulla da invidiare agli anni Cinquanta. In realtà non c'è stato un caso Totò negli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta Totò è stato uno dei tanti prodotti, una delle tante merci che si sono consumati quasi senza accorgersene, non è stato un caso di cultura. Perché negli anni Cinquanta c'erano altri problemi, altri casi molto più interessanti, più vivi, più reali, anche se come tutte le cose umane naturalmente oggi superati. Invece oggi Totò è una scoperta, che ha carattere di una scoperta cosiddetta culturale, mentre secondo me non lo è. Il che significa che negli anni Settanta si sono scatenate delle forze, degli interessi che erano rimasti sopiti allora e che esplodono adesso. Nel mio film io ho scelto Totò per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una parte c’è il sottoproletariato napoletano, e dall’altra c'è il puro e semplice clown, il burattino snodato, l'uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che l'ho usato. Nel mio film Totò non si presenta come piccolo borghese, ma come proletario o come sottoproletario, cioè come lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il non accorgersi della storia dell'uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali. lo uso attori e non attori. Praticamente mi comporto con loro nello stesso modo, li prendo per quello che essi sono, non m'interessa la loro abilità. Se prendo un non attore, lo prendo per quello che lui è. Mettiamo Ninetto Davoli. Non era attore quando ha cominciato a recitare con Totò, e l'ho preso per quello che era, non ne ho fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto di Totò. Naturalmente un attore porta in questa operazione la sua coscienza e magari anche la sua opposizione al fatto di essere usato per quel brano di realtà che lui è. Molte volte non lo accetta, allora resiste, ecc. Ma sostanzialmente il risultato espressivo finale non tiene conto degli apporti professionali di un attore, ma di quello che l'attore è, anche in quanto attore. Quando dico che prendo una persona per quello che è intendo soprattutto come uomo. Nel fondo di Totò c'era una dolcezza, un atteggiamento buono e al limite qualunquistico, ma di quel tipico qualunquismo napoletano che non è qualunquismo, che è innocenza, che è distacco dalle cose, che è estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi quando io dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore.
La mia ambizione in Uccellacciè stata quella di strappare Totò dal codice, cioè di decodificarlo. Com'era il codice attraverso cui uno poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento dell'infimo borghese italiano, della piccola borghesia portata alla sua estrema espressione di volgarità e aggressività, di inerzia e di disinteresse culturale. Totò innocentemente faceva tutto questo facendo parallelamente, attraverso quella dissociazione di cui parlavo prima, un altro personaggio che era al di fuori di tutto questo. Però evidentemente il pubblico lo interpretava attraverso questo codice, allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna su questo modo di interpretare Totò. E ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo ghignare, tutto il suo fare gli sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente dal mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi. Non fa le boccacce dietro a nessuno. Sfotte leggermente qualcuno, ma come un altro potrebbe sfottere lui, perché è nel modo di comportarsi popolare quello di sfottere qualcuno, ma è una sfottitura leggera e mai volgare. Quindi come prima cosa ho cercato di decodificare Totò, e avvicinarlo il più possibile alla sua vera natura, che veniva fuori in quel modo strano che dicevo. Una volta fatto questo, l'ho opposto in quanto protagonista all'intellettuale marxista ma borghese. Ma è un antagonismo che sta nelle cose, non sta in Totò o nel corvo che fa l'intellettuale, sta nelle cose. Che cosa ho opposto? Ho opposto un personaggio innocente fuori dall'interesse politico immediato, cioè fuori dalla storia, a chi invece fa della politica il suo vero e più profondo interesse e vive in quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura, innocenza a storia. Il rapporto di Totò con il dialetto è molto realistico. Totò ha probabilmente deciso sin dalle origini di non essere un attore dialettale napoletano, come in un certo senso, Eduardo De Filippo e i tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attore dialettale, di origine napoletana, ma non strettamente napoletano. La sua lingua è stata una specie di mimesi del dialetto o del modo di parlare del napoletano, del meridionale, emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica, di lingua militaresca, di modi di dire dei vari gerghi del parlare comune, per esempio quello sportivo, mettiamo. Nell'uso che io ho fatto di Totò ho eliminato tutto questo, ho eliminato le parole dette fra virgolette, le citazioni burocratiche o militaresche o sportive, e gli ho dato un linguaggio che non è un linguaggio puramente dialettale, mettiamo o il napoletano o il romano, ma un misto dei due. È la lingua che può parlare un immigrato meridionale che vive da venti, trent'anni a Roma e quindi ha perso le sue caratteristiche linguistiche mescolandole con le nuove.
(Pier Paolo Pasolini, 1973)
Totò biografia: l'ultimo incontro
L’incontro con Pier Paolo Pasolini è tra i più inattesi e sorprendenti dell’intera biografia artistica del grande attore, oltre che uno dei più produttivi sul piano creativo. Quando Pasolini va a casa di Totò per incontrarlo, con un’umiltà che pochi altri avevano avuto prima di lui, è già uno scrittore famoso attorno al quale c’è aria di scandalo. Se ne era andato da Casarsa, dove faceva l’insegnante, quando alla vigilia delle elezioni del ‘48 un ragazzo aveva confessato al parroco di aver avuto rapporti con lui. Venuto a Roma con la madre, aveva fatto la fame prima di cominciare a lavorare a qualche sceneggiatura. Il suo primo grande successo letterario l’aveva ottenuto a metà anni Cinquanta con Ragazzi di vita e Una vita violenta, il dittico delle borgate che aveva raccontato la realtà “diversa” del sottoproletariato romano. Poeta incoronato al Premio Viareggio, dopo Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo aveva pubblicato Poesia in forma di rosa, di cui Totò conosceva a memoria Supplica a mia madre che l’aveva molto colpito. Il passaggio al cinema aveva rivelato un autore di grandi qualità con film notissimi come Accattone,Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo. Sul settimanale «Vie Nuove» - dove tiene una rubrica di corrispondenza con i lettori in cui, dialogando soprattutto con i giovani, interviene nel dibattito politico e culturale contemporaneo - ha appena pubblicato il soggetto del film che comincerà a girare nell’ottobre e che s’intitolerà Uccellacci e uccellini. Il primo impatto tra il principe e lo scrittore non è esaltante. Pasolini è scortato da Ninetto Davoli, che nel film sarà il figlio di Totò. Ninetto, riccioluto come una pecorella, non fa ancora l’attore, indossa un vecchio paio di jeans sporchi e stinti. Gli sembra un sogno essere lì con Totò, di cui aveva visto tutti i film, stare vicino a un mito. Non appena lo vede sbotta a ridere, nonostante le gomitate di Pier Paolo, che gli dice: «Oh, sta’ bono, carmate».
Si mettono in poltrona per prendere il caffè in attesa che si avvii una discussione che stenta a decollare. Lo scontro tra timidi consente appena di parlare, tra le lunghe pause di imbarazzato silenzio, del progetto del film che dovrebbero cominciare di lì a poco. Quando si congedano, il principe non può trattenere un respiro di sollievo e spruzza dell’insetticida sul posto occupato da Ninetto. I jeans zozzi gli fanno senso, non li sopporta proprio. In realtà non condivide neppure la stessa moda dei jeans che considera un caso di esterofilia. Ma che almeno siano puliti, di bucato. E non può non ricordare che nei tempi eroici degli inizi aveva solo due camicie, non poteva permettersi di più, ma andavano e venivano dalla lavanderia di continuo, come treni su un binario. Sul set le cose andarono molto meglio, soprattutto tra Totò e Ninetto che stavano sempre assieme e si erano molto immedesimati nei ruoli di padre e figlio. Il principe aveva preso in simpatia quel ragazzone allegro che aveva sempre fame e non si sentiva per niente intimidito di fronte a lui. Lo aiutava nel lavoro, porgendogli la battuta, mettendosi d’accordo su come risolvere un’azione, mettendolo a parte dei suoi ricordi e dei suoi umori nelle lunghe pause tra una ripresa e l’altra in cui qualche volta si metteva a cantare o recitava A livella. La disinvoltura di Ninetto favorì anche i rapporti tra Totò e Pier Paolo, che continuavano a darsi del lei e a trattarsi con reciproca deferenza, imprigionati nella loro timidezza. Ma la diffidenza del primo incontro è ormai superata. Il principe ha la massima fiducia nel regista, nella sua preparazione e nella sua cultura, gli si affida completamente da quando ha capito che sta facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno aveva fatto prima con lui. Quando una sera, rincasando stanco e infreddolito dopo una giornata di lavoro, Totò dice che Pierpa’ gli ha fatto ripetere una scena soltanto due volte, si capisce che il sodalizio cinematografico si è trasformato in amicizia. Il film viene girato tra ottobre e dicembre nella campagna vicino a Roma, a Cecafumo, nella borgata di Torre Angela, all’Acqua Santa, all’Alberone, al Tiburtino, alla Pontina, alla Fiumara di Fiumicino. Il principe non si tira indietro e affronta le scene più faticose, cammina nel fango, affonda nella melma i pesanti zoccoli di legno coperto soltanto da un saio di sacco che lascia passare il freddo e il vento da ogni parte.
L’episodio francescano dell’evangelizzazione degli uccelli viene girato nella campagna vicino a Tuscania, tra i boschi, ed è particolarmente faticoso. Ci vogliono ventisette ore di riprese per fare le tre inquadrature di Totò con gli uccelli sugli alberi, sempre con il saio di sacco e i tremendi zoccoli di legno ai piedi. L’unico problema fu il corvo ammaestrato che durante tutta la lavorazione ce l’aveva con gli occhi di Totò e cercava di beccarlo proprio lì. Naturalmente, Totò se ne preoccupava moltissimo perché da anni il suo problema erano proprio gli occhi. Fu necessario mettere del nastro isolante nero sul becco dell’uccello, in modo che, così impastoiato, non tentasse più di beccare nessuno. Naturalmente quand’era lontano o stava a terra il nastro gli veniva tolto, ma Totò, che ci vedeva così poco, non se ne accorgeva e con un po’ di apprensione continuava a chiedere: «Quella bestia, che fa quella bestia?». Il corvo è destinato a fare una brutta fine anche nella storia del film, che comincia con Totò e Ninetto, padre e figlio, che si aggirano per le borgate. Il loro viaggio non ha un vero e proprio inizio né una vera e propria fine. Camminano, parlano tra loro della vita e della morte, si imbattono in una coppia di suicidi e in una ragazza-angelo, senza meravigliarsi di nulla da quegli innocenti che sono. Né li sorprende l’arrivo di un corvo parlante che dice di venire dal paese di Ideologia e di essere figlio del Dubbio e della Coscienza. Il corvo racconta ai due un apologo del Milleduecento, in cui Totò è frate Cicillo e, insieme a frate Ninetto, predica agli uccelli. Solo dopo una lunga, snervante attesa riesce a trovare il modo di parlare ai falchi e a trasmettere loro il messaggio evangelico. Altrettanto lunga e faticosa è l’attesa per evangelizzare i passeri, con cui riesce finalmente a comunicare grazie a una serie di saltelli.
Nonostante la predicazione, alla prima occasione i falchi si buttano sui passeri e li sbranano. Allo sconcerto di fra’ Cicillo e di fra’ Ninetto, San Francesco risponde che il mondo bisogna cambiarlo e li invita a ricominciare tutto daccapo. Totò e Ninetto, ridiventati sottoproletari di oggi, si comportano da falchi sfrattando una povera contadina e da passeri quando si prostrano, in veste di debitori insolventi, davanti a un signore che aizza loro contro i cani, mentre nel salotto i suoi ospiti sfoggiano le raffinatezze culturali degli intellettuali. Totò e Ninetto incrociano per qualche momento i funerali di Togliatti e poi proseguono come prima senza sapere dove stanno andando. Padre e figlio non respingono una prostituta di nome Luna che trovano sul loro cammino. Ammazzano infine il corvo saccente e se lo mangiano prima di continuare il viaggio. Uccellacci e uccellini deve molto della sua straordinaria forza poetica e della sua duratura efficacia alla reinvenzione del personaggio Totò, scelto da Pasolini come espressione tipica del sottoproletariato napoletano, risultato di secoli di miseria e di fame, ma insieme anche puro e semplice clown, il burattino snodabile e disarticolato, l’uomo dei lazzi imprevedibili e degli sberleffi esilaranti. Pasolini non impone un “suo” personaggio all’attore, ma lo sceglie proprio per quello che è, per il suo volto più profondo e segreto, per la realtà che rappresenta come uomo e come attore. Scompaiono la cattiveria, l’aggressività, il gusto persecutorio di prendere in giro, la stessa volgarità (che sono stati per tanto tempo i tratti più superficiali e riconoscibili del personaggio) per ritrovare al fondo di Totò una inesauribile riserva di dolcezza, di innocenza, di distacco dalle cose, di saggezza.
Il Totò di Pasolini è tenero e indifeso, dolcissimo e innocente. Se prende in giro qualcuno lo fa in modo garbato e mai volgare, senza aggressività. Anche i rapporti tra Totò e Ninetto sono privi di ogni conflitto generazionale, di ogni forma di rivalità. Pasolini li vede come campioni di umanità, vecchi e nuovi al tempo stesso, due personaggi che rappresentano la massa innocente degli italiani estranei alle trasformazioni della storia. Nonostante un ultimo tentativo di reinserirlo nel montaggio del film, alla fine viene eliminato il breve episodio del domatore e dell’aquila che Pasolini aveva girato con Totò, nei panni di Monsieur Courneau, Ninetto e gli animali del circo - che vengono curiosamente chiamati la Signora Aquila, Monsieur lo Scimpanzé del Ruanda, il Leone d’Algeria, il Cammello del Ghana, la Signora Iena del Sahara - perché considerato estraneo alla struttura favolistica che il film aveva progressivamente preso. Ma il frammento inedito di circa otto minuti - intervallato da alcuni “pensieri” di Pascal - è stato conservato dal Fondo Pasolini e costituisce una ulteriore occasione per vedere Totò alle prese con l’inedito personaggio del domatore che sfoggia una bellissima divisa con alamari e mostrine. Il film esce nel maggio 1966 e suscita sin dall’inizio discussioni e polemiche, anche se è quasi unanime il riconoscimento dei grandi risultati raggiunti da Totò. Quando nello stesso mese il film viene presentato al Festival di Cannes, le discussioni riprendono sulla Croisette ma il film ottiene una menzione speciale proprio per l’interpretazione di Totò.
Nel novembre dello stesso anno Pasolini, che sta già lavorando al suo prossimo film ispirato all’Edipo re, gira con Totò il cortometraggio La Terra vista dalla Luna, mentre tra marzo e aprile dell’anno successivo, appena tornato dal viaggio in Marocco dove era stato per i sopralluoghi del film, rincontra il principe per un secondo cortometraggio intitolato Che cosa sono le nuvole? Il primo corto - che sembra riprendere il clima surreale e fiabesco di Uccellacci e uccellini per raccontare il viaggio di Ninertto e di Totò alla ricerca di una moglie - è girato come una comica del cinema muto affidandosi alla forza dell’immagine. Il regista non ha scritto una vera e propria sceneggiatura ma ha disegnato piuttosto un curioso storyboard fatto di vignette che sembrano fumetti, nei quali campeggia il profilo allungato e il mento appuntito di Totò.
Il secondo cortometraggio prosegue sulla stessa linea comica e picaresca fino a diventare, sia pure nelle forme della favola, una poetica riflessione sul senso dell’esistenza, sul rapporto tra apparenza e realtà, tra l’azione e il pensiero, tra la vita e la morte. Sul rozzo palcoscenico di un teatrino di periferia un misterioso burattinaio fa muovere le marionette tra cui ci sono Jago e Otello, Desdemona, Cassio e tanti altri. Jago e Otello, e cioè Totò e Ninetto, sono scontenti dei loro ruoli perché, buoni e gentili, si vedono costretti ad essere malvagi e brutali. Fatti a pezzi dal pubblico contrariato, faranno l’ultimo viaggio nel camion della spazzatura che li porta in una discarica, in cui restano con gli occhi aperti a fissare il cielo e le nuvole.
("Il principe Totò" di Orio Caldiron, Gremese editore)
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
Piero della Francesca, qui e nell'immagine seguente: dettagli dal ciclo di affreschi della "Leggenda della Santa Croce”
nel Coro della Basilica di San Francesco ad Arezzo (1452-1466)
L'ispirazione figurativa rinascimentale nel cinema di Pier Paolo Pasolini Le modalità di composizione dell'immagine cinematografica pasoliniana sono fortemente debitrici dell'origine e della dichiarata vocazione pittorica dell'autore. l caso forse più clamoroso si trova nel Vangelo secondo Matteo in cui Pasolini si ispira ripetutamente all'arte pittorica di Piero della Francesca
Non solo pittura
di Andrea Deaglio Nel cinema di Pasolini la pittura è sempre stata una fonte di ispirazione per ciò che riguarda i colori e le sorgenti dell’immagine. Pasolini prima che regista fu pittore, e di una certa rilevanza.
"Il mio gusto cinematografico, non è di origine cinematografica, ma figurativa [...] E non riesco a concepire immagini, paesaggi composizione di figura, al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica [...] Quindi quando le immagini sono in movimento, sono in movimento un po' come se l'obbiettivo si muovesse su loro come sopra un quadro."
Ecco allora una reale e forte volontà di commistione fra i due mondi generatori d'immagini, il suo cinema che non dimentica e non ignora la pittura come arte figurativa: la richiama, ne è attratto, e tenta addirittura di inglobarla. Succede per esempio, e in modo evidente, nella Ricotta, in cui vi è la riproposizione di due opere del manierismo toscano: la Deposizione di Pontormo e la Deposizione di Cristodi Rosso Fiorentino.
Tableaux vivants in "La ricotta": a sinistra, Jacopo Carrucci detto il Pontormo (1494-1557), "Deposizione" (1525-28), Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi; a destra "La ricotta"
Tableaux vivants in "La ricotta": a sinistra,Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino (1494.1540), "Deposizione", 1521, Volterra, Pinacoteca Civica, Museo Guarnacci; a destra "La ricotta"
Pasolini ricostruisce uno dei tableaux vivants sul set della "Ricotta"
La ricostituzione delle figure dei dipinti avviene tramite dei tableaux vivants, ossia delle vere e proprie messe in scena di un'opera pittorica dotate anche di una sorta di reale valore di teoria e pratica artistica. Le citazioni vengono sottolineate dall'uso, attento e preciso nel confronto con gli originali, del colore: vengono così, in qualche modo isolate, dal resto del film che è in bianco e nero. Il tableau vivantè attuazione di quel “ricostruire, ripensare, reinventare” che si può indicare come gene costitutivo del processo creativo del poeta. E' la riproposizione della genesi di un'opera, che in un'altra chiave, in un altro contesto, ma soprattutto con un altro mezzo, viene fatta rivivere.
Altre illustri citazioni pittoriche avevano segnato i primi lavori di Pasolini. Ettore, il figlio di Mamma Roma, nel finale dell'omonimo film è martire sul letto del reparto psichiatrico del carcere, dove è stato rinchiuso per un furtarello in un ospedale. L'inquadratura ricorda il punto di vista del Cristo morto (datato intorno al 1480) di Andrea Mantegna effetto suscitato dalla più che cinematografica soluzione estetica della trasformazione del letto di contenzione in una vera e propria scena di crocifissione, attraverso un reiterato movimento di macchina che parte dal volto del ragazzo e termina ai suoi piedi. Nel dipinto del Mantegna la figura del corpo del Cristo è distesa sulla pietra dell'unzione ed è affiancata da quelle della Madonna e di San Giovanni Evangelista.
Il quadro è celebre soprattutto per l'audace soluzione del punto di vista. Esso è scorciato, ai piedi del Cristo, dall'alto verso il basso, dando l'impressione di voler trasportare lo spettatore ai piedi di un'invisibile croce.
"Mentre il Mantegna non c'entra affatto, affatto!" L'indignazione di Pasolini si fa sentire puntuale (ed è rafforzata dal doppio avverbio). Egli si appella al più celebre degli storici dell'arte: "Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca!".
La precisazione diventa poi l'occasione per una sferzata al conformismo della critica:
"Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore [canottiera bianca e faccia scura] è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai si potrebbe parlare di un'assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?... Ma lasciamo perdere; figuriamoci se certe 'mistioni' toccano la sensibilità di gente che ogni giorno deve buttar giù il suo pezzo, preoccupata solo di non sbagliare troppo, e quindi di seguire, soprattutto, quello che dicono gli altri…”.
E l'avversione verso il giornalismo e la critica, intesi come mostruoso qualunquismo dell'uomo medio, sono il contenuto della magistrale prova attoriale del regista-marxista-Welles-Pasolini ne La ricotta). Anche nelle pellicole brevi che Pasolini realizza per film a episodi, il regista non rinuncia all'arte figurativa. E se in La terra vista dalla luna (terzo episodio del film Le streghe, 1966) lo stesso Pasolini in effetti non scrisse una vera e propria sceneggiatura dell'episodio, ma elaborò le scene del film disegnandole in forma di fumetti, in Che cosa sono le nuvole? si richiamò a Jan Van Eyck per l'acconciatura di una delle marionette impiegate nel film...
A sinistra: Jan van Eyck, "Ritratto di uomo con turbante rosso", 1433;
a destra: Carlo Pisacane (Brabanzio) in "Che cosa sono le nuvole?"
La straordinaria commistione fra la miseria del mondo dei personaggi pasoliniani e la nobiltà dell'arte che viene richiamata nei film di Pasolini si può notare anche nel finale del suo primo film, Accattone, anche se in questo caso l’arte è quella musicale. Il protagonista interpretato da Franco Citti, viene colto durante il furto di alcuni salami dalla polizia: fugge, rubando una motocicletta, ma un incidente stradale lo uccide dopo poco. Citti-Accattone è al suo ultimo respiro, sul selciato, mentre il regista gli tributa una morte onorevole: La Passione secondo San Matteo di Bach è la colonna sonora della sua liberatoria fine.
Si tratta di aperta provocazione utilizzare uno dei capisaldi della tradizione musicale religiosa, La Passione Secondo San Matteo di Bach, come leitmotiv per le gesta disperate dell'Accattone senza Dio, a enfatizzarne la condizione di povero Cristo che porta su di sé i peccati di tutto un mondo senza neppure il beneficio religioso della redenzione. Accattone, Ettore e Stracci: il Gesù di Pasolini non ha nobili origini, si muove fra questi disperati e si differenzia chiaramente da quelli della tradizione storico-pittorica.
Ciò che all'epoca spingeva Pasolini a dipingere l'epos del sottoproletariato romano era l'utopia, di origine marxiana, del supporre in chi fosse intatto dalla logica dominante il germe di una storia futura, di là da venire, basata sui valori di una spontaneità anche vicina a quella predicata da Cristo nel Vangelo.
Alcuni riferimenti pittorici e lo stile bizantino
Piero della Francesca, Il battesimo di Cristo (1450?), tempera su tavola, Londra, National Gallery [clicca sull'immagine per ingrandirla]
Pasolini ha avuto una sorta di folgorazione, dalla pittura antica, e quando ha approfondito questa sua intuizione ha trovato che la pittura antica può fornire una quantità enorme di spunti tipologici formali, che lui ha reinterpretato. E così ripercorrendo il Vangelo secondo Matteo alla ricerca di esplicite citazioni o semplici riferimenti pittorici si nota che la Via Crucis riproduce alcuni dettagli dalla rinascimentale Leggenda della Santa Croce di Piero della Francesca, e sempre al pittore d'Urbino è ispirata la sequenza del Battesimo; che invece gli intensi attimi vissuti nell'orto del Getsemani sono debitori delle opere che Mantegna e Bellini hanno dedicato a quel momento. E che la Crocefissione de Il Vangelopuò forse trovare più di un riferimento in quella dello spagnolo El Greco. Nonostante Il Vangelo costituisca un momento di rottura nella storia della rappresentazioni visive della vita di Cristo, i riferimenti alla storia della pittura e i richiami all'arte classica sono disseminati un po' ovunque.
Come nello stile rappresentativo dell'arte iconografica bizantina, il rapporto delle figure con lo spazio è prevalentemente bidimesionale. Nei mosaici bizantini, il cui soggetto più rappresentato è quello del Cristo Pantocrator, le forme si stagliano contro il fondale, sempre oro, senza profondità. L’arte bizantina non si propone la verosimiglianza, la rappresentazione del vero, ma ha una funzione prevalentemente didattica. Il fedele, che molto spesso ha l’immagine come unico punto di riferimento comprensibile, deve ammirare la ricchezza della decorazione e la preziosità dei materiali. Sembra quasi ci sia la volontà - da parte del regista - di togliere all’immagine filmica l’impressione di tridimensionalità, di profondità di campo (dovuta soprattutto all’immagine in movimento, al movimento all’interno dell’inquadratura) per ricondurla in un ambito figurativo e pittorico.
Cristo Pantocrator, Cattedrale di Cefalù (Palermo) [clicca sull'immagine per ingrandirla]
Anche le figure del Vangelo sembrano piatte, senza profondità, ma in questo caso la ricchezza dei materiali è quella dei volti popolari che animano il Vangelo, riappropriandosene e riportandolo a una dimensione umana.
Il Vangelo secondo Matteo. Prima sequenza
Pensate alla prima inquadratura, a "Maria, vicina a essere madre": non si può sfuggire alla suggestione della Madonna di Piero della Francesca a San Sepolcro. La sequenza iniziale dell'annunciazione è emblematica e rappresentativa dello stile pasoliniano.
Dopo le scritte in nero su sfondo bianco di dedica Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII ecco la prima inquadratura. E' il primo piano stretto, centrato ed equilibrato del volto di Maria; sullo sfondo un arco di pietre, come un'aureola tutta umana, racchiude nella sua rotondità i lineamenti di Maria. La fotografia di Tonino Delli Colli mette in risalto il contrasto fra il pallore del volto e il velo nero, appena appoggiato sopra la testa, che le scende fin sulle spalle; gli occhi sono rivolti in alto a destra, ma l'espressione del volto è praticamente impassibile e la mancanza di sonoro le conferisce come un accenno di attesa. In controcampo è il volto di Giuseppe, con il sopracciglio leggermente aggrottato, su sfondo non distinguibile.
Di nuovo inquadrata è Maria: questa volta abbassa gli occhi e china leggermente la testa.
Ancora Giuseppe in controcampo: l'espressione è leggera, di chi non comprende qualcosa; compie un lieve movimento verso sinistra, le labbra forse tradiscono la volontà di parlare, ma tutto è silenzio.
La quinta inquadratura riprende la figura intera di Maria, al centro, con il grembo che si scorge dai vestiti, davanti al muro di pietre che disegna sopra di lei l'archetto.
Alla destra della figura di Maria sono appoggiati dei sassi, una scala, un rastrello e alcuni bastoni; sulla sinistra c'è un cesto.
Il corrispettivo controcampo ci mostra Giuseppe in figura intera che, non appena viene inquadrato, si volta di lato e compie qualche passo, scende degli scalini verso una porta che evidentemente lo condurrà fuori dal cortile della casa di Maria con sullo sfondo l'ingresso completamente scuro della casa, e l'archetto di prima sulla sinistra. Maria fa dei passi in avanti verso la macchina da presa, mentre dall'uscio compaiono, due donne vestite di nero, una con un bambino in braccio. Giuseppe è ora in campo lungo, mentre si allontana per una strada assolata, fra arbusti e sterpaglie.
Nona inquadratura: sulla sinistra del quadro le donne fuori fuoco, sulla destra Maria in primo piano (fino alle spalle) alza questa volta gli occhi che vanno a seguire con un raccordo sullo sguardo i passi di Giuseppe sulla strada.
Undicesima: il volto di Maria nell'inquadratura fino a questo punto più ravvicinata lascia trapelare un sentimento di dispiacere per chi se ne va e allo stesso tempo di consapevolezza e imperturbabilità per quello che sta per accadere.
Giuseppe, entra in campo di spalle. Un altro raccordo sullo sguardo: è la città di Matera, arroccata sulla collina, che gli si staglia davanti. Con un movimento di macchina libero, che segue la strada che scende dalla città di Matera alta, il regista si sofferma su un gruppo di bambini che gioca. Sono figure non previste dalla sceneggiatura. Giuseppe li osserva, poi abbassa lo sguardo e si appoggia a una pietra e con la testa fra le braccia socchiude gli occhi. La sua espressione denota tradimento, incomprensione, sconsolatezza. E l'abilità registica consiste proprio nel tratteggiare con leggerezza e delicatezza i sentimenti, senza farsi mai prendere la mano e cedere così agli eccessi del pathos. I bambini giocano davanti a lui, e il loro rumoreggiare costituisce il primo sonoro umano del film, che subito tace: Giuseppe ha chiuso gli occhi, e con le ciglia sempre aggrottate, muove leggermente la testa, forse già addormentato per la insopportabile calura estiva o per dimenticare quello che lui crede un tradimento.
All'improvviso si desta, i bambini non ci sono più e al loro posto una fanciulla vestita di bianco ripresa in figura intera. Con un rapido raccordo è in primo piano l'angelo, che con voce femminile sta annunciando: "Giuseppe figlio di Davide, prendi pure con te senza esitazione Maria tua sposa". La sequenza si conclude ciclicamente con il percorso a ritroso di Giuseppe e con una serie di inquadrature che sono compositivamente uguali alle prime. Manca ancora la parola, ma le sottili trame delle espressioni sui volti di Giuseppe e Maria, lascia intendere che la comprensione è avvenuta e che la Storia Sacra può iniziare a compiersi.
Una inquieta, intelligente, sacra e dissacrante gioia di vivere
di Daniel Agami
[…] Per uno che ha venti anni nel 2002 è difficile conoscere Pasolini. Una mia collega di studi mi diceva che una volta, domandato alla sua professoressa di italiano delle superiori di Forlì chi fosse Pasolini, questa ha sentenziato che era uno che si meritava la fine che aveva fatto (Tristezza profonda).
Bologna, liceo Galvani
Ma viviamo in una scuola media superiore che finge di non conoscere la letteratura contemporanea, che oltre al grande Svevo o a Eugenio Montale non si spinge, e dunque Pasolini rimane nel dimenticatoio degli studenti liceali.
Pier Paolo Pasolini al liceo Galvani
Io stesso, studente e scrittore amante di cinema, letteratura, fumetti, musica e creatività, propostomi una volta come organizzatore e curatore del cineforum del mio ridente e perbene liceo classico [il Galvani di Bologna, lo stesso liceo nel quale studiò Pasolini, ndr] si copiano le versioni dai cellulari o con cui si festeggia Miss Galvani nelle farse delle assemblee di istituto, mi persi in dubbi su quale argomento potesse essere l’oggetto del cineforum, che aveva già ospitato rassegne sul neorealismo e su Kubrick. Finché il mio giovane professore Roberto Fiorini, italianista e latinista a tempo perso, giovane quanto basta per avere il terrore dell’incanutimento dei capelli, fece vedere alla scuola il bellissimo I cento passi di Marco Tullio Giordana, che proprio cinque anni prima, nel 1995 aveva girato Pasolini, un delitto italiano. Nel film di Giordana, sulla storia tristemente reale di Peppino Impastato, ad un certo punto il giovane ribelle, emigrato dalla casa della mafia in un garage, decide di far leggere alla madre ignorante per volere della stessa Mafia, una cosa bellissima, la Supplica a mia madre del terribile Pasolini. In un’ora fuori programma, il mio prof. Fiorini decise di fare una lezione sul sonetto di Pasolini. Innamoratomi della poesia (ci si può innamorare di una poesia? Mah…) proposi violentemente un cineforum su Pasolini, studente del Galvani, nel venticinquennale della morte. La presidenza e la vicepresidenza si stupirono un po', avevano paura fosse troppo ostico, ma dissi che era il venticinquennale della morte, eravamo a Bologna, il Galvani non aveva fatto nulla per ricordarlo, era uno scandalo e blah blah blah ... si convinsero. Ho avuto soprattutto la fortuna di contare su validi professori che facevano le lezioni introduttive sui film, che compensavano le mie ridicole ma appassionate schede. Ne vorrei ricordare uno, Gabriele Bonazzi, attore e regista teatrale premiato, storico della filosofia, che fece una lezione su Mamma Roma bellissima, da far innamorare di Pasolini perfino uno che di cinema non aveva visto nulla oltre ai film di Lino Banfi, Pippo Franco o Ezio Greggio…
Per quanto mi riguarda il mio lavoro su Pasolini è approdato all’esame di stato, con un membro esterno di italiano che innalzava il livello dell’interrogazione con domande del tipo: ”Come si chiamava la mamma di Pasolini da nubile?” e che ovviamente evitava domande su Pasolini e chiedeva Pascoli, collegandosi alla celeberrima tesi di laurea pasoliniana Antologia della lirica pascoliana, recentemente pubblicata da Einaudi a cura del valido italianista Marco Antonio Bazzocchi, mio professore di Letteratura italiana contemporanea, in un corso che prevedeva Teorema di Pasolini. Rileggendo queste schede e questi lavori su Pasolini, a due anni dalla loro stesura, sorrido e cambierei qualche cosa.
Avrei inserito nel programma del cineforum il bellissimo Teoremase non La Rabbia, avrei fatto ascoltare la stuggente A Pa’ di Francesco De Gregori, che come De Andrè o Giovanna Marini si è occupato musicalmente di Pasolini inserendo nel proprio testo una strofa di Pasolini, e se l’avessi saputo avrei inserito il bel documentario Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno (2001) di Laura Betti. Nel 2002, nell’ottantennale della nascita, Bologna ha ricordato Pasolini meritatamente con una giornata di studi e proiezioni, con l’immancabile biografo Enzo Siciliano che ha vergognosamente, a mio modestissimo avviso, scritto una Vita di Pasolini soffermandosi sugli inevitabili particolari sessuali scandalistici piuttosto che sull’aspetto artistico. Mi piace ricordare che Enzo Biagi il giorno della nascita di Pasolini dedicò una puntata del suo Il Fatto (una delle ultime, purtroppo) a Pasolini, nonostante quarant’anni prima lo detestasse anche un poco, non comprendendolo appieno, nel prime-time della nazionalpopolare RaiUno. Per il resto i suoi film continuano a comparire come schegge impazzite nei palinsesti notturni della Retequattro, che passa dal Tg 4 di Fede a La terra vista dalla luna e che per fortuna da anni dedica la notte accanto al 2 novembre ai film di Pasolini, nell’anniversario della morte, purtroppo sempre dopo le 2.00 di notte (sic!) ma almeno ricordandolo, cosa che la Rai continua raramente a fare, se non nei Fuori Orario di Enrico Ghezzi.
Dunque, amatissimi lettori spero non virtuali di queste pagine virtuali, non mi resta che augurarvi buona lettura, amandovi solo per il fatto che abbiamo una passione in comune. E peccato che in queste mie stupide righe che seguono non si analizzi Petronio, il film tratto dal Satyricon, o Pinocchio, interpretato da Totò-Geppetto e da Davoli-Pinocchioo di San Paolo, o del Porno-teo-kolossal in cui Eduardo De Filippo si affida al grande poeta, né Socrate, sugli ultimi giorni del filosofo, o gli altri due episodi della tetra trilogia della morte, o l’interpretazione del prologo del film di Scola Brutti, sporchi e cattivi, sull’ultraproletariato romano, in cui Pasolini aveva accettato di comparire divertito dall’idea di parlare in una commedia sui temi che lui stesso aveva toccato nei suoi esordi cinematografici e letterari (“Mi vestirò tutto di bianco, con gli occhiali, seduto dietro una scrivania” aveva confessato Pasolini a Scola) e di tutto ciò non se ne parlerà, carissimi lettori pensanti, proprio perché Pasolini non è riuscito a realizzare nulla di queste cose che aveva sognato di realizzare, consolandosi ipoteticamente con la sententia finale sull’arte detta proprio da Pasolini-Giotto nel Decameron, che non riporto per non offendere la cultura pasolinana dei navigatori di questo bellissimo sito.
Pier Paolo Pasolini, Il Decameron, brindisi finale
Ringrazio Angela Molteni, signora che non conosco personalmente ma a cui voglio bene per il bene che ha voluto ai miei scritti, per l’ospitalità che mi ha offerto e sinceramente vi saluto, dai meandri dell’Università di Bologna, dove studio Lettere moderne, dicendovi proprio che per me Pasolini è amore, sensibilità, intelligenza, satira, sentimento del sacro laico, apertura celebrale, campi di fiori, filosofia, poesia in senso etimologico di “creazione”, creatività, creattività, arte, pensiero, sogno e tante altre questioni che vi lascio immaginare, candidamente.
Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini
al Cineforum del liceo Galvani di Bologna
Come organizzatore del cineforum al liceo Galvani, Daniel Agami propose e ottenne di proiettare - con il commento a cura di alcuni insegnanti:
Ci soffermiamo sul Vangelo secondo Matteo di cui è qui di seguito riportata la scheda redatta da Daniel Agami. Le illustrazioni si riferiscono alle citazioni pittoriche che Pasolini introdusse nel film e che si richiamano all'opera di Piero della Francesca.
Nel 1447 la famiglia aretina Bacci affidò al fiorentino Bicci di Lorenzo l’incarico di decorare la Cappella Maggiore
della chiesa. Alla morte del pittore, nel 1452, si presume che Piero della Francesca abbia subito proseguito i lavori,
iniziando dalla parte interrotta. Il tema del ciclo è tratto dalla "Leggenda Aurea" di Jacopo da Varagine,
fonte iconografica sulla quale si basano molte raffigurazioni degli artisti toscani ed italiani a partire dal Trecento.
I lavori terminarono nel 1466.
1964, Italia, di Pier Paolo Pasolini. Con Enrique Irazoqui, Paolo Tedesco, Ninetto Davoli, Susanna Pasolini; soggetto di Pier Paolo Pasolini ispirato al Vangelo di San Matteo; sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini; bianco e nero, durata 142’. Si tratta del film che forse più di altri si ispira per moltissimi aspetti a Maestri della pittura tra i più amati da Pier Paolo Pasolini, in particolare a Piero della Francesca, al quale il poeta ha dedicato anche magnifici versi in La religione del mio tempo.
A due anni di distanza da Mamma Roma, Pier Paolo Pasolini gira il suo terzo lungometraggio, dopo avere tentato altri modi espressivi di fare. Tra il 1962 e il 1964 egli tenta la strada del documentario per ben tre volte, girando i lungometraggi La rabbia(furbesca operazione commerciale del produttore, che affidava a due scrittori di opposte fazioni politiche due modi di raccontare l’Italia, girato con la co-regia di Giovannino Guareschi, film che poi, al montaggio, Pasolini rinnegherà, chiedendo di togliere la propria firma dalla pellicola), Comizi d’amore (documentario che coinvolse i giocatori dell’allora Bologna F.C., Moravia, Cesare Musatti, Ungaretti) e il cortometraggio Sopralluoghi in Palestina (proprio girato in previsione del Vangelo secondo Matteo). Inoltre aveva firmato l’episodio La ricotta per il film RoGoPaG.
Piero della Francesca, Esaltazione della Croce e, a seguire, particolari degli affreschi
Il Vangelo secondo Matteosegna l’abbandono cinematografico del tema delle borgate sottoproletarie romane, che aveva caratterizzato i primi due film del regista. La trasposizione della vita di Gesù Cristo, così come è raccontata dal Vangelo, viene ambientata in una Palestina arcaica idealmente collocata nel Sud Italia (Matera e dintorni) e viene raccontata, pur rimanendo fedelissima alle Sacre Scritture, allontanandosi dall’iconografia tradizionale (non è un caso il titolo, che rimanda a Matteo, omettendo la caratteristica di “Santo”) e quindi dalle trasposizioni-polpettone “kolossal” della Bibbia statunitensi o italiane, girate in precedenza e in seguito.
Significativo ad esempio è il fatto che non vi sia nessun attore di richiamo nel cast, per lo più composto da attori non professionisti. Dei film precedenti, questo riprende fondamentalmente il tema religioso, che in maniera allegorica o simbolica era già stato affrontato nei precedenti film del regista. Non stupisce il fatto che nel ruolo della Madonna, la madre per eccellenza della Cristianità, vi sia proprio la madre di Pasolini, Susanna, in quanto figura fondamentale nella vita e nella poetica dell’autore.
Piero della Francesca, Flagellazione
Il film vanta la fotografia di Tonino Delli Colli e una colonna sonora, al solito per il regista non affidata a un compositore bensì costituita di brani di musica classica (Bach, Mozart, Webern ed alcuni canti popolari). Il film segna inoltre il primo incontro professionale di Pasolini con Ninetto Davoli, giovane attore preso dalle borgate romane, che diverrà nei successivi film l’alter-ego del regista.
Da notare infine, il fatto che Il Vangelo secondo Matteo sia il primo lungometraggio interamente pensato e scritto dal regista senza l’ausilio di Sergio Citti. Dopo le apparizioni di Elsa Morante e Paolo Volponi nei suoi primi due film, aumenta il numero di intellettuali o scrittori amici del regista che appaiono come guest-star: Enzo Siciliano, Natalia Ginzburg, Giorgio Agamben, Francesco Leonetti. Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia (insieme a sputi provenienti da neofascisti), ancora oggi è trasmesso nelle scuole nell’ora di religione cattolica. Curioso, se si pensa che per il film precedente (La ricotta) Pasolini fu accusato e processato per vilipendio alla religione di stato. Mah.
Nel Vangelo, ancor più che in altre opere cinematografiche, è messa particolarmente in luce la conoscenza e l'amore di Pasolini per le arti figurative; egli stesso fu d'altronde anche pittore, oltreché narratore, poeta, saggista, regista cinematografico.
Pier Paolo Pasolini
1 Gli affreschi di Piero a Arezzo
Fa qualche passo, alzando il mento,
ma come se una mano gli calcasse
in basso il capo. E in quell'ingenuo
e stento gesto, resta fermo, ammesso
tra queste pareti, in questa luce,
di cui egli ha timore, quasi, indegno,
ne avesse turbato la purezza...
Si gira, sotto la base scalcinata,
col suo minuto cranio, le sue rase
mascelle di operaio. E sulle volte
ardenti sopra la penembra in cui stanato
si muove, lancia sospetti sguardi
di animale: poi su noi, umiliato
per il suo ardire, punta un attimo i caldi
occhi: poi di nuovo in alto... Il sole
lungo le volte così puro riarde
dal non visto orizzonte...
Fiati di fiamma dalla vetrata a ponente
tingono la parete, che quegli occhi
scrutano intimoriti, in mezzo a gente
che ne è padrona, e non piega i ginocchi,
dentro la chiesa, non china il capo: eppure
è così pio il suo ammirare, ai fiotti
del lume diurno, le figure
che un altro lume soffia nello spazio.
Quelle braccia d'indemoniati, quelle scure
schiene, quel caos di verdi soldati
e cavalli violetti, e quella pura
luce che tutto vela
di toni di pulviscolo: ed è bufera,
è strage. Distingue l'umiliato sguardo
briglia da sciarpa, frangia da criniera;
il braccio azzurrino che sgozzando
si alza, da quello che marrone ripara
ripiegato, il cavallo che rincula testardo
dal cavallo che, supino, spara
calci nella torma dei dissanguati.
Ma di lì già l'occhio cala,
sperduto, altrove... Sperduto si ferma
sul muro in cui, sospesi,
come due mondi, scopre due corpi... l'uno
di fronte all'altro, in un'asiatica
penembra... Un giovincello bruno,
snodato nei massicci panni, e lei,
lei, l'ingenua madre, la matrona implume,
Maria. Subito la riconoscono quei
poveri occhi: ma non si rischiarano, miti
nella loro impotenza. E non è, a velarli,
il vespro che avvampa nei sopiti
colli di Arezzo... È una luce
- ah, certo non meno soave
di quella, ma suprema - che si spande
da un sole racchiuso dove fu divino
l'Uomo, su quell'umile ora dell'Ave.
Che si spande, più bassa,
sull'ora del primo sonno, della
notte, che acerba e senza stelle Costantino
circonda, sconfinando dalla terra
il cui tepore è magico silenzio.
Il vento si è calmato, e, vecchio, erra
qualche suo soffio, come senza
vita, tra macchie di noccioli inerti.
Forse, a folate, con scorata veemenza,
fiata nel padiglione aperto
il beato rantolo degli insetti,
tra qualche insonne voce, forse, e incerti
mottetti di ghitarre...
Ma qui, sul latteo tendaggio sollevato,
la cuspide, l'interno disadorno,
non c'è che il colore ottenebrato
del sonno: nella sua cuccetta dorme,
come una bianca gobba di collina,
l'imperatore dalla cui quieta forma
di sognante atterrisce la quiete divina.
*
Schiuma è questo sguardo che servile
lotta contro questa Quiete; e, ormai,
rassegnato, sbircia se sia giunto
il momento di uscire, se il via vai
che qui ronza attutito, lo richiami
agli atti quotidiani, ai gai
schiamazzi della sera. Schiuma gli sciami
di borghesi che dietro i calcinacci
dell'altare, con le mani
si fanno specchio, stirano le faccie
affaticate, presi dalla sete
(che li trascende, li mette sulle traccie
d'altra testimonianza) d'essere i fedeli
testimoni d'un passato che è loro.
Schiuma - sotto i mattoni già neri
di San Francesco, sui selciati che il sole
allaga lontano di una luce
ormai perdutamente incolore -
gli stanchi rumori dei posteggi,
i caffè semivuoti...
Schiuma, benché più fervida, e anzi,
felice, questo fermento
di tanta vita perduta, e troppo bella
se ritrovata qui, fuggevolmente
e disperatamente, in una terra
che è solo visione...
Non si sente, nella piazza, dentro il cerchio
delle trecentesche case, che un sospeso
chiasso di ragazzi: se ti guardi intorno,
con visucci di figli provinciali,
pudichi calzoncini, non ne conti
meno di mille; e poiché i ferri e i pali
dei palchi per il palio
fanno della piazza quasi una gabbia,
eccolo brulicante saltellare,
con un sussurro che nella sera impazza,
quel disperato stuolo d'uccellini...
Ah, fuori, riapparso tempo della pia
sera provinciale, e, dentro,
riaperte ferite della nostalgia!
Sono questi i luoghi, persi nel cuore
campestre dell'Italia, dove ha peso
ancora il male, e peso il bene, mentre
schiumeggia innocente l'ardore
dei ragazzi, e i giovani sono virili
nell'anima offesa, non esaltata,
dalla umiliante prova
del sesso, dalla quotidiana
cattiveria del mondo. E se pieni
d'una onestà vecchia come l'anima,
qui gli uomini restano credenti
in qualche fede - e il povero fervore
dei loro atti li possiede tanto
da perderli in un brusio senza memoria -
più poetico e alto
è questo schiumeggiare della vita.
E più cieco il sensuale rimpianto
di non essere senso altrui, sua ebbrezza antica.
Da La religione del mio tempo (1961)
“A Elsa Morante”, I, La ricchezza (1955-1959)
Il manifesto qui riprodotto si riferisce alle iniziative promosse ad Arezzo in occasione dei trent'anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini e successive al restauro degli affreschi di Piero della Francesca avvenuti nella chiesa di San Francesco tra il 1985 e il 2000
* * *
Contributi di Andrea Deaglio e Daniel Agami. Revisione e integrazione dei testi, immagini
d'archivio, fotogrammi da film, didascalie di Angela Molteni. Questa pagina è dedicata all'amico Juhász Bálint
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Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
Fino al 13 gennaio 2013 sarà aperta la mostra fotografica dedicata a Pier Paolo Pasolini. L'inaugurazione di Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini, ospitata all'interno del Festival cinematografico della Calabria "La Primavera del cinema italiano" (Cosenza, 14-22 dicembre), è avvenuta lo scorso 19 dicembre a cura del regista Mimmo Calopresti. L'allestimento è ideato e prodotto dalla Cineteca di Bologna. Dopo l'inaugurazione, per la sezione Conversazioni sul cinema, il regista Calopresti ha affrontato la poetica di Pasolini grazie al saggio Corpus Paolini e al film documentario di Laura Betti e Paolo Costella, Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno.
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Settimane di fuoco per chi ama il documentario. Se l’Apollo 11 ha rimandato le proiezioni al 2013 per un guasto agli impianti, l’associazione doc.it prepara addirittura un mese di film sulla realtà alla Casa del Cinema (febbraio), con tanto di concorso internazionale.
L’Anec Lazio, intanto, ha reso omaggio al Torino Film Festival con due documentari premiati nel capoluogo piemontese, proiettati alla presenza dei registi (e del direttore del festival Gianni Amelio) al cinema Farnese Persol. Sono I Don’t speak very good, I dance better dell’egiziano Maged El Mahedy (Premio per il miglior film). E Fatti corsari di Stefano Petti e Alberto Testone (Premio speciale della giuria).
Il primo, girato durante la rivoluzione al Cairo, mescola dramma intimista, thriller politico, reportage e film musicale sulla scia dei grandi Mahmud Reda e Farida Fahmy. Fatti corsari invece ripercorre la parabola di un odontotecnico della borgata Fidene, nonché sosia di Pier Paolo Pasolini, che sognando di fare l’attore insegue il fantasma del poeta finendo per rispecchiarsi nei volti e nei luoghi che Pasolini ha amato e filmato.
Nota - Alberto Testone ha appena terminato di girare con il regista Federico Bruno il film La verità nascosta che sarà presente a breve nelle sale cinematografiche, di cui si è data notizia in altra pagina di "pasolinipuntonet".
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In libreria "PPP. Il mondo non mi vuole più e non lo sa" (Ibis , 2012, 99 pag. euro 8)
di Guido Mazzon e Guido Bosticco. PPP, acronimo di Parola, Potere, Politica
è lo spunto per una lucida analisi dei due autori, di cui uno è cugino dello scrittore
P come Parola, P come Potere, P come Politica: PPP è l'acronimo di un pensiero difficile da catalogare, ideologico e anarchico, lucido e disperato, per alcuni un faro, per altri una voce del passato. Parliamo di Pier Paolo Pasolini, di cui si è scritto molto, moltissimo. Eppure c'è un nuovo, piccolo libretto che si colloca all'incrocio fra i ricordi e l'analisi libera da pregiudizio, in grado di raccontare con poche ed essenziali pennellate un provocatore infallibile, la cui dialettica «funzionava puntualmente come una trappola per topi», come sottolineano i due autori Guido Bosticco e Guido Mazzon.
"PPP. Il mondo non mi vuole più e non lo sa" (Ibis Edizioni, 2012, 99 pag. euro 8) è un ritratto di Pasolini che non si ferma alla classica santificazione, non indulge al moralismo, né è una critica feroce al suo pensiero. Al contrario è una lucida e intensa analisi del rapporto che l'intellettuale Pasolini (scrittore, giornalista, poeta e regista) ebbe con il potere, inteso come potere politico, e del modo in cui egli gestì questo rapporto attraverso la sua unica arma: la parola. E dunque Parola, Potere, Politica, ecco le iniziali del suo nome, PPP, ecco il destino di un uomo che viene sempre ricordato a metà, usato, tirato per la giacchetta e sfruttato per i più diversi scopi. Difficilmente affrontato senza pregiudizi.
Il nuovo libro di Guido Mazzon e Guido Bosticco è tanto denso quanto scorrevole, a metà fra i ricordi di un passato cristallizzato e la speranza che una voce di quel passato possa ancora dirci qualcosa. I due autori, che già avevano scritto un libro su Pasolini, ma legato alla musica e ai ricordi di infanzia (Mazzon è cugino di Pasolini), questa volta lavorano per sottrazione, per frasi e concetti asciutti e diretti, fino ad offrire uno strumento semplice ed efficace per avvicinarsi, magari anche per la prima volta, al pensiero e alla vita di un uomo che è sempre stato contro il potere e insieme ha rappresentato una parte di esso. Questo è il paradosso che il libro tenta di affrontare e che chiama alla sfida tutti i liberi pensatori di oggi.
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“E' un manifesto”. Più nel senso di un grande poster, di uno striscione colorato, di un tazebao cinese o psichedelico, che non come scritto dottrinario, declamante. Una parola carica di modernità, con tutto il suo portato di Marx & Engels, futuristi, Artaud, Port Huron, avanguardie, diventa il gesto-sberleffo di una sciamana mai così cupa e mai così candidamente sboccata e ciarliera, irriverente. A più di quarant’anni da quei versi - e da quei giorni, insoliti, di maggio - Il mondo salvato dai ragazzini resta un po’ un testo arcano, un abracadabra. Sì, era un manifesto (è la prima parola della celebre lista in quarta di copertina) ma, appunto, più in senso materiale che come organizzata presa di posizione sulla storia o sul mondo, sulla politica (e sull’agire il fare il progettare). Alla rovescia, in senso già ribelle, sovversivo, è come il cartello réclame che annuncia il passaggio in città della Grande Opera (“i manifesti affissi nella strade/ non danno nessuna spiegazione”).
Quel che è evidente è, invece, il rapporto - paradossale, ambiguo, vertiginoso - con l’universo attorno e con le cose che sono e accadono o ancora non accadono e non sono ma dovrebbero essere e accadere. Con le antenne sensibili di un qualche divino insetto o la bacchetta fatata del rabdomante, Elsa Morante già dialogava, a modo suo, ovvio, con la Storia. Era la prima volta, se vogliamo, forse la fine - provvisoria - del suo “gioco segreto” (Garboli), del suo splendido autismo d’artista sommo. Però, anche qui, nulla è scontato, e poi, soprattutto, niente è dovuto. Il “siamo tutti coinvolti” del maggio francese doveva essere, per una come lei, imperativo ovvio e, insieme, già ricatto, ideologia.
Parlare, dire, trasformare in voce pubblica e lirica civile il proprio verbo: quando la Morante sente l’urgenza di un atto di presenza, si esprime in versi. Era anche un modo per esserci e sottrarsi, senza fuggire, e per proteggere la parola (col suo sacro spessore di profezia) dal rischio di una facile prassi, dalla retorica. Scrivere (o disegnare: Il mondo salvato dai ragazzini, dice la Morante, è anche “un fumetto”) un manifesto senza teoremi, diktat, indicazioni pratiche, consigli: è una scelta difficile, un vero azzardo. Correva il rischio del mancato riscontro, del fallimento. Per chi sapeva, e seppe, leggere (o almeno intuire, intravedere: Fachinelli, Fofi, Pasolini) quel libro arcano fu anche una spina nel fianco. Quel libro parlava al “Movimento”, ai giovani, al presente, ma da un’ardua regione di più ampia coscienza, e più sofferta. Però è vero: poteva essere, doveva essere, anche un “manifesto”. Pasolini lo vide e colse l’ ironia della faccenda. Quasi nessuno voleva raccogliere quel messaggio in bottiglia, impegnativo: “Il libro della Morante è addirittura un manifesto politico. Il manifesto politico, potrei dire paradossalmente, di quella nuova sinistra che in Italia pare non poter esistere, crescere, riaffondando subito nel vecchio qualunquismo e nel complementare moralismo…”.
Un manifesto allora, un canto di protesta, un inno ribelle. Tutto questo e anche altro, naturalmente. Sempre la lista aggiunge un nuovo termine che fa saltare i presunti equilibri e complica tutto. “E’ un testamento”. E allora tocca porsi una domanda più estrema, radicale. Che discorso politico si compie in uno scritto che è insieme manifesto e testamento?
Contro il sistema. I “ragazzini” evocati dalla Morante non sono gli alunni di Barbiana o la “gioventù assurda” di Paul Goodman che, stanca di farsi stritolare, si ribella. Nelle letture storico-sociologiche di questo libro-rebus dal titolo sin troppo azzeccato, l’equivoco di un’identificazione pigra è sempre in agguato. Ma il senno di poi è un’arte da spilorci e, d’altra parte, è meglio esser precisi, circostanziare. La Morante poteva essere un rabdomante o una sciamana ma non aveva niente del Cagliostro in gonnella. Quando comincia a scrivere degli F.P. e degli I.M, del “pazzariello”, anche il maggio francese era solo un’ipotesi e quando pubblica Il mondo..., un anno dopo, il ’68 stava giusto iniziando, ma per caso. Nel suo rapporto con l’attualità il poeta è costantemente altrove anche perché “l’avventura della realtà è sempre un’altra” (Pro e contro la bomba atomica) però il suo “altrove” è una forma più esigente di presenza. La Morante sfogliava un mazzo di tarocchi suo personale e il Mondo... - proprio come i dischi di Dylan, gli anni sono quelli - preconizza insieme una rivolta a sorpresa (“il sistema funzionerà/ stavolta l’imbroglio riuscirà…/ sarà, ma attenti signori/ alle sorprese”) e una débacle. Se Il mondo...è “il documento più alto del ’68 e dei suoi dintorni” (Fofi), è anche per questa sua natura doppia di inno alla gioia e di canto di morte (o, appunto, di audace “manifesto” e di “testamento”).
Molto sicura di sé nel distinguere tra chi ha ragione e torto (e molto prudente nell’individuare chi incarna queste figure quasi ontologiche, i “Felici Pochi” e gli “Infelici Molti”: parla di sé come di una “mezza I.M”), Elsa Morante sapeva benissimo quale era il nemico. La parola “Sistema” risuona nel suo poema (e in Pro e contro...) con la stessa febbrile intensità che ritroviamo negli scritti di Goodman o di Wright Mills, nella Dichiarazione di Port Huron, in Marcuse, nei situazionisti. Ma, ancora una volta, è questione di sfumature, petites differences. In quegli anni, la Morante leggeva Simone Weil, la Bhagavad Gita, i Beat, i buddisti (niente sociologia, poco marxismo). Senza misticismi, la sua “visione” ne risente e ne viene arricchita. Il suo sistema è solo in apparenza la “stanza chiusa” evocata da Paul Goodman in Growing Up Absurde anche la peculiare, moderna, “infelicità” della nostra vita è più complicata di una inutile “corsa dei topi”.
Negli anni sessanta, la Morante vede invertirsi alcune polarità per lei essenziali e, come per incanto (ma è magia nera), Menzogna e Sortilegio cambiano segno. Da forme eteree della creatività diventano pesanti contrassegni d’oppressione. Ragionando in termini assoluti di “coscienza” (la nostra vera “centrale atomica”), Elsa Morante imputa al Sistema la colpa più meschina, quella di ingannare, di mistificare (“stavolta l’imbroglio riuscirà”). È un modo metafisico e impolitico di guardare alla storia, e alla politica. Prima ancora di essere una macchina, una Grande Opera, il sistema è un manto d’irrealtà che copre ogni cosa, una versione, totalitaria e meccanizzata, del velo di Maya. Promettendo un “maligno surrogato piccolo-borghese” del Nirvana, il sistema realizza questo scialbo miracolo al contrario: disintegra (esattamente come la bomba atomica). In Pro e contro... il giudizio è implacabile, finale. A questa falsa pace, a questa quiete beota, stupidissima, “si arriva attraverso la disintegrazione della coscienza, per mezzo della ingiustizia e demenza organizzate, dei miti degradanti, della noia convulsa e feroce”. Più estrema, più radicale, più disillusa di Paul Goodman, Marcuse & compagnia, Elsa Morante sceglie di affrontare il drago e alza la posta. Per lei sistema significa “irrealtà”; totale irrealtà.
Messa in questi termini, la partita appare persa. All’irrealtà si potrà opporre soltanto l’alta vertigine della parola poetica, un gesto negato ai più, raro e incostante. Non c’è risposta politica, in ogni caso, e lucidamente il mondo evoca la “rivoluzione” solo per mantenerne il sogno come Utopia senza futuro (“Domanda: MA QUANDO?/ Risposta:non c’è QUANDO/ D: Ma DOVE?/ R: Non c’è DOVE”). Come dalla caverna di Platone (un F.P. evocato, giusto in quei giorni anche da Nicola Chiaromonte), dall’Irrealtà non si esce “in massa ma uno per uno”. Con riluttanza, in Pro e contro…, Elsa Morante si affida all’arte come “quasi sola speranza del mondo”. “In una folla soggetta a un imbroglio, la presenza di uno solo che non si lascia imbrogliare può fornire già un primo punto di vantaggio”. Peccato che questa aristocratica forma di estrema resistenza e sabotaggio non le desse nessuna consolazione. “Il poeta è destinato a smascherare gli imbrogli” ma pochi sono gli eletti e un contromondo di bella Realtà affidato all’arte per lei era monco, troppo algido e sterile, insufficiente. Il mondo… riprende il discorso che in Pro e contro… sembrava (quasi) risolto e tira in ballo gli altri; meglio: il prossimo. Ed è proprio in questo passaggio (eminentemente ‘evangelico’, e… politico) che, spiazzando tutti, Elsa Morante - sommo poeta - si mette da canto e si nega l’eliso.
“Quanto al tuo prossimo
tu (parlo anche a te, mezza I.M., che qui scrivi)
puoi riconoscerlo naturalmente in chi nasce
venuto non si sa da dove, e muore per andarsene non si sa dove”
Una magnifica stravaganza. Lo zelo manicheo di distinguere tra sommersi e salvati le era estraneo. Però era anche troppo lucida e coerente per arrampicarsi sugli specchi del buon senso borghese e la sua indole tendeva a escludere le mezze misure, le “zone grigie”’. Apparentemente tacciabile di rigido moralismo calvinista, la grande cesura tra FP e IM risponde a un criterio storico, e metafisico. Non cercatevi l’arrogante autoindulgenza di chi si crede nel “vero”, coi suoi pari, o l’illusione (patetica, supponente, castrante) di un’ineffabile differenza antropologica. Questa doppia “abbreviazione” è la vera “chiave magica” (altro termine della “lista”) che apre le porte della percezione e rimette la Storia in piedi, riassesta il tempo. Scrivendo dell’Iliade, Simone Weil annotava che “la giustizia fugge dal campo del vincitore” e la Canzone degli F.P e degli I.M. trasforma questa sentenza in un fulminante compendio che ribalta duemila anni di storia vissuti male, subìti in confusa simbiosi col potere.
Prima ancora di essere un acrobata della felicità, un poeta visionario, un ragazzino, l’F.P. è una vittima e un oppresso. Suo è il regno dei cieli, ma, aggiunge la Morante, “forse la doppia/ immagine così in cielo come in terra si può leggere capovolta”. Così in terra come in cielo, dunque: è un programma (e uno slogan) rivoluzionario: la stessa figura che ha assunto nei secoli volti e maschere sempre cangianti, si rivela nel canto liberatorio come il sale (sciupato) della terra. L’F.P. è lo schiavo dato in pasto ai Cesari e la femmina vergine sacrificata a Tenochtitlan, l’empio maledetto messo al rogo dai Papi, l’anarchico fucilato da Stalin, il negro linciato a Dallas, il bianco mangiato dai cannibali, il vietnamita.
Ma l’oppresso di sempre potrebbe diventare il signore del Tempo, l’uomo nuovo. Tutto sta a capire - quella di Elsa Morante è anche una teologia politica - se questo progetto di Liberazione sia il “sogno di una cosa” o un ideale regolativo. Rivolgendosi agli I.M. Elsa Morante pone la domanda cruciale (e disperata): potrà mai accadere che “prima ancora del giorno del Giudizio/ quei pazzi F.P. non vi mettano in minoranza?.../ Sarebbe una magnifica stravaganza”). Mai dire mai; e mai illudersi, però, e mai dormir contenti, mai accontentarsi. Al “non c’è QUANDO” e “non c’è DOVE” con cui aveva gelato le vene ai polsi dei rivoluzionari da operetta, Elsa Morante giustappone questo monito-spauracchio destinato a turbare il sonno di ogni Maggioranza. Potrebbero esserci magnifiche stravaganze, grosse sorprese. La Grande Opera è solo un artificio: salterà in aria (o potrebbe saltare… non è detto).
Senza additare paradisi in terra (“pure il desiderio del paradiso è servile”) o scarabocchiare castelli in aria, Il mondo salvato dai ragazzini ricorda una semplice verità che, magari per eccesso di ovvietà, è difficile da dire, sperimentare. La storia non è scritta, “non ha libretto” (per citare un altro F.P. virtuale, Aleksandr Herzen). Dobbiamo restare “attenti/ alle sorprese”. IN SOSTANZA E VERITA’ TUTTO QUESTO/ NON E’ NIENT’ALTRO/ CHE UN GIOCO.
Ne vous laissez jamais amputer. La parola “gioco” va presa alla lettera e protetta. Cosa di bambini, il gioco sfugge a quella monotona grammatica di comando e obbedienza, conformismo, che trama la vita degli adulti e l’intristisce. Per Elsa Morante (come per Walter Benjamin) “infanzia” e “rivoluzione” vanno insieme (“veramente rivoluzionario è il segnale segreto dell’avvenire che parla dal gesto infantile”). Corollario obbligato di questa premessa radicale, un’esplicita sconfessione del potere (anche del desiderio di potere) che rende Il mondo… un testo politico ambiguo, anzi “inservibile”. Che mettano o non mettano in “minoranza” i loro avversari, i Felici Pochi si precludono qualsiasi prospettiva di successo. Per restare ciò che sono, o diventarlo (tamburini celesti, ragazzacci della favola azteca, pazzarielli), i Felici Pochi non andranno al potere, non comanderanno. “Il grande manifesto rivoluzionario degli estremisti F.P.” parla una lingua altra, sua e speciale, e se ha una grande certezza la Morante sta in questa avversione libertaria per il potere che ai suoi occhi resta un” vizio degradante”, una rovina (in La Storia, il grande monologo di Davide Segre ruota precisamente su questo perno).
Proprio per questo, d’altronde, Il mondo…, e ancora di più La Storia, qualche anno dopo, finiranno per creare disagio, insofferenza. Suggerire ai giovani ribelli di togliersi dalla testa il sogno di vincere, comandare, governare, poteva essere piuttosto deprimente e il grande paradosso del Mondo salvato dai ragazzini sta precisamente in questo messaggio anti-profetico. Il début sognato dal Maggio poteva realizzarsi in magnifica stravaganza, “gioco divino”, a patto che quel progetto ribelle restasse sempre fedele a se stesso, cioè impotente. Ovvio che in troppi non volessero accettarlo e non stupisce che all’uscita di La Storial’equivoco si sia alla fine sciolto, anzi svelato (Balestrini & co. parleranno di una “scontata elegia della rassegnazione” e di una posizione “reazionaria”, Renato Barilli di “restaurazione”). Ai “ragazzini” la Morante non offriva conforto o consolazione. In Hoc signo vinces le sembrava una bestemmia poco sincera.
Eppure Il mondo...è un invito altissimo alla liberazione. Fuori dalla “governamentalità” (per citare Foucault, un mezzo F.P.), lontano dal mediocre disegno del Potere, per i ragazzini si apre un cammino esistenziale e sapienziale di altra natura. Se il termine politica conserva un significato per la Morante è nel senso di Port Huron, in qualche modo, e Il mondo, Pro e contro…, La Storia sono anche complessi tentativi di esplorare gli inediti confini di una politica dell’autenticità.
“La vostra benedizione è conoscere… noi dobbiamo riaprire le luci dei nostri occhi”: essere (diventare) se stessi, trasformarsi, conquistare “la salute della mente” e spendere questo proprio Io più ricco, complesso, rinnovato, nel grande gioco del mondo, insieme al “prossimo”. Nella “parentesi” dedicata agli F.P. è capitale la citazione di una lettera di Rimbaud alla sorella: “ne vous laissez jamais amputer”. Per Elsa Morante non c’è programma collettivo di rivolta o emancipazione che possa prescindere da un ampliamento di consapevolezza o dallo scardinamento delle porte della percezione. La canzone degli F.P. e degli I.M. va letta tenendo presente l’intera struttura del Mondo… e la “commedia chimica” forse indica il percorso, ma per riflesso e enigma, in uno specchio. Ai ragazzini, dolente “strega ossessa dei supplizi”, la Morante intimava di cambiare strada e deporre gli abiti di ieri, trasfigurandosi:
rifugiati alla cieca dall’altra parte, inferi o limbi non importa,
piuttosto che ritrovarti nel tuo domicilio laido…
Non tentare l’itinerario
storpio e rovinoso della scala, che per te è un’ascensione di secoli,
e di sopra e di sotto c’è sempre l’inferno.
Il cielo decaduto è la bassa tenda cenciosa
del lazzaretto terrestre. E il flauto mozartiano
è un saltarello magico…
Nessun cielo ulteriore si scopre. Non s’apre il loto dei mille petali.
Tu sei tutta qui. E non c’è altro.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
«Chi tocca il Principe avrà del piombo; chi non lo tocca avrà dell’oro», scrive Giorgio Steimetz in Questo è Cefis: piombo tipografico o di un qualche calibro? Un ragazzo di 17 anni, Pino Pelosi detto “Pelosino”, si è autoaccusato dell’omicidio di Pasolini. Il 7 maggio 2005, in una intervista televisiva a Franca Leosini, conduttrice di Ombre sul giallo, Pelosi ha ammesso che quel giorno non era solo, che altri avevano partecipato al pestaggio: «Erano in tre, sbucarono dal buio. Mi dissero tu fatti i cazzi tuoi e iniziò il massacro. Io gridavo, lui gridava… Avranno avuto 45, 46 anni, gli gridavano “sporco comunista”, “arruso”, “fetuso”». Stando a questa che è la seconda versione di Pelosi, Pasolini viene massacrato da «tre siciliani o calabresi».
Lo stesso racconto viene poi riproposto con varianti e nuovi particolari a Claudio Marincola del “Messaggero” (23 luglio 2008), agli autori di Profondo nero Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (Chiarelettere, 2009) e nell’autobiografico Io so… come hanno ucciso Pasolini (Vertigo, 2011): non più tre «siciliani o calabresi» (nel 2005 «diedi una falsa pista dichiarando che gli aggressori parlavano dialetto siciliano o calabrese»), ma «in tutto cinque persone»; non più una sola auto ma due («una fiat 1500 scura e una GT identica a quella di Pier Paolo»). E sopra una moto Gilera c’erano anche i fascistissimi fratelli catanesi Franco e Pino Borsellino - ormai deceduti - indicati quali autori materiali del furto delle “pizze” originali del film Salò o le 120 giornate di Sodoma rubate in agosto a Cinecittà per conto di Sergio Placidi, un “pappone” che mirava a un riscatto: “pizze” forse usate come esca, e mai più ritrovate. I due (all’epoca minorenni) l’anno successivo confidano a Renzo Sansone (appuntato dei carabinieri infiltrato nella bisca di via Donati a Roma) la loro partecipazione al delitto «insieme a un certo Johnny il biondino» ovvero il bergamasco “Johnny lo zingaro”, nome d’arte di Giuseppe Mastini, pluriomicida ergastolano vicino alla destra fascista nonché amico di Pelosi, ora in libertà vigilata. Mastini, “scagionato” da Pelosi, in carcere avrebbe vantato l’uccisione di Pasolini. Nel racconto di “Pelosino” si fa largo soprattutto «un certo Mauro G., un tizio ben vestito, pettinato con la riga e l’aria misteriosa - Franco me lo dipinse in quel modo - che gravitava nell’ambiente fascista e particolarmente nella sede del Movimento Sociale di via Subiaco». Bugie? Mezze verità e per giunta a rate? Verità monche. La notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, sotto un cielo senza luna Pasolini e Pelosi sono all’idroscalo di Ostia, in attesa - sostiene Pelosi - della restituzione di Salò:
«Dal buio assoluto, quasi irreale, vidi spuntare i fari di due autovetture, davanti a una di loro una moto. Le macchine si fermarono a raggiera puntando entrambe gli abbaglianti verso la GT, come fosse la scena di un film. Non capivo cosa stesse succedendo. I fari delle auto si incrociarono, riconobbi immediatamente la Gilera dei Borsellino. Franco era alla guida, Giuseppe dietro di lui. Riuscii a riconoscere le due auto: una FIAT 1500 scura e una GT identica a quella di Pier Paolo. Dalla GT non scese nessuno mentre dalla FIAT uscirono tre uomini. Uno, alto, grosso e con la barba folta venne dritto verso di me. Mi afferrò per il giubbetto e mi sbatté con violenza addosso alla rete. «Adesso fatti i cazzi tua. Statte fermo qui e non te move». Gli altri due si diressero verso la macchina di Pier Paolo, il quale non era riuscito neppure a rendersi conto di quello che stava accadendo. Non fece neppure in tempo a rimettersi gli occhiali e a percepire il pericolo. Avrebbe potuto rimettere in moto e scappare, ma i due furono così veloci che aprirono di scatto la portiera, lo afferrarono per il collo della camicia e lo tirarono violentemente fuori dalla macchina. Per evitare qualsiasi reazione lo colpirono immediatamente alla testa e al volto con delle mazze di ferro. Pier Paolo cominciò a urlare, si mise una mano in testa e si accorse che sanguinava, provò a divincolarsi cercando di rientrare in macchina per tentare disperatamente la fuga. Poggiò le mani sul tetto dell’auto, ma venne trascinato via e gettato a terra. Io cercai di reagire, di liberarmi per andare a soccorrerlo. Strillai per richiamare l’attenzione di qualcuno, urlando: «Ma che cazzo state a fa’, lasciatelo stare!». Il tipo che mi teneva fermo mi diede prima un pugno sul naso poi, siccome insistevo, mi colpì in testa con un corpo contundente. Stordito dalla botta, fui costretto a desistere. La mia reazione distolse l’attenzione dei malfattori, permettendo a Pier Paolo di scappare verso il buio, nella direzione della moto dei Borsellino. La seconda GT si avviò; fece marcia indietro per tentare di fermarlo. Gli girò intorno, ma la strada era troppo sconnessa per riuscire a prenderlo. Pier Paolo riuscì ad allontanarsi ma le sue urla intervallate da ripetuti colpi di legno che si rompeva non lasciavano adito a una possibile fuga. Io ormai non lo vedevo più ma immaginavo dove fosse dalle urla sue e dei suoi aggressori che provenivano dal buio. Mi colpì specialmente quando disse: «Aiutami mamma» che ripeté urlando più volte, fino a spegnersi del tutto. Erano delle urla tremende, disumane, come di un animale ferito a morte. Poi il silenzio».
Un resoconto molto simile è quello di Ennio Salvitti a Furio Colombo, la mattina di quel 2 novembre:
«Il mio cognome si scrive co’ due t: Salvitti Ennio. E lei tanto pe’ correttezza?» Lavoro per “La Stampa”, mi chiamo Furio Colombo. «“La Stampa”, ah, Agnelli» Sì, Agnelli. «Lo scriva che è tutto ‘no schifo, che erano in tanti, lo hanno massacrato quel poveraccio. Pe’ mezz’ora ha gridato mamma, mamma, mamma. Erano quattro, cinque». Ma lei questo lo ha detto alla polizia? «Ma che, so’ scemo?»
Del testimone Salvitti non si è più saputo nulla. Lì nei pressi sembra ci fossero 12 baraccati, ma solo due di loro saranno interrogati. Un altro anonimo testimone oculare, un pescatore ormai deceduto ha poi raccontato l’omicidio a Sergio Citti. E il regista a Dino Martiano del “Corriere della Sera” il 7 maggio 2005, lo stesso giorno dell’intervista televisiva a Pelosi:
«Quella notte Pelosi era insieme ad altre quattro persone e quelle persone erano lì per uccidere Pier Paolo. Pier Paolo era scomodo. Scriveva cose scomode, anche sul “Corriere”. No, non fu un incidente, una lite: Pier Paolo fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che Pasolini dovesse morire. […] Picchiarono per uccidere, professionisti. Ho sempre pensato che, quei quattro, potessero essere anche poliziotti o agenti segreti. Pier Paolo era scomodo. Aveva attaccato la Democrazia cristiana».
Quanto alle auto presenti in quella tragica notte, Giorgio Iorio, subito accorso a Ostia, quella mattina vede «tracce estese in un’ampia zona, orme di scarpe diverse fra loro e anche di macchine diverse: tracce di più macchine, sicuramente recenti». Lo stesso anonimo pescatore ha poi riferito a Citti di «due autovetture». Di chi era la seconda? Forse era del quarantaduenne Antonio Pinna, legato al Clan dei Marsigliesi. Secondo Silvio Parrello detto “er Pacetto” (è tra i protagonisti di Ragazzi di vita) l’Alfa 2000 di Pinna - quasi identica alla GT di Pasolini - il giorno dopo l’omicidio viene portata in una carrozzeria sulla via Portuense: «Era sporca di sangue e di fango, aveva una botta sulla fiancata». Il 22 febbraio 1976, subito dopo l’arresto dei fratelli Borsellino Pinna scompare. L’auto, la stessa, sarà infine ritrovata all’aeroporto di Fiumicino.
Ma in quanti erano lì a infierire su Pasolini o comunque presenti al massacro? C’era Pelosi, c’erano quello «alto, grosso e con la barba folta» e i due in auto con lui; c’erano i fratelli Borsellino e almeno un’altro alla guida della «GT identica a quella di Pier Paolo»: almeno sette persone.
Il 26 aprile 1976 il Tribunale di Roma ha condannato “Pelosino” alla pena di nove anni, sette mesi e dieci giorni di carcerazione per omicidio volontario «in concorso con altre persone rimaste ignote», oltre a una multa di 30.000 lire per atti osceni.
Lezione all’“arruso”? Delitto politico? Comunque sia, fu un agguato e forse il diciassettenne era solo un improvvisato tramite (consenziente?). Stando ancora a Pelosi,
L’uomo con la barba mi tirò via dalla mano l’anello che indossavo. Lo gettò via. Poi mi minacciò: «Caro ragazzo. Scordati tutto, perché questa sera tu non hai visto niente e nessuno. Pino» mi chiamò per nome «noi sappiamo chi sei e dove abiti. Conosciamo tua madre, tuo padre e tua sorella. Se fai lo stronzo tu sai che vi succede, no?». Montarono sulla Fiat e si allontanarono.
Non saranno le uniche intimidazioni (un biglietto nel carcere di Civitavecchia: «L’appello è vicino. Comportati bene. Ricordati che qui fuori ci sono mamma e papà»; un carcerato di nome Franco: «Pino continua così, che salvaguardi te e la tua famiglia»). L’avvocato Rocco Mangia «mi suggerì di accollarmi l’omicidio e di mantenere questa linea, sostenendo a spada tratta che sul luogo del delitto ci fossi solamente io. […] Mi disse che c’erano alcune foto fatte dalla Scientifica relative al sormontamento del corpo da far sparire ma che a questo ci avrebbe pensato qualcun altro».
Rocco Mangia viene indicato ai famigliari di Pelosi dal giornalista del “Tempo” Franco Salomone: nessun problema per l’onorario, già che «ci avrebbe pensato qualcuno molto in alto». Mangia (tra i suoi assistiti, i neofascisti assassini e violentatori del Circeo Andrea Ghira, Angelo Izzo e Giovanni Guido) nomina suoi periti di parte il professor Franco Ferraguti (tessera P2 n. 849) e lo psichiatra neofascista e massone Aldo Semerari, altro piduista. Legato alla Banda della Magliana e alla destra eversiva di Ordine Nuovo, Semerari era diplomatico del Sovrano militare Ordine di Malta nonché a libro paga del Sismi. Il 1° aprile 1982 verrà rapito e decapitato dalla nuova Camorra cutoliana. Lo stesso giorno muore anche la dottoressa Maria Fiorella Carraro, terzo perito di parte del Pelosi, compagna di Semerari.
Guido Mazzon
Nel frattempo altri avrebbero provveduto a sottrarre da Petrolio il capitolo Lampi sull’Eni. Il cugino di Pasolini, Guido Mazzon (a voce, il 24 ottobre 2005):
Mia cugina Graziella [Chiarcossi, erede del poeta] mi telefonò due volte: il giorno del delitto – «I fascisti hanno ucciso Pier Paolo» – e qualche tempo dopo, un mese, non ricordo bene. Mi ricordo bene quello che mi disse: «sono venuti i ladri in casa, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo».
Mazzon lo ha poi ripetuto a Paolo Di Stefano (sul “Corriere della Sera”, 4 marzo 2010):
«Nel ’75, dopo la tragedia di Pier Paolo, Graziella chiamò mia madre per dirle di quel furto. Quando mia madre me lo riferì, pensai: “Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa”. E pensai anche: “Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?”. Il mio stato d’animo sul momento fu proprio quello. Avevo 29 anni e ricordo bene la sensazione che ebbi. Poi il particolare del furto mi tornò alla mente leggendo Petrolio e venendo a sapere della parti scomparse» Perché l’imbarazzo? «Perché non riesco a capire come mai mia cugina continui a negare quel fatto. Dopo l’annuncio del ritrovamento, l’ho cercata al telefono, ma senza successo: vorrei chiarire, cercare di ricomporre il ricordo. Mia madre è morta due anni fa e non posso più chiederle conferma, ma quella comunicazione telefonica ci fu e si verificò dopo la morte di Pier Paolo, non potrei dire esattamente quanti giorni dopo».
Ancora Mazzon a Matteo Sacchi (“il Giornale”, 4 marzo 2010):
«Io ricordo bene che dopo la morte di Pasolini mia madre ricevette una telefonata proprio da Graziella Chiarcossi che le comunicava che c’era stato un furto. Avevano portato via delle carte e dei gioielli. Mia madre era molto turbata. All’epoca non pensammo affatto aPetrolio. Ma col senno di poi e con queste rivelazioni, tutto potrebbe assumere un senso».
«L’ho letto, è inquietante, parla di temi e problemi dell’Eni, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro Paese». Così parlò Marcello Dell’Utri il 2 marzo 2010, annunciando che di Lampi sull’Eni - il capitolo mancante di Petrolio - proprio di quelle pagine proprio lui, beffardamente era entrato in possesso. Una notizia clamorosa due volte: perché l’amico dello stalliere di Arcore stava dando (inconsapevolmente?) una “notizia di reato” e perché nonostante Dell’Utri ci saremmo trovati di fronte a pagine di rilevante interesse sia storico che letterario.
Presto Dell’Utri si corregge: «in realtà non l’ho letto… me ne hanno riferito un sunto… sembra che in quelle pagine Pasolini parli… parli dell’Eni… di Cefis… di Mattei…». E a Paolo Di Stefano (“Corriere della Sera”, 12 marzo 2010): ma lei li ha visti? «Li ho avuti tra le mani per qualche minuto, sperando di poterli leggere con calma dopo». Che fisionomia avevano? «Una settantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano». Poi si preciserà che sono esattamente 78 «di un totale di circa duecento». Potrebbe essere il famoso capitolo mancante, intitolato Lampi sull’Eni? Risposta: «Più esattamente Lampi su Eni».
Alessandro Noceti (collaboratore di Dell’Utri) su “il Giornale” del 4 marzo 2010 dice che quelle pagine «erano all’interno di una cassa. La cassa apparteneva ad un Istituto che ne è anche proprietario». A quanto sembra, le veline sparite sarebbero in mano a un antiquario - un intermediario - che le avrebbe offerte a Dell’Utri.
Nell’ottobre 1974 Pasolini dichiara di essere arrivato a 600 pagine (un mese prima erano 337), mentre al filologo Aurelio Roncaglia la cugina Graziella Chiarcossi ne consegna 522: 492 pagine dattiloscritte, le altre a mano, «senza contare - osserva Gianni D’Elia nel suo prezioso libro-inchiesta Il Petrolio delle stragi - che in pochi mesi ne aveva scritte circa 200».
Chi sono i veri assassini? Quali i mandanti? Domande in sospeso su cui insistono oltre a D’Elia anche Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in Profondo nero (lo stesso titolo di uno dei capitoli del libro di D’Elia, che i due autori correttamente indicano tra le principali fonti d’ispirazione del loro lavoro). Lo Bianco e Rizza:
Ragioniamo. Se il delitto Pasolini è un delitto «politico» complesso, effettuato su commissione, ordinato dagli stessi ambienti che hanno voluto la morte di Mattei e depistato le indagini su De Mauro, per comprendere bene la dinamica bisogna fare ricorso alla teoria dei «cerchi concentrici», più volte utilizzata per spiegare i delitti eccellenti. Quelli in cui non c’è un rapporto diretto, un vero e proprio contatto tra mandanti ed esecutori, ma un sistema di «cerchi concentrici», che, partendo dall’interno, trasmette l’ordine (o, meglio, «la volontà») all’esterno per l’esecuzione, in una compartimentazione di informazioni che tutela i livelli più alti ed espone solo la manovalanza.
Assieme al dossier di Carlo Lucarelli e Gianni Borgna uscito su “Micromega” n. 6/2005, alle tante firme italiane e internazionali raccolte dalla rivista “Il primo amore” per la riapertura del processo e al presunto ritrovamento di una parte del capitolo mancante Lampi sull’Eni, i libri di D’Elia e Lo Bianco e Rezza hanno portato ad una nuova più approfondita indagine sulla morte del grande regista e poeta friulano. Nuova anche l’ipotesi di reato: omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.
Il 27 marzo 2009 l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini hanno depositato alla Procura di Roma un’istanza di riapertura delle indagini sulla morte di Pasolini, affidata al sostituto procuratore Diana De Martino. L’identità degli esecutori materiali potrebbe essere oggi accertata analizzando le tracce ematiche sulla camicia di Pasolini, conservata in uno scatolone al Museo criminologico di Roma insieme agli altri reperti ritrovati sull’auto, alcuni dei quali (un maglione verde, un plantare misura 41 e altri ancora) non appartenenti a Pasolini. Secondo il comandante del Reparto Carabinieri Investigazioni Scientifiche (Ris) Luciano Garofano (in Delitti e misteri del passato, Rizzoli 2008), «la disponibilità degli abiti di Pasolini ma soprattutto di quelli di Pelosi ci consentirebbe di ottenere importanti informazioni sulle modalità dell’aggressione».
Quasi quarant’anni dopo. Quarant’anni di verità negate agli italiani, in un Paese esposto alle pulsioni mafiose del Potere. È la pasoliniana «mutazione antropologica della classe dominante», che ritroviamo nel linguaggio narcotizzante della televisione, (la grande scommessa P2 persa da Cefis, vinta da Berlusconi), nelle parole vuote - menzognere e terroristiche - della pseudopolitica e nell’immutata logica del Potere, che ha portato al mondo in cui viviamo adesso.
Scrive Gianni D’Elia nel suo Petrolio delle stragi: «le parti di Petrolio che non si trovano più davano forse molto fastidio al Nuovo Potere, che si andava consolidando. Forse avrebbero fatto lo stesso botto di Mani pulite, contro la Tangentopoli stragista di quella stagione, invece sepolta nella rimozione che siamo diventati, pasolinianamente, “a mutazione criminale avvenuta”».
1. PREMESSA 1.1. Presentazione dell’opera e stato dei materiali
L’edizione di Petrolio costituisce la riproduzione fedele, praticamente fotografica, del manoscritto pasoliniano, a cui l’autore si dedicò negli ultimi quattro anni della sua esistenza (dal 1972 al 1975). Nelle dichiarate intenzioni di Pasolini, il progetto prevedeva la redazione di duemila pagine e l’opera può, dunque, definirsi incompiuta, almeno in base a considerazioni puramente logiche. Dal punto di vista oggettivo, infatti, il romanzo (che l’autore, però, nel corso dell’opera, definisce frequentemente ‘poema’) si presenta in condizione di frammentarietà, poiché a parti che presentano un certo sviluppo narrativo e, dunque, un certo grado di rifinitura, se ne affiancano altre che dimostrano, invece, lacune e incongruenze.
I materiali vengono suddivisi dall’autore in unità tematiche e definite con il termine di ‘Appunti’ [1]: essi corrispondono, almeno apparentemente, ai capitoli dell’opera e sono numerati in un ordine che è solo indicativamente progressivo, poiché, in realtà, ci sono soluzioni di continuità all’interno della successione.
In genere ognuno di tali Appunti consta di una intestazione (dove si specifica il numero progressivo), di un titolo e di un testo; ma non è infrequente il caso di assenza di uno o più di tali elementi componenti. Oltre a queste unità, compaiono nel testo edito anche blocchi di annotazioni dell’autore, concernenti il processo compositivo dell’opera, bozze programmatiche o promemoria, che, rispetto al resto, vengono resi in modo diverso anche tipograficamente, tramite, cioè, l’impiego di caratteri di stampa dal corpo più piccolo, in modo da connotare la loro natura di appunti tracciati a mano dall’autore, in calce o a integrazione del dattiloscritto.
1.2. Questioni metodologiche
Questo lavoro, ancorché dedicato all’ultimo romanzo postumo di Pier Paolo Pasolini, non si propone di avere un carattere e un’impronta meramente letteraria, cioè non intende limitare la natura della sua analisi all’interno degli stretti confini della dimensione narrativa.
Ciò, ancor prima di essere una ingenuità euristica imperdonabile, visto che è l’autore stesso a distogliere il lettore da una lettura “immediata” del suo romanzo, affermando più volte che non è sua intenzione di scrivere una storia, risulterebbe nel contempo un’operazione assai ardua, visto lo stato di “incompiutezza” dell’opera stessa.
Proprio partendo dalla oggettiva (almeno apparente) condizione di provvisorietà del romanzo, a cui ha sicuramente contribuito anche l’improvvisa scomparsa del suo autore, ma, nel contempo, tenendo conto anche di ciò che lui stesso ha lasciato scritto, proprio in apertura, circa la natura di programmata frammentarietà di tutta l’opera, abbiamo voluto suggerire un tipo di lettura che tenga conto del materiale narrativo di Petrolio soltanto come una delle sue componenti comunicative.
Da tale punto di vista, la complessità espressiva del “romanzo” ci è sembrata, dunque, richiedere un tipo di approccio che fosse più di natura linguistica e semiologica che non strettamente letteraria.
E’ chiaro che per tentare un’operazione del genere, ossia per rintracciare all’interno dell’opera tutte le strategie comunicative di cui l’autore si serve, non potevamo fare a meno di adottare un criterio rigorosamente analitico nello studio di tutte le componenti del romanzo.
Questo tipo di procedura, se da un lato potrebbe apparire del tutto fuori luogo, per un’opera che non è stata licenziata ufficialmente dall’autore e che, quindi, è da vedere, secondo tale punto di vista, soltanto come un “cantiere” di lavori in corso, dall’altro, proprio esso ci ha consentito, tuttavia, di valutare sia la quantità, sia la qualità di ciò che l’autore è riuscito a realizzare e, soprattutto, di poter trarre da esso spunti di riflessione che riguardino la plausibilità o meno della presunta o reale incompiutezza dell’opera.
Se noi, infatti, teniamo conto di ciò che, all’inizio del libro, afferma l’autore tramite la pseudo nota editoriale [2], non possiamo ignorare l’alto e significativo peso funzionale che lo stato di frammentarietà dei materiali dell’opera doveva avere nell’economia del progetto del suo autore e, dunque, non è da escludere del tutto – a nostro avviso – la possibilità che il “romanzo” di Petrolio, nelle intenzioni di chi lo ha progettato, si potesse già definire “compiuto” anche così.
E’ chiaro che la sopravvenuta morte dell’autore ha fatto sì che il romanzo ci giungesse esattamente nel modo in cui noi lo possiamo recepire adesso, ma, con ciò, non possiamo obbiettivamente ritenere che Pasolini avesse proprio tale intenzione, poiché, in questo caso, bisognerebbe necessariamente postulare: o che egli avesse concluso i lavori proprio nei giorni precedenti la sua morte; oppure che avesse addirittura programmato la sua scomparsa. Ciò, però, sia nel primo sia nel secondo caso, ci appare ipotesi troppo azzardata.
La cosa che, invece, ci sembra del tutto plausibile è che l’autore avesse già realizzato sostanzialmente, attraverso le quasi seicento pagine di manoscritto, la cifra del suo disegno creativo, consistente, appunto, nella giustapposizione tra parti “concluse” e bozze programmatiche, ossia, nella relazione dialettica “tra detto e non detto” e, dunque, tra ciò che c’è e ciò che non c’è.
Da questo punto di vista, viene, allora, da credere che il completamento del progetto dell’autore, ammesso che fosse stato previsto, sarebbe consistito soprattutto in un ampliamento essenzialmente quantitativo del repertorio di materiali già esistenti, con il risultato di rendere ancora più evidente il nucleo di senso di tutta l’opera, che risiede – a nostro avviso - nella rappresentazione dell’atto creativo di uno scrittore, nel momento in cui dà vita al suo romanzo. In quest’ottica è più che comprensibile, dunque, che non si possa parlare né di inizio (come, infatti, si sottolinea nell’App. 12), né di conclusione di un progetto del genere [3], che arriva a coincidere sostanzialmente con la vita stessa dell’autore e che soltanto con la morte può pensare di trovare una fine. Ecco perché, dunque, l’autore, nella lettera al suo amico Alberto, posta in calce al manoscritto, arriva a definire la sua opera “il preambolo di un testamento” [4]: poiché soltanto con la scomparsa dello scrittore si può finalmente dare un senso compiuto a ciò che lui ha inteso comunicarci da vivo.
2. LA FABULA
2.1. Lo “scheletro” narrativo
Dalle parti narrative di Petrolio, possiamo estrapolare la seguente traccia fabulistica:
Carlo si trova nella sua abitazione di Roma e, all’improvviso, cade a terra.
Arrivano due misteriosi esseri, non si sa da dove e cominciano a discutere per appropriarsi ciascuno di una parte del suo corpo. Dalla spartizione risulta il Carlo di Tetis e il Carlo di Polis. I due si allontanano.
I due esseri (non si può dire se si tratti di quelli che si sono spartiti il corpo di Carlo, oppure i due Carli che ne sono derivati), escono in città ed ordinano da bere in un bar.
Tetis cerca una persona, perché le deve parlare: va prima in città e poi, non trovandola, si reca con il treno in Sicilia. Qui, la trova ma non riesce mai a parlarci. Ritorna, quindi, a Roma con lei.
Nella Capitale, alcuni misteriosi personaggi si riuniscono con l’intento di far seguire Carlo, in tutti i suoi movimenti, da una spia, che dovrà riferire loro su quanto è venuto a sapere. Incaricato di tale missione è un certo Pasquale.
Carlo parte per Torino in treno.
Pasquale sta tornando a Roma, dopo aver compiuto con successo la sua missione. Fa il viaggio in treno insieme ad un signore. Quando arrivano a Roma, entrambi si accorgono di aver perso la valigia. Per Pasquale significa lo smarrimento del suo resoconto su Carlo.
Carlo giunge a Torino da sua madre ed ha un rapporto incestuoso con lei. Rivede le sorelle e conosce la governante, con la quale soddisfa un suo impulso autoerotico. Rintraccia sua madre ad una festa, dove consuma un altro incesto. Carlo esce e va in città, in uno dei caffè del centro, dove ritrova i vecchi amici. Dopo aver fatto colazione, rincasa per riposare. Nel pomeriggio esce di nuovo, diretto verso i giardinetti, lungo il Po, alla ricerca di ragazzine.
Carlo si sposta alla stazione dove, per molte settimane, continua questa sua ricerca di bambine.
Carlo rincasa e si reca a trovare la nonna, che abita in una villa non lontana da quella di famiglia. Qui giunto, fa la conoscenza di Viola, la figlia della governante. La nonna invita il nipote a rimanere a cena con lei. Alla fine della serata, i due sono ubriachi e Carlo ha un approccio erotico con la nonna.
Uscito dall’abitazione della nonna, Carlo rincasa e si corica. Fa un sogno convulso che vede anche la presenza del padre. Tale sogno prevede un’appendice a tavola: era tornato suo padre (non riusciamo, però, a stabilire se nella realtà o nella finzione onirica) e la famiglia è, dunque, al completo. Le parole del padre suscitano in Carlo un sussulto e accendono in lui l’interesse nei confronti delle persone del suo stesso sesso.
Intanto, a Roma, il resoconto di Pasquale su Carlo viene ritrovato una mattina a Porta Portese. A scoprirlo, in mezzo a tanti altri libri, è un misterioso personaggio, un certo letterato veneto, dal cognome in -on.
L’attenzione adesso si focalizza su Carlo I che, a Roma, si sta recando ad un ricevimento, dalla signora F. E’ con lui un suo vecchio compagno di scuola, tale Guido Casalegno.
Questa signora F., oltre a dare ricevimenti, si dedica a parecchie attività culturali, che trovano l’aiuto finanziario anche del mondo dell’imprenditoria.
Al ricevimento sono presenti molti personaggi influenti, tra cui anche esponenti dell’Eni, i quali avvicinano Carlo con l’intento di mettere alla prova la sua disponibilità ad entrare nella grande azienda. Gli propongono un viaggio in Oriente.
Il ricevimento si conclude (lo desumiamo dal titolo di uno dei paragrafi). Si svolge il viaggio in Oriente, i cui dettagli sono sinteticamente forniti tramite riferimenti telegrafici.
I due Carli, intanto, si incontrano ogni sera con l’intento di scambiarsi le loro esperienze. Carlo II esce la sera in cerca di sesso e rientra la notte tardi.
Una sera, Carlo, mentre cammina nei pressi della stazione Termini, assiste ad un corteo motorizzato di giovani comunisti che cantano e sventolano bandiere.
All’improvviso egli comincia a sentirsi strano; torna in taxi a casa e qui scopre di aver subìto un cambiamento di sesso: da uomo è diventato donna.
Si accenna ad un incontro di Carlo con un certo Tonino, alla stazione Termini.
Dieci anni dopo il primo viaggio, Carlo I torna in Oriente per conto dell’Eni, stavolta in qualità di responsabile della commissione.
L’altro Carlo, intanto, rimasto a Roma, ha un incontro erotico con venti ragazzi (in realtà nove), nel pratone della Casilina.
Carlo I ritorna dal suo secondo viaggio in Oriente. Dalla Malpensa giunge a Roma, di notte, con un’auto presa a noleggio. Quando arriva a casa, si accorge che c’è qualcosa di strano: Karl, infatti, è sparito.
Intanto, la sua posizione all’Eni si sta indebolendo per la improvvisa concorrenza di un suo collega fascista che viene preferito per le sue tendenze politiche.
Convinto che non ci sia la speranza di veder tornare Karl, Carlo prende in considerazione la possibilità di fare lui quello che faceva il suo alterego. Infatti, esce e prova a seguire gli itinerari conosciuti da Karl. Incontra una prostituta ma rimane disgustato e abbandona così subito il proposito.
Di fronte alla sconveniente possibilità che Carlo venga soppiantato professionalmente da un fascista, alcuni oscuri personaggi, legati al mondo della politica, organizzano una cena con il chiaro intento di corrompere ideologicamente Carlo e di “spostarlo” a Destra.
La cena si svolge circa un mese prima delle elezioni politiche. Verso metà della serata, Carlo ha la strana sensazione di aver subìto un cambiamento della propria identità sessuale. Finita la cena, Carlo, un po’ ubriaco, rientra a casa; proprio davanti alla sua abitazione, egli ha una visione, che contempla ancora la presenza del padre. Quando entra nella sua camera, si guarda allo specchio e si accorge che è diventato donna. Passa il tempo e Carlo viene invitato ad un’altra cena, stavolta al ristorante Toulà, di Roma. Anfitrione della serata è un certo on. Tortora. Al momento di riprendere il soprabito, poco prima di uscire, Carlo viene colpito dal guardarobiere, un ragazzo siciliano, Carmelo, e se ne invaghisce. Nasce una complicità tra i due che culmina con il loro incontro e il conseguente rapporto sessuale. Terminata questa avventura erotica, Carmelo, rientrando a casa, viene prelevato da due misteriosi personaggi con i quali fa un lungo viaggio in auto che termina in una località di mare. Qui, egli si imbarca su una motonave (su cui si trovano altri personaggi), presumibilmente alla volta di Palermo, dove arriva di sera.
Il giorno dopo il suo incontro erotico con Carmelo, Carlo si sveglia e prova un ardente desiderio di rivederlo.
La sera egli si reca al Toulà ma con suo grande rammarico si accorge che Carmelo non c’è. A questo punto, Carlo si rende conto che l’assenza di Carmelo non è un dolore ma una liberazione.
Una sera di inverno, Carlo esce e raggiunge a piedi il Colosseo, dove trova un gruppetto di frequentatori. Si unisce a loro e, mentre ascolta le loro parole, ha una visione: immagina di trovarsi su un carro che viene trascinato all’indietro e di assistere alla lunga galleria di orrori rappresentata dai tipi che popolano la via Torpignattara e le sue trasversali. Filo conduttore di questo grottesco viaggio sono “Il Merda” e la sua ragazza, di nome Cinzia, che procedono a braccetto per tutto il percorso. Ogni tanto, Carlo viene illuminato sul significato di ciò che vede da alcuni Dei, che sono, poi, coloro che spingono il carretto.
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1 Da ora in poi abbreviato, nel corso del presente lavoro, con la sigla: App.
2 Cfr. P. P. PASOLINI, Petrolio, a cura di M. Careri e G. Chiarcossi, Einaudi, Torino 1992, p. 9. (Da ora in poi citato mediante la sigla: P).
3 “Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita” (da un’intervista rilasciata a Luisella Re e apparsa su “Stampa-Sera” del 10/01/1975).
4 P. P. PASOLINI, P., p. 545.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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«La negra luce». Pier Paolo Pasolini e l’autobiografia di una «passione recidiva» di Alessandro Barbato
«Ah, le mie passioni recidive
costrette a non avere residenza!»
Pier Paolo Pasolini (1964: 31)
Chiunque abbia una certa familiarità con la sterminata bibliografia critica riguardante i diversi aspetti della multiforme produzione di Pier Paolo Pasolini, non può sorvolare su un dato che sembra accomunare un immenso bacino di monografie che, anno dopo anno, si arricchisce di titoli e di contributi provenienti da ambiti disciplinari diversi e, talvolta, anche distanti l’uno dall’altro. Si tratta della pressoché impossibilità ad affrontare qualsiasi aspetto dell’opera dell’autore prescindendo da continui riferimenti biografici ai quali è spesso attribuito il compito di chiarire i perché di una scelta, le motivazioni di un cambio di tecnica o di direzione, i significati di un improvviso ritorno a un tema che sembrava esaurito, le ragioni di un inatteso salto in avanti verso una nuova frontiera della propria espressività artistica.
Esiste, in effetti, una profonda e attiva corrispondenza tra la vita e l’opera di Pier Paolo Pasolini. E se da un lato tale formula potrebbe apparire niente più che il riproporsi di un antico adagio di cui si è spesso nutrita la critica letteraria; dall’altro, nel caso specifico, essa consente di avviare una più profonda analisi della produzione di un artista che, in maniera sempre più determinata, decise quasi di irrompere nei propri lavori con la sua stessa presenza d’intellettuale e di uomo pubblico. Presenza la cui discussa e a tratti scandalosa celebrità - controbilanciata da una solitudine esistenziale dai contorni vittimistici e sacrificali altrettanto esibiti - lentamente pare imporsi anche a discapito della vita intima dell’autore; in una progressiva e problematica sovrapposizione del personaggio alla persona alimentata coscientemente e provocatoriamente da Pasolini stesso.
Per queste ragioni, è proprio dall’insieme delle opere, più ancora che dalle numerose dichiarazioni con le quali Pasolini volle rendere note le sue vicende biografiche, che emerge l’affascinante autoritratto di un autore che sembra aver pazientemente diluito la sua stessa esistenza negli oltre tre decenni che abbraccia la sua produzione.
Tale peculiarità non poteva sfuggire a Walter Siti, curatore dell’edizione delle opere complete dell’autore per i tipi «I meridiani» dell’editore Mondadori, nonché uno dei massimi esperti e conoscitori della produzione pasoliniana. Il titolo del suo lungo saggio di apertura al primo dei dieci volumi che conta l’edizione - Tracce scritte di un’opera vivente (Siti 1998a: XI-XCII) - indirizza sin da subito il lettore sulla specificità di un rapporto, quello tra vita e opera, che in Pasolini più che in altri non può essere trascurato o liquidato in poche battute. Siti sostiene addirittura che «è perbenistico, per uno scrittore del suo tipo, voler separare il personaggio dall’opera - un atteggiamento di purismo accademico, che volesse prendere in esame soltanto la coerenza interna dei testi, virtuosamente prescindendo dai clamori della biografia, finirebbe col tradire i testi stessi, nella cui forma è iscritta l’immagine di chi li ha concepiti, come quei quadri in cui l’autore ha dipinto se stesso nell’atto di dipingere» (ibid.: XXX).
Altrove, riflettendo sul Pasolini narratore, Siti spiega che la scarsa predisposizione dell’autore a plasmare personaggi che siano in qualche modo autonomi rispetto al loro creatore sia da rintracciare «nell’impossibilità di Pasolini di donarsi a un personaggio, cancellandosi», e ciò non «per mancanza di generosità, ma per eccesso di competizione. Pasolini è sempre sulla scena, è con lui che il lettore incessantemente s’identifica, perché lo sente come qualcuno che non ha mai finito di fare i conti con il mondo; è sempre lui che si giustifica, che mostra, che si incanta, che accusa.» (Siti 1998b: XCVIII). La precedente affermazione può agilmente essere applicata ai diversi ambiti in cui si dispiega la creatività pasoliniana: che si tratti dei racconti o delle poesie, della saggistica o del cinema; la continua presenza - quasi ingerenza - dell’autore nelle sue opere; il suo perenne essere presente come centro nevralgico di ciascun verso, periodo o inquadratura - oltre che il suo “presenzialismo” unito a una volontà quasi didascalica nello spiegare e nel difendere ogni sua iniziativa con una vivacità polemica fatta di continui rilanci talvolta seguiti da amare abiure - contribuiscono a imbrigliare in un’unica e densa matassa opera, persona e personaggio.
Da ciò deriva anche la difficoltà dei critici nel separare l’una dall’altra musa espressiva utilizzata dall’autore. La vena poetica s’innerva nel cinema e nella prosa letteraria come se questi fossero il naturale prolungamento, direi anzi il potenziamento, di un’esperienza - quella poetica - elevata al grado di ragione esistenziale oltre che di strumento conoscitivo atto a penetrare il mondo fin nella sua più riposta sostanza (Arecco 1977: 80). Allo stesso modo la prosa artistica dei primi esperimenti narrativi imbeve con il suo stile, e con i suoi motivi ricorrenti, quelle che dovrebbero essere distaccate pagine di critica letteraria dedicate ad altri, ma dove l’autore finisce spesso per parlare di sé (Pasolini 1979). Il linguaggio cinematografico si condensa nei versi delle sillogi poetiche pubblicate in concomitanza con l’uscita di un film nelle sale. Raccolte in cui la poesia stessa tende a divenire prosa magmatica; diario balbettante e incerto in cui, con l’uso dei puntini di sospensione, di parentesi o della dicitura omissis, sono versificate anche le ansie e dubbi di uno scrittore che si muove spesso ai limiti della confessione pubblica e psicologica, solo a tratti sublimata nello spazio letterario di una descrizione paesaggistica, di un movimento proprio o altrui, di un rincorrersi di luci e di voci su uno spiazzo della desolata periferia romana (Pasolini 1964).
Nascono in questo modo generi originali come l’intervista e la polemica in versi, la finta poesia su commissione, il saggio en poète. Oltre che i tanti appunti per opere da farsi che Pasolini inizia a pubblicare, o a realizzare cinematograficamente, nel momento stesso in cui si dedica a sperimentare nuove modalità espressive finendo per appassionarsi al «non finito»: ovvero alla pubblicazione di opere il cui tragitto editoriale o redazionale era rimasto, per diverse ragioni, incompiuto; o al confezionamento di testi che raccolgono diversi tipi di contributi, con tanto di appunti per opere da farsi. Materiali eterogenei che sono offerti al lettore quasi fossero i documenti di un cammino, personale e culturale, sorpreso nell’atto stesso del suo prodursi. Quello che ne scaturisce è una vera e propria restituzione di frammenti che alludono a disegni più vasti, e che devono proprio al loro essere rimasti parte di un insieme più ampio, che in qualche modo li completa, la propria legittimità. Insieme che non è altro che l’autore stesso. La sua vita - letteraria o reale poco importa considerando quanto sono intrecciate l’una nell’altra, - le sue nevrosi. Le personali aspirazioni - tanto artistiche quanto umane - in cui nuovamente si rispecchiano i dubbi, le convinzioni, le sofferenze intime e i disagi derivati dalle evoluzioni di una società il cui quadro angosciante pare a sua volta immergersi nella vita dell’autore per poi riaffiorare, sotto forma di opera, dalle pulsioni e da un intelletto che nutrono una creatività sempre più polemica e rabbiosa. In tal modo il poeta, l’uomo e il personaggio Pasolini riescono effettivamente a ricongiungersi nell’insieme di una produzione interpretabile anche come una sorta di piccolo «meta-luogo» in cui la storia personale dell’autore incontra quella collettiva di un paese, l’Italia, coinvolto allora in una grande, e per Pasolini innaturale, trasformazione; intersecandosi in un complesso affresco a tinte forti, e gettandosi addosso reciprocamente le luci e le ombre di un’intensa stagione artistica, culturale e politica.
Per queste ragioni è quanto mai arduo occuparsi di Pasolini senza tenere ben presenti la particolare temperie storica in cui era coinvolto, le vicende giudiziarie e sentimentali che lo scossero e che determinarono crisi personali e rigetti, i fatti e gli avvenimenti su cui non mancò mai di esprimere il suo, talvolta esasperato, punto di vista. Ed è anche per questo che, soprattutto a partire dagli anni sessanta, l’intera opera pasoliniana sembra di volta in volta divenire «quel tavolo anatomico su cui è esposto nudo il corpo dell’autore» di cui Siti parla riferendosi alla produzione poetica (Siti 1998a: XLVIII). Un corpo su cui è possibile ritrovare anche le ecchimosi e gli sfregi causati dal vivere, oltre che quelli determinati da una lunga carriera letteraria e cinematografica che, anche grazie alla fioritura degli studi sul tema, sembra sempre di più assumere le vesti di una straordinaria e affascinante autobiografia.
Corpo esposto, occorre aggiungere, non soltanto metaforicamente; ma anche materialmente attraverso una miriade di scatti fotografici che hanno immortalato Pasolini a lavoro sul set di un film così come durante l’appassionata presentazione di un libro. Curioso e sorridente tra i baraccati romani o nel corso di uno dei suoi originali reportage giornalistici; in atteggiamento pensieroso davanti alla macchina per scrivere nella sua abitazione privata oppure in una trattoria, con uno sguardo allegro e scanzonato, mentre mangia in compagnia dei suoi amici e confidenti.
O ancora quelle di Dino Pedriali che lo ritraggono nudo, dietro i vetri offuscati del suo tanto sospirato eremo viterbese: quello che riuscì ad acquistare qualche tempo dopo aver anche versificato su tale desiderio (Pasolini 2003, vol. II: 1288), e che sarebbero dovute servire da documento da inserire nell’immenso romanzo incompiuto - una sorta di summa di tutte le esperienze precedenti, caratterizzato da uno stile fortemente autobiografico - cui lo scrittore lavorava quando la morte lo sorprese (Siciliano 2005: 406-408, I ed. 1978).
Come dimenticare poi quelle - tristemente note - del suo cadavere dilaniato e impastato di terra e sangue pubblicate sui quotidiani all’indomani del suo barbaro assassinio; o quelle altrettanto celebri dei suoi affollatissimi funerali. Non è esagerato affermare che Pasolini è stato tra i letterati più fotografati del novecento; tanto che un’accurata scelta di materiali pubblici e privati è stata alla base di un’originale biografia per immagini che ci restituisce, oltre le pose di un uomo sempre più consapevole della propria dimensione pubblica, anche le atmosfere - sociali e culturali - che l’autore volle attraversare da discusso, ma proprio per questo indiscutibile, protagonista (Pierangeli Barbaro 1999). Forse una poesia, più di ogni altra, esprime appieno il particolare rapporto che intercorre tra la vita e l’opera dell’autore, esteriorizzando anche il suo prevaricante desiderio di gettare, metaforicamente e non, il proprio corpo, e con esso la propria vita e la propria storia, nella lotta che in quegli anni aveva deciso di ingaggiare contro gli spettri di una società che a suo dire, com’è noto, stava rapidamente scivolando verso una cupa barbarie tecnologica e inespressiva.
Si tratta del poemetto Poeta delle ceneri pubblicato postumo sul numero di luglio-dicembre 1980 della rivista «Nuovi Argomenti» a cura di Enzo Siciliano (ora in Pasolini 2003, vol. II: 1261-1288) ma datato 1966. Da una breve nota di Siciliano si apprende che i versi furono scritti durante un soggiorno di Pasolini a New York, e come risposta a una non meglio precisata, forse solo immaginata, richiesta d’intervista da parte di un giornale statunitense. Il titolo originario, racconta Siciliano, sarebbe dovuto essere, con tutta probabilità, Who is me. Il contenuto, come lo stesso titolo previsto lascia intuire, ancora una volta autobiografico. In esso Pasolini ripercorre la sua vita sin dalla sua nascita «in una città piena di portici nel 1922»; rileva con orgoglio narcisistico di dimostrare meno dei quarantaquattro anni che aveva all’epoca; rievoca il dolore causatogli dalla morte prematura del fratello Guido e come lui stesso lo avesse indirizzato verso il tragico destino che lo attendeva tra i monti friulani dove si era aggregato alla lotta partigiana.
Parla poi diffusamente dei suoi genitori: di quanto amasse sua madre, «la cosa più importante della mia vita», e ancora più a lungo dell’inimicizia, a suo dire figlia del destino, che lo opponeva al padre; cui pure aveva dedicato il suo primo libretto di versi: quelle Poesie a Casarsa che il genitore ricevette per posta durante la prigionia in cui era caduto in Kenya nel corso della seconda guerra mondiale. Versi che Pasolini dice di considerare «i miei più belli/ insieme a quelli scritti fino ai ventitré, ventiquattro anni,/ […] nati da quella profonda elegia friulana/ di autolesionista, esibizionista e masturbatore». (ibid.: 1265)
Subito dopo questa lunga incursione nello spazio del familiare e nel sogno giovanile di una vita che fosse pura poesia, ecco che i clamori della cronaca si mescolano a quello che sembrava essere fin lì un tono confidenziale: «Non posso dirvi altre cose/ del mio soggiorno/ in quel paese di temporali e di primule,/[…] s’incaricheranno magari dei giornalisti italiani fascisti…» a raccontare «quella pagina di romanzo» che fu la precipitosa fuga del poeta e di sua madre dai rancori paranoici di un padre sempre più isolato nell’alcolismo e nella sua follia; e il conseguente spezzarsi del cordone ombelicale che lo legava all’amata terra materna (Siciliano 2005: 158-175). Una fuga in treno verso Roma, consumata all’alba che, insieme alla perdita del posto da insegnante che aveva ottenuto presso una scuola media di Valvasone, fu la più immediata conseguenza di una denuncia per corruzione di minore e atti osceni che significò per Pasolini anche la pubblica rivelazione di un’omosessualità fino ad allora vissuta con un continuo contraddirsi di abbandoni e sensi di colpa, come peraltro le poesie e altri scritti del periodo - veri e propri idilli in cui il tempo pare cristallizzarsi nel mito di una giovinezza perfetta e atemporale squarciata soltanto dai frequenti inserti autobiografici - illustrano abbondantemente; oltre che l’inizio di una lunga serie di processi, alcuni palesemente pretestuosi, che lo coinvolsero anche dopo la morte (Betti 1977).
Un’esperienza vissuta come il protagonista di una pagina di romanzo, «l’unica della mia vita:/ per il resto, che volete, / sono vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso.» (Pasolini 2003, vol. II: 1265). Vivere dentro una lirica lasciando che la vita stessa divenisse un immenso componimento capace di restituire al poeta un nido caldo e materno dentro il quale trovare riparo e celebrare il mistero e l’intima sacralità dell’esistenza. Allo stesso tempo però, così concepita, la poesia non può non apparire simile a una membrana che separa l’autore da una realtà che questi non riesce mai a possedere completamente se non attraverso lo scarto di un filtro poetico che, alla lunga, si rivela inadeguato a pacificare le contraddizioni e gli spasmi quotidianamente riversati in tumultuosi fiumi di versi in lingua e in dialetto. Anche per questo, già durante la giovinezza, Pasolini oltre alla poesia, adotta un particolare stile narrativo, che presto avrebbe invaso la poesia stessa, che gli consente di rispondere a un’esigenza di «sincerità» sempre più impellente: «mi sembra ormai considerazione di ordine inferiore anche l’intendere la poesia in friulano come un limbo consentito a chi voglia sfuggire a un impulso morale di troppa e assoluta sincerità.» (Pasolini 1988: 209).
Un’ossessione - quella per la sincerità - che ben presto si lega al desiderio di essere presente all’interno di una realtà da cui il poeta si sente invece fatalmente e drammaticamente escluso; e che più tardi avrebbe condotto Pasolini a filosofare sul cinema come dello strumento privilegiato per tentare di catturare la lingua primigenia - la lingua della realtà appunto - che scaturisce da un fluire di uomini, oggetti, luci, voci, sentimenti e odori (Pasolini 1972: 202-230). Dalle passioni e dalle ideologie che sarebbero allo stesso modo divenute la materia vivente di un ininterrotto poema bio-bibliografico che l’autore avrebbe continuato ad aggiornare fino alla fine, senza escludervi abbagli e sconfitte, le sue così come quelle della poesia stessa. Di questo senso di esclusione, precedente anche alla consapevolezza della propria diversità, Pasolini non può fare a meno di narrare in Poeta delle Ceneri. Così come non può esimersi dal descrivere il terrore, simile a «quello che può provare un negro a Chicago», riversatogli addosso da una borghesia ignorante, forcaiola, razzista e transazionale: «la borghesia italiana intorno a me è una torma di assassini./ Non spero certo migliore accoglienza dalla borghesia americana.» (Pasolini 2003, vol. II: 1269)
Il rapporto tra Pasolini e la borghesia - che più che una classe sociale rappresenta un atteggiamento dello spirito, anzi una vera e propria «malattia contagiosa» (Pasolini 1992a: 460) - ricalca il contrastato legame che il poeta visse con il padre Carlo Alberto: ufficiale di fanteria e convinto sostenitore del fascismo, oltre che uomo smodatamente fiero delle antiche tradizioni familiari e sociali tipiche del suo status (Siciliano 2005: 34-36). Rifiutando il mondo borghese cui apparteneva per nascita, Pasolini spiega di aver voluto, in principio inconsciamente, respingere il fascismo, lo sterile tradizionalismo conformista della «società dei padri» - e di quel padre che sembrava essere la summa di tutti i padri -; delegittimando alla radice quelle regole sociali la cui infrazione relegava in maniera definitiva tra i diversi, tra i segnati (Pasolini 1992b: 32-34).
Anche la dedica al genitore delle Poesie a Casarsa, in parte figlia - sostiene il poeta - del suo ingenuo conformismo di ventenne, era in realtà una prima, ma già pronunciata presa di distanza dal padre; da quell’uomo «prepotente, egoista, egocentrico tirannico ed autoritario» (ibid.: 28). Quest’ultimo del resto, benché orgoglioso della carriera letteraria intrapresa dal figlio, non poteva accettare di buon grado l’uso di un dialetto, il friulano, che non rispecchiava la sua datata concezione del mestiere di scrittore. Che non era nemmeno la lingua parlata in casa - se non altro perché essa non apparteneva alle sue nobili origini ravennati né alle abitudini della moglie che parlava veneto -; e che, soprattutto, era una di quelle lingue particolari che la politica culturale del fascismo disprezzava e intendeva abolire. (ibid.: 28-29).
Il rifiuto della cultura borghese, vero e proprio tradimento che Pasolini sentiva di dover pagare in prima persona (Pasolini 1975a: 52), divenne ancora più palese con la decisione di schierarsi al fianco dei contadini e dei proletari durante le lotte per le occupazioni delle terre che infiammarono l’Italia già nei primi mesi del secondo dopoguerra. Una scelta di cui diversi esperimenti narrativi sfociati poi, attraverso complesse rielaborazioni avvenute a più riprese, in un romanzo - Il sogno di una cosa - in cui il dato autobiografico è altresì evidente, offrono una puntuale testimonianza (Pasolini 1962a). Decisione ancora più travagliata e psicologicamente complessa di quanto non appaia in prima battuta, se solo si tiene presente l’anticomunismo viscerale del genitore e, cosa ancora più importante, che l’amato fratello Guido, militante del Partito d’Azione, era caduto in battaglia proprio per mano dei comunisti sloveni durante uno scontro tra opposte brigate partigiane (Siciliano 2005: 95-107). Ad alimentare i contrasti tra padre e figlio si aggiungerà, di lì a breve, il progressivo rivelarsi di un’omosessualità sempre più malamente nascosta; anch’essa peraltro riversata negli scritti del periodo, i quali mescolano a pagine del diario che lo scrittore aveva cominciato a tenere, dissimulazioni romanzesche in cui l’io dell’autore si sdoppia in personaggi che, tra riscritture, varianti, passaggi dalla prima alla terza persona e viceversa, progetti di prefazione e slittamenti vari, rivivono le gioie, gli amori, le speranze, ma anche le lacerazioni e i tormenti della penna che li ha creati (Pasolini 1998, vol. I: 5-336).
Il padre di Pasolini, Carlo Alberto, militare di carriera
Molto altro si potrebbe aggiungere a proposito delle dinamiche familiari vissute da Pasolini, se non altro perché fu il poeta stesso a considerarle fondamentali per comprendere il senso di un percorso creativo che gli appariva indissolubilmente legato, per tutto ciò che riguarda i molteplici risvolti passionali e vitalistici in esso presenti, all’amore smisurato che provava per la madre; così come tutto ciò che vi emergeva di «attivo, volontario e pratico» era figlio dell’eterna lotta che lo contrapponeva al padre (Betti, Gulinucci 1991: 160). Raggiunta la maturità, riflettendo di nuovo sui suoi rapporti con il padre in occasione della stesura del dramma Affabulazione, (Pasolini 1969) incentrato proprio su un conflitto di natura incestuosa che oppone un padre a un figlio, Pasolini riabiliterà parzialmente la memoria di quell’uomo duro e scontroso, cercando di precisare i termini di un legame da cui non emergeva più soltanto odio, ma anche un controverso amore da cui in realtà, contrariamente a quanto aveva sempre creduto, forse scaturivano anche i dati della sua problematica vita sessuale: «mi sono accorto che, in fondo, gran parte della mia vita erotica ed emozionale non dipende da odio contro di lui, ma da amore per lui, un amore che mi portavo dentro da quando avevo circa un anno e mezzo, o forse due o tre» (Pasolini 1992b: 28). Ciò nonostante Affabulazionesi chiude con la tragica uccisione del figlio da parte di un padre completamente impreparato a sopportare la scandalosa diversità di colui che in ogni modo aveva rifiutato di succedergli nella gestione del potere di fabbrica che deteneva, e appare chiaro come in tal modo l’autore intendesse metaforizzare il proprio vissuto individuale per inserirlo in un discorso più generale che riguardava ormai la società neocapitalistica e le sue storture. Tutto ciò aiuta a comprendere quanto sia stato anche l’avvertimento di una comune, ma non identica, diversità rispetto al mondo borghese; unito alla volontà di esporsi proprio in nome di tale diversità, ad affratellare Pasolini a un universo percorso dalle lotte bracciantili, conducendolo così a trasformare l’originaria elegia del mondo contadino, che aveva sin lì nutrito il suo uso del dialetto come di una lingua pura per la poesia, nella scandalosa e sensuale riproduzione, ai limiti del documentarismo, di un mondo vivo e incandescente nel suo potente e alternativo vitalismo (ibid.: 31-33). Sotto quest’aspetto anche l’ideologia, l’impegno politico, le scoperte di Gramsci, del lume radioso della ragione e del marxismo, così come della possibilità da parte di quel mondo, sin lì fatto d’incanti e di tormenti, di oltrepassare la barriera poetica irrompendo nel divenire della storia, non fanno altro che rivelare all’autore la concreta, e ciò nonostante meravigliosa, esistenza di una infinità di piccole e grandi battaglie che, in ogni periferia del mondo, quasi inaspettatamente, sembravano unire il loro destino al suo: «la borghesia, da ragazzo, nel momento più delicato della mia vita, mi ha escluso: mi ha elencato nelle liste dei reietti, dei diversi: e io non posso più dimenticarlo. [...] Non è una pura coincidenza, il fatto che io abbia trovato consolazione, cacciato dai centri, nelle periferie» (Pasolini 1972: 162).
L’autore in precedenza aveva registrato anche poeticamente - ne La scoperta di Marx (1949), una delle sezioni de L’usignolo della chiesa cattolica- tale decisivo passaggio rivolgendosi ancora una volta alla madre. E lo aveva fatto come se si fosse trattato di una vera e propria nascita che in sé, come ogni momento di passaggio, portava già i segni del trauma che sarebbe seguito all’uscita da quel grembo sconfinato dentro il quale aveva continuato sino ad allora a vivere. Un trauma che la precoce espulsione dal partito comunista a seguito del conclamarsi della sua omosessualità avrebbe caricato di nuove amarezze, accrescendo il suo senso d’isolamento e la sensazione di vivere come in esilio. «Non pensavi che il mondo/ di cui sono figlio/ cieco e innamorato // non fosse un giocondo/ possesso di tuo figlio,/ […] ma un’antica/ terra altrui che alla vita/ dà l’ansia dell’esilio?// […] Ma c’è nell’esistenza/ qualcos’altro che amore/ per il proprio destino [...] la nostra storia! Morsa/ di puro amore, forza, razionale e divina.» (Pasolini 2003, vol. I, 499-503).
Già a metà degli anni cinquanta - come puntualmente rivelano Le ceneri di Gramsci (Pasolini 1957) e quello straordinario diario di una crisi che è La religione del mio tempo (Pasolini 1961a) - il progressivo affermarsi della società dei consumi e il rivelarsi del volto ferocemente autoritario del comunismo sovietico, contribuiscono a mutare, quella che era sin dall’origine una timida speranza, nella dura consapevolezza di essere l’inascoltato testimone dell’alba, non di un nuovo corso della storia, ma al contrario di una nuova ed eterna preistoria. Un’epoca in cui anche l’umanità più cara, il mondo contadino e il sottoproletariato delle borgate conosciuto a Roma, si apprestava a farsi rapidamente irriconoscibile cedendo alle lusinghe corruttrici del neocapitalismo.
Così, nell’aprile del 1960, mentre l’Italia è nel pieno delle febbrili dinamiche del boom economico che ne avrebbe mutato in breve tempo il volto e i costumi, Pasolini pubblica le Poesie incivili: cinque liriche incluse ne La religione del mio tempo in cui, tra rievocazioni, rimpianti e delusioni, il poeta descrive il movimento che presto lo avrebbe condotto a collocarsi al di là di una società che a sua volta lo spingeva con veemenza tra i reietti, i diversi, gli sconfitti; seppure, come si è visto, soltanto per una «casuale coincidenza,/ confusione d’incoscienza e di coscienza» ( Pasolini 1961, ora in Id. 2003, vol. I: 1046). I valori resistenziali di uguaglianza libertà e giustizia sociale, che egli aveva abbracciato con slancio e sognante passione, potevano ormai sopravvivere solo come una debole luce morale il cui flebile riflesso non faceva che riaccendere le dolorose ferite di una vita sempre più segnata da conflitti irrisolvibili: quelli tra lo spirito e la carne, tra la razionalità e l’irrazionalità, tra la modernità e la tradizione, tra il sé e un mondo ormai lontano, forse già definitivamente perduto.
Tra le Poesie incivili spicca lo splendido Frammento alla morte: quasi un testamento culturale vergato nel momento in cui la presenza della morte, che sempre fa da sfondo a ogni pagina pasoliniana, pare allungare la sua ombra familiare su una stagione della vita, anche di quella letteraria, giunta alla sua funerea conclusione; lasciando all’appassionata invocazione finale, in cui sono palesi gli echi rimbaudiani, il compito di indicare al lettore un nuovo punto di fuga dall’angoscioso presente. Una direzione da esplorare come se si trattasse dell’estrema possibilità di ricomporre i dissidi che assediavano il poeta. «Ho avuto tutto quello che volevo, ormai:/ sono anzi andato anche più in là/ di certe speranze del mondo: svuotato, […] Sono stato razionale e sono stato/ irrazionale: fino in fondo./ E ora…ah, il deserto assordato/ dal vento, lo stupendo e immondo/ sole dell’Africa che illumina il mondo.// Africa! Unica mia/ alternativa…» (Pasolini1961, ora in Id. 2003, vol. I: 1049-1050).
Così, forse obbedendo al disperato slancio con cui si chiude Frammento alla morte, Pasolini raggiunge per la prima volta un paese africano, il Kenya, nel febbraio del 1961. Dal mese precedente ha lasciato l’Italia in compagnia di Alberto Moravia, e più tardi di Elsa Morante che li raggiunse a metà del viaggio, per recarsi dapprima in India, terra a cui dedicherà un fortunato volumetto, tuttora ristampato con successo, che raccoglie una serie di articoli sotto forma di racconto pubblicati sul quotidiano «Il Giorno» (Pasolini 1962b); e poi, evidentemente stimolato da un’esperienza di cui si affanna a raccogliere e restituire «l’odore», verso il continente nero, che in quel periodo era tutto un ribollire di lotte per l’indipendenza e di guerre civili. Nello stesso anno scrive anche un’originale prefazione, oggi quasi dimenticata, per un’antologia di poeti di origine africana: un testo che aiuta a comprendere come l’Africa che più tardi avrebbe rappresentato nelle sue opere sia una realtà percepita proprio come l’ideale prosecuzione, o meglio la vera e propria riattualizzazione, di un sogno sorto direttamente dal cuore della lunga notte nazifascista.
Il titolo dello scritto, La resistenza negra (Pasolini 1961b; ora in Id. 1999, vol. II: 2344-2355), da solo è già sufficiente a richiamare il lettore sul senso e sul valore che le esperienze testimoniate dalle liriche incluse nell’antologia resuscitano nell’animo del poeta friulano. Nell’incipit egli rende ancora più diretto il riferimento al proprio passato sostenendo che la prima impressione che si ricava leggendo i versi antologizzati a cura di M. De Andrade è quella di una lettura «un po’ antiquata», come se fossero stati scritti una decina di anni prima, ovvero all’inizio di quegli anni cinquanta che, dopo le prime e più difficili fasi della ricostruzione post-bellica, avrebbero dovuto coincidere con l’affermazione di quella giustizia sociale che in molti ritenevano essere il vero lascito di una intensa stagione di lotta a cui a suo modo, come si vedrà a breve, anche il poeta aveva consegnato il suo piccolo ma importante contributo. È opportuno sottolineare come per il poeta non sia solo questa particolare affinità con un passato, certamente romanticizzato, a rendere quelle liriche degne di essere presentate a un pubblico apparentemente distante. E ciò per il fatto che il «sapore della Resistenza» sprigionato dalle parole dei poeti neri è «un sapore estremamente significante, non solo per il rimpianto, […] non solo per quel tanto di poeticità oggettiva che c’è in esso, non solo: perché la Resistenza negra non è finita; e pare non debba finire com’è finita qui da noi.» (ibid: 2344)
Interessante è pure la distinzione che Pasolini introduce immediatamente dopo, ovvero quella che oppone l’idea di «Resistenza»: vero e proprio valore culturale reso graficamente con l’utilizzo della prima lettera maiuscola; a quella di resistenza intesa invece come una particolare esperienza storica che in Europa secondo l’autore si era chiusa, una decina di anni prima appunto, con la chiara sconfitta delle istanze di rinnovamento di cui essa era portatrice. In tal modo, scrive Pasolini, «se per noi Resistenza equivale, ancora, a speranza, la resistenza storica […] è ormai senza speranza»; mentre al contrario «in Africa, è chiaro, non è avvenuta la scissione di resistenza e Resistenza. Si lotta dappertutto» (ibid.).
In questo senso lo scritto in questione testimonia il progressivo rivelarsi agli occhi del poeta del nuovo terreno in cui, forse troppo ingenuamente, egli sperava di poter riannodare i fili del proprio tempo perduto, riprendendo quel cammino che in Occidente era stato fatalmente interrotto, se non contraddetto, dall’avvento della società dei consumi da un lato, e della dittatura sovietica dall’altro: poli di una falsa dialettica che il poeta ricondurrà presto alla medesima matrice culturale. (Arecco 1972: 75). Un’esigenza esistenziale, ancor prima che politica o sociale, nella quale Pasolini avrebbe investito gran parte del proprio talento. Da quel primo viaggio africano in effetti, lo scrittore riceverà lo stimolo per pensare a opere che diano una nuova prospettiva ai suoi antichi tormenti; riallacciando al presente e al futuro un passato la cui luce era giunta sul punto di smarrirsi: quella «pura luce» della resistenza cui ora poteva forse sostituirsi la fiaccola ardente de «la negra luce».
La poesia di Pier Paolo Pasolini, i dipinti
di Pellizza da Volpedo, la musica di Ennio Morricone...
Di quell’alba primigenia che sembrava schiudersi a suoi occhi di ragazzo, e che Pasolini ricerca ora in Africa, l’autore aveva narrato nella sesta sezione de La Religione del mio tempo; quella in cui, prendendo a pretesto una nuova proiezione di «Roma città aperta» di Rossellini alla quale casualmente gli era capitato di assistere «deciso a tremare nel ricordo» (Pasolini 1961a, ora in Id. 2003, vol. I: 937), il poeta rievoca quella che definisce la sua «educazione sentimentale». Una luce che era «speranza di giustizia:/ non sapevo quale: la Giustizia. La luce è sempre uguale ad altra luce./ Poi variò: da luce diventò incerta alba,/ […] Illuminava i braccianti che lottavano./ Così l’alba nascente fu una luce/ fuori dall’eternità dello stile…/ Nella storia la giustizia fu coscienza/ d’una umana divisione di ricchezza,/ e la speranza ebbe nuova luce.» (ibid.: 944-955). La potenza delle immagini proiettate sembra per un attimo ricreare la forza eroica di quei tempi, eppure Pasolini, «nella platea di oggi», mescolato tra ragazzi nei cui occhi non c’è più la luce del futuro, sente di avere «come una serpe/ nei visceri, che si torce: e mille lacrime» causate dalla chiara sensazione «di sapere che tutta quella luce,/ per cui vivemmo, fu soltanto un sogno/ ingiustificato, inoggettivo, fonte/ ora di solitarie, vergognose lacrime.» (ibid.: 946-947).
Il rapporto di Pasolini con la resistenza negli anni è stato oggetto di frequenti discussioni, suffragate anche da alcune dichiarazioni in cui il poeta lasciava intendere di avervi materialmente partecipato (Pasolini 1992b: 33). In realtà il suo impegno politico in quegli anni terribili, ma anche dopo il conflitto fatta eccezione per una breve stagione, fu interamente rivolto alla sfera intellettuale; in nome di un antifascismo culturale che era nato in lui in maniera spontanea sin da quando iniziò «a leggere autori come Dostoevskij e Shakespeare, e poi poeti come Rimbaud e gli ermetici, esponenti di una cultura che il regime disapprovava e respingeva»; tanto che fu proprio da allora che iniziò a percepirsi come «al di fuori della società» (ibid.: 32). È interessante in proposito scorrere anche la nutrita corrispondenza che Pasolini intrattenne con amici e confidenti sin dal 1940 - quando si trovava ancora a Bologna per frequentare l’università e il trasferimento dell’amico Farolfi a Parma gli offrì l’occasione per una prima e fitta corrispondenza che in seguito avrebbe esteso a molti altri «compagni di viaggio» - esponendo sentimenti, principi di poetica generale e l’evoluzione del proprio malessere, in maniera ancora più nitida che nelle interviste (Pasolini 1986; Id. 1988, due volumi entrambi curati da N. Naldini).
All’amico Luciano Serra nel 1943, a breve distanza di tempo dalla caduta del regime mussoliniano, quando in nord Italia era già iniziata la fase più cruenta della guerra civile e lo scrittore con la sua famiglia aveva riparato in Friuli, Pasolini scrive una lunga e articolata lettera in cui non mancano espressioni di dubbio e di perplessità circa la via giusta da intraprendere per risollevare un paese sull’orlo del baratro; indicando tuttavia in maniera precisa le coordinate di quello che sarebbe stato il suo impegno di intellettuale: «L’Italia ha bisogno di rifarsi completamente, ab imo, e per questo ha bisogno, ma estremo, di noi, che nella spaventosa ineducazione della gioventù ex-fascista, siamo una minoranza discretamente preparata. […] Noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà.» (Pasolini 1986: 181-185).
Una missione di educazione e di civiltà è, ad esempio, quella sorta dalla decisione, presa proprio in quel periodo, di mettere su, nei dintorni di Casarsa, una piccola scuola gratuita per i figli dei contadini che, con l’intensificarsi dei bombardamenti alleati, non potevano più raggiungere Udine o Pordenone. Iniziativa alla quale Pasolini associò sua madre e alcuni amici, tra i quali la poetessa Giovanna Bemporad che raggiunse appositamente il paesino friulano da Bologna. Sarà un’esperienza decisiva per il poeta che la vivrà con entusiasmo e dedizione, tanto che anche dopo l’ordine di chiusura immediata sollecitato dal Provveditorato agli studi di Udine, Pasolini continuò imperterrito a impartire «ai suoi ragazzi» lezioni appassionate di letteratura greca, italiana, di grammatica, di latino. Il metodo anticonvenzionale utilizzato dal giovane insegnante risultava estremamente stimolante per i giovani allievi che venivano anche incoraggiati a comporre poesie in lingua e in dialetto, ovvero ad appropriarsi poeticamente della lingua, della realtà, e dei luoghi in cui vivevano imparando così ad esprimersi. (Villa e Capitani 2005). Per uno di quei ragazzi, Tonuti Spagnol, Pasolini provò anche un violento e contrastato sentimento di amore che ne fece il dichiarato ispiratore del racconto giovanile Atti Impuri (Pasolini 1982). Quello che è indubbio è che il ragazzo divenne rapidamente il suo allievo prediletto (Siciliano 2005: 98), quello che il maestro più incoraggiava a comporre rime e versi, alcuni dei quali trovarono anche spazio, e una piccola nota di commento, nel saggio La poesia dialettale del novecento. (ora in Pasolini 1960: 134).
Dopo la piccola ma decisiva esperienza didattica, nell’immediato dopoguerra, Pasolini sarebbe divenuto insegnante a tutti gli effetti presso una scuola media statale distante da casa sua una dozzina di chilometri che ogni giorno percorreva in bicicletta (Siciliano 2005: 128-131). Nello stesso periodo lo scrittore non mancherà di pubblicare, su alcuni giornali locali, diversi articoli riguardanti le sue riflessioni sul ruolo che la scuola poteva e doveva svolgere in quel periodo caratterizzato da una grande miseria, ma da un altrettanto grande desiderio di rinascita (ora in Pasolini 1993: 269-283). Testi come Poesia nella scuola, Dal diario di un insegnanteo come Scuola senza feticci: in cui l’innovativo, per quei tempi, disegno pedagogico dello scrittore di dar vita a una tradizione non feticistica, ma al contrario quasi da reinventare ex-novo, è formulato in questi termini: «come suscitare nel ragazzo il gusto della critica e provocare la caduta degli idoli? Evidentemente immettendolo in un clima di scandalo e di incertezza, in cui le cose eterne non siano quelle imparate a memoria, ma quelle che più somigliano alle vocazioni che sono in lui [...] Del resto in tal modo resta delineato lo scopo dell’educazione che è creazione di una cultura». (ibid.: 279)
Tali considerazioni, così come le esperienze pedagogiche e politiche da cui sorgevano, non potevano, alla luce di quanto sostenuto sinora, non confluire negli scritti più specificamente narrativi. È di quegli anni un abbozzo di un breve romanzo - rimasto a lungo inedito e poi pubblicato a cura del cugino materno di Pasolini con il titolo di Romàns - che ha come protagonisti un sacerdote assediato dalle inquietudini derivate da un’omosessualità che tenta disordinatamente di sublimare nella fede e nell’azione pastorale, e un giovane intellettuale divenuto comunista ma di estrazione piccolo borghese. Il primo, Don Paolo il suo nome, apre un piccolo doposcuola per i figli dei contadini del circondario; mentre il secondo, Renato, insegna in una scuola pubblica. Tra i due s’instaura molto presto un rapporto molto particolare, ricco di reciproci scambi di vedute sulle rispettive esperienze, ed è sin troppo facile scoprire nei due personaggi la viva voce dell’autore e delle sue coeve vicende private. (Pasolini 1994, ora in Id. 1998, vol. II: 197–263)
L’originario e contrastato sentimento religioso ricco di accenti sacrificali e misticheggianti che aveva presieduto alle prime prove poetiche, l’omosessualità ancora taciuta - vissuta talvolta come una colpa da espiare oppure al contrario come una prepotente inclinazione alla quale non si può che obbedire -; la peccaminosa eppure pura attrazione per uno dei ragazzi che frequentava le sue lezioni, l’impegno a fianco dei contadini in virtù di posizioni vagamente socialiste e cristiane, l’insegnamento e le prime polemiche letterarie e politiche, rappresentano gli estremi entro i quali era racchiuso il senso stesso di una vita. Ed essi, pur rivivendo in due distinti personaggi, riescono effettivamente a saldarsi nello spazio letterario di un racconto in cui quasi in ogni passo è possibile scorgere in controluce gli accadimenti e le peripezie che coinvolgevano l’allora giovane autore.
Pasolini in Africa per la lavorazione di "Appunti per un'Orestiade africana"
Seppur ancora per un breve periodo, questo curioso miscuglio di autobiografismo e di «dissimulazione letteraria» sembrava riuscire lì dove la vita avrebbe più tardi fallito. Negli anni settanta Pasolini, ormai preda di un nichilismo tanto esasperato quanto provocatorio, sarebbe arrivato a invocare la chiusura della scuola pubblica e della tv: pericolosi strumenti al servizio del genocidio culturale al quale era convinto di assistere. (Pasolini 1975a: 169) Tra l’ultimo Pasolini e l’appassionato maestro friulano degli esordi, si situa il suo «sogno africano»: quasi una sacra rappresentazione del mito di una gioventù che il poeta avrebbe voluto eterna. Non sorprende quindi il dover constatare come il suo primo schizzo di opera di ambientazione africana sia proprio la vicenda di un giovane insegnante che svolge la sua attività in un piccolo centro dell’Africa nera. L’intenzione nasce probabilmente già nel corso del primo viaggio extraeuropeo del regista, tuttavia una prima significativa dichiarazione in proposito è quella rilasciata nel febbraio del 1962; quando fresco della sua seconda esperienza in terra d’Africa il regista, nel corso di un’intervista resa a Luigi Biamonte, svela che seppure in procinto di iniziare le riprese di Mamma Roma per il futuro aveva già pronto un soggetto attraverso il quale aveva pensato di «narrare la formazione, per certi aspetti traumatica, di un liceale africano, un giovane che discende da un nucleo ancora legato a un passato oscuro» (in «Il paese», 25 febbraio 1962).
L’attore del dramma è dunque un ragazzo che metaforicamente incarna il desiderio di rinascita del popolo africano, la voglia di dare vita a una civiltà che sappia raccogliere alcuni elementi della modernità importata dal dominatore coloniale, integrandoli criticamente a una tradizione che non poteva più sopravvivere così come era stata nell’«epoca dei padri». «L’altro polo del dramma è suo padre: un uomo antico, selvaggio nel senso nobile della parola. Il film si chiamerà appunto Il padre selvaggio» (ibid.).
Proseguendo nell’intervista il regista rivela che il suo produttore, Alfredo Bini, aveva in mente per il film un titolo ritenuto forse più suggestivo, ovvero È bello uccidere il leone; o addirittura un altro, Il sogno di una cosa, che ancor di più rivela la decisa corrispondenza delle tematiche che avrebbero dovuto costituire il nucleo dell’opera in questione, con quelle a cui lo scrittore si era dedicato sin dalla giovinezza. Nell’estate dello stesso anno Pasolini decise di pubblicare quello che nell’intervista a Biamonte definisce «soggettino», e per l’occasione utilizzerà proprio il primo dei titoli propostogli dall’amico produttore (Pasolini 1962c, ora in Id. 2001, vol. I: 317-325). Si tratta di un breve scritto articolato in quattro piccoli capitoli, ciascuno provvisto di un titolo, in cui inizia a prendere forma la vicenda di un insegnante europeo dalle idee progressiste che deve faticare non poco per liberare la sua intimidita scolaresca dagli impacci tipici di una cultura assorbita acriticamente grazie all’opera dei solerti insegnanti coloniali che lo avevano preceduto (ibid.: 317).
Pare che per la costruzione del suo personaggio Pasolini si sia in parte ispirato alla vicenda di un giovane insegnante francese che aveva narrato la sua esperienza tra i banchi di una scuola della Guinea a Yves Benot; il quale ne aveva tratto spunto per un articolo giornalistico, poi ritrovato tra la carte del regista, intitolato Tre anni di insegnamento a Conakry. Le affinità tra la storia narrata nell’articolo dall’insegnante, e quella scritta dal regista friulano sono evidenti, tuttavia il racconto pasoliniano sarà ambientato non in Guinea ma in Congo, più precisamente nel Congo travolto dalla ferocia della guerra civile che, appena dopo la raggiunta indipendenza, oppose le forze secessioniste della regione del Katanga, guidate da Ciombé e sostenute dagli interessi minerari europei, al governo centrale di Lumumba che nella sua battaglia ottenne anche l’appoggio di contingenti militari dell’Onu. Un’importante differenza che consente a Pasolini di inserire la sua vicenda in un quadro che ne esalti quel carattere tragico che sempre alimenta le sue opere; utilizzando come ulteriore punto di riferimento per la tessitura dell’intreccio anche molto del suo personale bagaglio di insegnante attivo proprio negli anni in cui anche l’Italia era precipitata in una sanguinosa guerra civile.
Non è del resto difficile scorgere Pasolini stesso dietro il personaggio del «professore democratico» alle prese con una «lotta al conformismo insegnato ai ragazzi dai precedenti professori colonialisti» (ibid.), così come nella vita aveva cercato di fare con i figli dei contadini friulani, invitandoli ad abbattere i feticci culturali in nome di un sapere concepito più come una creazione che come la perpetuazione di una cultura tramandata dagli antenati. Una lotta che lo porta a scontrarsi con il più intelligente dei suoi scolari: un ragazzo di nome Davidson che sin da subito manifesta un’aperta ostilità nei confronti dei nuovi metodi dell’insegnante. Le aperture democratiche del professore creano, in effetti, un certo disagio nella classe: fino ad allora abituata a riprodurre quasi meccanicamente quanto ascoltato durante le lezioni, lasciandolo peraltro separato dalle antiche consuetudini tribali divenute ormai per loro altrettanto meccaniche. I problemi si concretizzano con maggior evidenza il giorno in cui l’insegnante assegna un tema in cui i ragazzi avrebbero dovuto narrare la propria vita in seno alla tribù da cui provenivano. «Egli vuole che i suoi scolari affrontino coraggiosamente la vergogna, la miseria, la superstizione dello stato tribale da cui provengono. Cerca di spiegare loro che cosa è la cultura preistorica o magica, […] ormai superata dalla storia degli stessi africani» (ibid.: 318); ma deve constatare con amarezza come i suoi allievi si limitino a utilizzare solo una serie di stereotipi di importazione coloniale ritenuti evidentemente adeguati a soddisfare le curiosità del loro maestro. Saranno invece necessarie tre o quattro riscritture prima di ottenere, da parte di Davidson naturalmente, un elaborato in cui con originalità era narrata un’antica usanza della tribù in cui ancora viveva suo padre, secondo la quale ogni giovane per essere considerato adulto doveva uccidere, da solo, un leone. L’insegnante dopo aver pubblicamente elogiato l’allievo spiega alla classe che ormai tali riti avevano perso il loro valore; ricordando loro che il nuovo futuro dell’Africa doveva essere costruito alla luce della consapevolezza della sua drammatica situazione. La cultura africana non poteva ridursi a una sterile, e ormai svuotata, riproposizione della «cultura paterna»; ma doveva continuare a svilupparsi soprattutto grazie ai nuovi miti poetici creati dai poeti neri contemporanei; i quali veicolavano contenuti più idonei alle condizioni contingenti. Proprio quei poeti che la scolaresca si ostinava a non voler comprendere, nemmeno quando il professore spiegava pazientemente le immagini poetiche procedendo passo per passo con il suo ragionamento.
Ciò nonostante sarà proprio Davidson a rispondere al professore che nonostante lui comprendesse il significato di quella lezione, non poteva fare a meno di concludere dicendo che «è bello uccidere il leone!...» (ibid.) Inizialmente disorientato l’insegnante cerca allora di spiegare che «sì, è difficile staccarsi criticamente dal proprio mondo vitale»; tuttavia esso ormai è poco più che un relitto che dà luogo soltanto a una «vitalità istintiva che è la sede poi, a un livello superiore, della pigrizia intellettuale, e del conformismo» (ibid.). Tale ostinato ripiegamento nel passato e nel tradizionalismo cieco non produceva insomma un nuovo presente; ma più semplicemente una irrazionale quanto pericolosa autoreclusione nel circolo vizioso di una creazione culturale di cui risultavano ormai svelati i limiti.
Nel frattempo giunge la fine dell’anno scolastico e con essa le vacanze che Davidson trascorre facendo ritorno alla sua tribù riunita in un villaggio situato nel centro della foresta. Nel corso dell’anno, dopo i primi contrasti, il ragazzo ha avuto modo di stringere amicizia con il suo giovane insegnante, tanto che un po’ della nuova cultura impartitagli dal maestro, e che l’autore definisce «storica», è divenuta parte integrante della sua personalità. Nel terzo capitoletto del soggetto in questione, La negra luce, Pasolini avrebbe voluto rappresentare il ritorno a casa di Davidson facendo in modo che le immagini e i gesti, più che le parole, rendessero concretamente l’idea della vita tribale. «Ora nei momenti di tranquillità, di normalità, la sua cultura storica, europea, potrebbe diffondersi nella sua famiglia, nei suoi coetanei del villaggio. Ma questo non è un momento di pace. La tribù fa parte di una regione dello stato che ha proclamato la propria indipendenza. E si è giunti, nella foresta, a una vera e propria guerra. E la guerra, col suo terrore, la sua contagiosa sete di uccidere, non può essere che regressiva: in essa tutto ciò che è storico, e civile, pare dissolversi, ridursi a puro meccanismo» (ibid.: 321-322). Lentamente il villaggio di Davidson diventa il centro di un inutile massacro che vede contrapposte la tribù di suo padre, alcune legioni di bianchi mercenari, e le truppe governative affiancate dall’Onu. Il regista avrebbe voluto inserire a questo punto immagini documentarie che testimoniavano della vita dei combattenti, della durezza degli scontri; mentre sullo sfondo si sarebbe materializzata la «regressione» di Davidson che in nome dell’antico legame ancestrale ripercorreva all’indietro tutto il percorso che lo aveva portato a sognare per il suo paese un futuro da stato democratico moderno.
Culmine di tale ridiscesa è la partecipazione di Davidson a un episodio di cannibalismo in cui, durante un macabro rito celebrato dalla sua tribù, vengono consumati i resti di alcuni caschi blu dell’Onu con i quali, tra l’altro, prima di partire il giovane aveva avuto modo di fraternizzare e di scambiare opinioni sulle donne, sulla musica, sulla poesia. Proprio perché ormai inautentico però, tale ritorno indietro verso un passato tanto distante quanto diverso dalla nuova realtà che le lezioni del professore avevano aperto agli occhi del ragazzo, si trasforma in uno stato di catatonia che lo invade senza che egli possa fare nulla per distrarsene. Se la guerra, con i suoi moderni congegni mortali, si era rivelata un’inutile barbarie, allo stesso modo l’artificioso regresso verso un rito ormai disarticolato dal tessuto sociale della sua antica tribù non poteva più aprire spazi di operatività futura, ma al massimo riprodurre per altra via le stesse furiose meccaniche tipiche della carneficina militaresca.
Così, all’inizio del nuovo anno scolastico, l’insegnante avrebbe dovuto ben presto accorgersi che lo studente in cui aveva riposto il grosso delle sue speranze di riuscita versava in uno stato di semicoscienza che lo vedeva svolgere in modo automatico i compiti che gli venivano impartiti, come se vivesse ormai al di fuori sia del presente rappresentato dagli ideali democratici dell’insegnante, che dal passato incarnato dalla sua antica vita tribale. L’insegnante cerca di aiutare il ragazzo a vincere la sua nevrosi: gli parla, gli spiega razionalmente il senso della sua vicenda, arriva addirittura a seguirlo per spiare i suoi comportamenti al di fuori degli orari scolastici. Sarà però un evento occasionale a permettere il superamento della crisi in cui il ragazzo sembrava perduto. «Forse il miracolo avviene casualmente. Talvolta la nevrosi crea in sé la guarigione…Può apparire un Dio, un'immagine sacra… Ma anche un fantasma di altro ordine…» (ibid.: 324)
Per la precisione avviene che l’insegnante un giorno legge una poesia di un poeta nero contemporaneo che l’anno prima la classe proprio non aveva voluto comprendere. Sorprendentemente stavolta tutti sembrano coglierne il senso e lo stesso Davidson, all’improvviso, pare riaccendersi in un moto di vita. Il professore se ne accorge e legge con ancora più enfasi la lirica, anche se la luce che per un attimo aveva di nuovo illuminato lo sguardo del ragazzo improvvisamente torna ad affievolirsi, senza però sparire del tutto. Finita la lezione Davidson va come al solito a sedersi in cortile, dove viene però raggiunto da una poetica voce interiore che gli detta dei versi che il ragazzo inizia dapprima a ripetere a voce sempre più alta, per poi correre nella camerata a riversarli su un foglio che avrebbe prontamente consegnato al suo insegnante. «Sono versi tremendi, di totale disperazione, di morte: non solo la sua, di Davidson, ma dell’intera razza negra.» (ibid.)
Sono però versi bellissimi che il professore farà addirittura pubblicare, così come Pasolini aveva fatto pubblicare quelli del suo Tonuti, su una rivista europea. Davidson scopre così nella poesia la via privilegiata per sciogliere la propria crisi interiore; una via in cui il suo antico retroterra culturale poteva contribuire a dare vita a quella felice sintesi che, secondo il suo insegnante, sarebbe dovuta essere la cultura africana moderna. Del resto «esprimersi significa guarire. Non importa se l’espressione è confusa, e se la speranza in fondo all’espressione è solo il sogno di una cosa». Nuovi versi, stavolta meno cupi, sarebbero giunti a nutrire la sua rinnovata speranza verso «un futuro confuso ma felice, al cui pensiero, un leggero sorriso può biancheggiare nel fosco viso del ragazzo negro.» (ibid.: 325)
Pier Paolo Pasolini avrebbe continuato a lavorare all’originario soggetto ricavandone un’affascinante sceneggiatura in cui, con evidenza ancora maggiore, i tratti autobiografici dell’autore s’inseriscono nel tessuto di un racconto che non divenne mai film. Nell’anno della sua morte, seguendo quella logica che lo vedeva consegnare alle stampe anche i suoi «sentieri interrotti», Pasolini decise di pubblicare il testo corredandolo di una nota e di una poesia in cui si spiegavano le ragioni per le quali la pellicola non avrebbe mai visto la luce. (Pasolini 1975b). Si tratta ancora una volta di una mescolanza di fatti pubblici che causano un dolore privato che a sua volta ridiviene pubblico per il semplice fatto di essere esteriorizzato all’interno di un’opera: «È stato il processo alla Ricotta, per vilipendio alla religione, che mi ha impedito di realizzare Il padre selvaggio. Il dolore che ne ho avuto - e che ho cercato di esprimere in questi ingenui versi di E l’Africa? - ancora mi brucia dolorosamente. Dedico la sceneggiatura del Padre selvaggio al pubblico ministero del processo e al giudice che mi ha condannato.» (ibid.: 58)
Nei versi di E l’Africa? il poeta ricostruisce un onirico dialogo con il suo produttore, Alfredo Bini, decisamente irato dalla piega che stavano prendendo le cose e dagli intoppi che subiva la casa di produzione. L’uomo simile a un lanzichenecco, «dietro un tavolo, di gusto rustico,/ per grandi burocrati,/ mi fissava coi suoi occhi azzurri ma classici/ mentre fuori scoppiavano le bombe atomiche […] poi cominciò […] a rimproverarmi, a darmi del pazzo…/ E io innocente, offeso…ascoltavo,/ rimescolando nella gola di adolescente vestito/ dalla madre/ lacrime e rimostranze» (ibid.: 59). Poi all’improvviso, come a chiudere i contorni di un quadro i cui primi tratti, come si è visto, erano stati tracciati negli anni della giovinezza in Friuli, il volto rossiccio dell’uomo pare sdoppiarsi fino a farsi altro. «E io ero un po’ sollevato./ Ma quell’altro, lì, che per osmosi/ era uscito dal costato di Bini, era mio padre. […] mi avvicinai a lui, e timidamente quasi sul suo viso…/ che ormai era solo il viso di mio padre,/ con la sua pelle grigia di ubriaco e di morente,/ gli sussurrai: E… L’Africa?/ E i flamboyants di Mombasa?/ I rami rossi, contro il fogliame verde, […] senza di cui la mia anima non poteva più vivere?/ […] Ah, padre ormai non mio, padre nient’altro che padre,/ che vai e vieni nei sogni,/ […] presentandoti a dire cose terribili,/ a ristabilire vecchie verità,/ […] Il mondo è la realtà che tu hai sempre paternamente/ voluto./ E io, figlio, a sperimentare sistematicamente tutto,/ […] mi ritrovo qui, prima cavia di un dolore ignoto,/ a prefigurare il caso dell’impossibilità/ «a esprimersi per ragioni di forza maggiore»;/ […] ma in questa grande normalità paterna dei sogni e della/ vita/ dopotutto, com’è commovente,/ il mio voler morire, nel sogno,/ per la delusione di un rosso e d’un verde perduti!» (ibid.: 60-61).
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
Finezze provinciali a Milano... Oggi, a pag. 39 di un quotidiano milanese irrilevante e pretenzioso silegge:
«Con una mostra al "MoMA - New York celebra il "brutale" Pasolini».
"A sprawl of brutality", un'espressione disordinata di brutalità: così il "New York Times" definisce l'eredità di Pier Paolo Pasolini celebrata fino al 5 gennaio in una retrospettiva al Museum of modern art di New York,la più completa mostra dedicata al regista e intellettuale italiano negli ultimi venti anni negli Stati Uniti (la prima fu negli anni Novanta, sempre al Moma). Ripercorrendo i titoli dei suoi più importanti lavori cinematografici, l'autore dell'articolo sottolinea il carattere "indecifrabile, ambiguo e sospeso" della personalità di Pasolini. "Un cattolico non praticante che non perse mai la sua visione religiosa del mondo e un marxista a vita, espulso dal partito comunista perché gay - scrive Lim - un artista e un pensatore che non ha cercato di risolvere le sue contraddizioni, ma di incarnarle pienamente". Tra i film più significativi, è ricordato "Salò, o le 120 giiornate di Sodoma", definito "il brutale adattamento del catalogo di degradazione e tortura del Marchese de Sade".
* * *
Ed ecco, qui di seguito, l’articolo originale del New York Times, seguito dalla traduzione italiana e da un mio commento. Nella versione in italiano, anche le evidenziazioni in grassetto sono mie: sono ridotte al minimo indispensabile, per mettere in rilievo esempi macroscopici di faziosità, disinformazione, ignoranza e volgarità, ma l'articolo andrebbe evidenziato e discusso parola per parola poiché vi si ritrovano insopportabili echi denigratori di cui pensavamo ci si fosse definitivamente liberati, almeno negli ultimi vent'anni. L'autore dell'articolo, Dennis Lim, mette in mostra una gamma di pregiudizi e di ignoranza che francamente non danno lustro a una testata che immaginavo autorevole quale dovrebbe essere quella del "New York Tlmes" (A.M.).
Pasolini’s Legacy: A Sprawl of Brutality
By Dennis Lim, December 26, 2012
“It is only at our moment of death that our life, to that point undecipherable, ambiguous, suspended, acquires a meaning.” So said the filmmaker Pier Paolo Pasolini in a 1967 interview. The idea that death defines a person has seldom been more vividly illustrated than in the case of Pasolini, whose extraordinary life and work are invariably seen through the prism of his gruesome end.
His mutilated body was found in a vacant lot in Ostia, a suburb of Rome, in 1975.
The assumed killer (who later recanted his confession) was a 17-year-old hustler he had picked up.
His colleague Michelangelo Antonioni remarked that Pasolini had become “the victim of his own characters.” Completed weeks before he died, at 53, Pasolini’s last movie, “Salò, or the 120 Days of Sodom,” an unrelentingly brutal adaptation of the Marquis de Sade’s catalog of degradation and torture, came to be viewed, all too neatly, as a death wish.
In other crucial ways, though, the meaning of Pasolini remains undecipherable, ambiguous, suspended. A lapsed Catholic who never lost his religious worldview and a lifelong Marxist who was expelled from the Communist Party for being gay, Pasolini was an artist and thinker who tried not to resolve his contradictions but rather to embody them fully. With his gift for polemics and taste for scandal, he was routinely hauled up on blasphemy and obscenity charges and attacked by those on the left and the right.
The films that brought him international renown are the subject of a retrospective at the Museum of the Modern Art that runs through Jan. 5, but they are only part of the picture. To himself and to many Italians he was above all a poet. He also wrote novels and plays, painted, composed music and published reams of political commentary and literary theory.
The museum series, the most complete Pasolini retrospective in New York in more than two decades, has been supplemented with a poetry and music recital, discussions and other events, both at the Modern and at MoMA PS1, which has a cinematic installation running through Jan. 7. An exhibition of portraits by Pasolini is on view at Location One in SoHo through Jan 5.
Evoking the feverish sprawl of Pasolini’s output, these events make the implicit case that it is difficult to consider any of his works in isolation.
“It’s very hard to put one label on him,” said Jytte Jensen, the curator who organized the retrospective. “He had many essential roles in Italian society, and he was always searching, completely open to different ways of looking at things and not afraid to say he was mistaken.”
Pasolini’s early features “Accattone” (1961) and “Mamma Roma” (1962), shot in the shantytowns around Rome and starring mainly nonprofessionals, followed the Italian neo-realists in deeming the lives of the downtrodden worthy of art. But the pictures went beyond gritty naturalism to incorporate aspects of the sacred and the erotic. (Pasolini’s empathy for his male subjects often encompassed an attraction to them.)
Coming to film from literature, Pasolini viewed cinema as an expressive and flexible form, a language that, as he put it, “writes reality with reality.” Just as he wrote poetry and fiction in a variety of dialects, his movies cycled through a range of styles and tones. The reactions to them were often divided, rarely predictable.
“The Gospel According to Matthew” (1964), a reverential portrait of a revolutionary Jesus, is a film both Christians and Marxists could love. The underappreciated “Porcile”(“Pigsty,” 1969), an allegory on the dead ends of ideology and a black comedy about cannibalism and bestiality, was out of step with the era’s fervent radicalism. It pleased almost no one, least of all the student activists Pasolini had denounced as elitists. (He sided with the working-class police.)
Alongside his features, many of which were staples of art cinema’s golden age, the retrospective gives equal prominence to his shorts and documentaries, which often offer direct glimpses of his mind-set. In “Love Meetings” (1964) Pasolini, like an Italian Alfred Kinsey, travels through the country recording conversations with people of all ages and backgrounds about their sexual behavior and attitudes. “Notes for an African Oresteia” (1970) describes his plan to direct a movie of the Aeschylus myth in post-colonial Africa and captures his ideas (a wounded lioness to represent the Furies) as well as the skepticism of some young African men that presumably led to his decision not to make it.
Changing course often meant repudiating his own work. Pasolini first classified his bawdy medieval adaptations — “The Decameron” (1971), “The Canterbury Tales” (1972) and “Arabian Nights” (1974), collectively called the “Trilogy of Life” and just released in a boxed set by Criterion — as apolitical works, then proclaimed them radical celebrations of carnal pleasure. But when their popularity spawned numerous soft-core imitations, he revised his opinion again and published an “abjuration” of the trilogy.
The clearest thread running through Pasolini’s movies is his mounting disgust with the modern world. He saw Italy’s postwar boom as an irreversible blight, turning the masses into mindless consumers and erasing local cultures. (For Pasolini difference was always to be protected and flaunted.)
His contempt for the Italian bourgeoisie — labeled “the most ignorant in all of Europe” in his 1963 short “La Ricotta” — manifested itself both as critique (in “Teorema” and “Porcile”) and as a retreat into antiquity and myth, with the past sometimes serving as a window onto the present. (Before the “Trilogy of Life” he went through a Greek-tragedy phrase, adapting “Oedipus Rex” and “Medea.”)
Pasolini’s despair reaches its terminal point (in every sense) in “Salò,” which transposes Sade to Mussolini’s Italy, equates consumerism with fascism and strives to be what he called an “undigestible” film, one that utterly resists commodification. (It’s not hard to imagine how Pasolini would have reacted to the comic incongruity of his MoMA series listing Gucci as a supporter. )
While he has no equivalent in the contemporary landscape, Pasolini paved the way for many filmmakers, including Rainer Werner Fassbinder, Derek Jarman, Gus Van Sant and Abel Ferrara (who has been planning a Pasolini biopic for years). The potency of his ideas and the mystery of his murder (which some believe was politically motivated) have captured the imagination of countless writers and artists. There is a cottage industry of investigative books on his death, which has also been the subject of works ranging from Marco Tullio Giordana’s docudrama “Who Killed Pasolini?” to Elisabetta Benassi’s installation “Alfa Romeo GT Veloce 1975-2007,” which evokes the crime scene with a model of Pasolini’s car (and blinding headlights that echo a moment from “Accattone”).
As a postscript to the MoMA show UnionDocs in Williamsburg, Brooklyn, is showing on Jan. 13 two essay films on Pasolini’s death and legacy: the artist-architect Alfredo Jaar’s “Ashes of Pasolini” and the experimental filmmaker Cathy Lee Crane’s “Pasolini’s Last Words.”
At the Modern over the next two weeks every screening will begin with a clip of Pasolini discussing the film at hand. Ms. Jensen said these personal introductions were in keeping with the immediacy of his work. “When you’re sitting in a theater watching a Pasolini film,” she said, “you feel he’s speaking directly to you.”
The Pasolini film retrospective runs through Jan. 5 at the Museum of Modern Art; moma.org. A Pasolini cinematic installation runs through Jan. 7 at MoMA PS1, 22-25 Jackson Avenue, Long Island City, Queens; momaps1.org. A show of portraits by Pasolini is on view through Jan. 5 at Location One, 26 Greene Street, near Grand Street, SoHo; location1.org.
This article has been revised to reflect the following correction:
Correction: December 28, 2012
An article on Thursday about a retrospective of films by Pier Paolo Pasolini at the Museum of Modern Art referred imprecisely to his movie “Mamma Roma.” While, like other early films of Pasolini, it did in fact use nonprofessionals as stars, the actress Anna Magnani also starred in it.
This article has been revised to reflect the following correction:
Correction: December 29, 2012
An article on Thursday about a retrospective of films by Pier Paolo Pasolini at the Museum of Modern Art misspelled the title of one of them. It is “Accattone,” not “Accatone.”
Pasolini Legacy: Un'espressione disordinata di brutalità
di Dennis Lim, 26 Dicembre, 2012
"E' solo nel momento della morte che si compie un fulmineo montaggio fino a quel punto indecifrabile, e la nostra vita acquista un significato." Così ha detto il regista Pier Paolo Pasolini in un'intervista del 1967. L'idea che la morte definisca una persona raramente è stato illustrata più chiaramente che nel caso di Pasolini, la cui straordinaria vita e opera sono sempre visti attraverso il prisma della sua brutta fine. Il suo corpo mutilato è stato trovato in un terreno abbandonato a Ostia, un sobborgo di Roma, nel 1975. L'assassino (che in seguito ha ritrattato la sua confessione) è stato un diciassettenne balordo incontrato per strada.
Il suo collega Michelangelo Antonioni ha fatto notare che Pasolini era diventato "la vittima dei suoi personaggi." Qualche settimana prima di morire, a cinquantatré anni, Pasolini aveva terminato la lavorazione del suo ultimo film, "Salò o le 120 giornate di Sodoma", un adattamento inesorabilmente brutale dal catalogo di degrado e tortura del marchese de Sade, che è stato visto, fin troppo chiaramente, come un desiderio di morte.
Per altri aspetti cruciali, però, il significato del pensiero pasoliniano rimane indecifrabile, ambiguo, sospeso. Un cattolico decaduto che non ha mai perso la sua visione religiosa del mondo e di un marxista per tutta la vita che è stato espulso dal partito comunista perché gay, Pasolini era un artista e pensatore che ha cercato di non risolvere le sue contraddizioni, ma piuttosto di incarnarle pienamente. Con il suo gusto per la polemica e per lo scandalo, è stato regolarmente attaccato con l'accusa di blasfemia e oscenità da sinistra e da destra.
I film che gli hanno portato fama internazionale sono oggetto di una retrospettiva al Museo di Arte Moderna che durerà fino al 5 gennaio, ma sono solo una parte della sua immagine. Per sé stesso e per molti italiani è stato prima di tutto un poeta. Ha scritto anche romanzi e opere teatrali, ha dipinto, composto musiche e pubblicato pagine di commento politico e di studi teorici letterari.
Le iniziative del museo - la retrospettiva più completa riguardante Pasolini a New York da oltre vent'anni [la precedente fu negli anni Novanta, sempre al Moma, ndt] - sono state integrate con un recital di poesia e musica, dibattiti e altri eventi, sia al Modern sia al MoMA PS1, con un impianto cinematografico che sarà in funzione fino al 7 gennaio. Una mostra di ritratti di Pasolini è in mostra presso Location One a SoHo fino al 5 gennaio 2012.
Evocando l’espressione febbrile e disordinata della produzione di Pasolini, è difficile prendere in considerazione isolatamente una qualsiasi delle sue opere.
"E 'molto difficile mettergli un'etichetta ", ha detto Jytte Jensen, la curatrice che ha organizzato la retrospettiva. "Ha avuto molti ruoli essenziali per la società italiana, e lui era sempre alla ricerca, completamente aperta, a diversi modi di vedere le cose e non aveva paura di dire che si era sbagliato."
"Accattone" (1961) e "Mamma Roma" (1962) sono stati i primi lavori di Pasolini, girati nelle baraccopoli vicino a Roma e interpretati per lo più da attori non professionisti, secondo l’idea del neorealismo italiano che considera la vita degli oppressi degna di essere elevata ad arte. Ma con le sue immagini, Pasolini è andato oltre il naturalismo per integrare aspetti del sacro e dell'erotico. (Empatia di Pasolini per i suoi soggetti di sesso maschile, che spesso comprendeva attrazione per loro.)
Arrivando al cinema dalla letteratura, Pasolini ha visto il cinema come una forma espressiva e flessibile, una lingua che, come diceva lui, "scrive la realtà con la realtà." Proprio come ha scritto la poesia e la narrativa in una varietà di dialetti, i suoi film hanno percorso una intera gamma di stili e di toni. Le reazioni al suo cinema sono state spesso diversificate e raramente prevedibili.
"Il Vangelo secondo Matteo" (1964), un ritratto reverenziale di un Gesù rivoluzionario, è un film che tanto i cristiani che i marxisti potevano amare. Il sottovalutato "Porcile" ("Porcile", 1969), un'allegoria sui vicoli ciechi dell'ideologia e una commedia nera su cannibalismo e la bestialità, è stato al passo con il radicalismo fervente dell'epoca. Non piacque a quasi nessuno di tutti gli studenti attivisti che Pasolini aveva denunciato come elitari. (Egli si schierò con la classe operaia rappresentata dalla polizia.)
Oltre che alle caratteristiche dei suoi film, molte delle quali erano in primo piano nell’età dell'oro dell'arte del cinema, la retrospettiva dà pari rilievo ai suoi cortometraggi e documentari che spesso offrono scorci diretti della sua mentalità. In "Comizi d’amore" (1964) Pasolini, come un Alfred Kinsey italiano, viaggia attraverso il Paese registrando con persone di ogni età le loro opinioni sui comportamenti sessuali. "Appunti per un’Orestiade africana” (1970) annuncia il suo progetto di dirigere un film sul mito di Eschilo in ambito africano postcoloniale ed espone le sue idee (una leonessa ferita per rappresentare le Furie), così com'è mostrato lo scetticismo di alcuni giovani africani che presumibilmente ha portato alla sua decisione di non fare un film sul postcolonialismo.
Cambiare corso spesso significa rinnegare il proprio lavoro. Pasolini prima classificò i suoi osceni adattamenti medievali - "Il Decameron" (1971), "I racconti di Canterbury" (1972) e "Il fiore delle Mille e una notte" (1974) come la "Trilogia della vita" (è appena stato pubblicato in un cofanetto da Criterion) - come opere apolitiche, che proclamavano celebrazioni radicali del piacere carnale. Ma quando la loro popolarità ha generato numerose imitazioni di “pornografia morbida” (soft-core), ha rivisto nuovamente la propria opinione e ha pubblicato una "abiura" della Trilogia.
Il filo conduttore che attraversa i film di Pasolini è il suo crescente disgusto per il mondo moderno. Vide il boom del dopoguerra in Italia come un irreversibile degrado, che trasformava le masse in consumatori senza cervello e cancellava le culture locali. (Per Pasolini le differenze erano sempre da proteggere e ostentare.)
Il suo disprezzo per la borghesia italiana - etichettata come "la più ignorante di tutta Europa" nel suo film "La ricotta" del 1963 - si è manifestato sia come critica (in "Teorema" e "Porcile") che come rifugio in antichità e mito, con il passato che a volte viene utilizzato come una finestra sul presente. (Prima della "Trilogia della vita", ha trascorso una fase nella tragedia greca adattando "Edipo re" e "Medea".)
La disperazione di Pasolini raggiunge il suo punto culminante (in tutti i sensi) in "Salò", che recepisce Sade nell’Italia di Mussolini, equipara consumismo a fascismo e si sforza di essere quello che è stato definito un film "indigeribile", che resiste assolutamente alla mercificazione. (Non è difficile immaginare come Pasolini avrebbe reagito alla incongruità comica della serie dei suoi film al MoMA all’annuncio di Gucci come sponsor.)
Mentre non ha equivalenti nel panorama contemporaneo, Pasolini ha aperto la strada per il cinema ad alcuni registi tra cui Rainer Werner Fassbinder, Derek Jarman, Gus Van Sant e Abel Ferrara (che per anni ha pianificato un film biografico su Pasolini). La potenza delle sue idee e il mistero del suo assassinio (che alcuni ritengono avesse motivazioni politiche) hanno catturato l'immaginazione di innumerevoli scrittori e artisti. Vi è una grande produzione di libri d'indagine sulla sua morte, che è stata anche oggetto di opere che vanno dal film-documentario di Marco Tullio Giordana "Pasolini un delitto italiano" alla installazione di Elisabetta Benassi "Alfa Romeo GT Veloce 1975-2007", che evoca la scena del delitto con un modello di auto di Pasolini (e fari accecanti che riecheggiano un momento di "Accattone").
Come un post-scriptum al MoMA la UnionDocs di Williamsburg, Brooklyn, ha in mostra fino al 13 gennaio due saggi sulla morte di Pasolini: l'artista-architetto Alfredo Jaar con “Le ceneri di Pasolini" e il regista sperimentale Cathy Lee Crane con "Le ultime parole di Pasolini."
Al MoMA nelle prossime due settimane ogni proiezione avrà inizio con una presentazione per discutere del film di Pasolini. La signora Jensen ha detto che queste introduzioni personali sono in linea con l'immediatezza del suo lavoro. "Quando sei seduto in una sala a guardare un film di Pasolini," disse, "si sente che sta parlando direttamente a te." La retrospettiva di film di Pasolini continua fino al 5 gennaio presso il Museo d'Arte Moderna; moma.org. Un'installazione cinematografica di Pasolini vi sarà fino al 7 gennaio al MoMA PS1, 22-25 Jackson Avenue, Long Island City, nel Queens, momaps1.org. Una mostra di ritratti di Pasolini è in corso fino al 5 gennaio presso la sede One, 26 Greene Street, nei pressi di Grand Street, SoHo, location1.org.
Questo articolo è stato rivisto in modo da riportare le seguenti correzioni:
Correzione: 28 dicembre 2012
Un articolo di giovedì circa una retrospettiva dei film di Pier Paolo Pasolini presso il Museum of Modern Art era impreciso sul suo film "Mamma Roma". Mentre, come in altri primi film, Pasolini ha fatto in realtà uso di attori non professionisti, l'attrice professionista Anna Magnani ha recitato in “Mamma Roma”.
Correzione: 29 Dicembre 2012
In un articolo di giovedì circa una retrospettiva cinematografica di Pier Paolo Pasolini presso il Museum of Modern Art era errato il titolo di un film. Si tratta di "Accattone". Non “Accatone”.
Commento
Parlo di un aspetto che pare secondario ma che non lo è affatto. L'estensore dell'articolo dimentica tra gli organizzatori dell'evento newyorkese la Cineteca di Bologna (ente privatizzato da gennaio 2012) e l’Istituto Luce (dal 2009, a sua volta costituito in Società per Azioni - "Cinecittà Holding S.p.A."), l’istituzione romana che ha collaborato strettamente con il MoMA per la realizzazione della retrospettiva, e ha portato a New York per la proiezione nel museo le versioni appena restaurate di alcune delle sue più importanti pellicole; Dennis Lim ricorda soltanto Gucci per citare la "comicità" di una tale sponsorizzazione. Ebbene, questo Dennis Lim - che mi ricorda "stranamente ma non troppo" Pierluigi Battista (vicedirettore del "Corriere della Sera", ignorante di "cose pasoliniane" e che pure in qualche occasione si sente di scrivere articoli sul Nostro, fondamentalmente per raccomandarci di "dimenticarlo) - non sa che per finanziare un evento del genere occorrono "capitali"? E che lo stesso avviene per finanziare la produzione di un'opera cinematografica? Beh, Pasolini sapeva benissimo di avere a che fare con i De Laurentiis o con i Grimaldi, aveva a sua volta dovuto rinunciare a realizzare suoi progetti proprio per mancanza di un produttore che mettesse a disposizione risorse contando poi sul successo commerciale dei film. Pasolini non solo conosceva alla perfezione il meccanismo che affianca l'attività creativa, ma ne parlò anche in alcune interviste di cui rimangono ampie tracce tuttora fruibili e che riguardano, oltre alla produzione dei suoi lavori cinematografici, anche la pubblicazione editoriale della sua opera letteraria. Quello che contava, per lui, che sapeva di trovarsi in una società capitalistica che non disponeva di "capitali di stato" ma di "capitali privati", era che il suo cinema potesse esprimersi per quello che era e voleva essere. "Potrà finire il capitalismo", diceva, "potranno morire gli editori e i produttori, ma la mia opera rimarrà INCONSUMABILE". E disse pure che si trattava di "un braccio di ferro" proprio tra il "produttore" e il "creatore" del film, cioè lui stesso, da cui usciva però un'opera che era rappresentativa del suo pensiero, della sua ideologia e della invenzione creativa: ed era sull'opera - che sarebbe rimasta nella storia del cinema o nella storia della letteratura - che si sarebbe continuato a misurare l'interesse reale del pubblico. La faziosità, l'ignoranza e il provincialismo del giornalista del NYT si rivelano poi in numerosi altri interventi che ho opportunamente evidenziato e che - sinceramente - si commentano da soli, e dei quali pensavo di non trovare più tracce dopo gli anni in cui Pasolini era stato il bersaglio privilegiato da parte di una certa stampa, di cinegiornali e perfino di trasmissioni della televisione pubblica. Anche in queste pagine vi sono una marea di esempi che parlano di questi aspetti della vera e propria persecuzione che Pasolini dovette subire in vita ed anche dopo la sua barbara uccisione. Non è stato così purtroppo: le denigrazione continua a essere praticata nei confronti di Pier Paolo Pasolini. E che un articolo del genere sia stato scritto negli Stati Uniti d'America e su uno dei quotidiani più prestigiosi di quel "democraticissimo" e "avanzatissimo" Paese dimostra soltanto quanta strada vi sia ancora da percorrere per superare, oltre all'ignoranza, il pregiudizio e l'odio nei confronti di chi si dichiari o si mostri "diverso" dallo standard universalmente riconosciuto e accettato dal più becero conformismo. (A.M.)
Un confronto tra Carla Benedetti e Antonio Tricomi su come leggere
La Divina Mimesis di Pasolini, sul passaggio epocale raccontato
in quel libro e su qualche suo passo oscuro
1.IL DESERTO
2. ANZICHE’ ALLARGARE, DILATERAI!”
1. IL DESERTO
Antonio Tricomi Con il titolo Questo è il mio testamento, il 17 novembre del 1975 escono postume, su «Gente», alcune riflessioni suggerite a Pasolini dagli incontri avuti con il giornalista inglese Peter Dragadze. Il testo è suddiviso in brevi capitoletti. In quello intitolato Scrivo poesie?, Pasolini afferma di non comporre più versi da «due o tre anni» e poi aggiunge: «La poesia richiede che ci sia una società (ossia un ideale destinatario) capace di dialogare con il povero poeta. In Italia una tale società non c’è. C’è un buon popolo ancora simpatico (specie là dove non arrivano i giornali e la televisione) e una piccola élite di borghesi colti e disperati. Ma una società con cui ci si possa mettere in rapporto attraverso la poesia non c’è. (Lo dico perché un poeta deve avere delle illusioni, ma quando le perde non deve illudersi di averle ancora.)»
Non ti sembra che si possa ritenere La Divina Mimesis, cioè l’opera di un autore che in fondo si descrive «morto, ucciso a colpi di bastone», quasi la messa in scena di un simile convincimento? E non ti pare, più in generale, che nell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, del Salò e di Petrolio, convivano, in maniera addirittura schizofrenica, il massimo investimento sul proprio ruolo di pubblico accusatore della società neocapitalistica contemporanea e l’assoluta certezza che, tuttavia, la collettività abbia smesso già da qualche decennio di attribuire una vera funzione etico-civile al moderno intellettuale-legislatore?
Carla Benedetti È vero che nel tempo in cui inizia a scrivere La Divina Mimesis, a metà degli anni Sessanta, Pasolini avverte come ormai lontano e irrimediabilmente lacerato il tessuto culturale e civile degli anni Quaranta, quello in cui aveva esordito come poeta e come militante comunista. Attorno allo scrittore ora non c’è più quella collettività virtuosa, cementata dalla vittoria contro il fascismo, ma un nuovo inquietante deserto. Il Canto I si apre proprio con l’immagine dei militanti riuniti in un cinema per ricordare Julian Grimau, giustiziato dai franchisti il 20 aprile 1963 (il suo ritratto è la prima delle immagini che formano l’ultima sezione del libro, intitolata “Iconografia ingiallita”). In quella riunione ci sono “il palco degli anni Quaranta; le bandiere degli anni Quaranta; il microfono degli anni Quaranta: tutto traballante […] e ricoperto di povera stoffa rossa. Che stringeva il cuore!”. Quella cerchia di militanti, tutta concentrata verso ”quel suo centro pieno di certezza”, che però lascia fuori “il mondo”, appare così già segnata dall’”Irrealtà” di cui si parlerà nel IV Canto.
Ma da quel nuovo deserto Pasolini non deduce, come invece fanno altri scrittori del suo tempo, la comoda conclusione che l’intellettuale moderno non è più investito di una funzione etico-civile. Ne deduce al contrario la necessità di attraversare quel deserto. È così che inizia il viaggio del protagonista nei gironi di un moderno Inferno, che Pasolini chiama anche “inferno neocapitalistico”.
Che l’intellettuale moderno non fosse più investito di una funzione etico-civile è un verdetto che circolava molto in quegli anni. Ma Pasolini non lo fa suo. È il fenomeno a cui comunemente ci si riferisce con l’espressione “fine del mandato”. Ed è secondo me una di quelle ambigue diagnosi di stampo storicistico-sociologico che hanno paralizzato tanti intellettuali italiani del tempo e successivi, fornendo loro anche un alibi all’inerzia, se non addirittura al cinismo. Di quale investitura sociale avrebbe mai bisogno uno scrittore, un artista o un pensatore? Il mandato non se lo prende forse da sé, talvolta anche contro la collettività che lo caccia? Dante scriveva in esilio. E quell’intellettuale recanatese che nei primi decenni dell’Ottocento scrisse il Discorso sopra i costumi presenti degli italiani, esprimendo un conflitto con l’ethos dell’intera nazione, quale collettività lo aveva mai investito di un ruolo civile? Pasolini si trova in quegli anni in una condizione analoga: “solo, vinto dai nemici, noioso superstite per gli amici”. Ciononostante si arrampica per quella “nuova assurda strada”, non solo inedita ma, stando ai paradigmi correnti in quegli anni, impraticabile. Perciò io non leggerei La Divina Mimesis come la messa in scena della perdita della funzione dell’intellettuale, ma al contrario come l’espressione dell’urgenza di attraversare quel deserto per connettersi con qualcosa di più forte, di più profondo, e di più umano. Per l’autore della Divina Mimesis il mandato è qui e ora, e si gioca in questa catastrofe, che è già avvenuta. Come dopo una fine del mondo, una voce si muove tra le macerie, prende su di sé la materia del tempo anche nei suoi aspetti più repellenti, per trasportarla in alto, per sfondare in un altro mondo.
Nel Discorso sopra i costumi presenti degli italiani, Leopardi descrive una nazione avvelenata quasi dagli stessi mali che anche Pasolini avrebbe esperito un secolo e mezzo più tardi, solo un po’ ammodernati: la verità sentita come inutile e persino dannosa, il conformismo, l’opportunismo, l’assenza di illusioni che si trasforma in cinismo. Quel nemico interno, che sta dappertutto, radicato nel costume degli italiani, Pasolini lo avverte anche nella cultura, e in particolare in quella che in Petrolio chiama la «scienza italianistica», cioè l’abitudine alla collusione col potere da parte dei letterati italiani. Nei gironi della Divina Mimesis si incontrano i “moralisti del dovere di essere come tutti”, tra i quali anche i “parassiti politici” e i “piccoli intellettuali” che hanno non solo rinunciato, ma anche ideologizzato e codificato “la propria impotenza”. E poi i “Conformisti”, cioè tutti coloro che odiano la grandezza, i “Riduttivi – o Troppo Continenti” che “hanno peccato contro la grandezza del mondo”. Altro che consapevolezza della perdita di funzione dell’intellettuale! Semmai Pasolini anche in queste pagine addita una classe intellettuale disonorevole, che manca di radicalità in politica, conformista e addomesticata, come ha fatto già un’infinità di volte in altri suoi scritti, esprimendo questo semplice concetto: gli intellettuali in Italia sono cortigiani. Egli apre così un altro tipo di trincea che taglia in due la vecchia e sociologica questione del mandato sociale dello scrittore.
Per la stessa ragione non parlerei nemmeno di schizofrenia tra due intenti o due consapevolezze. Pasolini non è schizofrenico. È uno scrittore e un artista che nelle opere poetiche e cinematografiche, e anche nei suoi scritti “civili”, ha espresso qualcosa di più avanzato rispetto agli schemi concettuali che circolavano nella cultura del tempo, nei quali talvolta – occorre dirlo – resta lui stesso invischiato quando teorizza. Pasolini teorico è spesso più indietro del Pasolini poeta e cineasta. Lo si vede anche nella sua teoria del cinema, oscurata più che illuminata dai termini strutturalistico-semiologici allora in voga, di cui riveste le sue intuizioni.
E anche quando prende la parola nel discorso pubblico, con interventi, articoli, discorsi, interviste, Pasolini sfugge alle categorie cristallizzate del tempo, a cominciare – sebbene egli stesso ne faccia uso quando teorizza – da quella di “intellettuale”, così come si è configurata nel secolo scorso. Quanto è distante Pasolini da un Sartre, cioè dall’intellettuale per antonomasia che per tanti anni è stato preso a modello di impegno! E se ne distanzia non su una cosa secondaria, ma capitale, che tocca le strutture di pensiero. L’engagementsartriano tollerava che si tacessero parti di verità, per esempio sull’Unione Sovietica di allora, in nome della “causa”, che altrimenti avrebbe rischiato di indebolirsi durante la guerra fredda. Una disposizione a tacere che, per quanto scusabile nella contingenza, implicava un rovesciamento gravido di conseguenze: l’opportunità politica veniva infatti messa al di sopra del vincolo della verità. Pasolini, al contrario, sceglie il vincolo opposto: la verità (che per lui come per Simone Weil ha un carattere produttivo e quasi sacro) contro l’opportunità (sempre pronta a degenerare in opportunismo). Proprio per mettere in luce questa differenza tra la voce pubblica di Pasolini e la figura novecentesca dell’intellettuale impegnato, ho proposto di usare per lui una categoria estranea al sistema ideologico del tempo, richiamandomi a quella dell’antica parresia, che meglio coglie le particolarità di Pasolini. Il parresiasta è colui che dice tutto ciò che si deve dire, semplicemente perché è la verità. In questo Pasolini è più vicino a una figura come Simone Weil che non a Sartre o all’intellettuale-legislatore di cui si discuteva in quegli anni.
Ma anche rispetto all’altra figura novecentesca di intellettuale, quella del “pensatore critico” o del “critico della cultura”, Pasolini rivela una differenza abissale. Prendiamo ad esempio la Società dello spettacolo di Guy Debord (1967) e confrontiamolo con La Divina Mimesis, incubato in quegli stessi anni anche se pubblicato nel 1975. Entrambi annunciano ciò che di inedito e di terribile sta per accadere nel mondo, entrambi descrivono l’azione distruttrice di un nuovo potere, molto più capillare e devastante delle forme di potere conosciute fino ad allora. La diagnosi di Debord non è meno cupa e apocalittica di quella di Pasolini. Però le loro formae mentis sono opposte. Debord è ammaliato da quella macchina di potere perfetta che ci sta mostrando e che egli chiama “società dello spettacolo”, e il suo sguardo è privo di disperazione. Non è tragico, cioè è senza conflitto. È la forma mentis apocalittica, abbastanza diffusa nel pensiero critico novecentesco, che capitola sotto l’idea della necessità storico-sociale della macchina di dominio che sta denunciando. Quella di Pasolini invece è una forma mentis tragica, che dà voce, quasi come un corifeo dell’antica tragedia, alla pietà per il dolore dell’umanità travolta dai nuovi poteri, e ci fa percepire l’odierno corso della storia non come necessario ma come intollerabile. Egli è certo disperato, ma non capitola. È schizofrenico essere al tempo stesso disperati e inarresi? Direi proprio di no. Leopardi ne è il massimo esempio. E anzi, si potrebbe persino aggiungere che, a volte, solo se si è disperati è possibile opporre una resistenza.
Pasolini non è comunque il solo scrittore italiano a percepirsi in quegli anni come un superstite. Anche Calvino e Montale attraversano una crisi analoga che li induce ad abbandonare la poetica precedente. Però solo Pasolini ne parla apertamente facendone il tema della Divina Mimesis, dove addirittura si rappresenta sdoppiato in due figure: da una parte il Pasolini del presente, smarrito “come un bambino che non ha più casa, un soldato disperso”. Dall’altra il Pasolini del passato, quel “piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta”, ormai ingiallito, che farà da guida all’altro nella discesa all’inferno. Pasolini dunque dà a quella crisi, comune a molti scrittori del tempo, non solo una forma esplicita, ma anche una forma tragica, non pacificata, mentre Montale la cura con l’autoironia e Calvino la occulta dietro tutt’altra immagine di sé, quella dello scrittore che muta continuamente rotta, come Picasso, per sperimentare nuove soluzioni stilistiche.
2. “ANZICHÉ ALLARGARE, DILATERAI!”
Antonio Tricomi Mi sembra che il senso di quell’attraversamento del deserto di cui hai parlato sia espresso da Pasolini in un passo della Divina Mimesis, in forma di imperativo etico al quale attenersi tanto nelle proprie scelte stilistiche, quanto nella definizione del proprio sguardo sulla realtà: «Anziché allargare, dilaterai!»
Come hai già avuto modo di sottolineare, La Divina Mimesisè un’idea che risale alla metà degli anni Sessanta, tanto che in Progetto di opere future, ossia il componimento forse capitale tra quelli raccolti in Poesia in forma di rosa, essa viene annunciata quale «opera, se mai ve ne fu, / da farsi». All’incirca per un decennio, Pasolini pensa dunque a un testo che convalidi il seguente assunto, ancora dichiarato in Progetto di opere future: «la via / della Verità passa anche attraverso i più orrendi / luoghi dell’estetismo, dell’isteria, // del rifacimento folle erudito». Abbozzare una frammentaria, infedele, colta rivisitazione della Commedia per lui significa cioè misurarsi con l’opera-mondo per antonomasia della letteratura italiana al fine di ipotizzarne, più che di costruirne, una che a tal punto si fondi su regole nuove da correre persino il rischio di essere giudicata dai lettori «la peggiore delle arbitrarietà visionarie» possibili, invece che una potenziale summa della contemporaneità, della tradizione.
Per Pasolini, Dante «era sostenuto da una ideologia di ferro», che, rivelandosi «la più prepotentemente unitaria di tutta la nostra cultura», gli consentiva di “allargare”il proprio sguardo sull’intera realtà, di decifrarne pressoché ogni aspetto, di offrircene una coerente sintesi interpretativa. Non ambiva a fare qualcosa di diverso quel poeta civile che l’autore delle Ceneri ribadisce di essere stato, giacché egli pure poteva far leva, se non su una ideologia parimenti “di ferro”, almeno sui postulati di un orizzonte etico-politico condiviso da vari settori della società, da non pochi intellettuali e scrittori. La Divina Mimesis viene appunto a dichiarare estinta questa possibilità per il proprio autore e, a dire il vero, per chiunque altro. Pasolini ritiene di non poter più assumere un immobile punto di vista sul mondo in virtù del quale costruire un’opera internamente coesa e in cui, trasfigurati, i vari elementi del reale compaiano per saldarsi in un’armonica spiegazione del presente, della storia. Egli crede invece di dover “dilatare” la propria soggettività di autore e di intellettuale fino a consentirle di “aderire” alla totalità dell’esistente senza però pretendere di trovare una bussola per orientarsi nel magma del reale, e anzi restituendoci il caos dell’epoca per ciò che esso ormai gli appare: un guazzabuglio di irrisolvibili contraddizioni. Per questo, con l’eccezione di quella “esatta” allegoria dell’Apocalisse che è il Salò, ogni opera pasoliniana, dalla metà degli anni Sessanta in poi, si fonda sui principi esposti nella Divina Mimesis: «Asimmetria, sproporzione, legge dell’irregolarità programmata, irrisione della coesività, introduzione teppistica dell’arbitrario».
È in nome di questo paradossale realismo che Pasolini, a un certo punto, sceglie di sottrarsi ai vincoli dell’opera compiuta o, diciamo pure, all’obbligo morale avvertito da ogni grande autore, cioè quello di impegnarsi nella faticosa costruzione del capolavoro, e prende anche, in un isolamento vieppiù crescente, a spendersi senza requie, a volte confusamente e però sempre con generosità, in penetranti tentativi di definizione di inediti parametri culturali, civili, estetici. Ciò ha sovente fruttato alle sue opere e ai suoi interventi pubblici accuse di debolezza, gratuità, pressapochismo, mentre, per effetto del suo desiderio di trasformarsi nell’icona stessa dell’intellettuale a tutto campo, taluni sono persino giunti a riconoscere in lui nulla più che un secondo D’Annunzio.
Tu sai bene che io non accolgo in toto questi rilievi e a me non sfugge che tu non li condividi affatto. A quali argomenti ritieni però che potremmo più proficuamente ricorrere per controbattere, in parte o del tutto, a simili obiezioni al cospetto, per esempio, di un’opera come La Divina Mimesis, che Pasolini non ci presenta alla stregua di un monumento, ma definisce un «documento del passaggio del pensiero»?
Carla Benedetti Non direi che Pasolini desiderasse trasformarsi in un’icona – che è un ben misero destino – e ancor meno nell’icona dell’intellettuale a tutto campo. Semmai, come ho detto, in colui che dice la verità in un contesto che non la vuole vedere né sentire tutta, e questo lo ha inevitabilmente trasformato in una figura tragica, di conflitto, a momenti sacrificale. La cultura italiana, anche quella di tradizione marxista, è allergica a quel genere di figura così sbilanciata sulla singolarità individuale, tanto da doverle tessere attorno una specie di cordone sanitario. Mi riferisco alla rete di definizioni velenose da cui è stato avvolto Pasolini nel corso degli anni, anche dopo la sua morte. Definizioni che mirano a delegittimarne la voce, a renderla ideologicamente e artisticamente sospetta. Gli intellettuali di sinistra lo hanno infatti definito “populista” (Asor Rosa), “reazionario nostalgico” (Sanguineti e molti altri), affetto da “delirio di onnipotenza” (Fortini). In questa stessa chiave delegittimante è stato invocato per Pasolini anche lo spettro di D’Annunzio, cioè del Vate decadente e esteta. È una definizione che non ci rivela nulla di criticamente rilevante sulle caratteristiche di Pasolini scrittore, né sulla forma della Divina Mimesis. È solo una categoria morale che, in compenso, ci dice però molto sul terrore che gli intellettuali italiani nutrono nei confronti delle singolarità non conformi, che dicono no a quello a cui tutti dicono sì.
Quanto alla frase volutamente criptica “Anziché allargare, dilaterai!”, sono d’accordo con te. “Allargare” è appunto ciò che contraddistingue l’operazione linguistica di Dante, che il Pasolini di quegli anni non intende più seguire. In Empirismo eretico, parlando di Dante, Pasolini ricorre proprio a un’immagine di allargamento: “lo spostamento del punto di vista in alto, che aumenta smisuratamente il numero delle cose e dei loro nomi”. Ma all’ultimo Pasolini, ormai non più sostenuto come Dante “da un ‘ideologia di ferro”, questa via è preclusa. A lui non resta che dilatare, vale a dire: “Asimmetria, sproporzione ecc.”.
Però io non lo intenderei come un dilatare la propria soggettività di autore e di intellettuale. Credo che si tratti piuttosto della dilatazione del corpo della poesia. La poesia dilaterà i suoi tessuti fino ad accogliere un corpo estraneo, fino a contenere in sé non solo tutto l‘impuro che c’è nel mondo odierno ma anche “il passato mai morto del cosmo” e tutto ciò che squarcia l’orizzonte sociologico-culturalista di quegli anni. Ed è anche un abbandono della soluzione stilistica di tipo mimetico, che il Pasolini precedente aveva fatta propria. Se la scrittura letteraria potrà ancora avere un rapporto col mondo, non sarà certo “allargandosi” per contenere in sé una sorta di “mondo-campione” da imitare linguisticamente, ma aprendosi a ciò che la sfera estetica non può tollerare. Pasolini infatti percepisce interamente quella sfera come una zona convenzionale e inerte, anche quando vi si compiono le più spericolate contaminazioni di linguaggi e di generi. E la dilatazione massima avviene secondo me nel punto in cui egli sceglie quella inedita forma compositiva che chiamerei la “forma-progetto”.
Dopo il Canto II, La Divina Mimesis subisce una sorta di mutazione di statuto. Cessa di essere un oggetto narrativo rifinito, e prosegue fino alla fine del volume nella forma di “Appunti e frammenti” e di “Note”. Persino l’”Iconografia ingiallita” reca come sottotitolo per un “Poema fotografico”, dove la preposizione “per” iscrive anche questa poesia per immagini nella modalità dell’abbozzo. Questa forma compositiva, programmatica nell’ultimo Pasolini, non va confusa con lo stato di incompiutezza. Non è semplicemente un’opera incompiuta o frammentaria che l’autore ci presenta, ma l’opera nel suo stato potenziale, non ancora rifinito. Molte delle ultime opere di Pasolini, sia letterarie sia cinematografiche, si presentano nella forma di appunti per “opere da farsi”: dagli “abbozzi” per film mai realizzati, gli Appunti per un film sull’India (1967-1968) e gli Appunti per un’Orestiade africana(1968-1973), alla Divina Mimesis e, infine, ma a uno stadio ancora più radicale, a Petrolio. Questa forma-progetto io la leggerei però, più che come volontà di sottrarsi all’obbligo di creare il capolavoro, come un rifiuto di confezionare un oggetto estetico, fruibile come tale nella sua autonomia formale. Lo stato progettuale forza le nostre abitudini di lettura. Di solito noi riserviamo un occhio diverso alle parti finite e alle parti solo abbozzate. Solo le prime mettono in moto l”attitudine estetica’, il godimento sensibile dell’opera in quanto oggetto estetico. Le seconde invece lo impediscono, restando eternamente in quel luogo in cui l’autore può parlare al lettore direttamente per esporgli ciò che ha intenzione di fare, e ogni frammento, anche quello più autosufficiente, resta allo stato potenziale, non come pezzo effettivo dell’opera futura, ma solo come un suo pezzo possibile. Questo è il modo che l’ultimo Pasolini si inventa per dilatare i confini della letteratura, per aprirvi una breccia attraverso cui ristabilire un rapporto non convenzionale tra scrittura e mondo.
Detto questo, non so se il risultato corrisponda all’intento. I primi Canti della Divina Mimesis, a rileggerli oggi, mi appaiono più toccanti delle Note, compresa quella intitolata Per una “Nota dell’editore” (di nuovo la preposizione “per”), dove un editore finge di presentare l’opera scritta da un autore «morto,ucciso a colpi di bastone, a Palermo».
Molti critici dicono che Palermo stia qui a indicare il luogo in cui nel 1965 si riunirono Sanguineti e gli altri scrittori del Gruppo ’63, aperti avversari di Pasolini. Ipotesi avvalorata dalla foto di quella riunione compresa tra le immagini dell’”Iconografia ingiallita”. Ma c’è anche chi vi ha scorto un riferimento, suggestivo anche se improbabile per ragioni di date, al giornalista Mauro De Mauro sparito nel 1970 a Palermo, probabilmente per ordine dello stesso che aveva fatto saltare in aria l’aereo di Mattei, cioè Eugenio Cefis (a formulare questa ricostruzione dei due omicidi è stato il giudice Vincenzo Calia al termine di una lunga indagine, conclusasi nel 2003, sull’attentato all’allora presidente dell’Eni, di cui, come è noto, anche Pasolini parla in Petrolio, indicando Cefis come mandante). Sempre dall’indagine di Calia emerge l’ipotesi che Pasolini possa essere stato eliminato dalla stessa mano che ha commesso gli altri due omicidi.
Antonio Tricomi Come sai, la penso diversamente sulla morte di Pasolini: ritengo cioè che il suo assassinio abbia una innegabile valenza politica pur senza essere stato commissionato dal Palazzo o da pezzi deviati di potere o dalla criminalità organizzata. Sono però ovviamente disposto a mutare parere nel caso in cui le nuove inchieste dovessero rivelare una verità diversa.
Nelle proprie opere, e soprattutto in quelle degli anni Sessanta e Settanta, Pasolini indugia nella rappresentazione di sé come vicino al decesso o persino morto. Si tratta, pressoché sempre, di allusioni alla delegittimazione socioculturale di cui, a suo giudizio, è vittima l’arte, nonché di rimandi allegorici alla marginalità civile che egli sente di dover scontare in quanto poeta. Diversamente da ciò che crede Zigaina, l’intera opera di Pasolini non ne preannuncia quindi il suicidio, ma diventa una metafora di quella fine della letteratura, e dell’arte tutta, che l’intellettuale teme imminente.
«Il mondo non mi vuole più e non lo sa»: questa frase, con cui l’autore di Petrolio firma il suo unico disegno astratto, di datazione incerta, continua a sembrarmi l’ideale sinossi anche della Divina Mimesis.
Carla Benedetti Io credo che sulla morte di Pasolini non ci sia da “pensarla” in un modo o in un altro. Non se ne può pensare nulla finché non si conosce la verità. È strano, e anche un po’ agghiacciante, che i letterati si siano invece preoccupati tanto di come la si debba interpretare, di quale significato allegorico le si debba attribuire, e abbiano prodotto tanti ricami sulla morte omosessuale, sulla morte sacrificale, sulla morte simbolo ecc.. Ma è un omicidio, mica un testo letterario! Un omicidio di cui non si conoscono ancora né i colpevoli né i moventi, e su cui la Procura di Roma ha riaperto una nuova indagine, che è ancora in corso, in seguito a nuovi elementi emersi e a quelli che già c’erano ma trascurati nelle precedenti inchieste.
Quanto all’opera di Pasolini, per tutto ciò che ho detto finora, non posso concordare con te quando dici che è una metafora della fine della letteratura, e dell’arte tutta. Lo si può dire forse dell’opera di altri scrittori del tempo, di un Sanguineti ad esempio, o di altri che della rappresentazione allegorica di quella fine hanno fatto la propria bandiera. Ma non dell’opera di Pasolini, che non conosce quella forma pacificata di elaborazione, ed è anzi tutta attraversata da un’energia poetica nello stesso tempo disperata e delicata, tragica e ascensionale, che lo porta continuamente a riaprire il piccolo orizzonte storicistico e sociologico di cui altri si accontentano, verso quelle regioni del passato e del cosmo da cui proviene la luce (la luce, altra protagonista della Divina Mimesis). E da cui provengono anche quei piccoli fiori di cui si parla nel Canto II, che sbucano col primo sole tra l’erbaccia, ignari della propria caducità. Ecco, se dovessi scegliere un passo per concludere, sceglierei proprio questo:
“Anch’io, come un fiore – pensavo – niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo”.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
"Lo straniero", n. 124 ottobre 2010, "Lo Straniero"
Il viaggio a Roma, vale a dire il primo volo fuori dalla gabbia recanatese, per il ventiquattrenne Giacomo Leopardi suggella una lunga adolescenza nei modi del più duro disincanto. Il dolore cresce in equa proporzione alle aspettative di un ragazzo vissuto nella confidenza dei libri antichi e moderni ma da sempre assoggettato alla rigida tutela domestica di Monaldo e Adelaide.
Così, anche il rapporto con i suoi fratelli (l’esuberante Carlo e Paolina, la patita di Mozart e Stendhal, quasi una femminista in pectore) rimane di complicità e persino di clandestinità, la stessa che da almeno cinque anni mantiene col maestro elettivo e interlocutore pressoché esclusivo, quel Pietro Giordani (ex novizio benedettino, scrittore classicista ma nemico giurato dell’Ancien Régime), di cui Monaldo continua a intercettare la corrispondenza ritenendolo un sobillatore e, alla lettera, il corruttore del suo primogenito. Roma gli si è infine rivelata per quello che è: non l’epicentro della cultura occidentale ma la sede di un governo crudele e corrotto, un deposito di rovine dove non c’è letteratura né scambio intellettuale ma burocrazia e farragine accademica, non filosofia e filologia ma superstizione antiquaria di trovarobe altrove scambiati per uomini di cultura. La tirannide pontificia di Pio VII, il redentore dei Gesuiti, è peraltro al culmine e agli occhi del giovinetto marchigiano lo stesso monsignor Angelo Mai, l’editore che passa per un illuminato e il custode dei classici cui si riferisce il terzo titolo dei Canti, ora gli appare un prelato intrigante e un passacarte ipocrita preso dentro al generale “letamaio di costumi”.
Roma non gli sembra infatti una città, tanto meno una Polis rediviva, ma il borgo umido e tetro di un ritardatario Medioevo, dove le vestigia eroiche dell’Antico sono sepolte, corrose e infestate dalla sterpaglia oscurantista dei Bassi Tempi, come tiene a definirli pescando dal vocabolario libertino dei savant.
Ha passato l’inverno sperando inutilmente in un posto di lettore (di fatto, un tecnico amanuense, uno scrivano) alla Biblioteca Vaticana ma neanche i buoni uffici della parentela e del cardinal Consalvi in persona hanno potuto garantirglielo: non solo Giacomo recalcitra all’abito talare ma ha fama di libero pensatore, forse di anticlericale e di ateo dissimulato. Non a caso i soli che abbiano riconosciuto il suo genio di filologo sono stati i grandi antichisti domiciliati presso l’ambasciata prussiana, Niebhur e Bunsen, come nemmeno è un caso che lui abbia scelto di chiudere il soggiorno con la visita alla tomba del Tasso in Sant’Onofrio, un gesto premonitorio, prima che allegorico, il quale immette a un biennio di straordinaria e frenetica operosità.
Tra il ’23 e il ’24, il poeta non solo perfeziona i versi in cui convivono il rimpianto dell’antico e l’agonismo nei riguardi del presente (vedi l’Ultimo canto di Saffo o l’Inno ai Patriarchi) ma redige la più parte dello Zibaldone e pubblica in contemporanea il primo getto delle Operette morali cui, proverbialmente, viene fatta risalire la sua maturità di scrittore e di pensatore materialista.
Proprio nel marzo del ’24, Leopardi riceve una proposta di collaborazione alla “Antologia” di Giovan Pietro Vieusseux e scrive all’impronta un esquisse alla maniera dei francesi (sono poche decine di carte manoscritte per un testo interrotto ma non esattamente incompiuto) che, rimasto a Napoli fra i documenti in possesso dell’amico Antonio Ranieri, uscirà postumo soltanto nel 1906: debitore nel titolo della riflessione illuminista sui nessi di geografia/clima/mentalità, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italianiè un saggio di filosofia etica che rielabora l’esperienza del soggiorno nell’Urbe. Qui, come nel gioco dello specchio ustorio, Roma è diventata una Recanati esorbitante, non meno selvaggia e matrigna perché, a studiarli de visu, gli abitanti dell’una e dell’altra testimoniano subito, e inequivocabilmente, del semplice fatto che sono italiani.
Il saggio muove da una duplice constatazione, che ha il valore di un assioma: se è vero che la fine dei Bassi Tempi ha comportato il decesso delle società fondate sui “principii” (ossia dogmi intangibili), è vero altrettanto che le società forgiate dalla Rivoluzione (qui lèggi Illuminismo) si fondano tutte sulla “opinione” ovvero sulla “conversazione”. Dai libri collocati sui palchetti alti della biblioteca di Monaldo, gli stessi che aveva acquisito dagli espropri napoleonici, Leopardi è venuto a sapere che le nazioni secolarizzate (la Francia e l’Inghilterra, ma anche la Germania per l’omogeneità linguistica garantita dalla Bibbia di Lutero) sono “società strette” dall’industrializzazione, dall’urbanesimo e dalla fitta trama del commercio: qui la borghesia mercantile dei cosiddetti “cittadini” ha rinunciato alla “gloria” e ambisce viceversa all’“onore” mondano, il cui solo fondamento è il giudizio che ognuno fornisce sulle azioni dei suoi pari grado. Quanto più ravvicinato è lo sguardo dei simili, tanto più diviene ferreo il legame sociale, per cui l’onorata reputazione di un individuo corrisponde al pubblico giudizio di lode sul suo comportamento: ciò spiega l’eterogenesi di un egoismo portato a limitarsi o, anzi, a trascendere se stesso per l’incombere di un occhio che controlla, valuta e giudica sempre dall’esterno. E’ nel moto perpetuo della “conversazione” che nasce il primato del “buon tuono” (da bon ton, ovviamente) e cioè di una vera e propria dittatura democratica esercitata dalla pubblica opinione: "Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio, non solo remotamente parlando, il che è da per tutto e fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente."
L’Italia che Leopardi ha creduto di lasciare a Recanati per ritrovarla tale e quale a Roma è invece una “società larga”, del tutto priva di “conversazione” che non sia la maldicenza prosperante al chiuso delle ghilde e delle corporazioni, dei circoli ecclesiastici e nobiliari, dei salotti angustamente familiari, dove la vita - sono parole sue - “è ristretta al solo presente”, fatta di “noia, sbadiglio, letargo”. L’elenco delle cause e relativi sintomi che allega al Discorsoè risaputo: la scarsezza di centri urbani e la mancanza di un Centro politico-economico che possa dirsi tale; l’assenza di un teatro nazionale e l’eccezionalità della forma-romanzo, contrassegno della cultura moderna; l’abitudine a vivere all’aperto; la distratta frequentazione dei luoghi di culto o, all’opposto, di teatri che in realtà sono i ritrovi del divertimento da parte di un’aristocrazia fondiaria ritiratasi, oziosa e ignorante, nella cerchia murata dei borghi; l’inesistenza, infine, di “conversazione” come di “buon tuono” e cioè di un legame sociale effettivo. La diagnosi è altrettanto spietata: una simile borghesia, che non merita il nome, compensa il suo difetto d’“onore” con la totale dedizione all’individualismo. La mancanza di stima verso se stessi comporta una corrispettiva disistima o indifferenza verso gli altri (“un abito di cinismo”, scrive il poeta) al punto che di ogni manifestazione della vita, in Italia, si può soltanto ridere. Qui è d’obbligo il motteggio, l’irrisione, un dileggio che non risparmia nulla e nessuno; questo è il paese che baratta la “conversazione” con l’epica delle insinuazioni e delle barzellette, che scambia volentieri l’esercizio della critica con l’ambiguo insulto della satira, la quale stabilisce un rapporto di segreta complicità, e spesso di insidiosa intimità, con gli oggetti che proclama di colpire. Perciò è un paese che non crede a niente, che non può e non vuole. Mancando di autentici “costumi” (di dignitosi “comportamenti”, secondo l’etimologia) non è pensabile si sottometta a delle leggi o che tolleri alcuna regola prestabilita. Gli italiani vivono di “usanze”, di abitudini inveterate, di relitti dogmatici dei Bassi Tempi cui fingono di credere nello stesso momento in cui li deridono per trasgredirli: "Gli italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al Sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuol conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi. Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo […] Non rispettando gli altri, non si può esser rispettato. Gli stranieri e gli uomini di buona società non rispettano altrui se non per essere rispettati e risparmiati essi stessi, e lo conseguono."
Il manoscritto si interrompe poche carte più avanti. Leopardi non arriva a dirlo ma nel Discorso è implicito che per lui non esiste “identità” italiana se non di segno negativo, come fosse una casella vuota e irrequieta nello spazio-tempo. Quanto a ciò, quasi tre secoli dopo, un critico imprevedibile come Cesare Garboli avrebbe detto in sostanza: “Mi sento italiano per questo: perché non mi sento niente al mondo”. Non si tratta di una affermazione nichilista ma, piuttosto, della consapevolezza che l’italianità prolifera in un palinsesto confuso, sovraccarico: di lì non è possibile cogliere altro se non la sua perpetua capacità di ricezione e smaltimento. Non è da sottovalutare che, dall’Unità in avanti, il progetto più ambizioso e pervasivo di costruzione dell’italianità sia stato perseguito a freddo da una dittatura, il fascismo, che invano ha preteso la realizzazione del “primato” di cui già discorrevano confusamente alcuni uomini del Risorgimento: studiandone le tracce di lungo periodo, a proposito della borghesia e della neonata opinione pubblica, Giulio Bollati vi avrebbe individuato la costante inclinazione all’opportunismo e al trasformismo, mentre, al compimento di una frettolosa modernizzazione, lo storico Guido Crainz avrebbe detto senza mezzi termini di un Paese Mancato nonostante la parentesi gloriosa della Resistenza, le chances del miracolo economico e il decennio di diffusa sollevazione che va dal ’68 al ’77. Già il fatto che oggi i fornitori dell’opinione pubblica in Italia siano contemporaneamente ed esclusivamente la televisione e la chiesa cattolica sembra dar ragione in tutto a Leopardi.
E' difficile pertanto contrastare o sottovalutare la tesi di Pier Paolo Pasolini, iscritta nelle pagine più disperate di Scritti corsari o Lettere luterane, secondo cui gli italiani si sarebbero unificati solo molto di recente e nel segno della omologazione neocapitalista. Cancellando arcaiche culture particolaristiche (rurali, regionali, dialettali) con un genocidio sistematico, il neocapitalismo li avrebbe finalmente uniformati in una specie di plebe borghese e trasformati in cinici consumatori per il tramite, appunto, della televisione: non più cittadini ma artefici e/o devoti del made in Italy, sudditi periferici di un dominio planetario che ora si chiama globalizzazione.
E’ probabile che l’attuale, e ricorrente, contenzioso mediatico sulla italianità ne rappresenti sia l’inconscio politico-economico sia un riflesso condizionato. Per micidiale paradosso, nella zona più ricca e secolarizzata del paese tornano pulsioni autoritarie mentre xenofobia e fantasie separatiste coagulano in una metafisica identitaria che avvalora tradizioni presunte (in realtà inventate con estro postmoderno) e straparla addirittura di federalismo, bestemmiando Leopardi e Cattaneo; d’altro lato, le forze ufficialmente democratiche e il residuo di opinione pubblica cui spetterebbe l’esercizio del pensiero critico sono ferme a una retorica difesa dell’integrità dei confini nazionali e delle istituzioni repubblicane, avendo da tempo abbandonato a opinionisti retrivi, storici d’accatto e revisionisti improvvisati il bilancio dei reali processi di unificazione, non esclusa la questione meridionale oggi espulsa dall’agenda come fosse un problema di ordine pubblico.
C’è un romanzo sottovalutato di Paolo Volponi, Il sipario ducale, che dà piena e precoce evidenza a una simile contraddizione. Ambientato a Urbino nel ’69, nella provincia senza tempo ma in giorni gravidi di strage e di lutto, vi si oppongono due personaggi che riassumono in emblema la storia recente del paese: da un lato c’è l’imbambolata parodia di uno statista, lo psicotico e maniaco sessuale Oddino Oddi-Semproni che si vorrebbe erede di Federico da Montefeltro, il signore delle armi e delle arti, lo splendore più munifico dell’Italia secolare; dall’altro un vecchio professore di scuola, Gaspare Subissoni, anarchico ed ex miliziano nella Guerra di Spagna, innamorato di Leopardi, odiatore dei Savoia e del paese svergognato che parla nella lingua dei codici e delle lapidi belliche. L’insulso Oddino, viziato nei torbidi del familismo, ipnotizzato dal televisore in biancoenero, presagisce inconsapevolmente la monarchia dell’acefalo letale che ora regna a colpi di telecomando, mentre Subissoni non immagina che il suo monologo minoritario, la sua foga di perdente risentito oggi troverebbe larga udienza, per ennesimo e crudele paradosso, proprio fra gli uomini dei rinnovati Bassi Tempi: "Egli pensava proprio all’orribile secolo XIX della storia italiana, a quel branco di figli di papà e di perditempo che erano i carbonari, a quel presuntuoso di Mazzini che si credeva un compendio vivente delle virtù poi tutte immancabilmente riprese e cacciate nel testone del dux, compendio italico et summa romana, e prima, di quel democristiano di Gioberti, agnello del Signore, ma anche di qualsiasi stalla padronale… e via via di tutti gli altri… compreso il Vittorio Emanuele II, che gli appariva sempre in mutande e sulla soglia di una latrina, dal cui ligneo e smerdato (regalmente) sgabuzzino vedeva partire una lunga ferrovia che recingeva l’Italia tutta, recandole quel poco del prodotto regale che aveva superato le tavolette, e insieme rovinandone per sempre le coste, le marine, i paesaggi, i lidi, i nidi, le piazze, gli archi e le colonne. Quale era stato il segno dell’Unità? La decadenza dei costumi e un branco di piccoli poeti, di letterati fessi e di bibliotecari emorroissi, il trasformismo e l’emulazione."
E allora? Allora niente. Riconoscendo l’inesistenza di una identità italiana propriamente detta se non nelle sue declinazioni al negativo, il Discorso di Leopardi dà l’esempio, tuttavia, di come sia sempre possibile una critica radicale della italianità e dunque di un costrutto mobile, mutevole, così contraddittorio nello spazio e nel tempo da poter risultare volta a volta anche un alibi, un falso o una pia illusione. E per nostra fortuna, mi permetto di aggiungere. Perché nei bassi della propaganda identitaria continua a riprodursi la malattia cronica, endemica, che Garboli tornò a segnalare una decina d’anni fa: “Il francese rimane francese ed essere umano. [… In Italia] l’identità nazionale è sempre sentita in termini di orgoglio rivendicativo e rabbioso”. D’altronde la sua diagnosi non avrebbe potuto essere più netta: “L’italiano, se si sente italiano, diventa subito fascista”.
(Il testo del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italianiè in: Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti, nuova edizione riveduta e accresciuta, Sansoni, Firenze 1976, vol.I, pp. 966-983. Le citazioni da Cesare Garboli sono entrambe desunte da Italianità. Conversazione con Simonetta Fiori, in Ricordi tristi e civili, Einaudi, Torino 2001, p. 70. Le tesi di Giulio Bollati si leggono in L’italiano. Il carattere nazionale come storia e invenzione, Einaudi, Torino 1983. Il generico riferimento a Guido Crainz allude ovviamente al suo Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003, così come il richiamo a Pier Paolo Pasolini cita in blocco i libri del suo testamento intellettuale, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975 e Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976. Il monologo anti-italiano di Subissoni è in Paolo Volponi, Il sipario ducale, Garzanti, Milano 1975, p. 125.)
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Pier Paolo Pasolini. L'opera poetica, narrativa, cinematografica,teatrale e saggistica.
Ricostruzione critica
Carocci Editore, 2012
Dal prossimo 24 gennaio 2013 sarà disponibile in libreria il libro di Guido Santato, Pier Paolo Pasolini. L'opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica.
Il volume presenta, attraverso un'analisi rigorosa e insieme ricca di contributi critici innovativi, un profilo completo e aggiornato dell'opera di Pasolini: un'opera che spazia dalla poesia alla narrativa, alla saggistica, al cinema, al teatro, alle traduzioni dei classici, al giornalismo, alla pittura. Il saggio si sviluppa attraverso una puntuale analisi dei testi e, per la produzione cinematografica, dei singoli film. Il confronto con i testi è il criterio metodologico seguito nella ricostruzione delle varie fasi e dei diversi settori di un'opera vastissima e complessa come quella di Pasolini, il primo grande artista "multimediale" dell'epoca contemporanea. Questa impostazione ha comportato l’adozione di una pluralità di approcci critici. Il grande interesse che Pasolini continua a suscitare in tutto il mondo, la varietà delle ricezioni della sua opera e l'importanza degli studi prodotti in diversi paesi hanno richiesto a loro volta una particolare attenzione al panorama internazionale della critica.
Guido Santatoè professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Padova e membroassociato del Groupe d'Etude et de Recherche sur la la Culture Italienne dell'Université Stendhal - Grenoble 3. Si è interessato prevalentemente alla letteratura del Settecento e del Novecento, dedicando particolari indagini ad Alfieri. Ha pubblicato i volumi Pier Paolo Pasolini. L’opera (1980, Premio Viareggio per la Saggistica Opera prima), Alfieri e Voltaire. Dall’imitazione alla contestazione (1988), Il giacobinismo italiano. Utopie e realtà fra Rivoluzione e Restaurazione (1990), Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani (1994), Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani (1999), Letteratura italiana del secondo Settecento. Protagonisti e percorsi (2003), Nuovi itinerari alfieriani(2007). Ha curato l’edizione commentata dell’Esquisse du Jugement Universel di Alfieri (2004) e la realizzazione del CD-Rom Vita di Vittorio Alfieri (2005). Ha collaborato ad opere collettive di storiografia letteraria. Ha fondato e dirige la rivista internazionale «Studi pasoliniani».
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Vorrei rendermi interprete anzitutto del rimando al titolo generale Passione e ideologia eminentemente pasoliniano (che condivido); mi piace inoltre quello “è” tra parentesi, che mi ricorda la celebre poesia di Goethe Ueber allen Gipfeln ist Ruh, laddove Heidegger sottolinea l’impossibilità di sostituire quello “è” (ist) con altre parole; alla stessa maniera l’affermazione suddetta mi risulta appunto ontologica, il teatro “è” in quanto “è” politico. Non si tratta dell’applicazione di certa politica al teatro, ma della constatazione di come il teatro, in qualche maniera, “parli sempre di politica”, ovvero “sia” politica ancor prima di iniziare un discorso che generalmente definiamo come tale.
Per questo dico subito che il teatro “non è né di destra né di sinistra”, nemmeno di centro beninteso, ma al contrario raccoglie in sé tutte le parti politiche possibili, destra, sinistra e centro. Anzi, proprio nel teatro, in quel luogo ad emiciclo dell’antichità, “è nata la politica”, come ha specificato il politologo Krippendorff, e come affermo io semplicemente pensando all’Orestea, la grande trilogia di Eschilo, dove assistiamo alla nascita della democrazia ma anche, come specificato assai bene da Emanuele Severino, della filosofia occidentale. Si trattò evidentemente di un momento grandioso per l’umanità, la nascita del teatro (attraverso la poesia drammatica), ma anche della democrazia e della filosofia. Un secolo dopo Platone mise fortemente in crisi questa presenza del poeta drammatico nella Città, della dramatis persona, ovvero del teatro, nell’ambito della sua Repubblica. E alla sua cacciata degli artisti drammatici (III, V E X libro di Repubblica) hanno seguito i divieti analoghi di molti padri della Chiesa (Agostino, Boezio, Tertulliano), poi le condanne di alcuni grandi interpreti dell’Illuminismo, che hanno decretato il senso antipolitico o forse eversivo dell’arte drammatica (ma la questione di Artaud è tutt’altro, e proprio in lui risiede ulteriormente un principio politico del teatro). Tuttavia, come noto, il teatro si è facilmente riscattato, ed è rinato proprio dal Cristianesimo come, in maniera diversa, dall’Illuminismo (vedi Lessing, primo grande Dramaturg oltretutto, cui si deve questa istituzione nei teatri europei, che sarebbe ora di realizzare anche in Italia), configurandosi sempre nel suo senso politico super partes.
Bertolt Brecht
Ma nel XX secolo è avvenuto qualcosa di diverso, un nuovo attacco al teatro questa volta sferrato dal suo stesso interno: e di tale aggressione certamente il più grande e coerente artefice è stato Bertolt Brecht. Il poeta e drammaturgo considerato, per molti versi giustamente, il padre del cosiddetto “teatro politico” del Novecento. Brecht commette lo stesso errore di Platone (e gli errori che possono commettere i grandi uomini sono, evidentemente, più rovinosi di altri): si scaglia contro la dramatis persona, contro la mimesis, ovvero la quintessenza del teatro di tutti i tempi (qui di tutte le arti) per un motivo ideologico (come Platone, beninteso). Ma Brecht non scaccia i poeti drammatici dalla Repubblica: è lui stesso un grande poeta drammatico che però, a scorno del suo lavoro, si proclama “epico”; rifiuta, in maniera anche un po’ zelante e a tratti noiosa, certamente didascalica, quello che lui chiama la forma “aristotelica” del teatro - vale a dire la forma drammatica - e conia tutto un sistema definito appunto “epico” che di fatto influisce, e non poco, sul teatro del secolo XX. Ma il guaio è che questa epicizzazione del teatro corrisponde ad una presa di posizione politica, ben precisa e di parte, anzi ideologica; e questa si sovrappone surrettiziamente proprio a quello che diceva, con il famoso genio della semplicità (che si capisce solo dopo 2.300 anni), proprio Aristotele: “il dramma è qualcosa di più elevato e più filosofico della storia”. Ed è così, in maniera particolare quando si parla di un grande testo, quello che poi viene definito un “classico”. E tutto ciò vale anche per l’epoca contemporanea, naturalmente [1]. Pertanto ribadisco insieme ad Aristotele e Gadamer: “il dramma è più elevato e più filosofico della storia”. E invece Brecht combatte per tutta la vita questa affermazione, fino a quando però alla fine si rende conto di aver sbagliato: e nell’ultima pagina dei suoi Scritti teatrali fa ammenda proprio di questo, una rapida ancorché imbarazzata autocritica, un tentativo di chiudere la stalla allorché i buoi erano più che scappati! E in questa maniera si crea quello che, nel XX secolo, è stato definito (qui ne parlo in maniera assai breve e accennata, ma più che mai consapevole) il Teatro Politico; che è stato, per rispondere alla domanda di questa sezione, un Teatro Politico assolutamente di Sinistra e per la Sinistra. Fra i tanti libri consiglierei di leggere quello di Massimo Castri (regista che stimo), che si intitola Per un teatro politico, dei primi anni ’70. Al di là del coinvolgimento naturale nell’ambito del ’68 (movimento considerato da alcuni come una vera e propria manifestazione di “Teatro di Strada”, che quindi ha influito sulla coscienza politico-culturale del teatro di quel tempo), quel libro risulta emblematico proprio per l’assoluta e univoca pregiudiziale della politica teatrale in quanto Sinistra. Tanto più che si tratta di un bel libro, articolato su Brecht, Piscator e Artaud, ma oltremodo significativo di questa tendenziosità, anzi assoluta faziosità. Dunque, nel secolo XX il teatro “è stato di sinistra”, certamente strumentalizzato dalla Sinistra storica, con il risultato che almeno l’80% dei più grandi registi, autori e attori si siano dichiarati (chi più chi meno, chi in un modo chi nell’altro) vicini a quella parte politica.
Tuttavia il dato più importante risiede nel fatto che la sola grande personalità che si sia opposta, e in maniera sferzante e radicale a tutto ciò, sia stato inequivocabilmente Pier Paolo Pasolini. Uomo di sinistra anche lui (e nessuno lo vuole catturare ideologicamente da qualche altra parte), ma violento e appassionato assertore di una libertà culturale, di una “diversità diversa”, di un teatro politico “non di chi la pensa come me”; ovvero del fatto che “i tempi di Brecht siano assolutamente finiti”, e soprattutto accusatore deciso, nel suo dramma intitolato Calderón, di tutti coloro che siano dediti ai cosiddetti “balletti brechtiani dei marxisti amari”. Rileggere quel testo, e insieme tutto il teatro e l’idea teatrale di Pasolini, certamente potrà essere assai istruttivo per cercare di incamminarci verso una nuova strada, per segnare una nuova epoca dell’impegno teatrale che, come in Schiller, si possa dire “etico-estetica”, e non più ideologica, come a mio avviso è stato (in maniera difficile e complessa da interpretare, ma di fatto è stato così) nel XX secolo. E proprio per questo motivo l’unico modo di poter affrontare il problema politico contingente - quello appunto sulla destra o sinistra - è in realtà proprio l’opposto: vale a dire la necessità di rivolgersi a tutte le forze politiche democratiche che ci rappresentano, quindi alla destra, al centro e alla sinistra, per cercare di creare una larga e grande intesa che sola ci potrà riscontrare, e forse salvare, in questo momento di assoluta emergenza. Perché non dimentichiamoci che siamo, già da anni, in un clima di fortissima emergenza culturale (non soltanto per il teatro), ma è significativo che proprio dal Teatro nasca questa protesta, come sta accadendo in questi ultimi mesi al Teatro Valle di Roma.
Personalmente sono stato più volte al Valle, e più di una volta ho parlato con i giovani occupanti, specificando loro proprio quanto ho detto sopra: di considerare le giuste richieste (problema etico, problema della legge sul teatro, di una “Nuova Drammaturgia”, mancato ricambio generazionale ecc.) come questioni etico-estetiche e non ideologiche; mi sto sforzando di dire loro che, se pure avessero riferimenti politici vicini alla sinistra, non dovrebbero considerare le loro giuste richieste culturali e teatrali a suffragio di quella parte politica. Anzi, che si specifichi bene e programmaticamente come tale protesta non sia “né di destra né di sinistra”; altrimenti, beh il rischio è proprio quello paventato da Pasolini! Il rischio è quello di assistere ad una serie ulteriore di “balletti brechtiani dei marxisti amari”, che purtroppo si sono espressi più volte nel nostro paese, fino a quello che anni fa veniva chia- mato il movimento dei “girotondini”.
Tutto ciò è più vicino a Nanni Moretti (con la grande stima e simpatia che ho sempre avuto per lui) che a Pasolini, e rischia di rimanere in quell’alveo minimalistico che sembra aver sostituito l’ideologia. Qualcuno ha detto che la protesta del Valle possa apparire come una “spettacolarizzazione” della protesta, che poi nulla ha a che fare col teatro. E così Peter Stein ha detto giustamente che, una volta finita la protesta, bisogna cominciare a farlo questo teatro; e in tale ambito accade sempre (soprattutto in Italia) che tutti, proprio tutti, “vogliano fare Amleto”; anche le donne, ha aggiunto Stein! Ma al di là di questa “etica dell’attore”, che nel nostro Paese sarebbe bene ricercare sempre più (anche perché si tratta del primo principio autenticamente politico), c’è un rischio ben più grande, e riguarda ormai quel regime globale di totalitarismo spettacolare nel quale, neanche troppo lentamente, l’umanità si sta inoltrando.
Qui non si tratta delle televisioni di Berlusconi o di chi, anche a Sinistra, ne ha fatto o ne farà uso: si tratta dell’unica e univoca realtà comunicativa in cui si esprime il nichilismo nella sua fase matura. Se Dio e la tecnica sono, per Emanuele Severino, le due espressioni del nichilismo metafisico, oggi siamo già nello stadio avanzato in cui la spettacolarità si è imposta come terzo e risolutivo momento di questa “follia dell’Occidente”, come la chiama sempre Severino. Pertanto è chiaro che il Teatro, nella sua semplice e ontologica accezione di opera d’arte vivente “hic et nunc”, proprio nel suo ribadire le semplici coordinate spazio-temporali dell’uomo-artista, attore e spettatore, possa rappresentare un principio eminentemente politico che, contrapponendosi a questo immane terrorismo e totalitarismo della spettacolarità, possa indicare - 25 secoli dopo Eschilo - una vera e propria rinascita della democrazia.
Ecco il motivo per il quale una verosimile rivoluzione culturale (che nella migliore delle ipotesi vorrei leggere in questa energica protesta del Teatro Valle) non a caso nasca proprio dalle 4 pareti nude del Teatro, questo luogo ormai desueto di cui “a nessuno frega più niente”, ma dove in realtà si annida la più autentica possibilità di messa in discussione, e in crisi, delle nostre peculiarità artistiche e culturali, che riguardano quindi tutte le arti e la cultura in generale. Pertanto, e per le ragioni di cui sopra, vorrei suggerire di poter creare al Teatro Valle un primo grande, e inedito per l’Italia, Ufficio di Drammaturgia, sull’esempio di quanto citato, ma anche raccogliendo lo stimolo delle giuste richieste dei giovani occupanti. un Ufficio di Drammaturgia che sia assolutamente super partes, proteso al ricambio generazionale, ad un codice etico che possa finalizzarsi all’avvento di una legge per il teatro, e infine ad una concezione dell’evento teatrale non più legata al Grande Attore (come nel secolo XIX), ma nemmeno al Grande e autoritario Regista (come nel secolo XX); ma che raccogliendo le lezioni di entrambi possa aspirare di ritornare ad essere quello che “è” nel XXI secolo, la sintonia degli autori e degli interpreti nella Grande Drammaturgia.
Così ritornare a Pasolini significa recuperare politicamente la Grecia e Shakespeare, Lessing e Schiller, in una nuova ancorché antica concezione politica; ovvero una nuova coscienza etico-estetica del Teatro nella nostra epoca.
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1 Se il testo di Antonio Tarantino intitolato Gramsci a Turi parla di Mussolini non chiamandolo per nome, ma definendolo sempre “il capo del Governo”, e alludendo così anche alla cialtroneria di chi è stato capo del Governo nell’Italia che abbiamo vissuto e viviamo, è evidente che tale denuncia varrà sia quando al Governo ci siano stati Fanfani, Moro e Berlusconi, ma anche nel caso ci fossero Prodi e D’Alema. Non è che in queste ultime eventualità il testo dovrà essere messo in un cassetto!
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Dopo oltre vent'anni dalla retrospettiva degli anni ’90 dedicata a Pier Paolo Pasolini, il MoMA di New York, in collaborazione con Luce Cinecittà e con il Fondo Pier Paolo Pasolini/Cineteca di Bologna, sta presentando in queste settimane una retrospettiva completa della produzione cinematografica pasoliniana. Molti dei film che sono presentati al museo newyorkese dal 13 dicembre 2012 fino al 5 gennaio 2013 sono in versione recentemente restaurata. Molti dei restauri sono stati effettuati dalle Cineteca di Bologna.
I lavori cinematografici di Pasolini sono espressione del genio dell’autore, visionario ed evocativo, che attraverso le immagini creative spiega verità interiori e rivela la sua visione della vita. Corrispondono grosso modo a quattro periodi sociali e politici che ne hanno influenzato l’arte. Il suo film d’esordio, Accattone (1961) fece immediatamente conoscere il nome di Pasolini come regista dal talento prodigioso. Seguirono Mamma Roma e una serie di film a episodi che contengono ritratti autentici di persone che vivono ai margini della società, fino ad arrivare al grande capolavoro, Il Vangelo Secondo Matteo. Nel periodo intermedio, Pasolini si configurò come un pensatore provocatorio e un artista audace che guarda alla realtà senza compromessi e racconta i vizi della borghesia. A questo periodo appartengono film come Teorema, Porcile e l’interpretazione moderna di Medea.
La trilogia della vita - Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte - realizzati tra il 1971 e il 1974, è una reinterpretazione trionfante delle storie classiche e fiabesche rivisitate in chiave moderna. Come Pasolini stesso notò, egli si focalizzò sul passato perché rifletteva profondamente i cambiamenti del presente. Il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, completato nel 1975 dopo la misteriosa morte del regista, rimane ancora oggi un capolavoro, per certi versi particolarmente duro.
Accanto alla retrospettiva cinematografica, al MoMA sono in corso una serie di eventi collaterali che rendono tributo alla figura del regista. Una serata di recital con attori americani e italiani, una giornata di performance ispirate a Pasolini e un’installazione che comprende tre delle proiezioni dei film di Pasolini che scorrono ininterrottamente, un convegno alla New York University, una serie di disegni e tele del regista, un seminario ospitato presso l’Italian Cultural Institute con materiale proveniente dagli archivi pasoliniani.
Qui di seguito è proposto il più recente tra i filmati girati al MoMA di New York in questi ultimi giorni dall'Istituto Luce, riassuntivo di alcune delle iniziative in corso.
Pasolini a New York: gli eventi dal 12 al 16 dicembre 2012 . Istituto Luce
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Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
Lo Stretto di Gibilterra, ovvero Le Colonne d'Ercole Nell'antichità le due località che si fronteggiano ai due lati dello stretto (le Colonne d'Ercole) si chiamavano Abyla (oggi Ceuta) e Calpe (oggi Gibilterra). Coleo di Samo (isola greca dell Mare Egeo orientale) fu il primo ad attraversare le Colonne d'Ercole: nella letteratura classica indicano il limite estremo del mondo conosciuto .
Alessandro Barbato
Nota su "Per un romanzo del mare" di Pier Paolo Pasolini
“Meglio così una storia diretta dalla fine al principio
che dal principio alla fine,
non partire ma giungere alla pupilla del padre”.
P. P. Pasolini, Coleo di Samo, 1951
Incastonato nel primo dei due volumi in cui Walter Siti ha riunito il Pasolini narratore, Coleo di Samo era stato pensato come frammento, probabilmente la prima parte, di un romanzo che avrebbe dovuto intitolarsi, con rivendicazione esplicita del carattere di non finito, Per un romanzo del mare. Seme di un progetto narrativo piuttosto ambizioso abbozzato nel 1951, con l’autore giunto a Roma da circa un anno, che muove da materiali che avevano iniziato a prendere vita già in Friuli. Si tratta di una sorta di ridiscesa verso la propria infanzia e al contempo verso l’origine del mondo, fino al punto in cui esse si fondono nella tenebra marina delle pulsioni primordiali. Una lenta anabasi marina narrata attraverso rievocazioni di percorsi d’infanzia intrecciate a un progressivo ritorno verso un’oscura origine liquida, perché «noi veniamo dal mare non dal cielo», ricorda Pasolini con l’epigrafe iniziale.
Una parte di questi materiali, quella che con chiarissimi accenti proustiani utilizza percorsi autobiografici relativi alle memorie di infanzia, ricordi in cui il mare è presente nei numerosi rimandi interni, con il titolo di Operetta Marina, è stata pubblicata a cura di Nico Naldini nel 1994, ma era già stata staccata dall’insieme dall’autore stesso che nel 1951 aveva partecipato al premio Taranto, assegnato nella città pugliese tra il ’50 e il ’53 ai racconti inediti che avessero avuto come sfondo o come protagonista il mare, ottenendo una segnalazione della giuria. [1] Del progetto non ci restano dunque che questi due frammenti, con il Coleo di Samo che rappresenta la sezione cosmogonica di quello che, sebbene sia rimasto “un sentiero interrotto”, sorprende per la possibilità che offre al lettore di ritrovarvi molto del Pasolini futuro, soprattutto del suo singolare modo di unire biografismo e mitologia, fino a giungere alla creazione di una personale cosmogonia in cui il dato biografico è parte integrante di un ampio disegno che riguarda il senso stesso dell’essere uomo, la lacerazione che comporta ogni iniziazione culturale, il dramma innaturale che lascia dietro di sé l’avvertimento della propria irriducibile diversità, il distacco dall’idilliaca condizione di una perduta unità, in un certo senso pre-umana e pre-cosmica.
Una trireme greca. Probabilmente con un naviglio di questo tipo Coleo di Samo, più di mezzo secolo prima della venuta di Cristo, affrontò e superò le Colonne d'Ercole, lo stretto di Gibilterra che costituisce lo sbocco del Mediterraneo nell'Oceano Atlantico
Mare dunque come mistico ritorno fin dentro la meccanica inorganica da cui, oltre alla vita, scaturisce il trauma originario da essa quasi inseparabile; mare come fine e origine, simbolo di una storia e della Storia che, come avrebbe sostenuto più tardi il poeta, «finisce dove comincia». Ed è singolare pensare che nella narrazione Pasolini si racconta ad Ostia, probabilmente non troppo lontano da dove sarebbe stato ritrovato cadavere la mattina del 2 novembre di ventiquattro anni dopo, mentre disegna il tentativo di ripercorrere all’indietro lo «sforzo ripugnante che costa l’apprendere, il cessare di abbandonarci anche a un inconscio contatto carnale con noi stessi» fino a «immaginare, con un violento brivido, o con una minuta, cigliale ricerca ciò che non è noi o nostro alone, umanizzato o personificato; ciò in cui la nostra esistenza personale come un olio si è allargata, l’oggetto insomma di cui si è per esultante istinto di conservazione perso il senso della diversità. Scendere a Ostia e guardare il Mare». [2]
Lì dove avrebbe incontrato la fine, eccolo offrire al lettore un ripiegamento verso l’inizio, verso un mare non ancora pensato, non ancora veduto, unico e silenzioso testimone di ere geologiche sepolte. Lettore che in un magmatico ribollire di immagini sapientemente chiaroscurate, vede lentamente emergere dalla propria naturalità un fantastico Uomo-Appennino che «Veniva dall’interno dei monti appena formati […] immerso come in un tanfo nel vizio umano più squallidamente caldo, […] dalla nascita la sua pupilla non rifletteva altro che quella terra […] senza mai perdere la violenza della sua verginità. […] Egli aveva dunque sparso se stesso in quell’angolo di terra […] e il paesaggio si era sparso in lui; la fusione era cieca e dura, rocce e corpo che si scambiavano il gonfiore.» [3]
Ma ecco che - con la stessa rapidità con cui la storia del mare, di questo mare «appena creato non dalla volontà di Dio e non poetizzato dalla violenta paratassi dei versetti biblici, ma da una meccanica che supera ogni espressione» [4], è sommariamente riassunta nei testi di Geologia [5] - nella calda fusione dell’origine, nella pupilla del «primo di noi» [6], «nella fusione umana di terra e carne» che era quella favolosa creatura appenninica tratteggiata dalla penna di Pasolini, con uno strappo che l’autore suggerisce violentissimo, «penetra il mare. Con la sua debole marea, il suo orizzonte di laguna; intenso di luce, deserto. Si stanzia nella pupilla, visione immaginata, che scuotendo il mondo scuote il cuore. Lo respinge indietro forse la paura di essere diverso, estraneo, su questi siti dove egli, perché estraneo, ha dato inizio alla presenza del mare» [7].
"Venere con Amore sul delfino", simbolo dell'essere nata dalle spume del mare. [Clicca sull'immagine per ingrandirla]
Eccoci dunque innanzi a «una rozza Venere» intenta a sorgere dal «rozzo lucore delle schiume», chiara allusione all’incerta alba del processo di plasmazione di una realtà non ancora fondata miticamente da alcuna tradizione. Anzi è un vero e proprio “scortecciamento” della tradizione a essere intrapreso dallo scrittore. Tradizione che occorrerebbe appunto ridiscendere mediante il riavvolgersi di un nastro fatto, prima di tutto, delle estetiche visioni e delle poetiche appropriazioni di artisti, scrittori e navigatori ed esploratori che rappresentano quel patrimonio storico, simbolico e tecnico che l’autore ripercorre; e che come un filtro da un lato, consente all’uomo di emergere dalla propria naturalità, dall’altro impedisce quel completo abbandono, vagheggiato dall’autore, al richiamo dell’oscura purezza rappresentata da un tempo prima del tempo, incontro e pacificazione di ogni contraddizione, riassorbimento del trauma esistenziale e al contempo punto di svolta che contiene, in nuce, inedite prospettive di risalita e rimodellamento dei confini fra sé e mondo, io e altro.
E’ d’obbligo annotare come sia stato il termine Thetys, che Pasolini su indicazione di Contini, e sbagliando, traduce con sesso, a dare l’impulso al disegno iniziale di organizzazione di materiali narrativi che avevano a che fare con il mare, o che ad esso erano legati in qualche misura: [8] «Qualche anno fa Contini mi ha fatto osservare come, in greco, Thetis voglia dire sesso (sia maschile che femminile) e come Teta-veleta sia un reminder del tipo che si usa nei linguaggi arcaici. Questo stesso sentimento di Teta-veleta lo provavo per il seno di mia madre.» [9] ma con l’espressione teta veleta Pasolini nomina anche i suoi primi turbamenti sessuali, quando a tre anni si scopre attratto dalle gambe, «precisamente dall’incavo dei loro ginocchi» [10], di alcuni ragazzetti più grandi che giocavano nella piazza davanti casa; un’emozione che l’autore assimila a quella provata, sempre da bambino, alle prime fantasticherie marine, a quelle sensazioni, ancora oscure e magmatiche, suscitate nel suo animo di fanciullo dai sapori e dagli odori marini che facevano da sfondo alla prime avventure, come suggerisce lui stesso nelle pagine di Operetta marina.
Come se non bastasse scopre poi che lo stesso termine era usato dai geologi per indicare il mare triassico da cui sarebbe sorto il Mediterraneo: la tentazione di legare autobiografia e una personale cosmogonia, di nutrirle l’una dell’altra in una maniera che forse rappresenta la vera cifra stilistica, direi anche esistenziale, dell’autore, non potevano non stimolare l’allora giovane e semisconosciuto Pasolini, in una fase della sua carriera in cui, alle prese con una condizione anche materialmente difficile, lavora accanitamente a opere che sarebbero poi finite, con una definizione che probabilmente avrebbe disturbato lo stesso autore, tra i classici della letteratura europea del novecento.
L’autore lavora al progetto per qualche tempo, è solo uno dei tanti percorsi che in quegli anni di grande fecondità lo impegnano e presto l’idea di un Romanzo del Mare tornerà a giacere tra i non finiti. Tra quei materiali, organizzati pazientemente in cartelline e quaderni dall’autore stesso, che qualche volta sarebbero stati abbandonati; in altri casi invece avrebbero iniziato un percorso autonomo o sarebbero rivissuti, in veri e propri tronconi, in altri disegni, talvolta anch’essi non finiti, per volontà dello scrittore o per le circostanze del caso. Tra le carte dello scrittore, Walter Siti fa affiorare, dandone notizia, anche alcuni indici o scalette dell’opera che lo scrittore stava immaginando. [11] In una si legge l’intenzione di strutturare il discorso in tre grandi aree: la prima doveva riguardare la “creazione del mare” e avrebbe dovuto attingere a materiali provenienti dal mito cristiano, da quello pagano e da quello scientifico, ed è davvero interessante, soprattutto alla luce di quello che sarebbe stato il Pasolini più tardo, il fatto che cristiano, pagano e scientifico siano tutti aggettivi dell’unico sostantivo, ovvero mito.
"Medea e Giasone", affreschi di Palazzo Fava a Bologna.
Cupido sancisce l'unione fra i due amanti, Medea passa a Giasone l'ampolla del prodigioso filtro,
Giasone soggioga i feroci tori, assiste al furioso combattimento tra i soldati e recupera il Vello d'oro
trionfando sull'innocuo drago addormentato
Il pensiero corre subito a Medea, e al Giasone, che non a caso compare anche in queste pagine, che nella sceneggiatura è istruito circa il lavoro da fare per costruire l’imbarcazione, che lo avrebbe condotto «al di là del mare», dal centauro che, in veste di mitico tecnocrate, partecipa alla rappresentazione drammatica di un’altra origine, di un altro trauma, o forse della stesso, quello generato dall’alienazione borghese. Oppure, con un parallelo forse anche più calzante, all’Edipo re, dove il tentativo di utilizzare il filtro del discorso mitico per fondere in un'unica densa matassa la propria condizione di uomo - lacerato dal dissidio tra «buie viscere» e ragione, da torbide pulsioni che qualche volta si vorrebbe estirpare o alle quali al contrario non si può che obbedire - e quella di intellettuale in crisi di fronte a una società che inizia a mostrare i segni della lenta ridiscesa nella barbarie, anch’essa pre-cosmica e pre-umana ma stavolta senza riscatto alcuno, che l’attende.
Il secondo nucleo tematico avrebbe dovuto riguardare delle non meglio precisate epigrafi riguardanti il mare, probabilmente un’estetizzante ricerca etimologica sui nomi che esso ha assunto nel corso dei secoli, mescolata a non meglio precisati miti marini e a una storia del mare come veicolo di civiltà, il tutto ancora una volta unito ai ricordi e alle fantasie dell’infanzia, soprattutto quelle relativi agli anni passati tra Sacile e Cremona, ovvero quelli che Pasolini definisce come gli anni della fine traumatica della sua infanzia, ma anche quelli della «vecchiaia dell’infanzia, momento perciò di grande saggezza.» [12] L’opera sarebbe stata poi conclusa con il racconto della Fine del Mare, in un vorticoso itinerario che invita il lettore a perdersi nell’oscura luce di un’alba acquatica che appare sul punto di riassorbirsimisticamente in se stessa.
«Una visione che incarna in sé, succhia in un piacevole brivido la presenza ricettiva del corpo, ne sfonda gli organi e i connettivi per stanziarvi le sue sconfinate tinte azzurro cupo o verdi […]. Questa situazione che non può risolversi, avere una storia, era in me che mi abbandonavo ad essa, sempre uguale: una forza monotona che mi faceva girare intorno a me stesso. Se, da questo giro, mi fossi potuto mai sottrarre, sarebbe stato per tornare indietro, sempre più in fondo alla mia immota energia. Avrebbero dunque ragione, nel caso che si potesse, trasponendolo sulla sede umana da cui è così remoto, dare valore a quel vizio così infantile, i francesi a dire la Mare, e non il Mare… di chiamare con un nome materno la nostra origine; e noi, noi andremo verso il mare non verso il cielo: quando quest’ultimo ci chiede di arrivare alla fine di una storia, di causa in effetto, fino alla redenzione e alla condanna del nostro vizio, cioè di noi stessi: alla nostra soppressione, mentre il mare ci invita a ritornare al principio di una storia, cioè non solo a essere sempre, beatamente, indifferenziatamente, noi stessi, ma essere anche quello che siamo stati, di effetto in causa, dunque, nel pieno, continuo calore della vita…» [13]
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1Coleo di Samoe Operetta Marina sono stati pubblicati, uno dietro l’altro e riuniti con il titolo Frammenti per un romanzo del Mare, a cura di Walter Siti in P. P. Pasolini, Romanzi e Racconti. Volume primo 1946-1961, Mondadori, Milano 1998, pp. 337-420. Importanti sono anche le note e le notizie riguardanti i testi da cui sono state tratte le informazioni relative al premio Taranto e che offrono un ottimo inquadramento dei materiali pubblicati (Ivi, pp. 1676-1681). Come accennato, Operetta marinaè stato pubblicato in precedenza, a cura di Nico Naldini, in P. P. Pasolini, Romàns seguito da Un articolo per il «Progresso» e Operetta marina, Guanda, Parma 1994, pp. 110-161).
2 P. P. Pasolini, Coleo di Samo, in Id., Frammenti per un romanzo del Mare, op. cit., p. 347.
3 idem, p. 345
4 idem, p. 343
5 ibidem
6 P. P. Pasolini, Coleo di Samo, in Id., Frammenti per un romanzo del Mare, op. cit., p. 342
7 idem, p. 345 (il corsivo è dell’autore).
8 A tal proposito si vedano le notizie relative al testo in P. P. Pasolini, Romanzi e Racconti. Volume primo 1946-1961, op. cit., p. 1676.
9 Si tratta di estratti di una intervista molto interessante in cui Pasolini ripercorre gran parte della sua infanzia, pubblicata in D. Maraini, E tu chi eri? 26 interviste sull’infanzia, Rizzoli, Milano 1998, pp. 316-328. [L'intervista della Maraini è leggibile QUI, ndc]
10 ibidem
11 Cfr. le notizie relative al testo in P. P. Pasolini, Romanzi e Racconti. Volume primo 1946-1961, op. cit., p. 1678.
12 ibidem 13 P. P. Pasolini, Operetta marina, in Id., Frammenti per un romanzo del Mare, op. cit., pp. 392-393.
Frammenti dell'Heraion (Tempio di Hera) a Samo. Figure femminili
Frammenti dell'Heraion (Tempio di Hera) a Samo
Frammenti dell'Heraion (Tempio di Hera) a Samo. Vi è rappresentata l'unica colonna rimasta del Tempio di Hera
A sinistra: Frammenti d'altare dell'Heraion (Tempio di Hera) a Samo. A destra: Kouros, Museo archeologico di Samo
Samo (isola greca dell Mare Egeo orientale) diede i natali a Hera (Giunone) e il mito narra che la dea faceva il bagno con le sue ninfe nel fiume Imvressos che scorre nei pressi del luogo dove sorgono le rovine del Tempio a lei dedicato che era un Tempio maestoso, tra i più belli ed imponenti dell’antichità; un giorno, mentre faceva il bagno, il dio Zeus la notò, si innamorò di lei e quindi la sposò. Qui trascorsero i giorni più belli della loro luna di miele. Persino Antonio e la regina Cleopatra si innamorarono di questa affascinante isola e qui trascorsero la loro luna di miele, inebriati dal dolce vino di Samo e dai mille profumi di fiori e piante aromatiche.
Stretto di Gibilterra, foto dal satellite
Tra il 700 e il 532 a.C., data la sua posizione strategica, Samo divenne un centro di potere autonomo che proteggeva tutta la regione Ionia sulla costa sud-occidentale dell’Asia Minore. Appartengono a quest’epoca alcune tra le le menti più eccelse dell’Antica Grecia, inclusi il famoso matematico Pitagora, l’astronomo Aristarco, l’architetto Mandrocle, che costruì il ponte dell’Ellesponto (attuale stretto dei Dardanelli), il filosofo Melisso, i brillanti architetti Rhoikos e suo figlio Teodoro, che utilizzarono la tecnica di creare statue di bronzo colando il materiale fuso sopra modelli di argilla ed edificarono il tempio di Heraion, il navigatore Coleo, il pittore Savrias, che si dice sia stato il precursore della pittura, disegnando il contorno di un cavallo la cui ombra si stagliava su una parete, il cesellatore di sigilli Mnesarchus, padre di Pitagora, il favolista Esopo, il mosaicista Dioscuride (creatore di alcuni dei bellissimi mosaici di Pompei). Nell'antichità le due località che si fronteggiano ai due lati dello stretto (le Colonne d'Ercole) si chiamavano Abyla (oggi Ceuta) e Calpe (oggi Gibilterra). Coleo di Samo, a cui Pasolini dedica alcune pagine - che qui di seguito riporto da Frammenti per un Romanzo del Mare - fu il primo navigatore ad attraversare le Colonne d'Ercole: nella letteratura classica indicano il limite estremo del mondo conosciuto. Sia Ceuta che Gibilterra sono oggi porti molto importanti. Prima dell'apertura del canale di Suez lo stretto di Gibilterra costituiva l'unico sbocco del Mediterraneo. Proprio per questa ragione ha grande importanza strategica, militare e commerciale e la Gran Bretagna vi mantiene il possesso della rocca di Gibilterra mentre la Spagna controlla il territorio della città di Ceuta. [A.M.]
Samo, antica muraglia di fortificazione
Pier Paolo Pasolini [FRAMMENTI PER UN ROMANZO SUL MARE] Coleo di Samo III, *, in Pasolini. Romanzi e racconti, I 1946-1961, Meridiani Mondadori, Milano 1998
II golfo Mediterraneo inciso sulle tavole d'itinerari presocratiche era in fondo assai semplice. In esso poteva un navigante sentire con la massima violenza il senso dell'infinito - che i Greci possedevano, non come i cristiani, solo in modo appunto spaziale - ma concretarlo nebulosamente ai remotissimi margini, accantonarlo, in altre parole, in regioni di cui bastava la presenza appena sussurrata, coagulante in sé al confine dell’àpeiron, la scossa religiosa e la repulsione del sacrilegio: che negli specchi d'acqua, nei gonfiori, negli appiattimenti, nei colori rosi dalla pioggia, negli orizzonti assorbiti e assordati da paci non umane, potevano essere così vive. Ma questo momento di vuoto e di vertigine, di paura dello spazio, è l'unicoche copra la nostra immaginazione. Come gli effetti figurativi dello scintillio, dello screziarsi delle dolci vernici meridiane, dei tepori scossi dal vento o dai gridi di uccelli marini. E anche l'immagine dell'Alios Gèron, così non greca, ma baltica,suggerita dalle luci crepuscolari, dalle sere di nebbia, dai silenzi di una navigazione senza incidenti lungo i litorali del Mar Nero su un'acqua addormentata.
Ma non l'angustiamentale, in così netta sproporzione con l'apertura dei sentimenti, col coraggio, di Coleo di Samo [9] in vista di quella che sarebbe stata Gibilterra: così anteriore ancora a Platone e Aristotile, e agli stessi Ecateo, Ellanico e Ipparco, che se del Mare non gli avrebbero dato una metafisica lo avrebbero munito almeno di una descrittiva, di un'unificazione in umani termini - la religiosità doveva necessariamente avere per Coleo la ristrettezza di una superstizione plebea più che proletaria (come nella moderna Italia, sarebbe quella di un meridionale, non di un settentrionale). Da ciò la sua miserabilitànel vedere. Sullatoldadi quella nave - a proposito della quale serve piùpeccare di concretezza, di realismo che di qualsiasi altra suggestione - in QUEL preciso sentore eli legname bagnato, di incrostazioni salinee pesce, di uomini sudati (come in una lancia o lampara che nell'Italia del 1951 salpi per la pesca quotidiana),prestava all'apparizione di Gibilterra isuoi sensi un vecchio di Peschici o un giovanotto di Napoli, con una identicaignoranza, con una identica meccanicità di reazioni popolaresche e superstiziose.
Non preesistente in nessun modo in una coscienza, imprevista, la Gibilterra che in un mattino di sole parò innanzi agli occhi di Coleo di Samo e della sua ciurma la linea del litorale, prese subito un significato basso, pratico. Unapreparazione paesana o suburbana aveva spalmato quelle anime di un unto impermeabile, aveva lasciata intatta, sotto, la loro freschezza volgare, per cui la Gibilterra fino alla notte prima inesistente era assolutamente spoglianell'apparire di ogni espansione romantica.
In questa povertà, così ricca di potenza umana, andrebbe ricercata, come rimestando in un odore di sudore, di stracci indossati al lavoro, di oggetti contagiati dalla solitudine animale di uomo limitato dall'essere maschio,dal non avere avuto un'educazione se non rozza, rionale, con unica morale l'onore del sesso e il mantenimento della famiglia - la immagine classica del Mare.
Lo sguardo di Coleo di Samo a Gibilterra è tuttavia, per una storia del Mare, una fase statica, infine, dopo il precipitaredegli avvenimenti: un solo attimo di contemplazione, ma lunghissimo in rapporto alla sua intensità. E questa inquadratura, lunghissima, succede necessariamente per una logica del ritmo, alle accavallate, isteriche sequenze del piccolo cabotaggio per l'Egeo, del gran salto giùverso l'Africa, la comparsa del deserto sirtico, l'interminabileriviera libica a sinistra, la rotta incerta e accanitaverso Occidente. I diversi piani di quello sguardo, i valori diversi a seconda della richiesta dell'immaginazione, concentrati in una semplice e pudibonda intensità. La grafia, cui in silenzio Coleo cercava la copertura di quell'angolo di mare, era quella goffa, sproporzionata e pura di un bambino: con un deposito feticistico per cui aerarsi e irrigidirsi di sacro conformismo, come per qualsiasi cosa grafica accade in un selvaggio o in un analfabeta. Vasto il bacino dell'Egeo, dilatato, eccessivo; la costa dell'Illiria dritta e secca verso l'Oceano, l'Italia piccola e insaccata con sotto un'enorme Sicilia, un'enorme Calabria; un litorale affricano allungato fino all'ignoto dalle sospese notti di navigazione. Il massimo della semplicità nel pinax lucido e puerile presupposto dallo sguardo di Coleo, andrebbe applicato sulla complicazione anormale, febbricitante, da cui lo spazio stesso pareva soverchiato, nauseato, violentato, del mare lì intorno. Gibilterra commossa nella sua durezza dalle nubi. L'acqua incupita dall'ombra della Spagna che vi sporgeva. Gli stridi dei gabbiani centuplicati dalla sonorità dello stretto. Era un pezzo di realtà che facendo saltare con la spaventosa gonfiezza dovuta alla sua stupenda verginità, le linee della prospettiva in cui per uno sguardo umano era contenuta, pareva venire a premere contro il petto e schiacciarlo con la sua mole di rocce acqua e cielo. E questo fu indubbiamente per Coleo il segno di una personalità del luogo: prese le forme di un nume. Lo stupore che in noi assumerebbe forme di esaltazione quasi femminile, era in Coleo semplicemente religioso; ma non si ipotizzi per questo sulla retorica di una nostalgia inferiore - di una classe per l'altra sottostante - quando si vorrebbe più nobilmente usare la nostalgia come esito dal nostro a un diverso e remoto modo di conoscenza. Non si dovrebbe dimenticare in un capitolo sullo «Sguardo di Coleo a Gibilterra» l'odore di uomo stagnante su Coleo, come una crosta antispirituale,una specie di fetido isolante atto a serbare in lui la bassezza raggiunta nell'età in cui «cominciava a non piacere più agli uomini e a fare arrossire le prime fanciulle», o meglio, diremmo, a assalire in frotta coi compagni le peripatetiche del porto della nativa Samo; odore di cattivo tabacco, di Nazionali o mozziconi raccolti sui marciapiedidelle taverne, nell'ora in cui le prime strisce di urina cominciano a rigarli luccicando sotto gli stagnanti globi di luce; la raucedine e i gonfiori della pelle dovuti ai vizie soprattutto alle lunghe veglie della navigazione, il sonno continuamente tormentato che caria le palpebre, brucia il viso rugoso, appiattisce lo sguardo dove ogni luce di gratuità vitale si è incallita, si è fatta quasi
faunesca nei radi lampi di astuta e dialettale allegria: prosa nel senso più definitivo. Compresso dentro questo fisico di maschio anziano, maleodorante, furbesco, senza religiosità se non di specie meridionale [a], ammiccante di continuo anche suo malgrado alla preminenza del pube benché vecchio e brizzolato, e del valore del rapporto coi compagni fondato non sulla confidenza o sulla reciproca pietà ma sulla massima, dura isolazione, di drittotrai dritti, sull'indurimento irreversibile dei sentimenti, contrappuntato magari solamente da un'aria di nonchalance, di ironia rionale. Coleo al mare di Gibilterradà in questo modo la prima forma umana. [1951]
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[9] Coleo di Samo fu il navigatore che, secondo Erodoto, avrebbe raggiunto per primo le Colonne d’Ercole.
[a] celeste.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
Art’s Martyr: The Drawings and Paintings of Pier Paolo Pasolini
by Thomas Micchelli, January 5, 2013
Pier Paolo Pasolini, Uomo che si lava
Today is the final day of a wonderful exhibition that crept into town during the holiday crush and threatens to leave just as quietly, after little more than a three-week run.
Pier Paolo Pasolini: Portraits, Self Portraits at Location One in Soho is timed to coincide with the Pasolini film retrospective at the Museum of Modern Art (December 13, 2012-January 5, 2013). The forty drawings and paintings on display present a crucial if little-known aspect of the artist’s multifaceted genius, but its pleasures are not reserved solely for the Pasolini-obsessed.
Almost forty years after his death - a grisly murder that many insist was a political assassination - Pier Paolo Pasolini (1922-1975) is still an unsettled subject. In this country he is best known for his films, but in Italy he is just as renowned for his poetry, much of which was written in the Friulian dialect of his native province, as well as his novels (Ragazzi di vita, 1955; Una vita violenta, 1959, among others) and his polemics, which inflicted uncomfortable truths on both the right and the left.
His directing career began when he was nearly forty; it was a move that provoked charges of dilettantism, despite his work as a screenwriter for directors like Federico Fellini and Mauro Bolognini. But his unusually accomplished debut, Accattone (1961), a neorealist tale that wends its way from gritty Roman housing projects to an unforeseen dreamscape, silenced some critics while inflaming others, who denounced it as blasphemous. (A neofascist group called Nuova Europa [New Europe] launched a stink bomb attack at the movie’s premiere.) His final work, Salo: 120 Days of Sodom (1975), released two months after his death, regularly tops the lists of the most disturbing films ever made.
Interestingly, when it came to painting and drawing, Pasolini was a self-professed dilettante. In the gratis, full-color (and Gucci-sponsored, the irony of which - Pasolini was an implacable enemy of consumerismo - is breathtaking) catalogue for Portraits, Self Portraits, there is a selection of the artist’s writings on art, including a short text from March 1973, written the day after he started painting again after a long hiatus.
It concludes with an appreciation of a landscape by Pierre Bonnard: "I would like to know how to make a picture a bit like a Provencal landscape of his I saw in a little museum in Prague. At worst, I would like to be a very minor neo-cubist painter. But I could never use chiaroscuro or colors with the spongy purity and perfect polish required by cubism. I need an expressionistic material that offers no possibility of choice (as you can see, even dilettantes are impassioned by problems)".
Pier Paolo Pasoloini, Casarsa
There is, however, a substantial counterargument in the above fragment that Pasolini was far from being a dilettante. His articulation of the “colors with the spongy purity and perfect polish required by cubism” bespeak a powerfully discerning eye (not coincidentally, Pasolini undertook a serious study of art history with the great Roberto Longhi), and his love of painting informed everything he did, well beyond the obvious references to Piero della Francesca and other Renaissance painters in The Gospel According to Matthew (1964).
Pier Paolo Pasolini, Narciso
In his Pasolini: A Biography (Random House, 1982), Enzo Siciliano includes the following quote from the artist about his frontal approach to cinematography:
"What I have in my head as a vision, as a visual field, are the frescoes of Masaccio, of Giotto — who are the painters I love the most, along with certain Mannerists (for instance Pontormo). And I’m unable to conceive images, landscapes, compositions of figures outside of this initial fourteenth-century pictorial passion of mine, in which man stands at the center of every perspective".
In the catalogue text, Pasolini asserts that he is “more interested in ‘composition’ with its contours than in material. But I can only make the forms I want with the contours I want if the material is hard to handle, even impossible.”
The works in the exhibition bear this out. While many of the drawings are free, light-filled sketches, there are other pieces, such as an undated pastel of Cubist-inspired figures and a male nude in tempera and pastel from 1947 (two pictures among several that fall outside of the Portraits, Self Portraits categories), in which the positive and negative spaces are expertly negotiated and the forms are tightly interlocked.
If Pasolini’s visual art did not figure prominently in his creative output, it did fill an emotional need at pivotal times in his life: “I read little, but I’m painting a lot” and “I’ve made quite a lot of drawings and a painting (my best one)” are lines from two letters, excerpted in the catalogue, that he wrote to a friend during the summer of 1941, when he was 19 years old.
Most of the drawings in the show are from 1941-1943, a difficult period during which Pasolini’s tyrannical father, a supporter of Mussolini, fought in Kenya and became a prisoner of war, Pasolini himself was drafted into the army and deserted, and the Germans occupied northern and central Italy. A couple of years later, in 1945, his younger brother Guido, who had joined an anti-Communist partisan resistance group, would be executed by Communist forces in an internecine massacre of his brigade.
Casarsa della Delizia, Interno di Casa Colussi (centro Studi Pasolini) con, alle pareti, alcuni dipinti e disegni di Pier Paolo Pasolini
The rest of the dated drawings come from the mid-sixties, when his turbulent movie career was on the rise; from 1970, when he made a fascinating portrait with glue and sand (and stained with wine) of Maria Callas, her profile repeated on eight sections of a large, folded sheet of paper; and from 1974 and ’75, when he sketched three bold caricatures of Roberto Longhi.
Callas and Longhi were both significant figures in Pasolini’s life, as was Ninetto Davoli, the “son of Calabrian peasants,” as Siciliano describes him, with whom Pasolini “fell in love as a father, as a friend, sweeping away the tie of competitiveness that occasionally bound him to boys.”
Davoli, who was in his early teens when he met Pasolini, was a force of nature, whose “voice was raucous, his physicality pliant and emaciated.” Pasolini cast Davoli in a number of his films, including The Gospel According to Matthew, Uccellacci e uccellini (1966) and The Decameron (1971).
For his tender, undated portrait of Davoli, Pasolini uses what the wall label describes as “ink and mixed technique.” It is well known that, in addition to the wine splashed across the Callas drawing, Pasolini used coffee and tea as painting materials. I would guess that, judging from the stains encompassing most of the sheet of “Portrait of Ninetto,” the “mixed technique” consisted of Pasolini soaking the paper with a hot beverage and then drawing into the damp surface, wrinkling it around the eyes and eyebrows to produce a nuanced sculptural effect (not unlike the glue drips embossing the eight Callas profiles). The results are uncannily alive.
Pier Paolo Pasolini, Bozzettone dedicato a Laura Betti
Again, this kind of restless experimentation, which also included squeezing paint onto cellophane, is not the behavior of a casual artist, but of one who innately understands the link between what one does and what one chooses to do it with. In his 1973 statement cited above, Pasolini writes: "There must be some good reason why the idea never came into my head to attend some art lyceum or academy. The mere thought of doing anything traditional makes me nauseous. I mean literally sick to my stomach".
Another work in the show that doesn’t come under the heading of portraiture is a curious drawing on folded paper, like the Callas portrait, but in sixteen sections instead of eight. On each section Pasolini drew diagonally oriented charcoal squiggles that appear to represent a mountain range. While undated, the drawing is placed at the end of the exhibition’s chronology; its title is “The World Doesn’t Want Me Anymore and It Doesn’t Know It.”
Pasolini was the eternal outsider, the scatological truth-teller to the modern state, the martyred prophet of the underside of Eros. “The thought of doing anything traditional” - of accepting received wisdom, of failing to interrogate a concept to its core - “makes me nauseous.”
This exhibition may not deliver Pasolini with the richness of his panoramic contradictions, as the MoMA film retrospective would, but it supplies an indispensible foothold in that radiant, ash-strewn terrain.
Pier Paolo Pasolini, Disegni per il film "Dalla terra alla luna"
Pier Paolo Pasolini: Portraits, Self Portraits continues at Location One (26 Greene Street, Soho, Manhattan) through today.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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