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Pier Paolo Pasolini: «Un mondo pieno di futuro», di Alessandro Barbato - 15 settembre 2013

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"Pagine corsare"
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15 SETTEMBRE 2013
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DEL SITO WEB "PASOLINI.NET" E DEL BLOG "PASOLINIPUNTONET" DEDICATI A PIER PAOLO PASOLINI

Pier Paolo Pasolini: «Un mondo pieno di futuro»
di Alessandro Barbato, 15 settembre 2013
.
«Il futuro di un popolo è nella sua ansia di futuro
E la sua ansia è una grande pazienza»

Pier Paolo Pasolini, Appunti per un’Orestiade Africana
.
Il 25 Agosto del 1960, Roma e l’Italia si apprestavano a mostrarsi, per la prima volta in assoluto anche attraverso la mondovisione, in occasione della cerimonia di apertura dei XVII Giochi Olimpici dell’era moderna. Un evento che aveva avuto una lunga gestazione, una complessa fase di organizzazione che verrebbe da dire stranamente, pensando alla realizzazione di analoghi eventi odierni, fu quasi del tutto priva di scandali e polemiche. Un appuntamento che sarebbe entrato nella storia del Paese che in quegli anni conosceva uno sviluppo vorticoso che in breve tempo ne avrebbe mutato radicalmente i costumi. 
Più di ogni altro intellettuale italiano attento ai cambiamenti e agli stravolgimenti che coinvolgevano l’Italia, Pier Paolo Pasolini, in quel periodo, era alle prese con la realizzazione del suo primo film, il suo primo capolavoro, Accattone; e, da qualche tempo, in qualità di scrittore e intellettuale, teneva una rubrica, in cui dialogava appassionatamente con i lettori dei più disparati temi, sul settimanale “Vie Nuove”, fondato nel 1946 da Luigi Longo che in tal modo cercava uno strumento per avvicinare le masse alle politiche della sinistra italiana. Pasolini che, com’è noto, era anche un grande appassionato di sport, pertanto non si fatica a crederlo entusiasta quando la direttrice di allora di “Vie Nuove”, Maria Antonietta Macciocchi, gli propose di fare da inviato all’evento.


In tale veste lo scrittore partecipò alla quasi totalità delle gare, scrivendo dei gustosi resoconti che, come suo solito, trascendono la cronaca per assumere i contorni di vivide, e anche un po’ provocatorie, analisi sociologiche. 



Così, quel 25 agosto di tanti anni fa, eccolo presente alla Cerimonia di apertura dei Giochi, al cospetto di un mondo che sfila, «pieno di futuro», tra gli applausi del pubblico giunto nel nuovissimo Stadio Olimpico da ogni parte del pianeta. E Un mondo pieno di futuro sarà proprio il titolo di quel primo resoconto, pubblicato il 3 settembre del 1960. (Ora in P.P. Pasolini, Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, «I meridiani», Mondadori 1998, vol. I, pp. 1527-1531. *) In esso Pasolini guida il lettore, con un movimento che sembra quasi quello della macchina da presa, già a partire dal viale che conduce allo stadio, notando subito come l’idea di trovarsi in mezzo all’allegra e scanzonata folla che ogni domenica si raduna per assistere a un incontro di calcio, di cui tanto era appassionato, non corrisponda affatto alla realtà di quello che osserva:
"Intorno a me camminava con calma, e quasi in silenzio, una folla del tutto nuova: i vestiti insieme più vivaci e modesti dei nostri, le facce e i corpi meno belli ma più sani, i sorrisi senza ironia e senza volgarità, ma anche un po’ senza vita. Erano quasi tutti stranieri: tra loro galleggiava la testa di qualche romano, sperduto, col sorriso un po’ spento tra le labbra, come appunto deve essere un romano all’estero, con il suo estro come fossilizzato e fatto cosciente, e perciò falso, vecchio. I gelatari gridavano Ice-cream!”. (P.P. Pasolini, Un mondo pieno di futuro, op. cit., p. 1527.)
Anche dentro lo stadio Pasolini nota subito la strano ordine, così diverso dal clima di una partita di calcio, che regna nella moderna struttura. La stragrande maggioranza del pubblico è composta da stranieri, così accanto a lui, «punticino sperduto nel babelico ovale», non si sentono che parole straniere, «le più inafferrabili», simili a stridi di rondini, quasi come doveva apparire a un greco dell’antichità un qualsiasi idioma barbaro. Pasolini parla anche di facce anonime, facce simili a quelle «dei deportati a Buchenwald o a Dachau: per questo mi sono simpatici, […] non ho mai assistito a uno spettacolo in così rassicurante e fraterna compagnia.»
Roma 1960, la Maratona

Ma eccoci alla cerimonia, l’Inno di Mameli, l’arrivo del Presidente Gronchi. Pasolini racconta che la cerimonia si divide in due parti, molto diverse tra loro, la prima bella e anche commovente, per certi versi. La seconda brutta, «spiacevole». Sotto il sole che cala ecco cominciare la lunga sfilata delle nazioni partecipanti, sfilata che non somiglia affatto a un rituale macchinoso e arido, contrariamente alle previsioni. Apre la Grecia e chiude l’Italia, uniche, anche un po’ retoriche e fastidiose, eccezioni a quell’«istituzione meravigliosa» rappresentata dall’ordine alfabetico. Pasolini racconta degli applausi composti del pubblico, delle piccole trovate che ogni delegazione ha studiato per catturare l’attenzione della folla composta. Entusiasmo per tutti, solo la delegazione della Spagna franchista «spanderà intorno un certo disagio», con lo scrittore che non nasconde di provare una calorosa simpatia per quelle nazioni come il Ghana, la Liberia e, ancora di più, per le nazioni che si presentavano alla sfilata con delegazioni poco nutrite:
"Quelle piccole rappresentative, con la loro bandiera in testa, e per la maggior parte, incapaci di andare a passo di marcia, e con davanti i dirigenti, spesso pancioni e ansimanti, tutti sudati, man mano che si presentavano e passavano, diventavano qualcosa di enorme e imprevisto. Erano, veramente, tutta la loro nazione. Bastava il nome del cartello che li precedeva, e le loro facce quasi sempre umili, di gente modesta, spesso povera, perché l’intero loro mondo fosse evocato. Ed erano brani di storia contemporanea, vivi, come brandelli di carne, sorprendenti o strazianti. Il Giappone, Cuba, parevano portare dentro lo stadio, così puro, così anonimo, la concretezza vivente delle recenti battaglie, delle recenti morti, delle recenti passioni: ma tutto come purificato, diventato esperienza e dolore di ognuno di noi, e, come tale, superato, vinto dall’incalzare del tempo e della storia. Erano come improvvise ventate, una dopo l’altra: il distaccato, tranquillo riassunto, a passo di marcia, sotto lo sventolare delle bandiere, di tutta la nostra ultima storia. Che deve ancora farsi: e si farà, e richiederà nuove battaglie, nuovi morti, nuove passioni." (Ivi, p.1529.)
Il racconto pasoliniano si fa accorato, l’apertura delle Olimpiadi sembra la metafora dell’inaugurazione di un nuovo corso nella storia della civiltà umana. Una parata in cui è presente, a così pochi anni di distanza da un conflitto mondiale che come non mai aveva stravolto il senso stesso dell’essere uomo, l’intero mondo. Un mondo «incandescente» e pieno di futuro, descritto con toni che ricordano quelli che successivamente il regista avrebbe utilizzato negli straordinari “Appunti per un’Orestiade africana”. «Un mondo che sarà così diverso da quello che ci siamo abituati a considerare nostro: perché gli uomini di colore sono liberi, perché gli stati più poveri cominciano una loro vita civile»; ma anche perché Usa e Urss sono a una svolta decisiva che li porterà a possedere il cosmo, «a riordinare in un’altra organizzazione questa terra». 
L’entusiasmo di Pasolini si spegne rapidamente, quando la sfilata lascia il posto alla seconda parte della cerimonia, quella durante la quale il ministro Andreotti pronuncia il discorso di benvenuto:
"E credo sia difficile immaginare un discorso più retorico e provinciale del suo. E interminabile, poi: tanto da finire miseramente tra gli zittii generali. Non parliamo dei rari romani, che cominciavano a fare «Uuuuuh!», «E piantala!», ma degli stranieri stessi, che, benché educatamente, davano segni di impazienza: veramente non riuscivano a concepire il filo conduttore di tanto municipalismo, di tanta povera retorica, di tanto ovvio orgoglio per l’opera svolta, che riduceva Roma (che noi, lo so, abbiamo visto prepararsi con tanto affanno) a un capoluogo di provincia." (Ivi, p.1530.)
Un discorso che deve aver davvero devastato il cronista Pasolini, tanto che da lì in avanti il tono muta decisamente, con il racconto che prosegue con il resoconto delle fasi più insopportabilmente “retoriche” della manifestazione: l’esecuzione dell’Inno olimpico, l’ingresso della bandiera olimpica, le tre salve di artiglieria, il volo dei piccioni e il suono di tutte le campane dell’Urbe. «Tutto ciarpame decadente e estetizzante, merce del peggior neo-classicismo e del peggior romanticismo», a cui viene assimilata anche l’accensione del sacro fuoco olimpico. Tuttavia la parte più sgradevole e pesante della manifestazione viene presto dimenticata, messa in un angolo come qualcosa che si deve stoicamente sopportare. Del resto:
"Ingoiare e digerire cose del genere è una nostra vecchia abitudine. Resterà la parte più bella: questa giovanile, colorita visione del mondo riunito in una pacifica sfida, questa evocazione dei momenti storici, come staccati dal male e dal bene, quasi pronti a far parte di una coscienza più alta e serena, quella che li giudicherà domani." (Ivi, p. 1531.) 
© Alessandro Barbato

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*Interessantissimo è anche il secondo resoconto di Pasolini, pubblicato il 17 settembre 1960 e intitolato Dramma sul filo, in cui lo scrittore si sofferma sulla descrizione di alcune gare con toni epici e drammatici e dove peraltro sono contenute originali riflessioni sullo sport che si avvia a divenire “spettacolo”, commerciale e commercializzabile e dove lo scrittore spiega di preferire gli sport più popolari, come il calcio e la boxe, alla elitaria atletica leggera. Non a caso il pezzo contiene, quasi a contrapporsi ai fasti dei giochi olimpici, una rievocazione di una gara dilettantesca di tiro alla fune, consumata sulla spiaggia di Ostia, allo stabilimento Ondina, tra una comitiva di ragazze italiane e di coetanee ungheresi che si erano casualmente incontrate sull’arenile. Cfr.: P.P. Pasolini, Dramma sul filo, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., pp. 1532-1536.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Agata Amato, Alessandro Barbato, Fabien Gerard, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
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Pasolini e Gramsci, di Fede Chicca Caggio - 15 settembre 2013

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Pasolini e Gramsci
di Fede Chicca Caggio, 15 settembre 2013
 
Pierpaolo Pasolini è stato fino in fondo un intellettuale anche nel senso più aristocratico del termine; è stato sempre disperatamente un intellettuale, per una cronica incapacità di innestare il fervore e le intemperanze della sua passione per gli stati sociali più diseredati, frutto di una scelta poetica ed estetica prima ancora che politica, nella prassi concreta della lotta di classe. 
Egli però non ha mai vissuto in privato le ansie e le contraddizioni che da quella condizione gli derivavano, ma le ha sempre buttate all'esterno con un coraggio e una sincerità a volte disarmanti, che vincolano i suoi interlocutori a una presa di coscienza e e una risposta non evasiva ai problemi suscitati.
La sua forza maggiore consisteva nel non scendere mai a patti con l'opinione comune, e questo non certo per il vuoto anticonformismo di chi vuole andare a tutti i costi controcorrente, o per crearsi fama di originalità nell'asfittico panorama culturale del nostro paese. Infatti, sia nel furore polemico dei suoi articoli, dove spesso rivelava un gusto del paradosso spinto all'eccesso, sia nella continua provocazione dei suoi film, un tempo pietra dello scandalo della critica cattolica e ultimamente avversati anche da sinistra, come nell'autocommiserazione della sua poesia, così ricca di accenti universali da diventare immediatamente un'accusa alla società, Pasolini ha sempre dimostrato di avere le carte in regola: non gratuito spirito di contraddizione il suo, ma il risultato di una consapevolezza che era andata maturando dolorosamente in lui, di fronte al progressivo svuotamento degli ideali della Resistenza e al contemporaneo abbandono di quel disegno di politica culturale che Gramsci aveva delineato.
La ricostruzione del paese ben diversa da come se l'era immaginata il leader comunista, con l'avanzata di un processo capitalistico che unificava sì le varie parti della penisola, ma col risultato di imporre ovunque gli stessi modelli di comportamento consumistici, supporto alla nascente industria nazionale, e di ottenere il graduale annientamento di qualsiasi tradizione culturale locale, lasciò un segno tangibile nella personalità di Pasolini.
Egli infatti avvicinatosi assai presto alla realtà popolare attraverso una ricerca serrata e linguisticamente molto approfondita sui dialetti, aveva partecipato alle vicende di quel particolare tipo di cultura dal di dentro, vivendo a contatto quotidiano con i braccianti friulani, nella giovinezza trascorsa a Casarsa, e con i ragazzi delle borgate, dopo essersi trasferito a Roma.
La sua produzione artistica divenne sempre più difesa rabbiosa di quei valori incontaminati, perché esclusi dal dominio della storia, che egli aveva individuato nel vitalismo sottoproletario e nella primitività del Terzo Mondo.
Troppo poeta per accorgersi che, così facendo, finiva per giustificare in nome di un ideale estetico quella stessa esclusione dei ceti subalterni dallo sviluppo storico, che ha costituito da sempre il punto di forza delle classi al potere, lo scrittore-regista era approdato negli ultimi anni al vagheggiamento di una società precapitalistica, dove la Chiesa fosse restituita al suo ruolo tradizionale di guida politico-culturale del popolo italiano e magari, con la chiusura della scuola media e l'abolizione della televisione, si facilitasse il ritorno a una perduta semplicità di vita.
Pasolini io l'ho conosciuto guardando i suoi film ed è stato attraverso i suoi messaggi disperati, la sua voglia di vivere, la sua rabbia e il suo amore, che ho sentito la necessità di approfondirne il pensiero!
©  Fede Chicca Caggio
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Playlist Pier Paolo Pasolini da Beatrice da Vela - 15 settembre 2013

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Leo De Berardinis legge Pier Paolo Pasolini da "Le ceneri di Gramsci", Alfredo Caruso Belli. - 15 settembre 2013

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Leo De Berardinis legge Pier Paolo Pasolini
da "Le ceneri di Gramsci"
Alfredo Caruso Belli, 15 settembre 2013


LA FOTO DI LEO DE BERARDINIS CHE APPARE NEL VIDEO E' GENTILE CONCESSIONE DI PIERO CASADEI, CHE RINGRAZIO
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Pasolini e il mondo queer oggi. Appunti per un dibattito. Di Beatrice da Vela, 15 settembre 2013

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Arte romana. Coppa Warren, 50 d.C., argento, British Museum.
Proveniente da Bittir (Bethther), presso Gerusalemme

Pasolini e il mondo queer oggi.
Appunti per un dibattito
Di Beatrice da Vela, 15 settembre 2013
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L'opera di Pasolini anticipa molte tematiche che il movimento queer internazionale
ha cominciato ad affrontare almeno un decennio dopo; in Italia ancora si fa fatica
a parlare di certi temi e si preferisce l'immagine monolitica e rassicurante
di un Pasolini 'martire dell'omofobia'.
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Nel 1987 un seminale articolo di Giovanni dall'Orto cercava di fare i conti con Pasolini e il suo lascito per il movimento e la cultura queer in Italia, cercando di smontare la leggenda di un Pasolini santo martire di un Movimento che non lo aveva mai interessato (probabilmente non solo per questioni anagrafiche: lo sviluppo del movimento omosessuale italiano diventa fenomeno più visibile dopo la morte di Pasolini). Adottando una prospettiva letteral-biografica, Dall'Orto esaminava vari aspetti della sessualità pasoliniana, evidenziandone già allora le differenze con la sessualità della comunità queer [1] di allora ed evidenziandone gli aspetti arcaizzanti (Pasolini, spiega dall'Orto, viveva ancora l'omosessualità in modo ottocentesco); tuttavia questa riflessione non negava, e anzi, precisava, il posto di Pasolini nella costruzione di una cultura queer italiana, concludendo (Dall'Orto 1987 :83) “L'opera intera di Pasolini si presenta così come un monumento all'immaginario omosessuale, all'”inconscio collettivo” di una certa parte non trascurabile del mondo gay.”
Da quel 1987 sono passati ventisei anni. Che cos'ha fatto la cultura queer della figura di Pasolini? Sono state accolte le critiche di Dall'Orto? Che ruolo ha o dovrebbe avere l'eredità pasoliniana [2]per la comunità queer e specie per i suoi membri più giovani, che anagraficamente ne sono nipoti e pronipoti? Questi sono alcuni dei quesiti sui quale vorrei ragionare (anche se non è detto che essi trovino soddisfacente risposta).

Dall'Orto si occupava soprattutto della comunità e del movimento queer italiano, ma oggi questo è limitante, vista la dimensione sempre più europea e internazionale assunta dai movimenti e dalle comunità queer nazionali; come testimoniano una florida produzione accademica e militante e un generale interesse; forse il contributo di Pasolini alla costruzione di una cultura queer europea è al momento maggiormente recepito all'estero (ad esempio nel Regno Unito, dove è l'unica figura italiana ricordata dalla comunità queer; basti ricordare la tavola di discussione e di buone pratiche organizzata in concomitanza con la retrospettiva del BFI dal London Gay and Lesbian Film Festival, intitolata 'Queer Pasolini').

Negli ultimi dieci anni, a seguito di una crisi generale della società e della cultura politica italiana (e in generale di gran parte dell'attivismo) il movimento di liberazione omosessuale ha subito una contrazione e un netto ridimensionamento, tanto più grave questo ultimo se comparato con i progressi fatti dai movimenti nazionali per esempio in America, in Spagna, in Francia, in Inghilterra. Questo, tuttavia, non ha impedito a una cultura genericamente queer di svilupparsi e diffondersi nel nostro paese e, anche se con un certo ritardo, di aprire discussioni su temi ancora controversi, come la sessualità non esercitata all'interno della coppia, le pratiche sessuali non-vanilla ecc. Tutte tematiche, come vedremo, che si ritrovano nelle opere di Pasolini e che, mentre a livello internazionale sono usate per alimentare la discussione, in Italia vengono comodamente ignorate.
La cultura italiana queer, infatti, tende a ignorare Pasolini come 'scrittore queer' (sia per la narrativa che per la poesia). Se, per la narrativa, da una parte questo si spiega con una tendenza generale, infatti nella ricezione 'popolare' l'unico romanzo che ha avuto più volte l'onore della cronaca è Petrolio, e la produzione narrativa di Pasolini è passata in secondo piano rispetto alla produzione poetica, saggistica e cinematografica, dall'altra questo è dovuto alla complessità delle opere stesse nelle quali l'omosessualità non è mai proposta secondo i canoni della letteratura omosessuale tradizionale e convenzionale (storie d'amore - in genere tragico -, coming out e scoperta della propria sessualità). Nei romanzi, così come nel resto del corpus, la sessualità è spesso funzionale e usata non soltanto a fini descrittivi o sociologici. Per la poesia esiste anche un problema legato al genere e al progressivo restringimento dei lettori di questa forma artistica in Italia.
Dal punto di vista più strettamente accademico, invece, si è cominciato negli ultimi quindici anni a esaminare la produzione narrativa e poetica pasoliniana da una prospettiva queer, ne sono un esempio i saggi di Gargano (2002), che riattraversa l’opera pasoliniana esaminando il ruolo che il sesso ha in essa, e Gnerre (2000), che ci propone una lettura dell’omosessualità come strumento conoscitivo e maieutico.
Maggior ricezione hanno le opere cinematografiche, soprattutto Salò o le 120 giornate di Sodoma, che è divenuto, principalmente in contesto anglosassone, un vero e proprio simbolo della cultura di liberazione. Ne è un esempio la proiezione effettuata nel febbraio di quest'anno al BFI di Londra. Pur rimanendo un film tutt'ora confinato a un pubblico non-mainstream (ma più in Italia che in altri paesi), esso circola ed è ben conosciuto all'interno della comunità queer, per vari motivi che vedremo tra poco.
In Italia gran parte della comunità queer lo ritiene ancora un film pornografico e questo è indice del maggior tradizionalismo (e conformismo) della quale è afflitta una parte importante della comunità queer italiana.
In Italia è sopratutto la biografia di Pasolini a farne da padrone  per svariati motivi. Anche qui prima di tutto si tratta di una tendenza generale, facilitata da un certo schema interpretativo letterale biografico (amplificato da una certa attitudine di Pasolini stesso [3]) ma che incontra il gusto del pubblico verso il pettegolezzo o il taglio scandalistico e infine bene ricordarlo, anche per un dato di immediatezza, o presunta tale, di comprensione: le vicende biografiche sembrano sempre più comprensibili di un'opera letteraria. Il fenomeno era stato già ben individuato da Giovanni dall'Orto ed è innegabile che sia ancora in atto: fare di Pasolini, se non un santo martire, quantomeno la bandiera della persecuzione nei confronti degli omosessuali in Italia. Ora, questo atteggiamento è esso stesso ambivalente perché se è innegabile che la persecuzione subita da Pasolini in vita era dovuta anche alla sua omosessualità, mai nascosta e talvolta volutamente esibita, e se sottolinearlo diventa una chiara rivendicazione politica (così Mario Mieli 1977: 145–9), dall'altra ridurre le vicende biografiche (compreso l'omicidio) a una lunga lotta contro l'omofobia della società italiana è schematico e riduttivo [4]. Se dunque è legittimo ricordare come, in vita e in morte, Pasolini sia stato vittima di varie forme di violenza a causa del proprio orientamento sessuale, emblema di una violenza subita ancora oggi quotidianamente dalla maggioranza degli omosessuali italiani, dall'altra questo atteggiamento diventa deleterio quando offusca il grande contributo letterario e politico di Pasolini e anzi, rischia di distorcerne il senso. D'altra parte questo interesse per il 'personaggio' Pasolini [5], investe in generale l'approccio maggioritario (non soltanto da parte della comunità queer) a questo scrittore.
La mia impressione, tuttavia, è che dietro questa icona semplificata e a questo nuovo modello di martire, ci sia, oltre a una mercificazione del 'fenomeno Pasolini', soprattutto la pigrizia (o l'incapacità) intellettuale e anche la paura di discutere alcune tematiche dell'opera pasoliniana, che se all'estero stanno prendendo piede come centro della riflessione della comunità queer [6], in Italia se non sono veri e propri taboo, sono quantomeno ancora problematiche. Mi riferisco soprattutto alle diverse connotazioni della sessualità omosessuale esplicitate nell'opera pasoliniana, che in ambito di cultura queer, dovrebbero suscitare particolare interesse perché mettono in risalto certi aspetti che sono precursori di dibattiti che si apriranno soprattutto dopo gli anni Settanta. Questi argomenti possono essere sintetizzati in sei punti essenziali: a) il dibattito sui rapporti a pagamento/ sulla sessualità 'fine a se stessa'; b) i rapporti con minori; c) rappresentazione di forme della sessualità 'problematiche' [7], in particolare il BDSM e alcune parafilie (Salò, Petrolio); d) la descrizione di un rapporto spesso conflittuale (ma su questo torneremo nel corso di questo contributo) fra la persona e la propria (omo)sessualità; e) il transgenderismo in relazione all'omosessualità; f) la possibilità di un innamoramento platonico da parte di un omosessuale per una persona del sesso opposto (Trasumanar e Organizzar- canzoniere per Maria).
Fin dall'esordio romanzesco di Ragazzi di vita, Pasolini ha dato mostra di conoscere molto bene l'ambiente della prostituzione minorile maschile romana e, nonostante le testimonianze poetiche e biografiche dell'autore stesso, vi è stata una certa tendenza a neutralizzare questo dettaglio nel romanzo, facendolo passare come un puro dettaglio sociologico-folkloristico inserito in un dettagliato studio, ancorché romanzato, delle borgate romane del Secondo Dopoguerra. D'altronde un altro atteggiamento comune è quello di relegare questo comportamento a 'bizzarria d'artista maledetto', un comportamento ossessivo e auto-distruttivo che già vent'anni prima faceva presagire il suo tragico epilogo [8].
Come la comunità queer ha reagito a questo aspetto? Sostanzialmente con una rimozione, come giustamente nota Duncan (2006: 81): difficilmente i romanzi di Pasolini (compreso Petrolio) figurano nelle liste dei 'romanzi gay italiani', probabilmente perché, oltre a essere eclissati dalla maggiore fama del Pasolini poeta e regista, essi hanno ben poco in comune con i romanzi 'gay' più tradizionali (Ernesto di Umberto Saba, L'isola di Arturo di Elsa Morante...): non c'è il tema dell'amore, ancorché negato, poco o niente di esperienze sessuali appaganti e condivise, poco sulla scoperta della propria sessualità. Pagare per il sesso è tutt'ora percepito come qualcosa da fare tutt'al più nel silenzio e che per molti è anche difficile da comprendere. Vi è anche un altro fattore: sesso a pagamento equivale a promiscuità, anche questo un nodo spinoso all'interno della comunità queer, che dopo l'emergenza AIDS degli anni Novanta, ha fatto giustamente del sesso sicuro una propria bandiera, ma dall'altra parte ha teso a stigmatizzare comportamenti potenzialmente pericolosi. Bisogna ricordare infine che per un omosessuale nato negli anni ottanta o dopo è generalmente molto difficile da capire perché ci potesse essere bisogno di sesso a pagamento o di rapporti occasionali all'esterno della comunità.
A livello di riflessione intellettuale si sono distinti alcuni autori nel cercare di affrontare questo aspetto della poetica pasoliniana e di spiegarlo riportandolo nel contesto di una società per certi aspetti drasticamente diversa da quella odierna: Nico Naldini e Andrea Pini.
Il secondo in particolare, col libro, Quando eravamo froci, è efficace nel ricostruire un ambiente che per molti di noi è scarsamente immaginabile e abbastanza onesto, inoltre, da mettere in luce che il più diffuso costume di rapporti mercenari non era in concorrenza con la possibilità di legami più stabili.
Parlavamo di promiscuità e dell'atteggiamento ambivalente che la comunità queer ha nei confronti di quello che viene definito cruising (battere), una parte della cultura queer (specialmente maschile) che, pur formalmente ostracizzata, esiste ancora [9].

Veniamo alla seconda questione, forse la più spinosa, i rapporti con i minorenni. L'argomento è molto problematico per la comunità omosessuale in quanto riflette la confusione all'interno della stessa riguardo a ciò che è lecito/illecito, ciò che è considerato psichiatricamente e psicologicamente sano o malato. Prima di procedere, vorrei fare un po' di chiarezza terminologica.
Secondo il DSM-V [10], uno dei più autorevoli manuali di psichiatria, si definisce pedofilia l'attrazione esclusiva o prevalente  nei confronti dei bambini (vengono definiti bambini le persone fino al dodicesimo anno di età e che non abbiano raggiunto lo sviluppo puberale) quando la differenza di età tra adulto e bambino è almeno di sette anni. La pedofilia è inserita nelle cosiddette parafilie. La pedofilia può essere di tipo differenziato (attrazione verso bambini di un solo genere) o indifferenziato.
Diverso, e ben più diffuso, tanto da essere quasi topico, nella comunità queer è la cosiddetta efebofilia, esclusa dal DSM-V e pertanto non considerata una malattia della psiche (fatti salvo i casi dove questo comportamento assuma le caratteristiche di un'ossessione, impedisca cioè al soggetto di svolgere le sue normali attività). Si definisce efebofilia l'attrazione sessuale esclusiva o prevalente per adolescenti tra i 15 e i 19 anni o che hanno già sviluppato - in tutto o in parte -   le caratteristiche sessuali di una persona adulta.
Su questi binari si muove molto dell'immaginario pasoliniano. Non è incomprensibile perché per la comunità queer questo sia un argomento spinoso:  soltanto da relativamente pochi anni l'omosessualità in tutte le sue manifestazioni è stata riconosciuta come una variante sana della sessualità umana ed è stata quindi rimossa dal DSM (17 maggio 1990); nella mentalità di molti, soprattutto in Italia, gli omosessuali sono ancora considerati dei 'deviati' o dei 'malati', è dunque logico che una comunità abituata a difendersi continuamente cerchi di allontanare il più nettamente possibile la confusione con una malattia (specie una che ha così presa nella coscienza collettiva perché va a colpire gli indifesi per eccellenza, cioè i bambini).
Rispondono a questo aspetto due opere di Aurelio Grimaldi, Nerolio-sputerò su mio padre e Un mondo d'amore.
Nerolio(1996) è una pellicola che già nel sottotitolo denuncia le proprie intenzioni: superare un metaforico complesso edipico del regista nei confronti di Pasolini, uccidere il proprio padre per potersene affrancare. Il film gioca su un'ambiguità di fondo: ben si capisce che il protagonista sia Pasolini, ma allo stesso tempo questi non viene mai chiamato per nome, ma alluso in vari modi: non solo i tre episodi del film sono direttamente collegati a momenti delle opere pasoliniane o a dati biografici (la cui interpretazione è spesso molto forzata), ma il protagonista presenta delle caratteristiche che volutamente ricordano quelle di Pasolini (gli occhiali, l'abbigliamento, una certa rassomiglianza fisica; mentre altri particolari sono stranianti, primi fra tutti il modo di parlare e lo stesso tono e timbro della voce). Tuttavia l'impressione che si ha è quello di un tentativo rabbioso e mal riuscito di 'character assassination', che non ottiene lo scopo di liberarsi da un'eredità importante perché non la digerisce.
In particolare la rappresentazione della sessualità ha un ruolo fondamentale (e quasi fa da cardine) dell'intero girato; non è un caso se l'episodio centrale, che racconta la storia di un giovane scrittore esordiente disposto a tutto, anche a prestazioni sessuali contrarie al proprio orientamento, pur di accedere alla pubblicazione: se la struttura è molto triviale e scontata, è importante per il senso dell'opera il dialogo centrale tra i due protagonisti, dove lo scrittore, in un momento di provocatoria sincerità (ma non nel senso pasoliniano, essa sembra più dedita allo scandola per se ipsum piuttosto che finalizzato a una catarsi o a una riflessione) confessa le proprie prodezze sessuali, confessando, in modo a dir il vero piuttosto compiaciuto, di essere un pedofilo.
Quella della pedofilia è un tema che torna anche nel secondo film di Grimaldi dedicato a Pasolini, Un mondo d'amore (2002). In questo film, che narra lo scandalo di Ramuscello e la fuga di Pasolini e sua madre a Roma, Grimaldi tratta il personaggio di Pasolini con una delicatezza incomparabile rispetto al film precedente (talvolta trasformandolo in un personaggio persino troppo delicato, molto immaturo e quasi abulico, mentre risulta un personaggio molto più forte Susanna Pasolini); eppure il regista riesce comunque a dipingere l’ambiguità nella sessualità pasoliniana (pur se le modalità con cui il protagonista del film si difende dalle accuse rivoltegli dall’ufficiale di polizia, citando Gide e altri esempi di letteratura queer, sembra un po’ troppo didascalico e rende il dialogo inverosimile). 
Particolarmente significativa è la scena finale del film quando Pasolini, scrivendo una lettera al cugino Nico, guarda un gruppo di ragazzi e bambini che giocano a pallone; il film si chiude con il protagonista che prende in braccio un bimbo in fasce. Il regista rende molto bene una serie di emozioni complesse, che vanno da un desiderio di paternità negata, a un’attrazione palesemente erotica.
Un altro elemento molto importante della ricezione nazionale e, soprattutto, internazionale di Pasolini all’interno della cultura queer è senz’altro Salò o le 120 giornate di Sodoma. Se è vero che il film è una grande allegoria socio-politica, allo stesso modo è innegabile che per il tipo di immagini rappresentate e anche per il messaggio stesso del film è presente una fortissima componente sessuale e anche erotica, che inevitabilmente è stata recepita dalla comunità queer. Salòè a tutt’oggi una delle opere d’arte più esplicite nel mettere in campo le più disparate pratiche sessuali, anche al limite della legalità e soprattutto è unico nel sottolineare il legame strettissimo tra corpo, sessualità e potere, un tema che ha assunto una sempre maggior rilevanza all’interno del dibattito queer (anche perché si è cominciato, soprattutto negli ultimi quindici anni, quando le comunità si sono ormai stabilizzate e uscite allo scoperto, a riflettere sui meccanismi di potere, controllo ed emarginazione che sono presenti nella comunità queer, rompendo così l’illusione di una comunità di pari, dove tutti sono liberi e rispettati alla stessa maniera. Questa infatti non è che una falsa rappresentazione, poiché, per assurdo che possa sembra in una comunità di emarginati, le dinamiche di potere riproducono in scala le stesse gerarchie della società occidentale (maschilismo, patriarcalismo, emarginazione del diverso).
Tuttavia, Salòè importante anche per un altro motivo, perché è una rappresentazione visuale molto efficace di un tipo di immaginario erotico abbastanza comune all’interno della comunità queer, ma a tutt’oggi stigmatizzato e sul quale il dibattito è ancora concitato (all’estero, perché in Italia se ne parla ancora meno, come per tutte le cose riguardanti o percepite come riguardanti esclusivamente il sesso), l’immaginario BDSM [11].
La dinamica di potere che si instaura sia fra i carnefici e le vittime (ed il fatto che queste siano rappresentate non in modo simpatetico acuisce il parallelo tra il film e le dinamiche SM), ma soprattutto le dinamiche tra i quattro signori e le loro guardie richiamano a un immaginario sadomasochistico, suscitando coscientemente (in modo da attuare così una dolorosissima catarsi) l’eccitazione (intellettuale, ma anche erotica) nello spettatore. In questo si può leggere, oltre che una riflessione sugli effetti deformanti del potere sulla psicologia umana, anche una riflessione più ampia sul potere inarrestabile e perciò spaventoso della fantasia. Se questi elementi sono già presenti in nuce (soprattuto a livello di forma, più che di contenuti), nell’originale sadiano, Pasolini riesce con sublimità a trasporre il dibattito in forma contemporanea, il film in questo modo affronta anche la questione della consapevolezza, che le vittime paiono avere, e del consenso, che se non c’è nel caso delle vittime, c’è sicuramente nel caso dei rapporti tra padroni e guardie. Tutti questi temi sono solo recentemente entrati nel dibattito attorno al BDSM.
Senza scendere in un’analisi dettagliata che occuperebbe troppo spazio in questa sede, va anche ricordato che il film rappresenta molti elementi del BDSM, al di là dell’elemento psicologico, come la presenza di legacci in pelle e museruole, l’umiliazione delle vittime costrette a rimanere nude, il role-play e l’inversione di genere fino a spingersi nel campo delle parafilie vere e proprie (la necrofilia, ancorché soltanto raccontata, la coprofagia, l’urofilia).
Questa tematica, che trova in Salò la sua forma più compiuta, è tuttavia presente in gran parte della poetica pasoliniana, basti pensare al tema del sacrificio, o a certe scene di Petrolio, che se non direttamente afferenti all’immaginario BDSM hanno quanto meno in comune con esso la rappresentazione di pratiche sessuali non-vanilla [12].
Eppure culturalmente questo aspetto è stato recepito per lo più per sminuire l’opera pasoliniana e Petrolio in particolare (è questa, sostanzialmente, la letture che di Petrolio dà Trevi in Qualcosa di scritto, ma per una revisione delle posizioni della critica letteraria sull'argomento si veda Benedetti: 2012), ubbidendo a quello schema letterario-biografico del quale parlavamo all’inizio, ma in una prospettiva che sminuisce, forse inconsapevolmente, opera e autore.
A parlarne in modo più esplicitamente queer, ma pur sempre accademico, è Naldini (2005: 92), che tuttavia si limita a rilevarne la presenza in tutta l'opera pasoliniana e a legarvi un dato biografico volto a spiegare l'omicidio di Pasolini.
Dal punto di vista di ricezione popolare, una dei pochissimi esempi è il brano The Spirit of Love, una particolare composizione di musica post-industriale, del gruppo queer Catholic Boys in Heavy Leather. Il dibattito intorno all'opera e ai suoi temi è però molto vivo (Salòè stato al centro della discussione del citato panel del BFI  'Queer Pasolini' e la visione del film è stato uno dei maggiori eventi del London Gay and Lesbian film festival 2013).

Vi sono poi altri temi complessi dell’opera pasoliniana, che riguardano la comunità queer e che hanno ricevuto un'ancor minore attenzione, pur essendo temi al centro del dibattito.
Uno di questi, come evidenziato già da dall’Orto, è la considerazione della propria omosessualità. Nell’opera pasoliniana, così come nelle lettere, Pasolini descrive la condizione di omosessuale in maniera contraddittoria e spesso conflittuale: se da una parte l’omosessuale non è un malato e il rapporto omosessuale non è un peccato, dall’altra è innegabile sia il senso di estranietà provato nei confronti di una sessualità ‘altra’, sia il sentimento di pesantezza e di esclusione, motivo per cui Pasolini non può essere preso come modello positivo di ‘omosessuale liberato’ (un bellissimo esempio è la lettera a Silvana Mauri del 10/02/1950). Se certamente quest’atteggiamento è imputabile sia ai tempi che alla formazione pasoliniana, allo stesso tempo vi si ritrovano i toni e gli atteggiamenti comuni a chiunque scopra, in questa società, la propria omosessualità.
La lettera è stata ripresa in teatro da Filippo Timi nel 2010.

Un altro spunto molto interessante è il ruolo del travestitismo/transgenderismo nelle opere di Pasolini, che è stato letto più volte come un’assimilazione dell’omosessualità al cambiamento verso il genere opposto, ma che, invece, è uno spunto di partenza per una riflessione più ampia sui generi sessuali e sociali (cioè sulla costruzione del genere nella società). Emblematici in questo senso sono sia Salò, come già fatto presente, che Petrolio. Se in Carlo avviene un vero e proprio passaggio da un sesso all’altro, relegandoli in una strana condizione assimilabile a quella di un transgender o di un intersex (la psicologia di Carlo non diventa una psicologia completamente femminile), questo mette in discussione la nozione stessa di genere come costruzione sociale (cos’è che, al di là della combinazione cromosomica casuale, definisce l’essere uomo o l’essere donna?)  e l’importanza della virilità e della femminilità poste in relazione con una sessualità eterosessuale od omosessuale.

Infine un altro argomento, che citerò brevemente, è quello della cosiddetta ‘amicizia amorosa’, cioè delle possibili relazioni amorose (solitamente platoniche) con persone dell’altro sesso. Questo argomento è bene esemplificato dalle poesie di Trasumanar e Organizzar dedicate a Maria Callas: parole d’amore, sull’amore e sull’impossibilità di amare ‘completamente’ (in senso fisico). Anche qui, come abbiamo più volte ribadito, la lettura che viene data è quella del gossip e dello scandalo, invece di investigare un tema considerato ancora scottante: vi è infatti una parte della comunità queer che vuole etichettare questo tipo di esperienza come bisessualità (costituirebbero dunque la prova che eterosessualità e omosessualità sono soltanto un costrutto sociale), chi invece li vede come un ‘tradimento’ al proprio orientamento sessuale, magari fatto per omofobia interiorizzata. Posizioni più razionali, che partono dal principio che la sessualità umana non si può ingabbiare, dal punto di vista psicologico, in etichette predefinite e che queste sono utili solo nel campo della rivendicazione politica, sono ancora minoritarie.
Gli spunti per un superamento dell’immagine ‘santificata’ di Pasolini e per comprenderne l’importanza seminale, sia per la chiarezza nell’esposizione di certe tematiche, anche anticipando il dibattito di molti decenni, sia per il valore grandissimo di testimonianza della cultura queer italiana ed europea sono moltissimi; ma questo implica, come sempre nel caso di autori così complessi e ancora di più nel caso di Pasolini, le cui opere sono state coperte da un’alluvione di studi più o meno validi tra i quali è molto difficile discernere, un grande impegno intellettuale e culturale, un impegno che riparta dalla lettura e dalla visione diretta e senza intermediari critici della sua produzione artistica e che sia accompagnata da un dibattito coraggioso e sincero, che metta in discussione non soltanto le opere, ma anche i concetti (e i preconcetti) stessi della comunità queer. Solo in questo modo, a mio avviso, è possibile, specie per noi che per età siamo così distanti, beneficiare del lascito pasoliniano, senza cedere a tentazioni mistificatrici, rendendo davvero omaggio alla sua figura.

Jean-Baptiste Roman (1792–1835)Eurialo e Niso (1827), Musée du Louvre


[1] Uso il termine inglese 'queer' per semplice comodità, per definire l'insieme di individui che si riconoscono e si autodefiniscono all'interno della comunità non-eterosessuale ed etero-normativa. Sono consapevole che questa terminologia in Italia è ancora dibattuta; il suo utilizzo in questa sede non ha uno scopo politico, ma solo sintetico (non dover ripetere ogni volta né sigle ancor più controverse, come LGBT, LGBT+ ecc.) né limitarsi alla categoria 'cultura omosessuale', che, secondo l'autrice, è fortemente restrittiva.
[2] Per questo contributo mi sono tanto concentrata soltanto su un aspetto dell'eredità culturale pasoliniana, che è molto più vasta e complessa; di conseguenza la prospettiva qua adottata è necessariamente parziale. Tuttavia ritengo innegabile che la tematica omosessuale e in un certo senso la prospettiva e l'esperienza omosessuale (senza arrivare agli estremismi di Belpoliti: 2010) abbia grandissima rilevanza nell'opera pasoliniana e anzi ne costituisca un elemento importante.
[3] Riprendo una giusta osservazione di Stefano Casi (1987: 5): nel caso di Pasolini non è corretto parlare di biografia, quanto di un biografismo positivo, come “trasfigurazione delle ingenze quotidiane ed esistenziali dell'autore nella sottolineatura palesemente e trionfalisticamente autobiografica delle stesse”; una caratteristica, si potrebbe aggiungere, molto frequente nella formazione di una personalità omosessuale.
[4] Si vedano in questo senso, ad esempio, le dichiarazioni  di esponenti del movimento gay riguardo alla riapertura del processo per l'omicidio di Pasolini, sempre collegato in modo esplicito all'omofobia.
[5] Uso il termine personaggio perché più che un interesse a comprendere l'umanità dell'ntellettuale, c'è una certa tendenza a trivializzarne il carattere, sia accontentandosi della persona mediatica creata - volontoriamente e involontariamente - da Pasolini, che quella forgiata di riflesso dai media, sia operando un'ulteriore semplificazione (o santo o diavolo).
[6] Ad esempio nel mondo queer anglosassone dall'angolazione del regista 'morto per omofobia' (ottica ripresa per esempio in Ostia - the death of Pasolini (1987) di Julian Cole, c'è stato uno spostamento di interesse più pertinente, facendo di Pasolini piuttosto l'emblema di un intellettuale infangato anche post-mortem perché omosessuale, ma ammazzato perché intellettualmente scomodo (Questa la tesi, ad esempio, di Kathy Lee Crane in Pasolini's Last Words (2012). Uno studio più dettagliato, che per il momento escludo da questo contributo, meriterebbe la ricezione di Pasolini nelle opere di Derek Jarman, in particolare Sebastiane (1976), Caravaggio (1986) e Edward II (1991).
[7] Non mi inoltro nell'acceso dibattito su come si definisca il BSDM in rapporto alla sessualità, se esso sia cioè un insieme di pratiche sessuali oppure un vero e proprio orientamento sessuale.
[8] Questa sembra essere, ad esempio, la linea adottata da Sandra Petrignani nel suo Addio a Roma, Neri Pozza, 2012.
[9] Uno degli effetti dell'epidemia di AIDS è stato anche quello di accentuare una certa tendenza del mondo queer alla cosiddetta 'normalizzazione'. In altre parole le progressive conquiste del movimento queer, facendo venir meno in molti paesi i motivi di esistenza del movimento stesso, vedono adesso un grande dibattito sulla necessità o meno di avere ancora un 'movimento di lotta', che di conseguenza autoghettizzi in una certa misura i propri membri, o se non sarebbe più proficuo 'scomparire' all'interno di quelle società che garantiscono alle persone queer diritti equiparati, a vari livelli, a quelli delle persone eterosessuali. Per fare ciò, però, i membri della comunità queer dovrebbero perdere la loro identità e conformarsi alle regole della società borghese in tutto e per tutto (privilegiando rapporti monogami stabili, abolendo i gay pride ecc.).
[10] E' bene ricordare che dal punto di vista psichiatrico non c'è un giudizio morale sulla malattia.
[11] Bondage-Disciplina-Dominazion-Sottomissione-Sadomasochismo. Non mi inoltro nell'acceso dibattito sulla natura del BDSM, se sia cioè semplicemente un insieme di pratiche sessuali (kink) oppure un orientamento sessuale vero e proprio. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito soprattutto questo tema ha occupato il dibattito della comunità queer, che si è sviluppato (e non ancora risolto) in modo molto articolato e utilizzando diversi approcci, da quello psicologico, a quello neo-femminista, al marxismo ecc. In Italia per adesso è arrivata solo la eco di questa discussione, tanto che, pur avendo una qualche visibilità ai nostri gay pride nazionali, il BDSM è ancora politicamente emarginato all'interno della comunità italiana.
[12]   Per esempio la celeberrima gang-bang dell'Appunto 55, che riproduce dinamiche e linguaggi tipici dell'immaginario BDSM.

Opere citate
Benedetti, C.. 2012. “Pasolini e la gogna sessuale”, in Venerdì di Repubblica, 8/06/2012 (consultabile su http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article239)
Dall'Orto, G. 1987. Contro Pasolini. In Casi, S. Cupo d'amore. Centro di documentazione il Cassero: Bologna, 68–87.
Dunkan, D. 2006. Reading and Writing Italian Homosexuality. A case of possible difference. Aldershot: Ashgate.
Gargano, C. 2002. Ernesto e gli altri. L'omosessualità nella narrativa italiana del Novecento. Roma: Editori Riuniti.
Gnerre, F. 2000. L'eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano. Milano: Baldini e Castoldi.
Mieli, M. 1977. Elementi di critica omosessuale. Torino: Einaudi.
Naldini, N. 2005. Come non ci si difende dai ricordi. Roma: Cargo.
Pini, A. 2011. Quando eravamo froci: gli omosessuali nell'Italia di una volta. Milano: Il Saggiatore.
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A Pa', ce manchi tanto, di Damiano Evans. - 15 settembre 2013

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A Pa', ce manchi tanto
di Damiano Evans, 15 settembre 2013

Cosa si può scrivere su un uomo come Pier Paolo, un grande regista, poeta, scrittore e un grande maestro di vita? 
Me lo domandi vivendo in una città come Roma e soprattutto in una zona come la Via Portuense che Pier Paolo frequentava spesso (questo me lo raccontava un mio zio che era un ragazzo di vita che lo conobbe personalmente) e anche in quel poco verde che è rimasto vicino la Magliana che ci passo tutti giorni per andare al lavoro in cui il maestro girò "Uccellacci Uccellini" capolavoro di poesia cinematografica che tocca le corde dell'anima.
La sua arte è come una pietra che non si distruggerà mai, le sue parole non saranno mai spazzate dal vento.
La cosa che mi rammarica è quella di non averlo mai conosciuto di persona ma mi rimarrà nel cuore la sua poesia.

A Pà ce manchi tanto
sto paese s'è distrutto
i grandi valori si sono trasformati in polvere
la mentalità
di oggi
è solo stupidità e mediocrità.
© Damiano Evans
Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, film completo
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Casarsa, un paese di temporali e primule, di Giovanna Gammarota - 15 settembre 2013

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© Giovanna Gammarota, Verso il cimitero di Casarsa, 2008

Casarsa, un paese di temporali e primule
di Giovanna Gammarota, 15 settembre 2013

Trieste, 8 agosto 2008

La solitudine è una strana sensazione. Sono in vacanza, a casa di un’amica qui a Trieste. In questo momento però mi trovo in stazione, da sola, perché ho deciso di fare una gita a Casarsa. Al solito provo una stupida apprensione nel girare in posti che non conosco. Per fortuna le cose sono molto più semplici di quanto non si creda, e il mondo è abitato per lo più da gente ‘normale’. Ad ogni modo una folta pattuglia di polizia rende il luogo apparentemente sicuro, come vogliono i nostri governanti. Fermano chiunque abbia un aspetto un po’ strano chiedendogli i documenti. Agiscono stancamente, in modo quasi svogliato. Sembrano non preoccuparsi troppo di mettere in pratica le rudi disposizioni ministeriali. Non ho visto però, fino ad ora, i famosi militari di supporto. Mi chiedo come li giudicheresti tu, se ne prenderesti ancora le difese, provocatoriamente, come facesti quarant’anni fa. Di certo non decidono loro cosa è giusto fare per la sicurezza dei cittadini. Ecco quindi che la mia solitudine improvvisamente si popola: di pensieri, di soggetti da esaminare, di concetti da sviscerare e dunque non appare più tale quale normalmente la si vuole etichettare. Di colpo essere ‘da soli’ diventa una condizione irrinunciabile per arrivare al cuore delle cose. Diventa scoperta, come per me adesso qui, oggi, nella consapevolezza di ciò che mi appresto a fare per me sola. Il che non significa narcisismo o egoismo, è semplicemente ‘necessità’ di vivere centrati su se stessi, coerenti, vivi, anche ricercando un passato, una memoria che appare distante. La memoria non è mai chiusa. La memoria è una porta aperta, direi quasi spalancata, e non aspetta altro che la si oltrepassi.
Il treno è partito. Per fortuna la giornata non è calda come ieri e viaggiare in un vagone povero su un treno regionale è un po’ più sopportabile. Costeggiamo il mare uscendo dal territorio di Trieste. Si scorge giù in basso, il profilo candido del castello di Miramare. L’acqua è una tavola grigio-azzurra perfettamente piatta, in alcuni punti si confonde con il cielo altrettanto incolore. La costa del golfo di Trieste ora appare come una lingua scura di terra sempre più sottile, mano a mano che il treno si allontana. Poi ci addentriamo nell’interno e il mare non c’è più.
© Giovanna Gammarota, Verso il cimitero di Casarsa, 2008

Sono diretta a Casarsa. Non so descrivere le sensazioni che provo: sto andando in quel paese di cui ho sempre letto il nome sui libri, tutti quei libri che parlano di te, di quel periodo della tua vita in cui vivesti lì, con tua madre. L’intento è quello di compiere un pellegrinaggio nel luogo in cui sono sepolte le tue spoglie mortali, posare un fiore sulla tua tomba.
Le nubi ora sono più cupe, le stazioni si susseguono, spoglie e pietrose: paiono abbandonate. Ciuffi di miseri oleandri fioriti le addobbano, unica concessione all’ornamento. La luce è lattea ma non piatta. Il treno ha quindici minuti di ritardo: sembra impossibile – in questo nostro Paese – evitare queste disfunzioni. Fermi nella stazione di Udine, per non si sa quale motivo, attendiamo di ripartire con pazienza, mentre il cielo diventa sempre più grigio. Almeno non fa caldo, è già qualcosa.
All’arrivo a Casarsa la pioggia ha già fatto sapere che scroscerà. Raggiungo appena in tempo il piccolo cimitero. Poso rapidamente sulla tua tomba un fiore lilla, selvatico, come eri tu, strappato qui fuori sull’argine di un fosso. Mi scuso per la povertà di questo fiore, ma non ho trovato altro in questo paese sbarrato. Ora aspetto che spiova, sotto un loggiato, prima di sostare un po’ di più accanto a te.
Tuoni e anche qualche fulmine. L’aria sposta le nubi compatte con lentezza. La pioggia sembra attenuarsi, ma poi subito riprende, ancora più forte. Mi pare di dover aspettare in eterno. Osservo i campi appena fuori: una terra viva circonda questo cimitero, viva e verdissima. E’ singolare come questo pensiero, nella normalità delle cose, sfugga: attorno alla morte regna la vita. La morte è il cuore della vita, il suo nucleo. Essa alberga al suo interno e scopro che la sensazione di pace, che spesso si associa al concetto di ‘non esistenza’ fisica, non è poi tanto distante da noi, ma è addirittura ‘dentro’ di noi.
Piove a dirotto, ora, ma non ha importanza, anzi quasi sono contenta che piova così forte. Brandelli di sole squarciano di tanto in tanto la coltre compatta di nubi. E’ estate, ma questo tempo, in questo luogo, mi fa venire in mente il paesaggio raccontato così poeticamente in Un paese di temporali e di primule. Un temporale è esattamente quanto di meglio ci si potesse augurare durante questa breve visita. Il paese così, appare in una luce forse un po’ più simile ad allora, negli anni Quaranta, quando ci abitavi con tua madre. Sull’altro lato del cancello si trova il monumento ai caduti della Brigata Osoppo: nel 1945 Guido Alberto, l’unico tuo fratello, che ne faceva parte, cadde ucciso, a soli 23 anni. Allora oltrepassasti questa soglia reggendo quel fascio di dolore che doveva essere tua madre. Allora dovette già apparirti come la madre del Cristo deposto dalla croce. Chissà se fu questo il motivo che te la fece scegliere per quel ruolo in “Il Vangelo secondo Matteo”, lei ben sapeva cosa significhi perdere un figlio e avrebbe interpretato quella parte senza fingere. Non riesco a trovare la tomba di tuo padre e nemmeno nessuno a cui chiedere. Forse è destino che io non debba sostare anche davanti ad essa, per rispetto ai tuoi sentimenti nei suoi riguardi. Credo che la tua famiglia fosse essenzialmente tua madre.
© Giovanna Gammarota, Pier Paolo Pasolini al cimitero di Casarsa, 2008


Non smette di piovere. Adesso devo proprio andare, la frenesia della vita viva, fuori da qui, mi richiama a sé. Devo lasciare il cuore e tornare alla periferia. Rubo due foglie di alloro, per ricordo, dai due alberelli che ti sovrastano e bacio la pietra bianca su cui è inciso, semplicemente, il tuo nome: Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975).
© Giovanna Gammarota
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Pasolini è stato…, di Nino Guevara. - 15 settembre 2013

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Pasolini è stato…
Di Nino Guevara, 15 settembre 2013
 
Pasolini è stato un intellettuale scomodo, che ha rotto il recinto morale ideologico in cui il potere rinchiude ogni intellettuale vivente. 
Il massacro di Pier Paolo è un delitto politico pianificato, una imboscata di gruppo, giocato, e perfino giustificato, sulla sua omosessualità, colpevolizzata dalla morale dominante e dalla ipocrisia cattolica. 
Un grande letterato, filosofo, regista, poeta e comunista. 
Grazie di tutto compagno Pier Paolo.
© Nino Guevara
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Ancora una volta per parlare di lui, lascio parlare lui. Guido Mazzon, 15 settembre 2013

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Ancora una volta per parlare di lui, lascio parlare lui
Guido Mazzon, 15 settembre 2013

"Dio mio, ma allora cos'ha
lei all'attivo?..."
"Io? - [un balbettio, nefando
non ho preso l'optalidon, mi trema la voce
di bambino malato] -
Io? Una disperata vitalità."

( Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità, IX, clausola)

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Lo sguardo di Pier Paolo, di Giulia Moja - 16 settembre 2013

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Pier Paolo Pasolini, Autoritratto, 1965

 Lo sguardo di  Pier Paolo
di Giulia Moja, 15 settembre 2013

Sguardo che vede oltre,
che cerca.

Sguardo che scava,
ritaglia i contorni
di oggetti e sentimenti
che liberandosi nell’aria,
riacquistano dignità antica.

Sguardo inopportuno, scomodo,
d’intellettuale libero da falsi pregiudizi.

Sguardo che sorvola la vita, gli uomini
e abbraccia il mondo,
vedendo oltre i confini del presente,
i margini del futuro.

Sguardo scavato, sofferente,
di animale ferito,
corroso da una solitudine
vissuta con troppa intensità.

Sguardo che vive nell’eternità,
continuando a comunicare.
© Giulia Moja
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"Caspita, per farcelo studiare vuole dire che è stato veramente un grande scrittore!", di Alessandro Piterà. - 15 settembre 2013

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"Caspita, per farcelo studiare vuole dire che è stato veramente un
grande scrittore!"
di Alessandro Piterà, 15 settembre 2013

Premetto da subito che lo "conobbi" Pier Paolo Pasolini a scuola in seconda media, era il 1984 e, mi ricordo che, il nostro professore ci diede da studiare dei frammenti presi dai suoi "Scritti corsari", ed io rimasi subito colpito da quella dove lui affermava di sapere chi c'era dietro a numerosi fatti di cronaca nera, etc pur non avendo le prove... ("Che cos'è questo Golpe?"), cosi' da appassionato di storia del secolo scorso soprattutto del dopoguerra, come detto "rimasi folgorato" e, quello che mi colpi' di piu' fu il fatto che ripensandoci bene... vedendo la data della scrittura, mi resi conto che, a differenza di tutti gli altri fino all'ora studiati (Pascoli, Foscolo, Verga, etc) lui era vicinissimo ai nostri tempi... ed allora come detto dissi tra me e me: "Caspita, per farcelo studiare vuole dire che è stato veramente un grande scrittore!". In seguito, iniziai ad avvicinarmi sempre di piu' al suo cinema, essendo un cinefilo, per poi passare ad analisi piu' critiche non solo dei suoi film ma pure delle sue opere letterarie, anche se, non mi vergogno a dirlo, ho sempre fatto moltissima fatica a leggerlo, nel senso che, è uno se non l'unico autore che mi risulta veramente difficile da comprendere soprattutto quando disserta su opere letterarie mentre mi è piu' semplice seguirlo quando si occupa di cronaca oppure di aspetti della vita quotidiana; alla tv grazie al bellissimo film di M.T. Giordana, son passato poi, grazie anche ai numerosi speciali sulla sua morte, a documentarmi sui misteri legati al suo omicidio... continuando intanto a comperare libri soprattutto sulla sua vita e sul suo modo di pensare, avanti anni luce rispetto all'epoca, e pure qui si vede il genio a 360°, insomma... come avrete capito, da quel lontano giorno è nata in me una passione che, a differenza di altre, non è mai appagata, ma anzi... è sempre piu' ansiosa di conoscere particolari inediti e, non a caso se mi dicessero di scegliere un personaggio del passato oramai scomparso e con cui poter interloquire, non avrei dubbi che sarebbe lui... un uomo con una mente, ma non solo, straordinaria che, purtroppo c'ha lasciati troppo presto perchè "scomodo" come tanti altri magari in ambienti diversi... lotta alla criminalità in primis. 
Spesso in televisione mi riguardo gli speciali con sue interviste ed apparizioni televisive per cercare come detto di trovare qualcosa che magari non ho capito subito... e, mi rendo conto che, per quanto lo si possa studiare o meglio "analizzare", non sarà mai abbastanza come del resto testimoniano ancora gli articoli che vengon fatti su di lui... non quelli spazzatura sui suoi gusti sessuali, in quanto a me non m'importano nulla, anzi... chi si ferma solo a simili idiozie, vuole dire che non è in grado di apprezzare tutto il valore culturale, artistico, etc di questo grandissimo genio che per me è e rimarrà unico. Per finire analizzerò il film che amo di piu' e cioè "Accattone", un capolavoro di neorealismo che mi colpi' subito dal primo momento che lo vidi... ed i motivi sono tantissimi, in primis la storia di quest'uomo senza dignità che, oramai è costretto persino a rubare la catenina d'oro al figlio pur di non lavorare oppure fare lo sfruttatore per farsi mantenere, salvo poi andare a lavorare ma, per pochissimo; Un film che dipinge uno spaccato di vita "in borgata" attraverso le vicissitudini di un uomo vile (interpretato da un grandissimo Sergio Citti). La pellicola in questione mostra la periferia di Roma prossima allo sviluppo; da li a dieci anni a venire i "nuovi quartieri" della capitale spazzeranno via quei microcosmi di abitazioni posticce e baracche... quindi un film non solo di grande valore artistico, ma anche storico, di una città che non conosce ancora un termine alla sua espansione urbana; poi lo struggente e tragico finale che lui, in un certo senso, aveva quasi previsto... il tutto accompagnato da una musica sacra a cui fa da contraltare l'ambiente grezzo delle borgate... insomma, un capolavoro che non a caso è stato inserito tra i migliori cento film italiani di sempre... quelli da salvare nella "cineteca storica".
© Alessandro Piterà
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Pier Paolo Pasolini Il Ragazzo, di Vita di Arturo Serra. - 15 settembre 2013

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Pier Paolo Pasolini Il Ragazzo Di Vita
di Arturo Serra, 15 settembre 2013

Siamo sul litorale di Ostia, è l'alba del due novembre del 1975, sulla spiaggia deserta che viene accarezzata dalle prime luci del mattino giace un corpo senza vita, è il corpo devastato e sfigurato di colui che passerà alla storia per essere stato il poeta delle borgate: si tratta di Pier Paolo Pasolini .
Questa non è solo la morte di un uomo ma è anche l‘esecuzione organizzata e programmata di un'intera generazione e del suo mondo migliore il quale è rimasto incontaminato dalla violenza brutale e indiscriminata del neo-capitalismo e del consumismo, la cui principale e diretta conseguenza è rappresentata dall‘omologazione generalizzata ormai trasformata in legge morale.
Pier Paolo Pasolini con i due romanzi romani, Ragazzi Di Vita pubblicato nel 1955 e Una Vita Violenta pubblicato nel 1959, dà inizio alla sua spasmodica, ossessiva e continua ricerca di un mondo originario, di un paradiso perduto, di un origine della storia, caratterizzati dalla purezza e “dall‘innocenza dei corpi con la loro arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali “ che, come dice Pasolini nel testo intitolato Abiura Della Trilogia Della Vita contenuto nelle Lettere Luterane, “è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: ormai tale violenza sui corpi è diventata un dato macroscopico della nuova epoca umana“; per condurre questa ricerca, egli si reca dapprima a Roma ad esperire la vita e la condizione delle borgate, dove fa la scoperta di una nuova classe sociale, e cioè il sottoproletariato, vale a dire quella classe che a differenza del proletariato per garantire la propria sopravvivenza e il suo sostegno economico non si serve di un lavoro non avendo la possibilità di trovarselo poiché, nella zona in cui questa classe sociale ha sede, non vi è la presenza di alcuna attività industriale .
Infatti Pasolini individua l‘inizio del Terzo Mondo diversamente da ciò che pensa la gente comune che lo localizza in Africa e in Asia: egli, al contrario, lo pone nelle borgate romane per poi attraversare tutto il meridione; successivamente Pasolini si reca in Africa e poi in India, testimonianza di ciò è il documentario Appunti per un‘Orestiade africana che ha per contenuto il sopralluogo per un film che avrebbe dovuto vedere la luce successivamente e che doveva essere una riduzione cinematografica dell‘opera Orestiade di Eschilo. Per quanto riguarda l‘India abbiamo il documentario Appunti per un film sull'India, ma come afferma Roberto Esposito nel suo capitolo dedicato a Pasolini contenuto nel suo testo Pensiero Vivente, in Abiura della Trilogia della Vita, ricordando il cammino percorso, dichiara la propria sconfitta storica e biografica .
Tutti gli spazi di autenticità che nel corso del tempo si è sforzato di mantenere o considerare aperti, dal villaggio friulano alle borgate romane, dal mondo medioevale ai territori incontaminati dell‘Africa e dell‘India, rivelano la propria illusorietà sotto la spinta di una irresistibile omologazione.
A venire meno prima ancora di specifici luoghi della terra o dell‘anima è la possibilità stessa della differenza in un universo integralmente omologato. Ciò che Pasolini coglie è il mutamento strategico del potere neo-capitalistico, passato dalla logica dell‘esclusione a quella dell‘inclusione o, più precisamente, della loro perfetta sovrapposizione in un dispositivo di inclusione escludente“.
Con Ragazzi di Vita prima e con Una Vita Violenta poi , Pasolini dà voce al sottoproletariato, ai ragazzi malfamati delle borgate romane; Ragazzi di Vitaè un romanzo corale in cui i protagonisti sono i borgatari, le prostitute, “ i froci “, le case popolari con i loro muri scrostati, i palazzoni di nuovi appartamenti che egli chiama “grattacieli“, l‘Aniene inquinato e avvelenato a morte dagli scarichi della fabbrica di “varechina “ in cui i “pischelletti“ , inconsapevolmente e innocentemente vanno a farsi il bagno. In conclusione Ragazzi di Vita si differenzia nella letteratura neorealista del secondo dopoguerra per la sua natura di romanzo di denuncia nei confronti della violenza brutale e indiscriminata del neo-capitalismo che avanza il quale avvelena e divora l‘ambiente con gli scarichi delle sue fabbriche, con la crescente costruzione di fabbriche e “grattacieli“ che si sostituiscono alle campagne e agli orti e, infine, questa violenza si riflette in modo inquietante sui corpi dei quali, come Pasolini afferma ne I Giovani Infelici“ il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, è fastidiosamente infelice: orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti sono maschere di una qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica .
Oppure sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà“. La stessa violenza dei corpi moltiplicata e intensificata dovrà purtroppo provare, sulla propria pelle Pier Paolo Pasolini, il ragazzo di vita.
© Arturo Serra
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Teorema, di Lorenzo Trombi. - 15 settembre 2013

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Teorema
di Lorenzo Trombi, 15 settembre 2013

"Teorema", film girato da Pier Paolo Pasolini nel 1968 non è un semplice film, è l'affresco della società odierna e della crisi dei valori che stiamo vivendo. 
Pasolini ritrae minuziosamente, come fa un pittore con un suo dipinto, una comune famiglia borghese che vive nella noia, che improvvisamente riceve un ospite misterioso che scombussolerà le loro abitudini fino a portarli ad una crisi di identità senza precedenti.
Pasolini è il più grande esempio di cinema di poesia: quando un semplice film diventa un'opera d'arte, quando poesia e cinema sono un tutt'uno.
© Lorenzo Trombi
Pier Paolo Pasolini, Teorema, film completo
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Pasolini, un impossibile Paradiso?, di Daniela Tuscano - 15 settembre 2013

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Pasolini, un impossibile Paradiso?
di Daniela Tuscano, 15 settembre 2013


Quando vidi "Salò" la prima volta erano già trascorsi dieci anni dalla morte di Pier Paolo. Mi trovavo in un cinema d'essai, in platea undici persone. Alla fine della proiezione eravamo rimasti in sei. Ricordo il silenzio totale, fitto. Un silenzio che potevo toccare, e che tuttavia, in quella monotonia di vaporosi colori, seguitavo a percepire in tutta la sua materialità. Pasolini ci aveva condotti nel fondo dell'inferno mostrandoci il Male assoluto. Ce lo aveva presentato come il Lucifero dantesco: un mostro inerte e insensato. La mattanza finale dei ragazzi partigiani non aggiungeva nulla all'orrore dell'intera pellicola, scandita non casualmente in gironi. Ma la conclusione vera, anzi, la morale della vicenda non poteva venir siglata da un climax. Nessun altisonante Dies Irae per le anime che "avevano perso il ben dell'intelletto". Piuttosto una coda in minore, con un altro silenzio, stavolta però in un ambiente chiuso, quella stessa villa maledetta diventata quasi intima camera. In cui i due superstiti, né buoni né pentiti, si riappropriavano però, loro malgrado, d'uno straccio di leggerezza adolescenziale nell'inspiegato disgusto, nel riprendere dialoghi semplici, quotidiani: "Hai la ragazza?", "Sì". "Come si chiama?", "Margherita". 
Pier Paolo Pasolini, Salò, fotogramma dal film

Perché la storia umana è questa: il diavolo non ci viaggia accanto, è calato nella nostra storia. Il grande silenzio è preceduto da piccoli silenzi, omissioni, ignavie. Il nazifascismo non nasce mostruoso, s'insinua nel crinale dei secoli, nei piccoli pregiudizi, nell'accettazione d'un linguaggio sfilacciato, discriminatorio, diffidente nei confronti dell'altro. Nel momento in cui accettiamo come normale un sistema di gerarchie e chiusure, quando rifiutiamo le relazioni, il germe dell'abisso è inoculato e non tarderà a manifestarsi. 
Così, i due Dante e Virgilio in versione novecentesca sono entrambi "pien di sonno", nessuno dei due è guida all'altro ma spuntano alla fine da un immenso cumulo di macerie umane senza esser mai stati protagonisti di niente. Ambedue giovani, ma più che speranza nel futuro trasmettono inesperienza. Perché non hanno più dei. Hanno perduto, definitivamente, quel Paradiso cui Dante poteva, dopo tutto, ancora aspirare. L'hanno perduto perché alla fine del secolo scorso Dio è davvero e definitivamente morto, o meglio è morto il modo di "dire" Dio: e quindi di cercarlo e plasmarlo. I due giovani si muovono incerti e inebetiti in una plaga da ricostruire, un Antipurgatorio che però non promette alcuna meta sicura. Questo il messaggio che mi è giunto dalle ultime battute di "Salò". Il film più disperato di Pier Paolo. 
Ma davvero non esistevano altre soluzioni? Davvero era stata pronunciata la parola "fine"? Sappiamo che non era così. Che PPP stava lavorando a un nuovo progetto, o forse affresco, ancor più metafisico, e pertanto pienamente umano (tras-umano?): "Porno-Teo-Kolossal". 
Tanto "Salò" era un titolo "terreno", che anzi coinvolgeva in un preciso luogo fisico tutto il dolore del mondo, quanto il progetto incompiuto si presentava stravolto già dal linguaggio, quasi post-atomico. Il passatista Pasolini, ben più ardito nel cinema che nella produzione scritta, si accingeva a rivoluzionare definitivamente la nostra comunicazione, con un'inedita koinè di stili e favelle? "Trasumanar e organizzar": in questa rinnovata corsa oltre la civiltà defunta, verso un più duraturo, o almeno migliore, sogno di una cosa, Pasolini si era lanciato ancora a testa bassa, come una furia. In direzione ostinata e contraria malgrado i muri dell'incomprensione. Se esiste un ottimismo pasoliniano, sta proprio qui: nell'incompiuto e nello sperato piuttosto che nel già espresso. Pier Paolo non si accontentava dell'uomo ridotto a porne', a mera materialità. Quello conduceva dritto a Salò, senza ritorno. Ma il poeta non riusciva ad accettarne la scintilla divina così come declinata nei millenni precedenti. Ricercava un Paradiso privo di nome. Non più il giardino incantato: all'uomo moderno mancava ormai l'alfabeto, e dunque la chiave, per potervi accedere. Non restava allora che arrestarsi al termine della notte, immerso in essa. Ma col suo sacrificio Pasolini ci ha lasciato un grande regalo, e un'enorme responsabilità: ha passato il testimone, non ha più voluto essere padre. Già aveva titolato, profeticamente, negli anni Sessanta, la risposta a un lettore di "Vie Nuove": "La volontà di non essere padre". 
Pier Paolo ci dice, oggi: tocca a voi. Vi ho mostrato dove conduce l'uomo vecchio, la degenerazione della sua storia che, dalla voragine del nazifascismo, si è poi tramutata nel conformismo della società di massa. Il Paradiso è coraggio e adultità e dovete essere in grado di reinventarlo da soli, di e-ducarvi (venir fuori), inventando nuovi dei, trovandone in voi, trascendendo voi. È un rischio e una vertigine, ma non esistono alternative. Uscite! Non ripiegatevi sul vostro ombelico. Abbiate la forza di un nuovo "fiat". 

© Daniela Tuscano
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"Studi pasoliniani" n. 7, settembre 2013

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LE NOTIZIE
"Studi pasoliniani"
n. 7, 2013
SOMMARIO

° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° °
E' disponibile il n. 7 di STUDI PASOLINIANI
la prestigiosa rivista diretta dal prof. Guido Santato.
Qui di seguito, il sommario dei contenuti della rivista.

° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° °

Saggi

-  Guido Santato, Il futuro in Pasolini: un "non-tempo"
-  Roberto Chiesi, Un teatro di maschere tedesche.
Matrici dell'episodio moderno di   «Porcile»
-  Laureano Nuñez Garcia, La diffusione e la traduzione  della poesia
di Pasolini in Spagna
-  Mahmoud Jaran, Pasolini, Fanon e l'umanesimo transnazionale
-  Giovanna Trento,  Il «corpo popolare» secondo Pasolini 
-  Mathias Balbi, Fariseo quanto alla società. Pasolini e il sogno
del «San Paolo» (1966-1975)
-  Emanuela Patti, Pasolini, intellettuale mimetico


Rassegne

-  Bibliografia pasoliniana internazionale (2007-2013),
a cura di Roberto Chiesi, Francesca Fanci e Lapo Gresleri


Recensioni

-  G. Borgna, A. Baldoni, Una lunga incomprensione.
Pasolini fra Destra e Sinistra, Firenze,  Vallecchi 2010 (Matteo Marelli).
In danger. A Pasoliny anthology, ed. by Jack Hirschman,
San Francisco, City Lights Books, 2010 (Francesco Marco Aresu).
-  Hervé Joubert-Laurencin, «Salò ou les 120 journées de Sodome» de Pier Paolo Pasolini,
Les Editions de la Transparence, Paris 2012 (Roberto Chiesi).
 The scandal of self-contradiction. Pasolini's multistable subjectivities,
geographies, traditions, ed. by Luca Di Blasi, Manuele Gragnolati
and Christoph Holzhey, Wien-Berlin, Turia-Kant,   2012 (Paolo Rondinelli).
-  Pier Paolo Pasolini, My cinema, a cura di Graziella Chiarcossi e Roberto Chiesi,
Edizioni  Cineteca di Bologna, 2012 (Lapo Gresleri).
 Pasolini a casa Testori. Dipinti, disegni, lettere e documenti,
a cura di Giovanni Agosti e Davide Dall'Ombra,
Cinisello Balsamo, Casa Testori-Silvana Editoriale, 2012 (Roberto Chiesi).


Notizie
2012-2013
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Agata Amato, Alessandro Barbato, Fabien Gerard, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre tredicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

Misero e impotente Socrate. Sul Pasolini “corsaro” e “luterano”, di Andrea Cortellessa

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Misero e impotente Socrate.
Sul Pasolini “corsaro” e “luterano”
di Andrea Cortellessa2005
www.zibaldoni.it (archivio storico)

Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Malaparte”.
Fortini, 1968

“Si ha l’impressione che di Pasolini ce ne siano troppi, e da tutte le parti”.
Manganelli, 1979

“Di lucciole ce ne sono fin troppe!”
Sanguineti, 1995

“Aveva torto e non avevo ragione”.
Fortini, 1993

L’Italia si raccoglie, in questi giorni, a celebrare il suo Autore. A trent’anni da una morte che – vittima sacrificale di isteria collettiva, freddo complotto stragista o inopinatamente riuscito suicidio per procura – resta il suo ultimo, estremo capolavoro. (Qualcuno sarebbe pronto a sostenere che sia stata, quella morte, anche il suo unico, vero e compiuto capolavoro. È stato lo stesso Pasolini a scrivere – nel suo saggio più geniale, Osservazioni sul piano-sequenza, suoi i corsivi – che «finché siamo vivi, manchiamo di senso», per cui «La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita» e «Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci».).
Il paradosso principe, relativo a questo gran maestro del paradosso (arma retorica eccezionale ma costitutivamente a doppio taglio), è che sempre più, col passare del tempo e l’allontanarsi fisico del suo carisma, lettori avversari (il che è ovvio), neutri (che è già meno ovvio) o addirittura seguaci e cultori (che è assolutamente strano e, credo, abbastanza unico) facciano tra loro a gara a indicare i limiti delle opere, di quest’autore. Leggo per esempio, ad apertura dell’ultima e più ponderosa delle monografie pasoliniane, quella del giovane Antonio Tricomi, che stiamo parlando di un «poeta senza la grazia quasi naturalmente incline al classicismo di un Sereni; narratore incapace della grandezza espressionistica di un Volponi […]; saggista istintivo e ossessivo, e dunque privo del nitore (tuttavia spesso algido) e della precisione […] di un Calvino».
Ed ecco Alfonso Berardinelli: «in definitiva se dovessi scegliere fra i poemetti delle Ceneri di Gramsci e gli articoli di Lettere luterane e Descrizioni di descrizioni non avrei dubbi a favore di questi ultimi. I famosi e proverbiali poemetti pasoliniani degli anni Cinquanta oggi si leggono con fatica e disagio, peccano di patetismo e di retorica. Sono preoccupati di portare la poesia al livello della prosa argomentativa e del monologo teatrale. Ma il risultato è nello stesso tempo impressionante e insoddisfacente».
Ma ecco addirittura il Curatore che all’Autore ha eretto il monumento in dieci Meridiani che fa di Pasolini l’unico scrittore italiano (di tutti i tempi) che nella collana ammiraglia della nostra editoria sia rappresentato con gli Opera omnia, ma proprio omnia: cioè Walter Siti. Il quale ha scritto nell’antiporta stessa, di questo monumento, una frase estremamente vera: «Pasolini ha scritto molti brutti versi – ma ci ha dato anche, credo, almeno in Trasumanar, il ritratto vivo e intenso d’una poesia che desidera essere brutta, per impulso suicida e per lucidità di fronte ai mutamenti». Per poi definirlo, nell’altro testo liminare del monumento, «lo scrittore dell’imperfezione»: affetto da «inconcepibile pressapochismo», «fretta», «cialtroneria», «bulimia intellettuale», «disinvoltura (o a dir meglio […] sfacciata improntitudine) culturale», eccetera eccetera.
Ma lo stesso Siti ci dà la chiave di quella che insomma, tutto ciò malgrado, sarebbe la grandezza di Pasolini nel nostro secondo Novecento. Essa si manifesterebbe malgrado le sue opere: «la vera “opera” di Pasolini è l’insieme delle sue opere, dai cui interstizi figurali traspare il volto stesso dell’autore». I singoli testi sono per Siti «opere transtestuali»: tali cioè da completarsi a vicenda e che, sebbene scritte e pubblicate separatamente, «devono essere lette insieme». Parla chiaro la suddivisione (nient’affatto rigorosamente tematica) da parte di Pasolini, del tumultuante materiale dei suoi tre ultimi anni di lavoro giornalistico, fra Scritti corsari (pubblicato nel ’75, vivente l’autore), il “semipostumo” Lettere luterane (edito nel ’76 ma licenziato dall’autore) e il postumo, a tutti gli effetti, Descrizioni di descrizioni (edito nel ’79 riordinando una cartella pure lasciata dall’autore). E non è poi un caso che l’opus magnum di questa stagione, Petrolio, fosse progettato per restare in stato di semilavorato scartafaccio. (Giungendoci dunque doppiamente incompiuto, intenzionalmente e non: parte non ultima del suo fascino si deve a questa condizione – ancora una volta – unica.).
Ma anche in altro senso l’ultimo Pasolini si presenta incompiuto. Berardinelli ha sottolineato come (dopo una lunga stagione di processi reali) principale mossa retorica di Pasolini, nell’ultimo periodo, fosse quella di presentarsi come perseguitato, processato, vittima sacrificale: «Attirarsi accuse e difendersi dalle accuse, giustificarsi di fronte alla legge, mettere in discussione i fondamenti della legge positiva […] La condizione di imputato era ormai forse il movente più forte della sua opera. La sua maschera letteraria, la sua scrittura, si era fissata una volta per tutte: confessione pubblica, difesa e accusa». Naturalissima e “parlante”, dunque, la scelta delle due predilette maschere proiettive di Socrate e di Cristo.
Alla condizione di imputato fa certo pensare il tono del Pasolini giornalista degli ultimi anni, in particolare sul «Corriere della Sera»: per antonomasia organo di quella stessa borghesia così spesso eletta a idolo polemico da chi inopinatamente, il 7 gennaio 1973, prende a scrivere sulle sue colonne. Si estremizza, qui, il carattere di «intertesti» delle scritture pasoliniane: «performances linguistiche dal valore anzitutto pratico, che cioè chiedevano ai destinatari di essere tradotte in azioni tese a modificare la società» (Tricomi). L’opera si prospetta come “da farsi”, dunque, non solo per la materiale incompiutezza: ma, costitutivamente, in virtù del suo continuo appellarsi alla cooperazione del lettore. Questo lettore va provocato sino allo stremo: perché la sua reazione è parte integrante dell’opera che lo scritto di Pasolini, più che costituire, innesca. Alla reazione dei suoi lettori, a sua volta, reagisce l’autore; il quale concepisce molti degli articoli di questa stagione come repliche: tali letteralmente – rispondendo cioè a interventi che, sullo stesso Corriere o altrove, sono stati da lui, appunto, provocati – oppure in senso lato, ossia rispondendo colpo su colpo ai mille stimoli che il costume contemporaneo offre allo sguardo del commentatore, del moralista, del corsaro insomma.


Uno scandaloso rimpianto
L’ultimo (e probabilmente maggiore) libro di versi di Pasolini, La nuova gioventù, si conclude con un dittico di testi lunghi, uno in italiano e l’altro in dialetto. Versi sottili come righe di pioggia mette subito in scena l’Io perseguitato, da condannare / severamente:

Bisogna condannare
severamente chi
creda nei buoni sentimenti
e nell’innocenza.

Bisogna condannare
altrettanto severamente chi
ami il sottoproletariato
privo di coscienza di classe.

Bisogna condannare
con la massima severità
chi ascolti in sé e esprima
i sentimenti oscuri e scandalosi.

Queste parole di condanna
hanno cominciato a risuonare
nel cuore degli Anni Cinquanta
e hanno continuato fino a oggi.

Frattanto l’innocenza,
che effettivamente c’era,
ha cominciato a perdersi
in corruzioni, abiure e nevrosi. […]

Naturalmente, chi condannava
non si è accorto di tutto ciò:
egli continua a ridere dell’innocenza,
a disinteressarsi del sottoproletariato […]

è felice del progressismo […]

È felice del laicismo
per cui è più che naturale
che i poveri abbiano casa
macchina e tutto il resto.

È felice della razionalità
che gli fa praticare un antifascismo
gratificante ed eletto,
e soprattutto molto popolare.

Che tutto questo sia banale
non gli passa neanche per la testa:
infatti, che sia così o che non sia così,
a lui non viene in tasca niente.

Parla, qui, un misero e impotente Socrate
che sa pensare e non filosofare,
il quale ha tuttavia l’orgoglio
non solo d’essere intenditore

(il più esposto e negletto)
dei cambiamenti storici, ma anche
di esserne direttamente
e disperatamente interessato”.

Ed ecco Saluto e augurio, col quale il libro – e con esso la scrittura poetica del suo autore – termina:

A è quasi sigùr che chista
a è la me ultima poesia par furlan;
e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn. […]

«Ven cà, ven cà, Fedro.
Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa a un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns

su di te: jo sai ben, i lu sai,
ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlerài. […]

Difìnt i ciamps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
il vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat

tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja. […]

Difìnt, conserva, prea! La Repùblica
a è drenti, tal cuàrp da la mari […]

Tu difìnt, conserva, prea:
ma ama i puòrs: ama la so diversitàt […]

Ama il soreli di sitàt e la miseria
dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.

Drenti dal nustri mond, dis
di no essi borghèis, ma un sant
o un soldàt: un sant sensa ignoransa,
un soldàt sensa violensa.

Puarta cun mans di sant o soldàt
l’intimitàt cu ’l Re, Destra divina
ch’à è drent di nu, tal siùn. […]

Ciàpiti tu chist pèis, fantàt ch’i ti mi odiis:
puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo i ciaminarai
lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri

la vita, la zoventùt.»

(È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano: e voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani. […]

«Vieni qua, vieni qua, Fedro. Ascolta. Voglio farti un discorso che sembra un testamento. Ma ricordati, io non mi faccio illusioni

su di te: io so, io so bene che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò. […]

Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, abbandonate. Difendi il prato

tra l’ultima casa del paese e la roggia. […]

Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. […]

Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. […]

Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio.

Dentro il nostro mondo, di’ di non esser borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, un soldato senza violenza.

Porta  con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. […]

Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo sempre

la vita, la gioventù.»)

Davvero l’ultimo Pasolini si deve leggere tutto insieme. Qui, intanto, seguendo la successione fra la proiezione di sé quale misero e impotente Socrate e l’allocuzione a un Fedro. Ma soprattutto questi due testi (e più in generale la sezione esplicitaria della Nuova Gioventù, «Tetro entusiasmo») sono la chiave di tutta la scrittura “corsara” e “luterana”. Acquista infatti un senso molto diverso, dopo aver letto questi versi, rileggere uno dei più celebri – diciamo pure famigerati – “pezzi” di Scritti corsari, quello che il 9 giugno 1973 prende spunto dalla pubblicazione di Un po’ di febbre di Sandro Penna:
Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata […] La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. […] Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa – e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione – è nato uno scandaloso rimpianto: quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra”.
Pasolini sapeva bene che questo rimpianto – anche per i toni addirittura estatici, abbandonati che ostenta – non poteva che essere scandaloso. Voleva ardentemente che lo fosse. E lo fu. Tra i primi a reagire fu Edoardo Sanguineti, il 27 dicembre dello stesso anno:
Com’era verde, però, la nostra valle! Com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su come tante querce. E che bella razza che erano, per forza, con i debolucci e i denutritelli che si autoeliminavano in culla […] Certo che ha ragione il P.P.P., «che Paese meraviglioso che era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!» […] è proprio il P.P.P. che ce li ha guastati, a colpi di Decameron e di Canterbury, facendone dei «miseri erotomani nevrotici», quando stavano così bene prima, con il Mistero del Sesso represso bene, e represso «con la gioia» […] E io allora gli dico, ai sottoproletari di qui, di adesso, ma sul serio: quello che non vi hanno fatto gli Almirantini, stateci un po’ attenti, che ve lo stanno preparando i Pasolini”.
E non è un caso che, a distanza di vent’anni e più, due altri protagonisti – da Pasolini certo meno distanti di Sanguineti – ricordino proprio quest’aspetto. Differente il loro giudizio sul personaggio ma simile il moto appunto di scandalo, all’inizio, che si argomenta si complica e quasi si capovolge, poi. Nel ventennale della morte di Pasolini ha scritto Elio Pagliarani:
La rabbia che mi facevi con l’esempio dei contadini friulaniche stavano meglio prima, negli anni Trenta/Quarantal’angoscia della tua voceincrinata spezzata da un vento gelido di morte che mi pareva a effetto, e pensai«perché mi parli dell’India con toni così drammatici e agitati, quando nonc’è pubblico» – in piazza del Popolo, semideserta, quando mi raccontavi del tuo(primo?) viaggio in India, con toni drammatici e agitati
potrò perdonarti di aver detto la verità, che questo benessere è una rovinache tu avevi prevista, che l’uomo più sta bene più è egoistapotrò mai perdonarmiche quel grido quel vento altro che a effetto, altro che artificialeerano le tue stimmateera nelle tue viscereti era consubstanziale.
(Solo dopo aver trascritto epigrammi da SavonarolaLa carne è un abisso che tira in mille modi.Così intendi della libidine dello Stato /mi resi conto che dialogavo ancora con te).
E Giovanni Raboni, nel suo ultimo Barlumi di storia:
Ricordo troppe cose dell’Italia.Ricordo Pasoliniquando parlava di quant’era bellaai tempi del fascismo.Cercavo di capirlo, e qualche volta(impazzava, ricordo,il devastante ballo del miracolo)mi è sembrato persino di riuscirci.In fondo, io che ero più giovaned’una decina d’anni,avrei provato qualcosa di similetornando dopo annisui devastati luoghi del delittoper la Spagna del ’51, forseper la Russia di Brenev…Ma ricordo anche lo sgomento,l’amarezza, il disgustonella voce di Paolo Volponiappena si seppero i risultatidelle elezioni del ’94.Era molto malato,sapeva di averne ancora per pocoe di lì a poco, infatti, se n’è andato.Di Paolo sono stato molto amico,di Pasolini molto meno,ma il punto non è questo. Il puntoè che è tanto più facileimmaginare d’essere feliciall’ombra d’un potere ripugnanteche pensare di doverci morire.
In questo Raboni si sbagliava. La fascinazione di Pasolini per la Destra divina non era solo legata alla sua onnipresente nostalgia per l’Eden rurale pre-moderno. Come ci mostra La nuova gioventù, al giovane fassista sono sì quei valori che Pasolini tramanda e raccomanda (i ciamps, il prat, l’intimitàt cu ’l Re – ossia appunto quella che nell’articolo “su Penna” definisce l’intensità e l’umile volontà di vita dei sottomessi ragazzi di campagna: contrapposta all’ansia di ribellione e appropriazione dei detestati giovani del Sessantotto, piccolo-borghesi banalmente laici e antifascisti). Ma non per il passato: per il futuro. Il suo è un discors / ch’al somèa a un testamìnt, dunque l’immagine di sé del finale (jo i ciaminarai / lizèir ecc.) vale come ennesima prefigurazione della propria morte. Se così stanno le cose, nel consegnare idealmente al fassista l’Italia, l’antica e umile Italia, Pasolini pensa precisamente che in questa prospettiva ci dovrà morire. Ed è una prospettiva che accetta con lietezza: lizèir appunto. Dice Tricomi che «era inevitabile che Pasolini affidasse in eredità le sue opere a un fascista»: perché «tutti i suoi ultimi testi […] sono violenti atti di accusa contro una sinistra» che ha consegnato alla destra «la tutela, o anche solo l’esplorazione, di discorsi e valori che gli uomini continuano a sentire attuali».
Sono questi discorsi e valori, appunto, i temi scandalosi del Pasolini “corsaro” e “luterano”. Col nuovo anno 1975, che per lui sarà l’ultimo, Pasolini – forse per la prima volta da quando è adulto – smette di scrivere versi e spalanca il suo laboratorio sulla più “pubblica” delle sedi: la prima pagina del «Corriere».


Una questione privata
Su questo (in tutti i sensi) “estremo” Pasolini vigono due tabù. Il primo tace la sua continua sovrapposizione di propositi pubblici e ossessioni private. Solo di recente Marco Belpoliti ha sottolineato come «nella vulgata che è stata fatta del Pasolini corsaro, critico rispetto alla società dei consumi, rispetto alla distruzione delle lingue locali, rispetto alla mutazione antropologica, rispetto alla distruzione del paesaggio e della cultura tradizionale dell’Italia, si è quasi sempre sorvolato sul tema dell’omosessualità e sull’elemento estetico. In realtà il centro della sua argomentazione è proprio qui». Tanto per essere chiari, quando Pasolini dice che i ragazzi sono diventati brutti non usa solo una metafora.
La collaborazione al «Corriere» comincia con uno degli articoli più celebri, Contro i capelli lunghi, che inaugura anche Scritti corsari. Marco Bazzocchi ha mostrato come quella dei capelli corti sulla nuca sia una ricorrente ossessione figurativa, sin dai più antichi scritti di Pasolini: connotato erotizzante primo, per lui, della corporeità dei ragazzi. Quello infatti che, all’inizio della Seconda forma della Nuova gioventù, introduce il zòvin al quale jo i ghi regali / chistu libri: «Se duciu i zòvins / comunis’c a si tajàssin / i ciavièj, ghi colarès / la mascara ai zòvins fassis’c» (“Se tutti i giovani comunisti si tagliassero i capelli, cadrebbe la maschera ai giovani fascisti”). Anche il tema dell’indistinguibilità fra Destra e Sinistra ha insomma un movente primo privato. È, soprattutto, un’ossessione erotica.
La nuova gioventù non solo lo ammette: lo grida. Il misero e impotente Socrate, infatti, non è solo intenditore (in quanto a essi esposto e insieme da essi negletto) dei cambiamenti storici: ma ha la maledizione (e dunque l’orgoglio) di esserne direttamente / e disperatamente interessato. Ma Pasolini non manca di segnalare tale condizione – appunto con orgoglio – anche nel repertorio “corsaro”, specie alla climax di tragica urgenza rappresentata dalle Lettere luterane: «Il lettore mi perdoni se parto “giornalisticamente” da una situazione esistenziale. Mi sarebbe difficile farne a meno»; «mio radicale rovesciamento di giudizio sul sottoproletariato (cosa che implica per me una tragedia personale)»; «la mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale – che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalistici e dei politici che non vivono queste cose»; e, in forma di preterizione: «non esibirò a questo punto la mia patente di intenditore in concreto: patente ottenuta attraverso il mio modo di esistenza» – per poi però esibirla eccome, e ribadire: «Premesso tutto questo (privato e perciò concreto)».
Non è un caso che nel testo nel quale più in profondità venga svolto un discorso sull’omosessualità (la recensione al libro di Marc Daniel e André Baudry, Gli omosessuali), appaia proprio la coppia Socrate-Fedro sulla quale, s’è visto, di lì a poco si concluderà La nuova gioventù: «il libertinaggio non esclude affatto la vocazione pedagogica. Socrate era libertino: da Liside a Fedro, i suoi amori per i ragazzi son stati innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non può che amare tutti i ragazzi (ed è questa, appunto, la ragione della sua vocazione pedagogica)». È quanto più si avvicini all’esplicitazione del cortocircuito privato sotteso alla polemica pubblica di Pasolini. E non è un caso che le Lettere luterane si aprano col trattatello pedagogico per Gennariello.
Il privato di Pasolini non è neppure genericamente comunitario, seppur in forma particolaristica (quella da lui non a caso a più riprese rivendicata), relativo cioè ai diritti degli omosessuali in generale. È privato, invece, in senso stretto: strettamente personale. Quando leggiamo certi passaggi di pura stizza anti-eterosessuale («Tutte quelle sciocche coppie che se ne andavano tenendosi all’infinito strette per mano, con aria di vicendevole, romantica protezione e ispirata certezza del domani»), non siamo solo indotti – dal suo stesso ampliamento concettuale della categoria – a considerarle forme di razzismo sessuale (della specie, cioè, che lo spinge a definire razze borghesia e sottoproletariato; scagliando, contro coloro che lui stesso ha definito razzisti, una frase di struttura didascalicamente razzista: «Tutti i borghesi sono infatti razzisti, sempre, in qualsiasi luogo, a qualsiasi partito essi appartengano»). Ma, scavando un po’ nei retroscena, capiamo come siano appunto interessi privati di Pasolini a guidarlo nelle sue prese di posizione pubbliche. Quelle cioè presentate come interessanti – se non a tutti gli effetti valide – per tutti noi.
In una lettera dell’agosto 1971 Pasolini confessa a Paolo Volponi di essere «quasi pazzo di dolore»:
Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui.
Dove bisognerà notare, anzitutto, l’apparire di un modulo concettuale (il desengaño che stinge anche retrospettivamente, su un passato creduto felice, i propri colori luttuosi) destinato a tornare, appunto, negli scritti pubblici – cioè in una delle più celebri lettere luterane, quella uscita appena postuma col titolo Abiura dalla «Trilogia della vita» («oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato»).
Ma lo squarcio sul privato pasoliniano ci dice ben altro. Specie se dopo questa lettera ne leggiamo un’altra, non datata ma da attribuire allo stesso ’71, emersa solo due anni fa. Non indirizzata direttamente a Davoli, bensì alla fidanzata Patrizia:
Cara Patrizia, 
io non ti conosco se non di vista, non so bene com’è il tuo carattere, se puoi capire o non capire certe cose. Ma forse sai che la mia amicizia per Ninetto è più di un’amicizia: non è amore nel senso volgare di questa parola, il sesso non c’entra. Per Ninetto io provo solo un grande affetto, un immenso affetto, che ha sostituito addirittura quello per mia madre. Ninetto ormai costituisce la mia vita, che senza di lui mi è diventata inconcepibile. Tu sai che chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata. E così io con Ninetto: lo amo, e perciò lo vorrei tutto per me, com’è sempre stato in questi otto anni che ci conosciamo. Pensare che lui stia con un’altra persona, che dedichi a lei i suoi sentimenti e il suo tempo, mi fa soffrire in modo che non ti so descrivere: mi fa soffrire fino a desiderare di morire. Io voglio che tu sappia questo, e che tu lo sappia chiaramente. […] Tu sai che mia madre ha ottant’anni: fra un po’ sarò solo al mondo. Io muoio al pensiero che Ninetto non sia più il mio Ninetto. Ma naturalmente non posso chiedergli di lasciarti, sarebbe disumano da parte mia, e anche inutile. Come non chiedo a te di lasciare lui: io non posso farlo. Ma siccome questa è una vera tragedia, e tu ci sei coinvolta, è bene che tu sappia tutto.
Ma ecco il veleno dell’argomento (si ricordi l’altra a Volponi: Ninetto è «disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei») (corsivi miei):
Quando ci saremo lasciati, cosa farà Ninetto? Te lo sei mai chiesta? Bisogna che tu ti faccia questa domanda. Sarebbe immorale che io vi mantenessi. Io potrò sempre aiutare la famiglia di Ninetto, che non abbandonerò mai, sarebbe troppo vile da parte mia. Ma una volta che Ninetto mi abbia lasciato, e stia con te e ti sposi, non mi si potrebbe proprio chiedere di fare per lui quello che faccio ora […] Allora lui dovrebbe cominciare tutta una nuova esistenza, a cui, per colpa mia, non è più abituato; dovrebbe lavorare, e accontentarsi della semplice vita di chi fa un umile lavoro. Sarebbe capace Ninetto di questo? Io credo di no, e non perché sia un cattivo ragazzo, ma perché ormai chiunque al suo posto farebbe così. Io credo che per reazione Ninetto farebbe delle sciocchezze, e forse, perché anche lui sarebbe disperato, farebbe anche delle «sciocchezze» abbastanza gravi […] Perché se Ninetto lascerà me per te, poi non te lo perdonerà mai, e te lo rimprovererà per tutta la vita; e così se lascerà te per tornare da me, finirà col portarmi rancore per averti perduta. Non so più cosa dire, non so più cosa fare. Senza tua colpa, sei stata la mia rovina, e senza tua colpa, sarai forse la rovina di Ninetto. Speriamo che non sia così… Tuo Paolo.
Il Pasolini pubblico adotta armi retoriche tali che Berardinelli ha potuto dire, metaforicamente, che egli «ci disarma e ci ricatta». Ma nel suo privato, evidentemente, l’arma del ricatto era tutt’altro che metaforica.
In considerazione della tragedia personale che aveva appena vissuto acquistano senso assai diverso le considerazioni di Pasolini sul divorzio, in occasione del referendum del ’74: laddove si schiera a favore della legge Fortuna-Baslini (la quale se non altro concede a Ninetto di tornare sui suoi passi…) ma non rinuncia a indicare nell’abbandono popolare dei precetti cattolici un principio edonistico: e dunque «per qualcosa di peggio della religione, indubbiamente». Ma a cambiare “tono”, soprattutto, sono quelle ben più nette (e note) sull’aborto. Quello che è in assoluto il più scandaloso degli Scritti corsari, Sono contro l’aborto appunto, esce sul «Corriere della Sera» il 19 gennaio 1975.
La «lotta per la legalizzazione dell’aborto» poggia su princìpi «non reali»: Pasolini se ne dice convinto «per una serie caotica, tumultuosa e emozionante di ragioni». È una delle rare volte in cui l’autore denunci il proprio stile retorico: che accumula a pioggia – in una sorta di asindeto concettuale – una serie caotica, tumultuosa ed emozionante di argomenti tali da contraddirsi l’un l’altro nel giro di poche righe. Coloro che polemizzano con lui, anche per i limiti di spazio loro concessi, riescono magari a smontare uno di questi argomenti: ma replicando Pasolini ha buon gioco a far notare come l’antagonista perda di vista «l’Insieme» per accanirsi sul singolo anello che, nella catena argomentativa, non tiene.
E invece occorre proprio smontare Pasolini: rallentare il suo furor pindarico; focalizzare un punto, decisivo. È contro l’aborto perché esso è «una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli». E questa libertà è voluta, si capisce, «dal potere dei consumi» ossìa «dal nuovo fascismo». L’aborto è l’arma definitiva che renderà il «piccolo patto criminale» della coppia eterosessuale una «condizione parossistica». Non si fatica a vedere a questo punto, dietro la proiezione simbolica della coppia o coppietta (come sprezzante la ribattezza), una specifica coppia eterosessuale: quella a lui particolarmente sgradita.
Furono in pochi all’epoca, fra coloro che da sinistra gli replicarono sul «Corriere» e altrove, ad avere il coraggio di chiamare in causa la dimensione omosessuale – diciamo pure l’ideologia omosessuale – a proposito dello scritto di Pasolini. Autocensura probabilmente dovuta alla furente insultistica fascista o fascistoide che accompagnava, almeno dai primi anni Sessanta, ogni uscita pubblica di Pasolini: e che non mancava mai di fare becere allusioni, appunto, alla sua condotta sessuale. Non si poteva considerare propriamente di sinistra Goffredo Parise, che non amava affatto Pasolini pur condividendone molti presupposti; per la medesima testata scrisse un articolo intitolato Aborto e omosessualità ma probabilmente scelse di non inviarlo al giornale (in ogni caso non venne mai pubblicato). Annota Parise che sino all’intervento di Pasolini l’omosessualità «è stata lasciata in disparte nel suo peso […] politico», mentre essa si configura ormai come «terza forza sessuale, per così dire terza forza biologica». Proprio in nome della biologia conclude Parise, schierandosi a sua volta contro la legalizzazione dell’aborto: «non per le motivazioni di Pasolini, né per quelle della Chiesa cattolica […], quanto per un viscerale e ogni giorno commosso abbandono alla forza delle cose, alla forza della vita».
Non poteva essere però Parise, irrazionalista in servizio permanente effettivo, a fungere da effettivo disinnescante del razionalismo perverso – indistricabile commistione di andamento raziocinante, persino sillogistico, e salti analogico-paradossali – che è il marchio di fabbrica del Pasolini intellettuale. Poteva riuscirci invece un altro razionalista perverso – che la razionalità classica perverte, però, in direzione opposta a quella perseguìta da Pasolini: Giorgio Manganelli. Il quale infatti interviene dopo appena tre giorni, il 22 gennaio, sempre sul «Corriere», con un articolo intitolato Risposta a Pasolini:
Da qualche tempo mi accade di leggere le prose teoretiche di Pier Paolo Pasolini con una sorta di devozionale raccapriccio; non oserò dire che scrive male, tenuto conto anche della media nazionale, ma che scrive, all’incirca, come un sociologo che, dopo passionali e discontinui studi giuridici, abbia scoperto e incautamente amato una letteratura, degli autori non indiscriminatamente consigliabili, tanto per fare un esempio, Giovanni Papini, Luigi Russo e l’ultimo Pier Paolo Pasolini. Mi rendo conto di esser caduto in un errore di logica, ma di un genere così squisitamente pasoliniano, da non trovar cuore per emendarlo. […] Il problema dell’aborto, ovviamente, pone in primo luogo il tema della mamma; Pasolini afferma di vivere «nei sogni e nel comportamento quotidiano» la sua vita prenatale, quella che egli chiama «la mia felice immersione nelle acque materne». Sarà, ma la mia memoria amniotica è piuttosto corta; che allora fossi felice, chissà mai, senza nemmeno un libro da leggere; in ogni caso, molti, ed io di questi, se invece di essere partoriti fossero stati abortiti, non se ne sarebbero avuti a male.
Sono, questi, i consueti sali del Manganelli corsivista, sulfureo e sarcastico. A sua volta maestro riconosciuto nell’uso del paradosso, ha buon gioco a districarsi in quelli che chiama slalom (o, in clausola, dribbling) argomentativi di Pasolini; comprende sùbito il problema tecnico – retorico – di fermare la vorticosa macchina argomentativa di Pasolini: onde poterla contraddire punto per punto («Il lettore ha l’impressione di tentare l’autostop durante gli ultimi tre giri sulla pista di Indianapolis: estremamente frustrante»).
Come ha notato Berardinelli (che da parte sua di quest’arte è l’unico erede credibile), supremo artificio retorico di questo Pasolini è quello di mostrare come truismi – argomenti autoevidenti – quelli che al contrario sono, appunto, dei paradossi. La «semplicità contundente dell’argomentazione» fa sparire «ogni gioco di sfumature, di attenuazioni, di correzioni, incisi, luci e ombre»: talché, «in questi nuovi poemetti civili o incivili in prosa, tutto è disperatamente e rigoristicamente in piena luce». Ma questo descritto è, in realtà, mero effetto ottico, trompe-l’oeil retorico: s’è visto quanta parte del pasoliniano complesso di volizioni e intenzioni resti immerso, tutt’al contrario, nella più fonda oscurità. Manganelli capisce allora che a sua volta deve dismettere sofismi e sottigliezze e, come dice – con espressione davvero non sua –, stare sul terra terra. Cioè ricondurre il discorso, appunto, a una semplicità contundente (che oltretutto non manca neppure di far ricorso alla patente d’intenditore in concreto, cioè all’esempio personale):
Ora qualcuno potrebbe mettersi in testa che costringere una donna, che già deve varcare la soglia infera del trauma dell’aborto, a comportarsi come un animale braccato, a rischiare la vita, e infine ad essere dichiarata “delinquente” a nome del popolo italiano sia un comportamento abbastanza repressivo. Macché: come saviamente argomenta il Pasolini, la “maggioranza” vuole l’aborto, perché la coppia eterosessuale ha scoperto il coito consumistico, lo vive come dovere sociale della propria figura di consumatore. È del tutto evidente che Pasolini considera l’aborto come una attività psicologicamente distensiva, una faccenda da carosello. Essendo stati esentati dall’arbitrio della natura da codeste scelte, una tal quale prudenza non sarebbe di troppo. Diciamo, di indiretta scienza, che l’aborto non ha mai fatto ridere nessuno; alcuni anni fa, mi accadde di assistere ad un suicidio nell’Aniene di una domestica: incinta; quando ero insegnante, una mia allieva si gettò da un quarto piano: incinta; chissà quale illusione le aveva persuase di essere oggetto di una “brutale repressione”; forse una cultura che tratta da “puttana” la ragazza madre, che le porta via i figli per infilarli in quelle case di riposo per angeli che sono i nostri brefotrofi, che garantisce una vita di disprezzo, di frustrazione, di irrisione, non ha tutte le carte in regola per discutere della sacra vita.
Il giorno stesso nel quale esce questo pezzo di Manganelli, gli scrive Calvino:
Caro Giorgio, sento proprio il bisogno di scriverti per dirti quanto sono stato contento a leggere la tua risposta a PPP sul «Corriere» di oggi. Sei stato proprio bravo, hai trovato il tono giusto, e hai detto le cose più serie con una levità di mano miracolosa. Ecco qualcosa che non sarei mai riuscito a fare, quando ho letto quell’articolo domenica m’ero tanto arrabbiato che sentivo che non avrei mai potuto polemizzare senza scendere su un livello che avrebbe fatto il suo gioco, e mi sono detto: no, con Pasolini l’unica è fare come se non esistesse. Invece tu sei riuscito a dire quello che c’era da dire cominciando con l’humour e poi in un crescendo e pur sempre con la grinta necessaria.
È un fatto che Pasolini, a Manganelli, evita di rispondere.


La mia paradossalità non è che formale
Secondo e maggiore tabù, riguardo a questo Pasolini, è il prenderlo alla lettera. Chi lo fa, tra i suoi interlocutori, viene da lui stesso brutalmente ridicolizzato. Una volta Luigi Firpo, per esempio, è messo alla berlina per non aver colto una sua «evidente ironia». Inoltre, nei casi di maggior tensione retorica, Pasolini bada a presentare le proprie provocazioni – all’atto stesso di pronunciarle – come «umoristiche». Nella celebre lettera luterana Il Processo (24 agosto 1975) avverte: «l’immagine di Andreotti o Fanfani […] ammanettati tra i carabinieri, sia un’immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora. Al fine di rendere il mio discorso comico oltre che sublime (come ogni monologo!), e soprattutto didascalicamente molto più chiaro». Eppure sfido qualsiasi lettore di questa o delle altre Lettere a ricordarle per la loro comicità. (Specie ove si insista, com’è oggi persino topico, a leggere questo Pasolini in chiave “profetica”: col senno di poi, insomma, della detenzione e “processo” brigatisti ad Aldo Moro – o della stagione di Mani Pulite).
Se resiste una vulgata critica positiva, rispetto a un’opera pasoliniana, è proprio quella della radicale eteronomia, del valore pratico insomma, della sua produzione “corsara” e “luterana”. Chi ha formulato meglio detta vulgata è, al solito, Berardinelli: «lo stile, la forma sono un indice puntato verso qualcosa. Qui la letteratura è ben lontana dall’essere “uso autoreferenziale” del linguaggio: non è infatti indifferente al conflitto tra vero e falso, fra giusto e ingiusto, fra innocente e colpevole». Eppure Berardinelli, e con lui tanti altri lettori ammirati di questo repertorio, fanno esattamente il contrario di quanto da quest’assunto dovrebbe logicamente discendere (mutuando insieme allo stile, forse, anche un tipico modo di ragionare di Pasolini…): si limitano a ripetere – giustamente – che la polemica di Pasolini è servita a problematizzare dati concettuali che, nella modernità, apparivano automatizzati e ormai schematici (come appunto ciò che è davvero Sinistra e ciò che è davvero Destra: questione quanto mai attuale, in questi anni e settimane) ma evitano di fare il passo successivo: di affrontare, cioè, il problema di cosa – nel quantitativamente strepitoso ideario pasoliniano – sia vero e cosa falso, cosa giusto e cosa ingiusto. Se non, addirittura, cosa innocente e cosa colpevole.
Un tentativo isolato e coraggioso, in questa direzione, è un recente libro dell’economista Giulio Sapelli, che individua la chiave concettuale di Pasolini nella distinzione, anti-illuministica, fra Sviluppo e progresso (è il titolo di uno degli Scritti corsari, pubblicato direttamente nel volume del ’75 come sua chiave d’accesso; è qui che Pasolini ammette la propria distanza dal marxismo-leninismo classico: una delle sue parole d’ordine destinate a maggiore e più stucchevole fortuna postuma, quella del genocidio delle culture subalterne, deriva per esempio da un’intenzionale mislettura del Manifesto del Partito Comunista: nel quale Marx esprime un giudizio positivo sul fenomeno…). Sapelli ha un merito fondamentale: quello di entrare nel merito di ciascuna sua tesi senza peritarsi di distinguere fra vero e falso, fra giusto e sbagliato. E focalizza in particolare un’intuizione economica, non meno che geniale, di Pasolini: il quale è a suo giudizio il primo che abbia capito che «l’industrializzazione italiana è un processo che si compie attraverso l’espansione del consumo di beni privati piuttosto che di beni pubblici». L’industrializzazione non ha portato con sé «la creazione di infrastrutture, come scuole, ospedali, ferrovie», ma ha incoraggiato un affluire straripante di «beni di consumo immediati».
Il tormentone polemico dei blue jeans Jesus, che tappezzano le città italiane con lo slogan chi mi ama mi segua, è un esempio perfetto di questa sostituzione di un bene di consumo a un “valore” come quello incarnato, appunto, da “Gesù”. Ed è quanto mai significativo che la chiave della polemica pasoliniana sia – in una sorta di simmetria speculare rispetto ai suoi stessi nodi irrisolti – proprio la contestazione di un’indebita confusione tra pubblico e privato. Come spesso accade ai grandi moralisti l’innegabile acutezza clinica di Pasolini nell’indicare i mali della comunità deriva dal suo conoscere, quegli stessi mali, in modo personale: privato e perciò concreto.
Ma, al contrario di quanto faccia Sapelli, nella critica pasoliniana è divenuta pressoché normativa (come a sua volta autoevidente) un’indicazione di Berardinelli: «Le argomentazioni di Pasolini chiedono assenso o dissenso. I suoi ragionamenti si svolgono a partire da un dato passionale […] e quindi non possono essere razionalmente confutati». Indicazione che è, invece, perfettamente paradossale: come paradossale è questo quindi. Se Pasolini ci chiede assenso o dissenso – se questa è addirittura la sostanza stessa delle sue scritture estreme – non si vede perché egli non possa essere confutato. Ognuno, ovviamente, col proprio modo di pensare: passionale o razionale che sia.
Rispettarlo, al contrario, esige precisamente che, di volta in volta, si contrastino (o assecondino) le sue intenzioni. È lo stesso Pasolini a pretenderlo. Nelle repliche a interlocutori come Calvino o Moravia è evidente la sua soddisfazione per essere stato preso sul serio («Moravia mi onora delle sue illazioni») o la più urgente pretesa di esserlo (a Calvino: «tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia»). Non c’è, in questi scritti, nulla di ludico o giocoso (neppure di menippeo-grottesco come invece – traducendo in forma romanzesca o antiromanzesca questi stessi materiali – in Petrolio): Pasolini fa sul serio, tragicamente sul serio; e lo sa.
Siamo con ciò arrivati quasi al capolinea. All’ultima, e in certa misura quintessenziale, polemica pasoliniana: quella sul delitto del Circeo. È in quest’occasione che il meccanismo retorico del paradosso si autodenuncia: già col titolo, Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia. Le due modeste proposte – «1) Abolire immediatamente la scuola media d’obbligo, 2) Abolire immediatamente la televisione» – vengono presentate come paradossali all’atto stesso di enunciarle («Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere»); ma in effetti il riferimento diretto al contenuto della Modest Proposal del 1729, che in tono freddo e asettico, per risolvere il problema della sovrappopolazione e della fame in Irlanda, proponeva – come si ricorderà – di mangiare i bambini delle famiglie povere («Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione»), è l’unico passaggio che, nello scritto pasoliniano, possa destare un qualche accenno di sorriso.
La polemica sulla scuola dell’obbligo non era certo, all’altezza di quel 18 ottobre 1975, una novità. Nell’Abiura dalla «Trilogia della vita» si legge infatti che «la televisione, e forse ancora peggio la scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie»; mentre nella replica a Firpo del 9 settembre aveva asserito, reciso, che «solo un laicismo e un progressismo a buon mercato possono indurre a pensare che la scuola media d’obbligo così com’è hic et nunc in Italia non sia un crimine».
Due modeste proposte insomma, nelle intenzioni di Pasolini, non è in alcun modo (come lo definisce Sapelli) «uno scritto quasi dadaista». Non è vero che «le sue proposte non vanno intese come indicazioni politiche concrete». Non è solo «il segnale di una disperata riflessione». Non è una provocazione sofistica, non è una “contro-verità”, non è uno choc demistificante e liberatorio. Non è insomma, in alcun modo, un paradosso. È una dichiarazione d’intenti politica: una proposta fattiva, effettiva, concreta. All’assoluta serietà di chi fa questa proposta non osta in alcun modo che egli stesso sia perfettamente consapevole, com’è ovvio, della sua irrealizzabilità. Tutto il sistema, non solo retorico ma immaginativo e morale, di questo Pasolini – il suo Insieme– si regge sulla pretesa, da parte sua, di affermare delle verità che non solo si aspetta, ma in qualche modo esige non verranno accettate come tali. È emblematico del suo modo di intendere «questi miei maledetti articoli» la successiva risposta a Moravia (Le mie proposte su scuola e tv, 29 ottobre). Il quale quattro giorni dopo le Modeste proposte, il 22 ottobre sullo stesso «Corriere», aveva risposto E se abolissimo davvero la scuola media?: aveva cioè preso assolutamente sul serio Pasolini (nella fattispecie sostenendo che si dovrebbero conservare la scuola elementare e l’università, mentre la scuola media potrebbe essere sostituita con «un rapporto più diretto con la realtà della vita e del lavoro»; quanto alla televisione, si dovrebbe sopprimere la parte dedicata «allo svago e al passatempo» per farne un’istituzione «esclusivamente educatrice e divulgatrice»). Con malcelato divertimento per lo scomposto entusiasmo dell’amico (il mito dell’infallibile intelligenza moraviana è persino più duro a morire di quello dell’infallibile veridicità pasoliniana), Pasolini precisa:
Intanto va detto che le mie «due modeste proposte» di abolizione intendevano chiaramente riferirsi a una abolizione provvisoria. Dicevo, per la precisione: «in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo – ed è questo il nodo della questione». In altre parole chiamavo in causa il Pci, le migliori forze di sinistra ecc., il cui interesse per una radicale riforma della scuola e della televisione non dovrebbe essere messo in dubbio: se è essenziale alla trasformazione dello «sviluppo». In attesa di una tale radicale riforma, sarebbe meglio abolire (lo so che è utopistico, ma ne sono lo stesso fermamente convinto) sia la scuola d’obbligo che la televisione: perché ogni giorno che passa è fatale sia per gli scolari che per i telespettatori… […] Infatti la mia proposta di «abolizione» – ancora una volta – non è che la metafora di una radicale riforma
Metafora? È una semplice metafora anche quella del 18 luglio precedente? Quando, a proposito di quello che di lì a poco battezzerà icasticamente Il Processo, Pasolini sostiene che essendo «l’Italia di oggi […] distrutta esattamente come l’Italia del 1945 […] come quelli del 1945 gli uomini di potere italiani […] sarebbero degni di un nuovo Piazzale Loreto»? È un discorso comico quello su Andreotti o Fanfani ammanettati? E allora perché si paragona il loro caso a quelli di Nixon negli USA e Papadopulos in Grecia, ribadendo che «una vera democrazia debba giungere alle estreme conseguenze sia pur formali, cioè al processo»? È un Processo metaforico o concreto, quello di cui si sta parlando?
È questo l’ultimo, il più potente strumento retorico del “corsaro”. L’asindeto concettuale è multanime, autocontraddittorio per una ragione precisa. Perché deve mettere assieme pezzi di ragionamento svolti in chiave paradossale con pezzi di ragionamento svolti in chiave seria. Quello di Pasolini è un paradosso, sì, ma – per così dire – di secondo grado. Un meta-paradosso: perché fonde inscindibilmente il ragionamento paradossale e il suo contrario speculare. Per questo è così difficile, e anzi in certo modo impossibile, contraddirlo: perché – a meno che non gli si ritorca contro un discorso uguale e contrario, sostanziato della stessa ancipite natura, come solo Manganelli è riuscito a fare – si andrà sempre a sbattere contro quella parte del ragionamento che segue una logica inversa alla parte che si contraddice. Se si analizza con rigore Due modeste proposte non si può che concludere che, se la forma retorica adottata è quella perfettamente paradossale à la Swift, la sostanza non lo è assolutamente. Non è affatto corrispondente all’antitesi della lettera, la sua intenzione: che è per l’appunto avversa alla scuola dell’obbligo e alla televisione (sia pure in misura meno radicale di quanto dica la lettera: è procedimento, dunque, piuttosto iperbolico che paradossale). E almeno una volta l’ha ammesso, Pasolini, con singolare limpidezza. In Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio: «la mia paradossalità non è che formale».


Con te e contro di te
«A dieci anni dalla sua morte, Pasolini è diventato un passaggio obbligato dell’immaginazione culturale italiana. Da alcuni viene considerato lo scrittore più importante, in Italia, degli ultimi tre o quattro decenni […] Nel linguaggio giornalistico le metafore con cui Pasolini sosteneva la sua requisitoria contro la classe politica e contro lo sviluppo sono diventate proverbiali: il Palazzo del Potere, la Scomparsa delle Lucciole, il Processo alla Democrazia cristiana. Metafore svuotate dall’abuso che, insieme all’omaggio e al riconoscimento postumo, hanno permesso anche un rapido esorcismo. Così l’incubo (quel vero e proprio incubo che era il Pasolini polemista) si è trasformato in un mito facilmente consumabile. E nell’oggetto di un culto ipocrita, doveroso, retorico. In realtà, basta rileggere qualcuno dei suoi ultimi articoli per capire che Pasolini non meritava di essere avvolto dopo la sua morte nell’ufficialità contrita che circonda il suo nome».
Eravamo negli anni Ottanta quando Alfonso Berardinelli scriveva queste parole. Tutte da condividere. Dopo di allora, periodicamente, l’infinita e infinitamente variegata schiera dei suoi orfani non ha mai mancato di “riscoprire”, “rivalutare”, “riaffermare” chi mai, a partire dal giorno seguente la sua orribile morte, è uscito dal centro esatto del nostro dibattito culturale, politico e letterario. Nonché dal centro del mediatico cicaleccio celebrativo-nostalgico-scandalistico. Quello che, un decennale dopo, anche un pasolinofilo fervente come Enzo Golino non ha potuto non definire «Premiato Pasolinificio s.p.a.». E che ora Franco Cordelli ha potuto definire «una marca, un logo»: proprio come i jeans Jesus.
Una voce decisamente fuori del coro del Pasolinificio s’è ascoltata un quinquennio dopo lo scritto di Golino (gli anniversari del 2 novembre 1975 hanno accelerato, col passar del tempo, la loro decorrenza; è alle viste, ormai, la celebrazione annuale): quella di un giovane poeta e critico italiano che lavora negli Stati Uniti, Alessandro Carrera. È uno sfogo da saturazione, il suo, non privo di accenti “pasolinianamente” estremi. Avendo assistito all’ennesima liturgia, il 2 novembre 2000 all’Istituto Italiano di Cultura di New York, Carrera si dice sbalordito dal «tentativo», da parte di Enzo Siciliano e dell’avvocato Guido Calvi, «di far quadrare l’eredità di Pasolini con un’Italia che oggi lo onora, ma nella quale non sappiamo se Pasolini si sarebbe riconosciuto». Si dovrebbe in effetti chiedere a Siciliano, già Presidente della RAI, se condivida le sue idee sulla televisione pubblica. O ai tanti scrittori che Pasolini venerano e hanno eletto a modello, e che spesso insistono a raccontarci storie sulla scuola dell’obbligo, se come lui pensino che essa vada abolita (sia pur “provvisoriamente”).
Cita Carrera, per fare solo un esempio dell’attuale assoluta e frontale irricevibilità del pensiero pasoliniano, uno scritto dell’11 luglio 1974 compreso in Scritti corsari:
Ciò che più impressiona camminando per una città dell’Unione Sovietica è l’uniformità della folla: non si nota mai alcuna differenza sostanziale tra i passanti, nel modo di vestire, nel modo di camminare, nel modo di essere seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma, nel modo di comportarsi. Il «sistema di segni» del linguaggio fisico-mimico, in una città russa, non ha varianti: esso è perfettamente identico in tutti. Qual è dunque la proposizione prima di questo linguaggio fisico-mimico? È la seguente: «Qui non c’è differenza di classe». Ed è una cosa meravigliosa. Malgrado tutti gli errori e le involuzioni, malgrado i delitti politici e i genocidi di Stalin (di cui è complice l’intero universo contadino russo), il fatto che il popolo abbia vinto nel ’17, una volta per sempre, la lotta di classe e abbia raggiunto l’uguaglianza dei cittadini, è qualcosa che dà un profondo, esaltante sentimento di allegria e di fiducia negli uomini. Il popolo si è infatti conquistato la libertà suprema: nessuno gliel’ha regalata. Se l’è conquistata. Oggi anche nelle città dell’Occidente – ma io voglio parlare soprattutto dell’Italia – camminando per le strade si è colpiti dall’uniformità della folla […] Ma mentre in Russia ciò è un fenomeno così positivo da riuscire esaltante, in Occidente esso è invece un fenomeno negativo da gettare in uno stato d’animo che rasenta il definitivo disgusto e la disperazione. La proposizione prima di tale linguaggio fisico-mimico è infatti la seguente: «Il Potere ha deciso che noi siamo tutti uguali».
«Si stenta a crederlo», commenta Carrera, «ma Pasolini sta proprio parlando della Russia di Breznev, del regime più asfissiante e “omologante” che mai mente di tiranno abbia potuto concepire» (e sì che, dopo il suo articolo e persino citandolo, un critico amico dello stesso Carrera ha avuto il coraggio, in un suo libro, di provare ad annettere Pasolini al liberalismo “terzista” più à la page, assimilandolo ad autori come Chiaromonte, Silone e Orwell). E conclude, Carrera: «Pasolini […] ipnotizza, incanta, fa credere che si possa ricavare qualche punto fermo dai suoi frenetici sermoni su comunismo e religione, su fascismo e democrazia, su progresso e regresso, sulla povertà e sulla ricchezza». Mentre «non abbiamo bisogno di essere d’accordo con qualunque cosa abbia farneticato (e ha farneticato molto) per ammirare la sua grandezza».
Forse è vero che la grandezza di Pasolini scrittore vada cercata proprio – oltre che nelle splendide poesie in friulano, in molti saggi folgoranti di Empirismo eretico e in ampie tormentose parti di Petrolio– nei suoi ultimi scritti giornalistici. A patto di leggerli come nuovi e straordinari poemetti in prosa: formalmente antitetici alla nobile tradizione del genere, ma non meno di essa impossibili da usare praticamente. Punteggiati da esplosive verità diagnostiche, è vero, sui mali che ci affliggono. Ma intessuti, pure, di un’incredibile mole di irricevibili assurdità: proposte con assoluta convinzione, invece, come cure – di quei mali – valide per tutti.
A vent’anni, in una lettera all’amico Luciano Serra, scriveva Pasolini che i poeti sono «gli unici grandi educatori dell’umanità»: e a questo ha continuato a credere, forse, per il resto della sua esistenza. Per parte mia non da oggi so bene che – pur ammirandoli, amandoli magari alla follia – non è davvero il caso di farsi educare, nonché da Pasolini, da poeti da lui a sua volta molto amati (e di lui infinitamente più grandi) come Dino Campana o Ezra Pound.

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NOTA
Gli scritti di Pasolini vengono citati direttamente nel testo dall’edizione in dieci volumi diretta da Walter Siti per i Meridiani Mondadori: RR 1 e 2 = Romanzi e racconti, due tomi a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, 1998; SPS = Scritti sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, saggio introduttivo di Piergiorgio Bellocchio, 1999; P 1 e 2 = Tutte le poesie, due tomi a cura di Walter Siti, saggio introduttivo di Fernando Bandini, 2003. Gli altri volumi dell’edizione sono Saggi sulla letteratura e sull’arte, due tomi a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, saggio introduttivo di Cesare Segre, 1999; Per il cinema, due tomi a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, scritti introduttivi di Bernardo Bertolucci, Vincenzo Cerami e Mario Martone, 2001, e Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, interviste a Luca Ronconi e Stanislas Nordey, 2001. Empirismo eretico (che comprende fra l’altro Osservazioni sul piano sequenza, del ’67) venne originariamente edito nel 1972 da Garzanti; La nuova gioventù uscì da Einaudi nel 1975; pure del ’75 è la prima edizione, da Garzanti, di Scritti corsari; del ’76 e del ’79, entrambe da Einaudi, quelle di Lettere luterane e Descrizioni di descrizioni (quest’ultimo poi ristampato da Garzanti). La lettera del ’42 a Luciano Serra è nell’edizione a cura di Nico Naldini delle Lettere 1940-1954, Torino, Einaudi, 1986, p. 128 (su di essa ha richiamato l’attenzione Piergiorgio Bellocchio introducendo a SPS: pp. XV-XVI); quella del’71 a Paolo Volponi è contenuta in Lettere 1955-1975, Torino, Einaudi, 1988, p. 707; quella s.d. alla fidanzata di Ninetto Davoli è stata pubblicata nelle Note e notizie sui testi relative alla raccolta inedita L’hobby del sonetto (1971-73): in P 2, pp. 1743-45.
Sono altresì citati Antonio Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Roma, Carocci, 2005; Alfonso Berardinelli, Pasolini e la classe dirigente italiana, introduzione a Lettere luterane, Torino, Einaudi 2003, pp. V-XIII; Walter Siti, Tracce scritte di un’opera vivente, in RR 1, pp. IX-XCII; Id., L’opera rimasta sola, in P 2, pp. 1897-946; Alfonso Berardinelli, Pasolini, stile e verità, in Id., Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 149-69; Edoardo Sanguineti, La bisaccia del mendicante [1973], in Id. Giornalino 1973-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp. 51-4 (ma si veda pure l’intervista rilasciata a Paolo Di Stefano, Radicalismo e patologia, nella sezione dedicata a Pasolini di «MicroMega», 4, 1995, pp. 213-220); la poesia di Elio Pagliarani è uscita su «l’Espresso» il 22 ottobre 1995 (ed è compresa nel suo volume Tutte le poesie 1946-2005, di prossima pubblicazione presso Garzanti); quella di Giovanni Raboni in Id., Barlumi di storia, Milano, Mondadori, 2002; Marco Belpoliti, Pasolini corsaro e luterano, in «Nuovi argomenti», 21, gennaio-marzo 2003, pp. 140-61; Marco A. Bazzocchi, Capelli, in Id., Pier Paolo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 67-8 (si veda poi, dello stesso autore, Parlano i capelli, in Id., Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, ivi 2005, pp. 1-33); Aborto e omosessualità di Goffredo Parise lo leggo citato in Marco Belpoliti , Settanta, Torino, Einaudi, 2001, pp. 80 sgg. (sulla sua ideologia biopoliticheggiante cfr. Domenico Scarpa, «In the blood, in the mood»: Parise tra Darwin e Montale, in Les illuminations d’un écrivain. Influences et recréations dans l’oeuvre de Goffredo Parise, a cura di Paolo Grossi, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2000); la Risposta a Pasolini di Giorgio Manganelli si potrà leggere integralmente, fra breve, nel numero monografico (il 25) che dedicherà a Manganelli la rivista «Riga» diretta da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli ; la lettera di Italo Calvino a Manganelli del 22 gennaio 1975 è in Id., Lettere 1940- 1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 1262; il libro di Giulio Sapelli (in realtà appunti da un suo corso universitario), Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, è appena uscito: Milano, Bruno Mondadori , 2005; il saggio di Enzo Golino, Tra lucciole e Palazzo. Pasolini e Moro, è uscito su «MicroMega», 3, 1994 (ma cito dalla versione ampliata, dal titolo Al di là della poesia, in Id., Tra lucciole e Palazzo. Il mito Pasolini dentro la realtà, Palermo, Sellerio, 1995, pp. 15-72); esplicitamente o meno, sono infine citati Franco Cordelli, Un fantasma sfuggente ridotto ad una merce, «Corriere della Sera-Roma», 16 settembre 2005; Alessandro Carrera, Pro e contro Pasolini. Per farla finita con l’«umile Italia», in «Poesia», 145, dicembre 2000, pp. 73-6; Filippo La Porta, Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Firenze, Le Lettere, 2002.
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"Cuore di borgata", di Gigi Riva - Foto di Alfredo Covino per “L’Espresso”, 19 settembre 2013

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Roma, il Tevere a Ponte Sisto

Cuore di borgata 
di Gigi Riva, "L'Espresso", 19 settembre 2013

Nel Tevere non si tuffa nessuno. Le dune della spiaggia del Riccetto non ci sono più. Sul litorale governano i clan. Ma la Roma di Pasolini sopravvive nei ricordi

Un bagnino spiana la sabbia mentre il sole si tuffa nel mare di Ostia tra la malinconia dello stabilimento vuoto e la pro­messa dell'indomani quando torneranno le mamme coi bambini, i ragaz­zi faranno gare di nuoto e virilità, riapriran­no gli ombrelloni e le casse dei bar per quell'allegra confusione dei giorni d'estate. Accanto, nella spiaggia libera e gratuita, una moltitudine ancora si accalca. E sono le donne velate coi pantaloni leggeri sotto il ginocchio vigilate da mariti-custodi dell'or­todossia dell'Islam. Magrebini. Anche gen­ti che vengono da più lontano, coi tratti somatici del subcontinente indiano. Ben­galesi, pakistani, instancabili venditori di cianfrusaglie. Le più disinibite signore dell'Est con le tette che puntano l'orizzon­te. Naturalmente i romani che si distinguo­no in quella mescolanza per la padronanza coi luoghi. Si muovono con la sicurezza di chi sembra aver scritto in fronte "comun­que questo è nostro".
Pier Paolo Pasolini l'aveva profetizzato, «Ostia come Bombay», quando la globa­lizzazione era di là da venire ma aveva già preso forma nella testa dell'intellettuale che sapeva trapassare il tempo. E aveva trasfor­mato quel lido in un sogno esotico, un'idea di Africa casereccia per i borgatari d'acqua dolce. Il "Riccetto" di "Ragazzi di vita" (1955) parte la domenica da via di Donna Olimpia, a Monteverde, per il suo viaggio fantastico, il suo posto al sole conquistato al prezzo di piccoli furti che gli servono per pagare il trenino verso il mare, un pranzo al sacco e i servigi della prostituta Nadia, che lo svezzerà, ancora prima dell'adolescenza, in un casotto dietro le dune là al "Marechiaro". Contribuirà a fargli perdere l'innocen­za svuotandogli il borsellino mentre il Ric­cetto è impegnato nel suo primo veloce amplesso e ha abbassato il senso vigile che lo qualifica furbino. 
Ladruncoli per sussi­stenza entrambi, in quell'Italia degli anni Cinquanta con un piede nello stentato do­poguerra e uno non ancora affondato nel boom che si annuncia. Piccole canaglie simpatiche da neorealismo, assai diverse da quelle che oggi, sessant'anni dopo, nella stessa Ostia, fanno saltare con l’esplosivo gli stabilimenti, in una guerra per bande e per il controllo del territorio tutta nostrana (pare, a sentire gli inquirenti). Col risultato che il lido di Roma ha quasi spento le luci e sono un ricordo nostalgico gli anni Ot­tanta con le discoteche aperte fino all'alba perché non solo a Milano c'era qualcosa da bere. Arresti nei clan dei nomadi italia­ni, inchieste, affari e politica: il nostro peggio. Non ci crede nemmeno chi lo dice che la colpa è degli immigrati, il solito ca­pro espiatorio per l'orgoglio nazionale. Pasolini li avrebbe definiti con una bella parola antica (non obsoleta malgrado la desuetudine) "proletari".
I nuovi ragazzi "proletari " della stessa età del Riccetto letterario stanno su un rettan­golo di cemento di piazza Gasparri a rincor­rere un pallone sfiatato, dentro a divise troppo grandi o troppo piccole (con preva­lenza di Roma e Barcellona) ma inevitabil­mente segnate dalle troppe partitelle di calcio senza un passaggio in lavanderia. Pure qui è mescolanza dove non ha diritto di cittadinanza il razzismo e l'unica gradua­toria accettata è l'abilità nel trattare la palla. S'ammazzano di volontaria fatica finché la luce naturale lo permette (non ci sono lampioni) in un confondersi di lingue e dialetti dove spicca forte un romanesco che sarebbe piaciuto al poeta: «Ahó,  me sudano pure i laccetti». O anche: «'Sti cazzi de piante», piuttosto dei rovi che crescono al margine del campo improvvisato e scorticano le gambe degli atleti. Puliscono via con la mano il sangue che gli cola lungo i polpacci e sono pronti al nuovo attacco. In testa, invariabilmente, creste simil-Balotelli o El Shaarawy. Tate ucraine sono le uniche spet­tatrici peraltro disinteressate. E nessuno dei calciatori sa che la statua che li veglia lì a fianco è dedicata a Pasolini, oscenamente deturpata con un disegno blasfemo: uno dei tre monumenti che gli ha dedicato il borgo che ha cantato e dove ha trovato la morte violenta. 
Troppa grazia se l'esibizione pub­blica di memoria e gratitudine stride con l'oblio delle coscienze. Almeno nel luogo del delitto, già discarica immonda, adesso i volontari della Lipu tengono con decoro un'oasi naturale dove passano i fenicotteri rosa e dove arrivano, alla spicciolata, ogni giorno, da ogni dove, lettori riconoscenti (poco fa  un coreano!) che si siedono sulle panchine a sfogliare le sue pagine e imma­ginarsi l'Idroscalo com'era, mentre adesso incombe il mostro contemporaneo e pre­tenzioso del nuovo porto, coi suoi uffici sfitti e gli yacht dei nuovi ricchi.
Anche Pino Pelosi detto "la Rana", l'assassino certificato dalla giustizia (ma i complici?) ci lavorò, al parco, e non si è mai capito se per un desiderio di espiazione o se per perpetuare quella fama che lega,  indissolubilmente, il carnefice alla sua illustre vittima
Per il Riccetto e gli altri della banda, l'Africa-Ostia durava lo spazio di una domeni­ca. Perché il mare vero, in tutti i sensi senza sale, era il biondo Tevere. Dove oggi ci vuole coraggio a buttarsi e si rischiano ma­lattie. L'Estate romana delle tende bianche dei ristoranti e delle chincaglierie, tra ponte Sisto e l'isola Tiberina, si ferma dove comin­cia l'acqua putrida. Che scorre nel luogo dove il ragazzo, non ancora contaminato dalla prudenza piccolo borghese, sfidò la corrente per salvare una rondine (primo capitolo; nell'ultimo, cresciutello e già avvezzo al calcolo costi-benefici, resterà im­passi bile a guardare l'amico Genesio mentre annega). Allora erano maleodoranti le rive e il romanzo è del resto pervaso dagli odori acri dell'abbandono e dell'immondi­zia. Al Tevere non ci andavano i signori in cerca di fresco ma ragazzi di borgata sog­giogati dalla potenza di quelle acque impe­tuose che li chiamavano all'impresa dell'an­dare da riva a riva con la forza delle braccia: un rito di iniziazione talvolta fatale perché contemplava anche la possibilità di essere travolti.
Non ci sono più le dune a Ostia. Il Tevere, ora placido ora ribollente per i nubifragi a monte, è comunque impraticabile per i nuotatori. Del panorama di "Ragazzi di vita" ci siamo persi le uniche bellezze censite (e che erano rimaste pressoché inalterate nei secoli), sacrificate al turismo di massa che vuole il litorale facile e piatto e a un'idea di progresso che condanna i fiumi a coreo­grafia sudicia (il Tevere è "bandiera nera" per la Goletta Verde). Al contrario ci siamo tenuti l'orrore architettonico che Pasolini descrisse allo stato nascente nell'opera non per caso coetanea della copertina de "l'E­spresso" dal famoso titolo "Capitale corrot­ta = nazione infetta", sul sacco edilizio. Il Riccetto «scendeva giù per via Donna Olimpia» (terza riga del romanzo) passan­do accanto ai grattacieli costruiti per allog­giare la popolazione sfollata da due nuclei urbani demoliti. Lo avrebbe fatto, per tutto l'arco dell'esistenza, sino a pochi mesi fa, quando Orlando Marecchioni, detto appunto "il Riccetto", ha lasciato questa valle di lacrime. Marecchioni si è sempre auto-certificato come il protagonista e vista l'au­torità malandrina che aveva, sulla carta e nella realtà, nessuno ha osato mettere in dubbio la sovrapposizione identitaria.

Silvio Parrello, il "Pecetto"

Cosa che invece si permette adesso "il Pecetto", al secolo Silvio Parrello, pittore e poeta: «Riccetti se so' detti in tanti e per me quello vero era Claudio Mastracca (nome che compare in un solo passaggio del ro­manzo, ndr.), uno che se n'è andato via da Monteverde e chissà che fine ha fatto». Probabile che Pasolini abbia concentrato in un personaggio caratteristiche di più sog­getti. È permesso alla "letteratura del vero" sconfinare nella finzione. E in fondo poco importa. Conta come lo scrittore abbia re­stituito, qualunque artifizio abbia usato, un ambiente così com'era. «Perfetto», a giudi­zio del "Pecetto" (figlio del calzolaio che usava la pece). Che poi ha trascorso tutti gli anni, per arrivare agli attuali 71, a costruir­si l'immagine di custode del lascito di «Pier Paolo Pasolini a Monteverde», sino a ritagliarsi un identico acronimo "Pecetto Par­rello Pittore" e a trasformare la sua bottega di via Federico Ozanam 134 in un luogo pasoliniano di dipinti, libri, fotografie, articoli di giornale, oltre a essere memoria vi­vente di racconti, aneddoti, curiosità. Come si sentisse investito del ruolo del cronista che deve qualcosa alla storia di un luogo, un romanzo e, soprattutto, del suo autore.
Non che la Monteverde ufficiale sia com­pletamente dimentica. Ha dedicato un opuscolo allo scrittore, c'è una targa nell'a­trio di via Fonteiana 86 dove abitava, un'al­tra sul muro della scuola elementre Franceschi, che crollò in parte il 17 marzo del 1951 (4 morti e 15 feriti), episodio che si trova nell'opera. Di tanto in tanto si fanno rappresentazioni teatrali. Eppure sembrano operazioni obbligatorie. Il Pecetto dubita che, oltre alle celebrazioni protocollari, sia rimasto qualcosa di Pasolini: «Che ne sanno 'sti ragazzi d'oggi? So' tristi, so'. Questi se sballano tutti i ggiorni. Nun c'hanno er senso der quartiere. Qui non li vedi mai e per divertisse vanno ar centro. So' depressi ». Non come i ragazzi degli anni Cinquanta per cui Roma era un viaggio. Dicevano «andiamo a Roma» come se appartenesse­ro a un altro pianeta. Ma gli bastava poco per trovare un perché alla giornata sotto casa. Si ritenevano fortunati se potevano comprarsi un cucciolo di cane. O giocare a calcio col quel signore sempre in camicia bianca che si portava gli scarpini e nei cam­pi inventati con le porte posticce «era un duro, forte come un toro». Poi lasciava aperta la portiera della 600 che gli aveva regalato Federico Fellini perché i ragazzi di vita si intrufolassero a caccia degli spiccioli lasciati apposta nell'abitacolo. Un modo per dargli una mancia senza offenderli. Perché Pier Paolo era «uno di noi».
E allora, al netto del tri­buto che diamo all'adole­scenza perché è la stagione dove tutto ci sembra possi­bile, forse sotto sotto il Pe­cetto proprio a questo tiene nel paragone con gli eredi del quartiere: loro non hanno avuto la fortuna di un aedo che li possa immorta­lare "Ragazzi di vita" per sempre. Anche se i soldi li hanno in tasca e per "divertisse" possono scendere giù al Corso.
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Ragazzi fumettisti per PPP - Centro Studi Pasolini Casarsa - Settembre 2013

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LA SAGGISTICA
Ragazzi fumettisti per PPP
Centro Studi Pasolini Casarsa1° settembre 2013

“Pasolini, stralci di vita casarsese”
Si chiamano Jessica, Desirè, Tommaso, Mattia, Genny, Silvia, Francesco, Davide, Daniele, Elisa, Martina, Sonia, Silvia, Marco. Sono  14 ragazzi delle Scuole Medie di Casarsa.  E sono fumettisti in erba. Nell’anno scolastico 2012-13, sotto la guida del disegnatore triestino Walter Chendi, vincitore del Luccacomics 2010, e con la supervisione della professoressa Valeria Rizzo, hanno infatti lavorato in tanti pomeriggi rubati agli svaghi, hanno appreso le tecniche del “graphic novel”, come oggi si usa dire,  e infine hanno saputo tradurre in fumetto il racconto della vita di Pasolini durante la seconda guerra mondiale, in particolare nell’autunno del 1944. “Pasolini, stralci di vita casarsese”: questo il titolo del loro lavoro, che, inaugurato alla fine di giugno, è ancora visibile per tutto il mese di settembre lungo le pareti della sala dell’”Academiuta di lenga furlana” del Centro Studi Pasolini di Casarsa, con l’esposizione di dieci tavole in bianco e nero.  “Davvero una bella esperienza”, confessa Sonia.
“Molto gioco di squadra”, aggiunge Silvia. “Un lavoro fantastico”, incalza Genny.  Sono parole di entusiasmo che testimoniano da sé l’interesse per un progetto didattico, ma fuori da aule e rigidezze di programmi, che con forme nuove di espressione artistica vuole avvicinare alla conoscenza della storia locale e, in essa, della presenza del  giovane Pier Paolo. Nel 2012 alcuni ragazzi si erano già cimentati nella realizzazione del cortometraggio “In viaggio con Pasolini …”, sotto la guida di Giuliana Zigante per Cinemazero, e ora appunto è stata la volta del fumetto. Sono i nuovi linguaggi della creatività contemporanea, congeniali all’immaginario giovanile e utili a favorire la conoscenza con il diretto coinvolgimento. Perché il fumetto, conclude il dirigente Danilo Buccaro, non è affatto un genere minore. E’ una “cosa seria”, amata - tanto per fare dei nomi - da Elio Vittorini e Umberto Eco.
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Pasolini e l’Estonia, 3-13 ottobre 2013 - Centro Studi Pasolini di Casarsa della Delizia

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LE NOTIZIE
Tallinn, il Cinema Sõprus

Pasolini e l’Estonia

C’è aria di fibrillazione italiana a Tallinn, in Estonia, dove tra il 3 e il 13 ottobre prossimi si terrà una straordinaria retrospettiva a tutto campo sulla figura e sull’arte di Pier Paolo Pasolini, cineasta, poeta, scrittore, polemista. “La decisione di dedicare un focus speciale a questo grande maestro del ‘900, dopo quello precedente incentrato su Godard – racconta Tiina Savi, direttore artistico del Cinema Sõprus di Tallinn, ideatore del progetto – risale già al marzo di quest’anno. E con un entusiasmo tale che, quando ci siamo riuniti per la scelta di un nuovo artista, il nostro brainstorming su Pasolini è durato meno di un respiro”. 
Del resto, che l’interesse pasoliniano, anche nel più profondo nord dell’Europa baltica, sia forte e condiviso è testimoniato dall’autorevole parterre dei partner istituzionali che sono raccolti subito intorno all’iniziativa, fornendo sostegni e patrocini: in primis, il Ministero estone per la Cultura e poi la Commissione Interparlamentare Estone per le Relazioni Estonia-Italia e l’Ambasciata d’Italia in Estonia, con il diretto coinvolgimento dell’ambasciatore Marco Clemente. 
Tra gli aderenti e patrocinatori vi è anche il Centro Studi Pasolini di Casarsa, sollecitato già questa estate a progettare e organizzare in sinergia una sezione speciale, mirata a far conoscere la stagione friulana del giovane Pasolini, aspetto poco noto e in Estonia quasi esotico. Tramite e artefice dei rapporti Friuli-Tallinn è stato l’italiano Paolo Girol (tra l’altro, nativo di San Michele al Tagliamento), esperto di sound design, che dal 2008 insegna all’Università e all’Accademia di Musica di Tallinn e fa parte dello staff del Sõprus impegnato nella indagine pasoliniana, insieme a Tiina, all’artista Neeme Külm e a Dénes Farkas, nome di spicco della cultura baltica, dato che è il curatore del Padiglione Estone all’ultima Biennale di Venezia. 
Tiina Savidirettore artistico del Cinema Sõprus
Con il suo settoriale angolo visuale, il contributo del Centro casarsase si articolerà dunque in un ventaglio di specifiche proposte collaterali, che in particolare vedranno l’esposizione dell’opera grafica ispirata al Pasolini friulano dell’artista pordenonese Isabella Ceciliot, la presentazione della musica di Giovanna Marini composta per il dramma I Turcs tal Friúl (a cura dell’editore Nota di Udine) e, martedì 8 ottobre, la relazione di Angela Felice sull’esperienza poetica dell’autore de La meglio gioventù. Il cuore della manifestazione batterà comunque attorno alla visione di dieci esempi della cinematografia pasoliniana che, in collaborazione tra il Cinema Sõprus e il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale di Roma, in doppia proiezione e con l’introduzione di vari studiosi locali (tra questi, il finlandese Jarmo Valkola e il critico Tristan Priimägi), documenteranno l’originalità tematica e l’evoluzione stilistica del cinema pasoliniano, da Accattone al capolinea di Salò
Tra le pellicole (in programma anche Mamma Roma,Teorema, Uccellacci e uccellini, Medea, Il Vangelo secondo Matteo, l’intera Trilogia della vita), particolare indagine sarà riservata al Fiore delle Mille e una notte, sul quale Gabriel Dettre, pluripremiato regista ungherese, terrà un seminario dal titolo “Pasolini e lo Yemen”. E soprattutto, presso la prestigiosa “Architecture and Design Gallery”, sarà inaugurata il 7 ottobre (durata fino al 13 ottobre) l’esposizione delle meravigliose foto provenienti dal Fondo del maestro Roberto Villa, che, invitato speciale del festival e presente lui pure alla vernice, si intratterrà sul linguaggio filmico di Pasolini, oltre che sul set yemenita e iraniano del Fiore di cui per tre mesi, nel 1973, fu testimone, ricavandone un eccezionale reportage di scatti. Da non dimenticare infine le due iniziative che saranno ospitate presso la medesima Galleria durante i giorni dell’esposizione: la proiezione in loop del docu-film di Giuseppe Bertolucci Pasolini Prossimo Nostro (2006) e la performance attoriale, ideata dal regista estone Marko Raat come originale sincronia live di mezz’ora tra le immagini del film Teorema e il testo dell’omonimo libro, secondo lo spirito della contaminazione interartistica che impronta l’intera manifestazione. 
Un Pasolini, dunque, perlustrato nella cornice del suo tempo, dove fu protagonista poliedrico e originale, ma anche valorizzato per la sua permanente attualità, che evidentemente mobilita ondate di adesione anche nelle geografie del mondo più inaspettate. Non per nulla il periodico “Sirp”, il più autorevole settimanale culturale estone, e la rivista di cinema “La strada” dedicheranno dei supplementi speciali di approfondimento sul geniale e amato artista italiano. Vi compariranno, tra vari contributi, un intervento di Angela Felice sul periodo friulano del giovane Pasolini e un articolo sulla Trilogia della vita scritto dal più acclamato regista estone, Veiko Õunpuu (vincitore nel 2007 del Premio Orizzonti al Festival del Cinema di Venezia), insieme all’inedita traduzione in estone di alcune poesie pasoliniane e del noto scritto “corsaro” del 1974 Il romanzo delle stragi, rispettivamente a cura della poetessa Maarja Kangro e della politologa Oudekki Loone. Ma è solo un primo passo, assicurano gli organizzatori di Tallinn, che già pensano ad iniziative e a contatti internazionali ancora più ramificati e più vasti da consolidare in vista del 2015, nel 40.mo anniversario della morte di Pasolini. 
Tallinn

Centro Studi Pier Paolo Pasolini
via G. Pasolini, 4 - I-33072 Casarsa della Delizia (PN)
Casella postale n° 53 - Casarsa della Delizia - Tel.: 0434 87 05 93
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