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Pasolini processato a Torre Orsaia Giuseppe Galato - 22 agosto 2013

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"Pagine corsare"
LE NOTIZIE
Torre Orsaia, nel cuore del Parco Nazionale del Cilento

Pasolini processato a Torre Orsaia
Giuseppe Galato - 22 agosto 2013

E' ritornato "Processi alla storia", la manifestazione che si svolge ogni anno, ad agosto, a Torre Orsaia, nel cuore del Parco nazionale del Cilento.
Dopo Pisacane e Giulio Cesare, Togliatti e Ferdinando II di Borbone, quest'anno al centro del "processo" ci sarà la figura di Pier Paolo Pasolini, la sua vita, le sue opere e la profonda attualità del suo messaggio.
L'appuntamento con la quinta edizione della manifestazione era il 23 agosto alle ore 21:30, nella piazza centrale di Torre Orsaia.
Come ogni anno, un tribunale formato da giudici, storici e avvocati, organizzato dal presidente della Camera penale del tribunale di Vallo della Lucania Marco Fimiani, ha ripercorso i momenti salienti della vita di Pasolini utilizzando le forme classiche del processo penale per dar vita a una serata di approfondimento culturale.
Ai due lati di piazza Padulo, davanti a un pubblico ogni anno più numeroso, l'accusa e la difesa si sono affrontate con due tesi contrapposte sulla vita e sulla morte di Pier Paolo Pasolini.
E alla fine dagli scranni della giuria, sistemata sul palco ai piedi del palazzo comunale, è arrivato il verdetto. Inappellabile.
Il "Tribunale del popolo" è presieduto dal dottor Antonio Maglione, già presidente vicario della Corte di Appello di Genova, coadiuvato dal dottor Nicola Graziano, magistrato del Tribunale di Napoli, dall'avvocato penalista Michele Sarno, dal professor Vincenzo Pepe, presidente della Fondazione Giovambattista Vico e dalla senatrice Angelica Saggese.
Il dottor Vincenzo Montemurro, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Salerno, è il pubblico ministero che ha proceduto alle contestazioni nei confronti dell'imputato.
La difesa di Pasolini è invece affidata all'avvocato Domenico Ciruzzi, presidente della Camera Penale di Napoli.
Nel corso dell'istruttoria dibattimentale si è ascoltato, come consulente del Tribunale, il dottor Roberto Chiesi, responsabile del "Centro studi - Archivio Pier Paolo Pasolini" di Bologna.
Non sono mancati sprazzi di poesia e di spettacolo. Tra una requisitoria e un'altra, tra la deposizione dei consulenti e la lettura della sentenza, l'attrice Antonella Stefanucci ha recitato alcune poesie di Pasolini.  [...]
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Agata Amato, Alessandro Barbato, Fabien Gerard, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre tredicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

CriticaLibera: Le interviste all’inquieto Pasolini, di Giuseppe Savarino

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LA SAGGISTICA
CriticaLibera:
le interviste all’inquieto Pasolini
di Giuseppe Savarino


Esistono diverse interviste, vere e presunte, rilasciate da Pier Paolo Pasolini. Il motivo è ampiamente comprensibile: chi lo conosce, anche superficialmente, si rende subito conto della grande capacità critica e soprattutto autocritica che lo contraddistingueva, capace com’era di esprimere in maniera immediata dei concetti complessi, frutto di meditate riflessioni e spesso sorprendentemente previgenti, soprattutto in ambito storico-sociale.
Una di queste interviste per esempio è di Furio Colombo (diventata poi anche libro), “ultima” nel senso temporale del termine, perché rilasciata poche ore prima che fosse barbaramente assassinato in circostanze tuttora non chiarite; ce ne sono poi altre, altrettanto interessanti di Enzo Biagi, Dacia Maraini e così via.
In ognuna c’è una caratteristica specifica, perché Pasolini comunicava sempre con lucidità, e con altrettanta lucidità riusciva a guardarsi dentro.
Il miglior critico di Pasolini era, infatti, Pasolini stesso: con il suo sguardo poetico, artistico, politico, sociologico, psicologico era in grado di estraniarsi dal suo personale contesto, individuando sfumature e complessità, dove gli altri ingenuamente semplificano.
E per naturale conseguenza, fu intellettuale scomodo: marxista ma espulso dal Partito Comunista per “indegnità morale e politica”; ribelle ma critico verso il movimento di contestazione del Sessantotto (critica che destò particolare scalpore con la poesia “Il PCI ai giovani!”); omosessuale quando era un delitto morale esserlo; sempre e comunque contro il potere, l’oppressione, la massificazione.
In un commento al film “Teorema”, il regista Jean Renoir (figlio del celebre pittore) affermerà:
“A’ chaque image, à chaque plan, on sent le trouble d'un artiste”
(Ad ogni immagine, ad ogni piano, si sente il turbamento di un artista).
La grande e multiforme capacità di Pasolini di essere artista si risolve tutta in questo “turbamento”, un’inquietudine di fondo che si percepisce anche nell’intervista su cui ci soffermeremo (diventata anche libro: “Pasolini rilegge Pasolini” con cd audio annesso), destinata a “uso degli studenti e dei professori di letteratura italiana delle università italiane”, curata da Giuseppe Cardillo, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, (città di cui si dichiarerà affascinato) dove si era recato per qualche giorno Pasolini.
Sollecitato nel ricostruire il proprio mondo (poetico, cinematografico, politico, personale) Pasolini esordisce con un paragone – direi quasi poetico – con il cinema (riferendosi in realtà a un suo recente e breve saggio di linguistica e semiologia “Osservazioni sul piano sequenza”).
La realtà, dice, è come un infinito piano sequenza. Anche il cinema, di fronte a questo svolgersi continuo di avvenimenti, è di conseguenza teoricamente un piano-sequenza infinito.
In concreto si esprime però per segmenti ovvero come l’interruzione non naturale di un flusso continuo.
Assume così notevole importanza il montaggio perché tramite esso si realizza appunto la riduzione di questa linea infinita in un segmento.
Parlare di sé, continua, è un processo molto simile cioè significa attingere in un magma, non facilmente percepibile, in cui si può solo affondare le mani “quasi casualmente”, arbitrariamente.
Stabilito quindi come presupposto il limite intrinseco di qualsiasi analisi letteraria (limite che in Pasolini è abbastanza evidente, data la versatilità delle sue opere), in modo sobrio (mai forzatamente, anzi quasi sorpreso che questi particolari potessero interessare) racconta aspetti ed episodi della sua vita.
Ad esempio, racconta di come iniziò a scrivere poesie a sette anni, grazie a un sonetto che gli scrisse la madre perché solo da quel momento riuscì a percepire che la poesia era qualcosa di fattuale, di artigianale.
Si trattava ovviamente di versi tradizionalistici, scritti con un canone stilistico petrarchesco.
Poi, sempre casualmente, iniziò a scrivere in dialetto (in particolare si riferisce a “Poesie a Casarza”), dopo una sorta di “illuminazione” dovuta all’aver udito in strada, dalla stanza in cui scriveva, la parola “rosada” (che in dialetto friulano significa “rugiada”).
Probabilmente, a causa della musicalità di quella parola intravide la possibilità concreta di utilizzare una “lingua letteraria” per esprimere la realtà.
Chi conosce Pasolini sa che tema fondamentale di tutta la sua opera (poetica, pittorica, romanzesca, cinematografica, teatrale) è la pietà e la comprensione per gli umili, per chi è ai margini della società.
Nell’intervista, Pasolini spiega, sempre indirettamente, da dove nasce questo atteggiamento.
Racconta di un esame per la patente in cui il dottore gli diagnosticò quasi scherzando che era un uomo con un “senso civico eccessivo”.
Ecco: questo eccesso, per Pasolini, è alla base della sua attenzione per i poveri.
E se ammette che la caratteristica psicologica più significativa della sua personalità è il narcisismo, è pur vero che esso si sublima nella “proiezione verso il prossimo”.
Nell’intervista si conferma anche la profonda erudizione di Pasolini e le sue radici intellettuali.
Come maestri ideali e letture fondamentali cita Dostoevskij e Shakespeare (letti a quattordici anni) e soprattutto Rimbaud che lo rese cosciente di essere antifascista (anche prima di conoscere Marx), i simbolisti francesi e Ungaretti (“Il sentimento del tempo”).
Solo dopo aver vissuto indirettamente le lotte dei contadini friulani contro i padroni (il sistema contadino di allora era feudale, in parte simile a quello siciliano) diventa marxista e incomincia ad approfondire gli studi in tal senso.
In senso letterario ed estetico, cita Jakobson (che a sua volta cita Valéry), sostenendo che la poesia è “une hésitation prolongée entre le sen set le son” cioè la poesia ha una sua lingua che non è solo decorativa ma è la coscienza stessa del linguaggio poetico.
L’utilizzo del friulano nelle sue poesie è da intendere proprio nel senso di questa frase di Valéry.
Politicamente, il libro che considera fondamentale è stato “Letteratura e vita nazionale” di Gramsci: un libro che tratta contemporaneamente di politica e di letteratura e che avrà enorme importanza per la sua adesione al marxismo; anzi, più che “adesione” precisa che si tratta di “conversione” (naturalmente essendo ateo o agnostico è da intendere in senso laico) simile al processo di chi aderisce a un movimento di protesta e di contestazione.
A parte la componente comunista, l’intervistatore intravede anche un aspetto religioso nelle sue opere e Pasolini conferma che c’è sempre stato, anzi nei suoi versi friulani questa componente è molto forte e risiede proprio nell’uso del dialetto (un po’ meno nei romanzi).
Aspetto religioso che vede insito nella sottocultura della propria analisi sociale, quindi considerato elemento implicito al realismo, non come creazione artistica e quindi artificiale.
Nell’analisi critica alla sua opera, Pasolini vede in sintesi tre diverse componenti: una componente tradizionalistica di carattere scolastico-accademico (da Petrarca a D’Annunzio); una seconda componente surrealista (da Rimbaud a Machado) e una terza componente politica.
Queste tre componenti però non sono distinte: sono un magma, un caos inestricabile.
Nelle opere c’è un pastiche in cui queste tre linee di formazione si intrecciano.
Anche la componente politica dunque si contamina.
“Ragazzi di vita” fu scritto solo dopo due mesi che trovava a Roma e quindi subito dopo aver conosciuto il sottoproletariato romano, esperienza che visse come un vero trauma (che cercò di razionalizzare attraverso l’ideologia di tipo marxista ma che si unì alla sua formazione letteraria).
Il risultato fu un romanzo magmatico, dove le “squisitezze letterarie si mescolano le bestemmie dei romani”.
Altre volte questi due aspetti tendono a fondersi, soprattutto nel discorso indiretto: una contaminazione linguistica non naturalistica, ma di stile.
Stile che è componente fondamentale della religiosità.
Lì, infatti “non si può barare”: nell’indignazione può esserci in fondo del narcisismo, quasi un compiacimento; nel contenuto si può barare per ambizioni letterarie o per senso civico; non si può farlo invece sullo stile, per cui la descrizione delle borgate non è un fatto oggettivo ma stilistico, come una sorta di “sacrario del sottoproletariato”.
Cardillo lo incalza sul problema religioso, perché intravede una contraddizione nel fatto che Pasolini non crede in Dio ma vede un significato religioso nella realtà o nello stile (crede “all’aggettivo e non al sostantivo”, insiste).
Pasolini però non vede nessuna contraddizione in ciò, essendo la sua religione è una forma di immanentismo (“non credo in un dio trascendente, la realtà è ierofania, dunque la realtà stessa è Dio”).
Fa l’esempio linguistico (citando ancora Jakobson o Morris) per cui letterariamente per esprimere un oggetto si utilizza un “in-segno” ovvero il termine convenzionale per identificare l’albero stesso.
Ma se si vuole esprimere lo stesso concetto con il cinema allora si riproduce direttamente l’albero, diventando iconico di se stesso: ognuno di noi possiede inconsciamente un codice della realtà attraverso cui riconosce se stesso.
Se la realtà è ierofania allora diventa con il cinema ierosemia cioè un linguaggio sacro.
C’è una certa unità nelle opere come “Ragazzi di vita” o “Vangelo secondo Matteo” o “Teorema” cioè un razionalismo che si innesta all’irrazionalismo o alla sua cultura decadentistica ovvero l’andamento epico dell’idea gramsciana dell’opera nazional-popolare.
Le sue opere non sono didattiche o didascaliche ma “pongono problemi, non danno soluzioni”.
Interessanti sono anche le sue rapide e lucide analisi sociologiche.
Analizzando la situazione italiana la descrive come profondamente cambiata:
“Mentre la società italiana s’assesta, la realtà come mitologia sottoproletaria si trasforma e scompare sotto la speculazione edilizia e del consumismo.”
Questo ha causato una crisi anche personale; ma a sorprendere è l’acuta capacità di comprendere tutto questo.
“[Questo cambiamento]…mi ha fatto passare da un periodo gramsciano mitico-epico a un periodo […] problematico, un periodo che implica – sembra strano – anche una maggiore aristocraticità, ed elezione e difficoltà dei miei prodotti. Ora, può darsi che questo sia nelle cose: in un mondo in cui sento che i miei destinatari sono idealmente cambiati, in un mondo in cui non è più il popolo, la classe operaria, e gli intellettuali avanzati a cui mi rivolgo, ma è un mondo più complicato, con sottofondo di cultura di massa ancora indefinibile e minaccioso ma non ancora così pressante, in cui l’idea di popolo e di borghesia si stanno confondendo nei modi più impensati, ebbene, a questo punto qui, può darsi che oggettivamente il mio io problematico debba per forza diventare anche più difficile, e quindi debba per forza rivolgermi a delle élite.”
Tutto questo si rifletterà nella sua arte: “La poesia è inconsumabile nel profondo, ma io voglio che sia il meno consumabile anche esteriormente. E così il cinema: farò del cinema sempre più difficile, più aspro, più complicato, e anche più provocatorio magari, per renderlo meno consumabile possibile, così come appunto il teatro”.
Vorrei concludere questo breve excursus sull’arte pasoliniana con due frasi tratte la prima dall’intervista di Furio Colombo citata all’inizio, e l’altra, inedita ma recentemente pubblicata, dall’archivio Vigorelli:

• Che cos’è il potere per te, dov’è, dove sta, come lo sani?
“Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo”.

• “Viviamo in uno strano periodo, in cui l’urgenza dell’agire non esclude, anzi, richiede assolutamente l’urgenza del capire”.

Il primo scritto è del 1975, il secondo del 1955. Ci siamo persi qualcosa?
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Vincenzo Cerami. «Non vorrei parlare dell’inchiesta né di quello che riguarda la sua morte. È passato tanto tempo, è vero. Ma mi fa male, mi fa soffrire. Per me, lui, è stato come un padre».

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LA VITA
Vincenzo Cerami. «Non vorrei parlare dell’inchiesta
né di quello che riguarda la sua morte. 
È passato tanto tempo, è vero. Ma mi fa male, mi fa soffrire.
Per me, lui, è stato come un padre».

Cinemagay.itwww.cinemagay.it
29/04/2010 - "Corriere della Sera" - Alessandro Capponi     


«Non ne parlo, mi fa male». Sono passati trentacinque anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini, all’Idroscalo di Ostia: eppure è proprio così che dice Vincenzo Cerami. «Non vorrei parlare dell’inchiesta né di quello che riguarda la sua morte. È passato tanto tempo, è vero. Ma mi fa male, mi fa soffrire. Per me, lui, è stato come un padre». 


Poi, invece, ne parla. Ma la reticenza iniziale è comunque comprensibile: «Fu mio insegnante di Lettere a Ciampino, dal 1950 al 1953, lavorai con lui a Uccellacci e Uccellini e in altre occasioni feci il suo aiuto regista, sposai sua cugina. E comunque, in tutto, lui fu per me fondamentale». Scrittore, sceneggiatore, giornalista, politico, autore di testi teatrali, di canzoni: la vita di Cerami è colma di successi. Impossibili da elencare. Il primo libro: Un borghese piccolo piccolo. La sceneggiatura de La vita è bella. Insomma: il talento, ma senza dubbio - come sempre - anche maestri eccellenti. Pasolini, certo. 
Eppure, nonostante la riconoscenza e l’affetto, Cerami non si aggrappa alle novità. Snobba gli sviluppi dell’inchiesta. Soprattutto i nuovi esami scientifici che secondo i giornali potrebbero offrire una nuova chiave del delitto: «Non porteranno a niente, e cosa dovrebbero dire? Che non è stato ucciso da una sola persona? Quello lo sappiamo tutti (Pino Pelosi unico condannato, 9 anni, ndr). A queste novità credono solo i giornali, per me è tutto assurdo. L’unica verità è stata scritta con la prima sentenza, quella contro ignoti. La seconda, quella che ha condannato Pelosi, è roba politica: bisognava raccontare che Pasolini era un omosessuale morto in un incidente di percorso...».

Solo che adesso, Cerami, analizzeranno gli abiti indossati da Pasolini la notte dell’omicidio, e tutti i reperti archiviati 35 anni fa: 

«E al massimo scopriranno che non c’era solo Pelosi, quella notte. Bella scoperta...». 

E però, Cerami, forse con l’esame del dna si potrebbe arrivare non solo a capire che quella notte a uccidere Pasolini non fu solo Pelosi, ma anche a stabilire chi era con lui. 
«Solo che se il dna è di qualcuno che, dico per dire, era dei servizi segreti, ecco che allora non si risalirà al responsabile. Per come la vedo io, al massimo si risalirà a qualche coatto adesso novantenne. Sinceramente, vorrei che si scoprisse altro. Vorrei che venisse alla luce perché l’hanno ucciso. E non penso sia questa la strada. Per me la prima sentenza era inequivocabile, la seconda, come ho già detto, è tremenda. Invece, credo che siano altre le cose delle quali si dovrebbe parlare». 

Quali? 
«L’ultimo capitolo di Petrolio, prima apparso poi scomparso... perché non se ne parla più?». 

Marcello Dell’Utri ha detto che lo avrebbe presentato a una mostra, se l’uomo che glielo aveva offerto non fosse scomparso. 
«Sì, certo... ma comunque, anche lo stesso Pelosi ha ammesso che non era solo. Ma a quel punto sarebbe stato un omicidio premeditato, e allora non è stato preso sul serio. La seconda sentenza, per come la vedo io, ha chiuso gli armadi. E adesso, i nuovi esami: per me, una buffonata. Si può risalire agli esecutori materiali? Sì, un novantenne di periferia...». 

Cerami, è chiaro: lei non crede ai nuovi sviluppi. 
«Sinceramente, dopo tanti anni, preferisco ricordare Pasolini per altro. Lui è stato l’unico che ha saputo raccontare l’Italia. Non l’hanno fatto né gli storici, né i sociologi né, ancora meno, i politici. Ci voleva un poeta. Uno che, come lui, oggi con un articolo, domani con una tragedia, il terzo giorno con una poesia, sapesse mettere in scena ciò che c’era eppure non si vedeva. Non a caso fu il primo a parlare di globalizzazione, anche se lui la chiamava omologazione. Ma, insomma, fu l’unico in grado di raccontare un’epoca». 

Se dovesse scegliere una cosa, tra quelle che le ha insegnato? 
«Posso dire "tutto"? Vede, della sua morte e dell’inchiesta non ho mai parlato, finora, perché per me è un fatto personale. E poi, ripeto, non credo che si arriverà a scoprire niente che, personalmente, non so già: non fu solo Pelosi a ucciderlo. Ma comunque, mettiamola così: voglio vedere i fatti, sono stanco di certa morbosità». 

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Pasolini torna a Scicli. L’attore hollywoodiano Willem Dafoe cittadino onorario

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LE NOTIZIE
L'attore Willem Dafoe

Pasolini torna a Scicli.
L’attore hollywoodiano Willem Dafoe cittadino onorario

Scicli - Pierpaolo Pasolini e Scicli, nel suo destino. Due volte candidato all’Oscar, è nientemeno che Gesù ne “L’Ultima Tentazione di Cristo”, di Martin Scorsese. Willem Dafoe è diventato sciclitano, insieme a Franco Battiato.
58 anni, americano, l’attore è stato ospite della giunta Susino lungo una passeggiata che ha interessato il centro storico della città, per viuzze, calli e chiese.
Protagonista di capolavori quali “Mississipi Burning”, “Platoon” di Oliver Stone, e della trilogia di “Spiderman”, Dafoe è attore di fama planetaria.
Ha recitato ne “Il Paziente Inglese”, “Nato il 4 luglio”, e reciterà anche nel prossimo film di Franco Battiato dedicato al compositore Händel.
Dafoe è rimasto colpito dalla storia degli aggrottati di Chiafura, emancipati dalla condizione di povertà grazie all’intervento di Pier Paolo Pasolini, un intellettuale che con la propria penna pose il tema degli sciclitani costretti a vivere in grotta, sino a determinare il finanziamento di un nuovo villaggio dove i “chiafurari” si trasferirono.
Fatto straordinario, Willem Dafoe sarà Pier Paolo Pasolini nel prossimo film di Abel Ferrara.
Da Cristo a Pasolini, Dafoe è uno dei volti più intriganti della cinematografia mondiale, e a Scicli, città pasoliniana, ha deciso di trascorrere le proprie vacanze prima di accingersi a calarsi nel ruolo di Pier Paolo Pasolini, il più grande intellettuale italiano del 900, che di Scicli ha scritto una pagina memorabile.
Questo il testo della pergamena consegnata dal sindaco Franco Susino e dall’assessore Vincenzo Iurato: “Dal freddo Wisconsin all’ardente Scicli, un viaggio, quello di Willem Dafoe, fatto di grandi successi, di grandi incontri, di grandi nomi celebri della cinematografia mondiale.
Scicli, luogo del mito e dell’incanto mediterraneo, fiera di poterlo ospitare in questa estate e, si spera, anche in altre, dà il benvenuto a Willelm Dafoe, un autentico mito del cinema contemporaneo”.
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Su "L'Africa" di Pasolini, in "Brescia oggi" - Mostra del Cinema di Venezia 2013

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LA SAGGISTICA
Su "Profezia. L'Africa di Pasolini"


C'è un'Africa nel mondo che non è solo il luogo geografico, ma qualcosa di più. Una terra in movimento fatta di povertà e di una semplicità che prende al cuore. Questa la visione del poeta-regista-scrittore Pier Paolo Pasolini raccontata in un documentario Profezia. L'Africa di Pasolini, a cura di Gianni Borgna e con la supervisione artistica di Enrico Menduni, che approderà al Lido nella sezione Venezia Classici. 


Intanto nel documentario c'è l'idea che «l'Africa sia un concetto che convive anche nelle periferie di Roma e che ha una radice comune nel mondo arcaico contadino». Così quella genuinità contadina, con dentro di sé una potenziale forza rivoluzionaria, ossessione da sempre di Pasolini, viene prima cercata nel suo Friuli, poi nella periferia romana (Accattone) e poi in quell'Africa che lentamente approda ai margini dell'Occidente ricco. Non ultimo con il fenomeno degli extracomunitari (ampiamente previsto dal regista di Uccellacci e uccellini). Il documentario, che sarà distribuito dall'Istituto Luce, ha come voce narrante Dacia Maraini, mentre Roberto Herlitzka dà la voce a Pier Paolo Pasolini e Philippe Leroy a Jean Paul Sartre. Dentro tante immagini di repertorio da La Rabbia (1963), a Edipo Re fino ad Appunti per un'Orestiade africana (1968-1973), interviste al regista e anche le polemiche, di matrice cattolica e non, seguite all'uscita del Vangelo secondo Matteo ritenuto da molti blasfemo, ma difeso invece dallo stesso Sartre. 
In Profezia, il racconto anche ovviamente della globalizzazione, sempre più montante, e dell'annichilimento di tutti i valori del capitalismo e post-capitalismo, anche un episodio divertente raccontato da Bernardo Bertolucci raggiunto nella sua casa per un'intervista. Bertolucci racconta come lui, tredicenne, andò ad aprire a casa sua a uno sconosciuto dall'aspetto poco raccomandabile, da ladro, che chiedeva del padre Attilio. Andato a riferire al papà che alla porta c'era uno strano individuo di nome Pier Paolo Pasolini, il padre gli disse subito di farlo entrare che era un grande poeta. Bertolucci, che per anni sarà poi assistente dei film di Pasolini, ebbe modo di riferire al regista di quel lontano episodio. «Quando gli dissi che lo avevo creduto un ladro lui non fece una piega. Cosa c'è di più bello - mi disse - per uno che ha per tanto tempo frequentato gente di periferia?»


Qui sotto, propongo un video in cui è ripresa una preesistente poesia di Pasolini intitolata Profezia.
Questa composizione poetica è del mese di aprile 1964 ed è pubblicata in "Appendici a Poesia in forma
di rosa. Il libro delle croci(in Pasolini. Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, Milano 2003).

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Venezia, settant'anni di scandali in Mostra

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LA SAGGISTICA
Venezia, settant'anni di scandali in Mostra
a cura di Fabio Fusco, 27 agosto 2013

Dal nudo di Hedy Lamarr alle 'vergogne' di Fassbender, dai diavoli di Ken Russell al 'fantasma' di Joao Pedro Rodriguez, ripercorriamo i film che hanno segnato la Mostra del cinema di Venezia tra polemiche,
scandali (veri o mancati) o fenomeni di costume.


Non c'è Festival - o kermesse, evento, manifestazione - che si possa definire pienamente riuscita senza uno scandalo, anche piccolo, che faccia discutere i media, spesso a vantaggio del festival stesso e che metta in luce le ipocrisie e i tabù della società in un determinato periodo storico. 
Se poi il festival in questione si svolge in Italia, un paese nel quale ci si scandalizza spesso per cose di poco conto, senza però indignarsi davvero per questioni gravi, allora il gioco è fatto: a volte basta un nome a suscitare scalpore - ad esempio quello di Alberto Moravia, come vedremo - oppure una sequenza suggestiva, o semplicemente le chiacchiere messe in giro dai press-agent per sollevare un polverone. 
Nei settant'anni di vita della Mostra del Cinema di Venezia gli scandali non sono affatto mancati, e ad eccezione di un paio di decenni, si tratta di episodi che 'raccontano' in maniera efficace il periodo in cui sono avvenuti, svelandone gli aspetti più oscuri o i limiti del livello di apertura mentale generale. 


Gli anni Trenta: estasi e orchidee nere
Hedy Lamarr ("Estasi", 1933)
Hedy Lamarr nuda in una celebre scena di Estasi (1933). Appena un anno di vita, e la Mostra si infiamma con un nudo femminile diventato poi leggendario, quello di Hedy Lamarr in Estasi di Gustav Machatý, la storia di una donna che sentendosi trascurata dal marito inizia una relazione con un giovane incontrato nei pressi di un lago. Ed è proprio la sequenza in cui la bellissima attrice fa il bagno nuda, oltre a quella in cui si concede al suo amante a far discutere. Siamo in pieno regime fascista, e nella questione interviene persino Mussolini, che esige una visione privata del film, ma alla fine resta colpito dalle grazie della diva di origine austriaca, che sarà ricordata soprattutto per questo film e le scene di nudo, ma non per il suo importante contributo alla scienza. 
Neanche la presenza della star delle revue parigine Josephine Baker, nel 1935, riuscirà a fare tanto scalpore e per un nuovo scandalo - di entità minore, stavolta - dovranno passare altri tre anni con la presentazione di Sentinelle di bronzo, nel quale Doris Duranti appare spogliata e nel ruolo esotico di Dahabo, una donna di colore. Il film - che mette in luce l'eroismo degli italiani in Abissinia - ottiene un premio, e la Duranti ha modo di farsi notare per la sua avvenenza e di imporsi, successivamente, come diva di regime (grazie anche alle sue amicizie importanti) oltre a conquistare l'appellativo di orchidea nera sulle pagine dei giornali. 


Gli anni Cinquanta: un decennio "perbene"
Gina Lollobrigida ne "La Romana" (1954) di Luigi Zampa
Gina Lollobrigida ne La Romana di Luigi Zampa (1954). Negli anni Quaranta la Mostra torna ad essere una manifestazione completa - e non di facciata - solo a partire dall'immediato dopoguerra, e arriva agli anni Cinquanta senza troppi clamori, ma con la voglia di ricominciare a vivere e sognare, grazie anche alle prime grandi star americane che approdano in Laguna. In questi anni a movimentare un po' le edizioni della kermesse ci sono Ingmar Bergman con il suo Donne in attesa - che nel '53 scandalizzò alcune signore del pubblico, forse perché descriveva in maniera schietta e senza falsi pudori l'universo femminile - e Louis Malle che invece fece parlare di sé per Les Amants, che nell'edizione del '58 ottenne anche un premio.
Nel '54 però, furono Gina Lollobrigida e Alberto Moravia a scaldare l'attesa per La Romana di Luigi Zampa, e solo perché il film era tratto da un romanzo dell'autore de Gli indifferenti. Il ruolo della Lollo, quello della prostituta Adriana, fu definito scabroso e si parlò di possibili interventi da parte della censura. Persino coloro che furono invitati alla prima del film - tra cui Giulio Andreotti - si chiedevano se il film sarebbe stato audace, come si riteneva, ma alla fine tutto si concluse senza troppo rumore. Il clima rovente che precedette la presentazione del film, in ogni caso, contribuì a riempire le tasche dei bagarini, che vendettero i biglietti a prezzi salatissimi.


Gli anni Sessanta: oscenità e furore
Silvana Mangano in "Teorema" (1968) di Pier Paolo Pasolini
Silvana Mangano in una sequenza di Teorema di Pier Paolo Pasolini (1968). In netto contrasto con il decennio precedente, gli anni Sessanta sono quelli delle contestazioni studentesche, che rischiarono di compromettere lo svolgimento del Festival nel 1968. Lo stesso anno in cui Pier Paolo Pasolini presentò il suo Teorema, che fu contestato sia dalla critica di sinistra che di destra, ma soprattutto dalle gerarchie ecclesiastiche, che puntarono l'indice sul sottotesto religioso. Il film fu sequestrato per oscenità, e sia Pasolini che i produttori furono denunciati e successivamente assolti. 
Ad oggi risultano incomprensibili le accuse di oscenità nei confronti di un film del quale ricordiamo sicuramente una certa tensione erotica che pervade tutta la pellicola, ma soprattutto gli intensi e magnetici primi piani di Laura Betti - che infatti fu premiata con la Coppa Volpi - ma Teorema non è l'unico film di Pasolini, tra quelli presentati a Venezia nell'arco di questo decennio, che andò incontro a problemi simili. Nel 1961 infatti, era già toccato a Mamma Roma beccarsi una denuncia per oscenità (poi archiviata), e pochi anni dopo anche Il Vangelo secondo Matteo suscitò un dibattito piuttosto aspro, considerato che il regista solo pochi mesi prima era stato condannato per vilipendio alla religione di stato per un altro film. 
Tra una provocazione pasoliniana e l'altra, a far gridare preventivamente allo scandalo, nel 1962, ci si mette anche Stanley Kubrick che porta a Venezia la sua Lolita. Le cronache dell'epoca riferiscono di una grande agitazione e fermento tra associazioni cattoliche e di genitori, ma dopo la proiezione del film - che si rivelò meno scabroso rispetto al romanzo di Vladimir Nabokov - le polemiche si ridimensionarono (anche se il film, in ogni caso, andò incontro a diverse censure prima dell'uscita in sala). Qualche anno dopo, nel 1967, fu un'altra iconica figura femminile cinematografica ad agitare le acque della Laguna: la Bella di giorno di Luis Buñuel, l'algida Severine interpretata da Catherine Deneuve, che conquistò anche un Leone d'Oro.


Gli anni Settanta: Salomè e i diavoli 
Donyale Luna in "Salomè" (1972) di Carmelo Bene
Donyale Luna in Salomè di Carmelo Bene. Dopo che aveva già suscitato un certo clamore con Nostra Signora dei turchi, nel caldissimo '68, Carmelo Bene torna a Venezia con la sua Salomè, nel 1972 e la reazione di pubblico e critica è, se possibile, ancora più selvaggia. L'adattamento pop della Salomè firmato da Bene - coloratissimo, trasgressivo, sicuramente molto personale e quanto di più vicino ai videoclip si fosse visto fino ad allora - smuove un'indignazione generale così accesa, che si fu costretti a chiedere l'intervento delle forze dell'ordine. Qualche tempo dopo, Bene ricordò che alla prima del film si era ritrovato "al Palazzo del Cinema, stipato di più di tremila bestiacce" e che riuscì ad evitare il linciaggio grazie alla polizia, ma non gli furono risparmiati gli insulti e "gli sputi dei veneziani in frac". 
Ma il Cristo che si trasforma in vampiro portato in scena da Bene - insieme all'esotica Salomè nera Donyale Luna - non è l'unica provocazione religiosa di questo decennio, visto che l'anno prima Ken Russell aveva incendiato la mostra con I Diavoli, accusato di blasfemia e successivamente sequestrato al momento dell'uscita nelle sale. Viene chiesto il licenziamento di Gian Luigi Rondi, e fanno discutere le sequenze più calde del film, tra cui quella del sogno di Suor Jeanne (Vanessa Redgrave) che bacia la ferita sul costato di Urbano Grandier (un massiccio Oliver Reed, già interprete per Russell di Donne in Amore). 
Nello stesso periodo fanno discutere Domenica maledetta domenica di John Schlesinger - incentrato su due coniugi che condividono lo stesso amante, il giovane Bob - il nuovo film di Fassbinder, Attenzione alla puttana santa!, ma soprattutto Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, che fu accolto con entusiasmo ma indignò le istituzioni per la rappresentazione esplicita della violenza ed è rimasto vietato ai minori di 18 anni fino al 2007, anno della sua prima messa in onda televisiva. 
Dopo un inizio così discusso, gli anni Settanta della Mostra si chiudono con un'edizione dai contenuti forti: c'è La Luna di Bertolucci, ad esempio, che parla di droga e incesto - con sequenze molto forti - ma anche altre storie che hanno per protagonisti i giovani, tra cui Vereda Tropical, di Joaquim Pedro de Andrade, incentrato su un ragazzo il cui oggetto del desiderio è una succosa anguria (molti anni prima de Il gusto dell'anguria, che vivacizzò più di un festival con il suo colorato cocktail di sesso, canzoni e cocomeri)


Gli anni Ottanta e Novanta: querelle,
tentazioni e scandali mancati
Willem Dafoe è Gesù nell'"Ultima tentazione di Cristo"
(1988) di Martin Scorsese 
Willem Dafoe è Gesù ne L'ultima tentazione di Cristo di Scorsese Gli scandalosi protagonisti di questo periodo, saturo di provocazioni costruite a tavolino, più che di vere pellicole in grado di lasciare un segno (nell'arte come nell'immaginario collettivo) sono due: Fassbinder e Scorsese. Il regista tedesco è scomparso da appena due mesi, eppure il suo Querelle de Brest, presentato in concorso nel 1982, solleva un tale polverone mediatico - ancor prima della presentazione alla Mostra - che il direttore della kermesse si vide costretto a rilasciare un comunicato per calmare le acque, e difendere la scelta di includere il film in cartellone. Anche il presidente della giuria di quell'anno, Marcel Carné, difese il film - che nelle sale italiane uscirà con un taglio di circa due minuti su una sequenza di sesso gay - non essendo riuscito a fargli avere un premio. 
Ma l'approdo del marinaio Georges Querelle in Laguna non susciterà lo stesso clamore riservato al Gesù di Martin Scorsese, sei anni dopo. Se per l'ultimo film di Fassbinder si era mossa la censura, per L'ultima tentazione di Cristo arrivano anatemi dalla Chiesa Cattolica, ma anche da rappresentanti del mondo del cinema e interventi "preventivi" dei magistrati. Zeffirelli attribuisce il film a "quella feccia culturale ebraica di Los Angeles, sempre in agguato per dare una botta al mondo cristiano", e le associazioni cattoliche promuovono il boicottaggio della pellicola che racconta un Gesù più umano, rispetto alle precedenti rappresentazioni. Per il film di Scorsese è tutta pubblicità, e la sua presentazione alla Mostra è il chiaro segnale che ormai, a far scandalo non è tanto il sesso, ma un approccio controverso (o alternativo) a tematiche religiose. Una tendenza che poi sarà confermata negli anni a venire.
Per il resto, nell'arco di questi vent'anni alla Mostra, il comune senso del pudore non subisce grandi scossoni. All'inizio degli anni Ottanta fa discutere Ferreri con il suo Storie di ordinaria follia, ma ad un certo punto - con l'esclusione di Velluto blu dal cartellone - qualcuno, come la Aspesi, chiede ironicamente a gran voce "pietà, dateci uno scandalo", rivolgendosi evidentemente a Gian Luigi Rondi, che non aveva accettato il film di Lynch in cartellone semplicemente perché gli dava fastidio vedere la figlia di Ingrid Bergman senza veli.
Valeria Marini seduta su una mortadella
in "Bambola" di Bigas Luna
Valeria Marini seduta su una mortadella in una celebre immagine promozionale di Bambola (1996) di Bigas Luna. Per tutti gli anni Novanta si tenta di conquistare la laguna con l'eros spinto, estremo - quello della serie "lo famo strano?" - si parla tanto di Boxing Helena con Sherilyn Fenn affettata come un cotechino da Julian Sands, di Bambola, con Valeria Marini seduta su una mortadella, e dell'altro film di Bigas Luna presentato alla Mostra, Prosciutto prosciutto, così come delle attrici nude di Tinto Brass che arrivano in gondola per fare un po' di chiasso insieme al loro pigmalione. Ma si tratta di chiacchiere (e sesso da salumeria, come abbiamo visto) che sfumano nel nulla, e che vengono riservate anche ad altri film in odore di scandalo come Guardami - pretestuosamente ricalcato sulla storia di Moana Pozzi - o Una relazione privata di Frederic Fonteyne. Neanche l'attempato gelataio dai gusti particolari di João César Monteiro ne La commedia di Dio riesce a scandalizzare seriamente qualcuno, e a questo punto non c'è da stupirsi se qualcuno paragona la mostra di quegli anni a eventi popolari, ma meno prestigiosi come Miss Italia o Sanremo. 
Le uniche discussioni più seriose riguardano Assassini Nati e soprattutto l'ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut che viene presentato furbescamente come una pellicola scandalosa, addirittura "un film a luci rosse d'autore", ma non desta scalpore e lascia la critica con l'amaro in bocca. 


Dagli anni Zero ad oggi: Il fantasma e il sessodipendente
Ricardo Meneses è Sergio ne Il fantasma di Joao Pedro Rodrigues. I primi anni Zero della Mostra si aprono con un film sessualmente esplicito e cupo, che fa discutere moltissimo e non piace a tutti. La storia di Sèrgio, netturbino gay interpretato da Ricardo Meneses, è l'unica che scuote davvero il Festival in questi anni, anche se non mancheranno certo le pellicole controverse. Il fantasma di João Pedro Rodrigues mostra il protagonista impegnato in una serie di scene che non lasciano nulla all'immaginazione, tanto sono esplicite - sesso orale in bagni pubblici, masturbazioni con ipossia, costumi in latex nero: ce n'è abbastanza per far arrossire il povero Fassbinder di Querelle - e lo stesso Meneses, a Venezia, appare un po' frastornato, sorridente, ma certamente non abituato a gestire tanta attenzione e curiosità sulle sue performance, e d'altronde O Fantasma sarà la sua unica prova interpretativa, oltre che l'unico film capace di scuotere il Festival nella "vecchia maniera" in cui si intendeva fino a qualche anno fa.
Venezia cambia - e cambiano anche i critici che la vivono, oltre che gli addetti ai lavori - quindi se è vero che alcuni film si prestano a qualche chiacchiera - parliamo dei due film di Larry Clark presentati a inizio anni Zero, Bully e Ken Park, ma anche del piccante Y tu mamá también, che porterà fortuna ai due simpatici protagonisti Gael Garcia Bernal e Diego Luna - la maggior parte delle pellicole presentate negli ultimi anni si prestano a far discutere più per i temi affrontati che per le sequenze calde o per scene d'amore omosessuali. Ad esempio I segreti di Brokeback Mountain, così come A Single Man, non saranno accolti con lo stesso sconcerto riservato al film di Rodrigues, ma se ne parlerà soprattutto per le qualità artistiche. 
Più che sollevare polemiche, i film degli ultimi anni hanno contribuito a rilanciare dei dibattiti molto interessanti, anche se accesi: si è parlato di eutanasia in occasione della presentazione di Mare dentro e più recentemente della Bella addormentata di Bellocchio (che tra l'altro era ricalcato sulla vicenda di Eluana Englaro, quindi un argomento ancora caldissimo sui media), si è parlato di controversie legate alla religione con i transessuali islamici di Tedium, ma soprattutto con Magdalene, del 2002 - in cui si denunciavano gli abusi subiti dalle giovani "peccatrici" ospiti dei conventi della Maddalena, in Irlanda - e più recentemente con Paradise: Faith, soprattutto per una sequenza di masturbazione con un crocefisso. 
E se Bertolucci, trent'anni prima, parlava di droga, negli ultimi anni la Mostra si aggiorna affrontando il tema delle dipendenze (generiche, ma non meno insidiose) con Shame, per il quale si spende qualche battuta colorita sulle "misure" di Michael Fassbender, ma soprattutto fa parlare per l'intensità del tema e delle sequenze che vedono protagonista il bravo e affascinante attore tedesco. 
Anche il nostro Stefano Accorsi aveva smosso un po' le acque a Venezia con il suo celebre nudo integrale in Ovunque sei, ma i temi affrontati dal film di Placido non avevano certamente lo stesso impatto di quelli del film di Steve McQueen. 
Shame: Michael Fassbender a letto con il suo computer in una scena del film. A fare scandalo - e sul serio - in questi ultimi anni, sono alcune presenze legate al clima politico. Non è tanto l'approdo di una starlette come Noemi Letizia a suscitare sdegno - d'altronde la ragazza, dopo le vicissitudini con Papi, era in cerca di visibilità - ma il fatto che per la bulgara Michelle Bonev, vicina all'ex-premier, sia stato istituito un premio speciale, nel 2010, e siano state spese cifre ingiustificate. Insomma, nessuna scena hot, nessun tema caldo riesce a mettere in ombra certe bassezze. 
E quest'anno? The Canyons promette sicuramente di fomentare un po' di discussioni - soprattutto sul fronte del gossip - ma tra i film presentati alla 70esima Mostra del Cinema, quello che ha un buon potenziale di lanciare un vero dibattito è Gerontophilia, per il quale il provocatorio Bruce La Bruce mette in scena il rapporto tra un ragazzo di diciotto anni e l'anziano ospite di una casa di riposo, che ne ha ottantadue. Staremo a vedere cosa ci aspetta.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Agata Amato, Alessandro Barbato, Fabien Gerard, Claudio Rampini, Marco Taffi
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I segreti del cinema italiano nei racconti dei Gesuiti, di Paolo Tritto

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
I segreti del cinema italiano
nei racconti dei Gesuiti, di Paolo Tritto
"F052 Codici culturali" - www.f052.it25 giugno 2011


Ho incontrato padre Virgilio Fantuzzi al termine di una manifestazione per ricordare Pier Paolo Pasolini e il suo Vangelo secondo Matteo. Padre Fantuzzi, gesuita, è docente di analisi del Linguaggio cinematografico alla Pontificia Università gregoriana e critico cinematografico della “Civiltà cattolica”. Ma è anche, più semplicemente, un amico di tanti personaggi del cinema. Nemmeno lui sa spiegare cosa lo leghi a questo mondo apparentemente così distante dalla Chiesa. Dice che, per esempio, Bernardo Bertolucci lo ha punzecchiato per tutta la vita; ma a un certo punto, chissà perché, ha iniziato a manifestargli grande simpatia. «Io ho cominciato ad apprezzarlo» dice il gesuita, «quando uscì “L’assedio”, un film che mi è piaciuto molto».
Padre Fantuzzi è uno scrigno di ricordi, anche divertenti. Come quando racconta un aneddoto riferito proprio al Vangelo secondo Matteo. Si era ormai alla vigilia dell’inizio delle riprese e Pasolini, che non voleva attori professionisti per il film, non aveva ancora trovato chi dovesse interpretare il ruolo non certo secondario di Gesù. In seguito, il produttore riferirà al padre gesuita che questa situazione lo aveva preoccupato non poco e l’orientamento del regista lo lasciava alquanto perplesso. Addirittura negli ultimi giorni Pasolini aveva preso in considerazione l’eccentrica idea di affidare la parte a un seminarista del Russicum, il collegio pontificio che preparava i futuri sacerdoti da inviare in Unione Sovietica nell’eventualità - per la verità, piuttosto remota allora - del crollo di quell’ateismo di Stato che dominava il regime comunista. Si trattava dunque di un personaggio con la fisionomia di un pope della Chiesa slava, dalla caratteristica corporatura massiccia e la barba foltissima.
Padre Fantuzzi ricorda che il produttore Alfredo Bini era letteralmente afflitto nel vedere che il suo più importante film sarebbe stato rovinato dall’interpretazione di un personaggio dall’aspetto così rozzo e sgradevole. Con quella specie di pope russo nei panni di Gesù, il fiasco sarebbe stato certamente totale. Ma nel corso del provino cui fu sottoposto il seminarista del Russicum, improvvisamente si aprì la porta ed entrò uno studente spagnolo che si chiamava Enrique Irazoqui. «Benché Bini non fosse un grande credente» commenta divertito il gesuita, «in quel momento gridò al miracolo». Irazoqui gli sembrava un segno inviato dal Cielo per salvare il suo film. Fortunatamente “l’intervento divino” spinse anche Pier Paolo Pasolini a rivedere i suoi piani e così il Vangelo secondo Matteo scampò al disastro.
Il rischio di un insuccesso, infatti, era già nell’aria. Bisogna capire i tempi in cui si colloca il Vangelo di un Pasolini che era stato appena condannato dalla magistratura per vilipendio della religione di Stato. Una faccenda particolarissima perché la Chiesa aveva mostrato di non ritenere La ricotta una pellicola oltraggiosa nei confronti della religione. E agli atti del processo era stata anche allegata la lettera di padre Domenico Grasso, un altro gesuita ed esponente di spicco del Vaticano; nella lettera, padre Grasso affermava: «credo che non si possa tirare la conclusione del vilipendio alla religione». Nonostante ciò, la condanna per vilipendio alla religione di Stato ci fu. Evidentemente la “religione di Stato” era altra cosa rispetto alla “religione della Chiesa”.
Questo fa capire quanto grande fosse allora il conformismo all’interno della cultura dominante e quanto profonda l’ostilità nei confronti del “marxista, omosessuale e ateo” Pier Paolo Pasolini. Dice padre Virgilio Fantuzzi: «Attorno a lui c’era denigrazione. Aveva una pessima fama alimentata da una stampa malevola».
Terminata la conversazione con padre Fantuzzi, mi torna alla mente l’incontro di tanti anni fa con un altro critico cinematografico della Compagnia di Gesù, padre Nazareno Taddei, un mito nei cineforum parrocchiali di trenta-quarant’anni fa. Lo intervistai nel corso di una cena, quando parlò ininterrottamente per un’ora e mezza. Cercò di spiegarmi il suo metodo di lettura delle pellicole cinematografiche, un metodo un po’ cervellotico che doveva servire a una comprensione su basi scientifiche del film. Non so se il metodo era realmente efficace. Comunque, padre Taddei è ricordato soprattutto per il suo rapporto con Federico Fellini. Molto scalpore fece una recensione della Dolce vita dove il gesuita dichiarava il suo apprezzamento per il film. Si trattava di un giudizio rispetto al quale padre Taddei riteneva di avere le spalle ben coperte, avendo registrato un parere positivo da parte del cardinale Siri, l’arcivescovo di Genova che passava per un intransigente tradizionalista. Se c’era stata quell’apertura da parte del porporato genovese, Taddei riteneva che attorno al suo giudizio sulla Dolce vita non ci dovessero essere dissensi. E invece i dissensi ci furono e vennero paradossalmente dalla curia milanese alla guida della quale c’era il cardinale Montini, futuro papa, che tutti consideravano progressista e aperto alla modernità.
L’incidente gli costò caro e padre Taddei fu mandato in esilio a Monaco di Baviera, anche se poi, si trattò di un provvedimento che non divenne mai realmente esecutivo. Ricordava il padre gesuita che a Monaco, di fatto, ci andò due volte per una decina di giorni.
Comunque, chi ci rimase veramente male fu proprio Federico Fellini. Taddei ha rivelato in un’intervista concessa qualche anno fa ad Andrea Fagioli: «I miei superiori mi diedero l’incarico di farne una “lettura” ponderata, oggettiva, per il nostro mensile “Letture”, senza preoccuparmi delle voci di polemica che già da quella sera erano nate tra la posizione di Siri e quella di Montini. Rividi il film diverse volte e per ben dieci giorni e quasi dieci notti studiai la “lettura”. Ne discutevo anche con lo stesso Fellini, il quale, per tutta quella prima settimana, mentre la folla faceva la ressa per andare a vedere il film, veniva da me ogni pomeriggio. Era addoloratissimo e umiliato, a volte piangeva…»
Il “pasticcio” fu dovuto a padre Angelo Arpa, un altro gesuita che operava a Genova e che per questo aveva una certa influenza sul cardinale Siri. Gian Luigi Rondi, scrivendo sul mensile "30Giorni", in occasione della morte di padre Arpa, ha ricostruito la vicenda della  Dolce vita: «Il cardinale Siri prese le difese del film, alcuni scrittori gesuiti (padre Nazzareno Taddei su "Letture") non risparmiarono consensi ben soppesati e meditati, ma ci volle tempo prima che il clamore e le molte riserve ufficiali si calmassero. Si leggano i retroscena di quell’episodio nell’ultimo libro di padre Arpa pubblicato nel ’96, L’arpa di Fellini. Insieme con altri argomenti (“Fellini persona e personaggio”, “Sesso e sessualità in Fellini”) c’è un capitolo intitolato “La dolce vita: cronaca di una passione”, che padre Arpa, con segreta ironia, sottotitolò “Pandemonio politico, religioso e culturale che la creatura felliniana scatenò nella Roma degli anni Sessanta”. Si chiariranno molti equivoci».
Dopo la morte di padre Nazareno Taddei, è stato intitolato al suo nome un premio cinematografico che durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è assegnato al film in Concorso capace di «esprimere autentici valori umani con il miglior linguaggio cinematografico».  
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Los Angeles: approfondimenti sulla mostra "L'oriente di Pasolini nelle foto di Roberto Villa"

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LE NOTIZIE
2 agosto 2013,Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles
Pasolini's East - Photographed by Roberto Villa

Los Angeles: approfondimenti sulla mostra
"L'oriente di Pasolini nelle foto di Roberto Villa"
26 agosto 2013

L’Istituto Italiano di Cultura e dal Consolato di Los Angeles presenta l’evento
"Arabian Nights", in occasione della presentazione
della più grande mostra fotografica mai realizzata su Pier Paolo Pasolini,
"L'oriente di Pasolini nelle foto di Roberto Villa".
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CLICCA QUI PER RAGGIUNGERE IL SITO WEB ORIGINALE DI ROBERTO VILLA
[ FOTO COPERTE DA COPYRIGHTS MA COMUNQUE VISIBILI ]

CLICCA QUI PER ASCOLTARE UNA INTERVISTA MOLTO INTERESSANTE
A ROBERTO VILLAEFFETTUATA IN ARGENTINA IL 6 GIUGNO 2013
.
QUI DI SEGUITO, UNA SERIE DI LINK A PAGINE RIGUARDANTI LA MOSTRA DI ROBERTO VILLA A LOS ANGELES:
 Los Angeles. Roberto Villa con il Direttore dell'Istituto di Cultura di L.A., Alberto Di Mauro
Il Medioriente di Pasolini nelle fotografie di Roberto Villa
La mostra  è costituita da oltre 100 immagini esplorando  l’esperienza del  fotografo torinese (presente all’inaugurazione) sul set di Il fiore  delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, che documenta il lavoro del regista in Medioriente (Yemen ed Iran), ma offre anche uno degli ultimi ritratti di una terra sul punto di divenire zona di  guerra.  La mostra è stata curata da Rosalba Trebbian e Gianluca Farinelli in collaborazione con Fondo Roberto Villa - Cineteca di Bologna,  fino al 28 agosto all’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles.

Puro ed impuro: i film di Pier Paolo Pasolini
L’eredita’ intellettuale del regista Pier Paolo Pasolini una delle più importanti e controverse nell’Europa del dopoguerra. Celebrato in agosto con una ricca retrospettiva con Accattone (1961), Il Decameron (1971), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Vari altri eventi hanno accompagnato la retrospettiva per rendere omaggio alla versatile carriera di Pasolini. Organizzato dall’UCLA Film & Television Archive, American Cinemathque,  Luce Cinecittà e l’Istituto Italiano di Cultura; in collaborazione con  il Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini/Cineteca di Bologna.
«La mostra - rende noto il direttore dell' Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles, Alberto Di Mauro - ha un incredibile successo, (350 presenze al vernissage, una media di 50 giornaliere e alcune punte di 150 per incontri speciali) non certo per il solo nome del Maestro, il nome che viene "speso", come molti da tempo hanno capito e fanno, è quello di Pasolini, "accompagnamento" che rende tutto più facile ed interessante».
«Sono particolarmente divertita - dice Rosalba Trebian - presentando come, chi ha lasciato la fotografia professionale da un quarto di secolo, un "pensionato", invece che il gioco delle bocce, abbia scelto la faticosa incombenza di far conoscere, in giro per il mondo, con Ambasciate, Consolati, Istituti Italiani di Cultura, Cineteche, Università, ecc., il cinema italiano, il cinema di Pasolini ed il suo impianto "linguistico ed ideologico”…»
La mostra non è organizzata in un club da amici ma dall'Ambasciata Italiana, dal Consolato Italiano e dall'Istituto Italiano di Cultura a Los Angeles così come già avvenuto a Buenos Aires da dove la mostra viene spostata.
«È la più grande mostra mai realizzata al mondo sul lavoro del Regista e Poeta con il quale, il Maestro Roberto Villa ha lavorato, circa 8000 foto di cui ne sono esposte poco più dell'1,5 %», dicono gli organizzatori.
C'è chi ha lasciato, per cento giorni, un lavoro proficuo, di fotografo pubblicitario, ed ha seguito Pier Paolo Pasolini e la sua troupe in Medio Oriente nella realizzazione del film "Il fiore delle Mille e una notte", realizzando un documento unico nella storia del Cinema e della Fotografia.
L'ha fatto Roberto Villa, un Maestro della Fotografia Italiana, che non è conosciuto per le Mostre, i Concorsi o le presentazioni fatte da amici, ma che è conosciuto dalle Università, dai Grandi del Cinema, i premi Oscar, (Registi, Sceneggiatoti, Scenografi, Critici) con i quali dialoga abitualmente dei problemi linguistici del cinema così come ne ha parlato, per oltre tre mesi, con un Grande come Pier Paolo Pasolini.
Oggi, questo formidabile documento fotografico è richiesto dalle Grandi Cineteche Internazionali, dalla Cineteca di Bologna, che ha istituito un Fondo a nome di Roberto Villa, alla Cinemateca di Buenos Aires, al Museo da Imagem e do Som di Sao Paulo in Brasile, al MoMA di NY (unico fotografo Italiano che sia mai stato invitato) ed, oggi, all'Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles, e così via.
Nel 1968 Gillo Dorfles aveva tacciato pubblicamente, al Teatro dell'Arte a Milano, i fotografi di ignoranza ...
Recentemente Dorfles (103 anni) ha incontrato Roberto Villa e gli ha fatto, ancora una volta, i suoi complimenti per quel ciclopico documento di Cinema e Fotografia. All'osservazione di un giornalista della Repubblica che "forse il Maestro Roberto Villa avrebbe dovuto essere più "autocelebrativo" e più "presenzialista", ed essere più "Commerciale" e "Commerciabile", Dorfles ha risposto "è vero, ma, forse, sarebbe solamente famoso come tanti altri "fotografi”…

COLLEGAMENTI ALLE GALLERIE FOTOGRAFICHE DI ROBERTO VILLA
SUL SET DEL "FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE":

Immagini della mostra di Los Angeles (fino all'8 settembre 2013) ""L'oriente di Pasolini nelle foto di Roberto Villa".

Immagini scattate da Roberto Villa in gran parte durante la lavorazione del "Fiore delle Mille e una notte".

Scatti "d'ambiente" realizzati da Roberto Villa nello Yemen (Sana'a) durante la lavorazione del "Fiore delle Mille e una notte".
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Festival internazionale del cinema e delle arti - I mille occhi - Trieste, presso il Teatro Miela dal 13 al 17 settembre 2013

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LE NOTIZIE
La cattedrale di San Giusto a Trieste

I mille occhi.
Festival internazionale del cinema e delle arti
Trieste, presso il Teatro Miela dal 13 al 17 settembre 2013
www.sentieriselvaggi.it

I mille occhi, Festival internazionale del cinema e delle arti giunge alla XII edizione, e si svolgerà al Teatro Miela di Trieste dal 13 al 17 settembre, con un'anteprima a Roma, che si terrà presso il Cinema Trevi – Cineteca Nazionale, nei giorni 10 e 11 settembre.La Cineteca Nazionale è infatti da cinque anni partner del festival accanto alla Cineteca del Friuli di Gemona e offre al festival l'opportunità di un'importante presentazione romana.
Giovani cineasti come i francesi Thomas Jenkoe e Diane Sara, o gli italiani Roberto Caielli, Nicola Vicidomini e Miona Deler saranno presenti al festival, e si intrecceranno con omaggi a cineasti del passato. Il Premio Anno uno, che come ogni anno concluderà il festival, stavolta è stato assegnato a un cineasta italiano, il siciliano Franco Maresco, che presenterà il suo ultimo film Io sono Tony Scott. Affermatosi in coppia con Daniele Ciprì nella provocatoria televisione di Cinico TV, Maresco ha realizzato un'opera di grande splendore e intensità, presentando la figura del grande jazzista americano sullo sfondo di un paese degradato qual è considerata l'Italia di oggi. 
Dopo che la precedente edizione del festival è stata segnata dalla riscoperta di Valerio Zurlini, il festival ha colto lo spunto per un viaggio nel cinema italiano attraverso l'opera di questo grande regista. La serata inaugurale sarà quindi dedicata al cineasta che Zurlini ha sentito più vicino, il Pasolini de Il Vangelo secondo Matteo, che sarà proiettato alla presenza del protagonista Enrique Irazoqui. Il programma seguirà con una dedica al cineasta veneziano Gianni Da Campo, di cui verranno proiettati i tre unici lungometraggi e un cortometraggio.
Zurlini è con Da Campo e Pasolini tra i cineasti non credenti più volte attratti da temi religiosi. Il programma li presenterà insieme ad altri film italiani che hanno toccato liberamente temi religiosi, da Francesco giullare di Dio di Rossellini a Peppino e Violetta di Cloche, il film italiano più amato da John Ford. La rassegna li unirà ad alcuni preziosi documenti, come il film “ufficiale” del Concilio Vaticano II realizzato da Antonio Petrucci, il film di Romolo Marcellini Guerra contro la guerra e la diretta televisiva della messa di Paolo VI per Aldo Moro. Seguendo Rossellini, Pasolini e Zurlini, il festival vuole riscoprire la forza di un cinema italiano, che riprende anche Maresco, in cui si affronta il rapporto tra fede e assenza di fede. 
Il programma dedicherà particolare attenzione anche ad alcune figure che collegano il cinema italiano con Trieste. Saranno completati gli omaggi a Lia Franca e Laura Solari, e il trittico di affascinanti attrici triestine includerà inoltre un omaggio a Federica Ranchi, che sarà presente al festival. (v.b.)
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Primo Piano: Pier Paolo Pasolini, un film di Carlo Di Carlo del 1967

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LA SAGGISTICA
Primo piano: Pier Paolo Pasolini
Video del 17 gennaio 2013


Regia: Carlo Di Carlo
Casa di produzione: Unitelefilm
Anno: 1967

Il film traccia un ritratto di Pier Paolo Pasolini e della sua attività letteraria e cinematografica, attraverso un'intervista con Pasolini stesso e una serie di riprese effettuate nelle borgate romane. Pasolini mette in risalto la sua vicenda di uomo di cultura, di scrittore, di poeta, di cineasta, con riferimenti ai problemi della vita italiana degli ultimi venticinque anni, e in particolare in rapporto alla condizione umana e sociale dei giovani e dei sottoproletari della periferia della capitale. Nel documentario sono inserite, come documentazione dell'attività cinematografica di Pasolini, alcune immagini tratte dai suoi film. Il documentario è l'unico realizzato nell'ambito del progetto "Primo piano. Personaggi e problemi dell'Italia d'oggi". Partecipazione a manifestazioni: Festival dei Popoli - Firenze 1975
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Mostra del Cinema di Venezia - L'anticonformista. Benvenuto Presidente! L’ultimo imperatore del cinema italiano sbarca in Giuria: grande cineasta e spettatore ideale, la qualità è salva

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LA SAGGISTICA
Bernardo Bertolucci, Presidente della Giuria della 70esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia

L’anticonformista
Benvenuto Presidente! L’ultimo imperatore del cinema italiano
sbarca in Giuria: grande cineasta e spettatore ideale, la qualità è salva
29 agosto 2013 - http://argomenti.ilsole24ore.com/



Spettatore libero e onnivoro di film, e lo è ancora tenacemente, Bernardo Bertolucci è l'unico cineasta nella storia del cinema italiano che ha potuto produrre e girare film colossali in qualsiasi angolo del pianeta, combinando grandi capitali e roulette indipendenti, cast e troupe internazionali, nel modello artigianale invece che industriale, secondo una sensibilità ai tempi e nei tempi, direi unica, dei sincretismi artistici e culturali che evocavano un trend deviato del postmoderno: Visconti, Pasolini, Godard, la psicanalisi freudiana, il melodramma italiano, David Lean, la world music, il dipinto rinascimentale nella luce e un istinto decisivo al verso poetico, all'immagine simbolica, a volte al canto, decisivo perché stabilisce da che parte stanno i detrattori e da che parte gli ammiratori, mentre il punto di fuga, intimo, di questo istinto, è l'irresoluto rapporto col padre Attilio, che un giorno del marzo 1996, dopo aver visto Io ballo da sola, a decenni da Strategia del ragno, Ultimo tango a Parigi, Novecento e L'ultimo imperatore gli disse: "Bravo, è il tuo primo film".
Questa vocazione cosmopolita nell'umore del film di Bertolucci Bernardo è appunto una vocazione dell'umore del film, che invece, al fondo, è sempre un mélo esistenziale, a volte accademico, a volte selvatico, legato alle radici dell'artista, a quel doppio esordio nella vita artistica, nella poesia e nel cinema, a 21 anni, nel 1962. Bertolucci ha incominciato a meno di vent'anni con una sedici millimetri tra le cascine dell'Appennino dove andava in vacanza. In sala, quando esce La commare secca, a 21 anni, è un exploit per i critici, che riconoscono un'immagine radicale, fotografia di borgata (dall'ultimo capitolo di Ragazzi di vita di Pasolini) con sfumature liriche, nell'eco della nouvelle vague francese che esaltava il neorealismo, mentre il giovane Bertolucci lo trascendeva, come il giovane Pasolini, ma in un modo diverso: "Non è affatto pasoliniano nello stile e pochi critici lo notarono" (Morando Morandini). I cinici dicono che per tutta la vita Bernardo ha cercato nel film un riscatto dalla poesia scritta, totem paterno, motore intimo di tormento per risultati a volte molto alti (Il conformista, Ultimo tango a Parigi, L'assedio, Strategia del ragno).
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Agata Amato, Alessandro Barbato, Fabien Gerard, Claudio Rampini, Marco Taffi
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Pasolini secondo Roberta Torre

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LA SAGGISTICA
Roberta Torre al VideoLab Film Festival, manifestazione internazionale
dedicata ai Corti cinematografici, Ragusa, agosto 2013

Pasolini secondo Roberta Torre
XV VideoLab Film Festival di Ragusa

Ragusa - Pasolini secondo Roberta Torre. Nella terza serata del XV VideoLab Film Festival, davanti agli spettatori che hanno gremito il Parco di Athena del Museo Archeologico di Kamarina, la regista ha presentato i suoi documentari “pasoliniani”: La notte quando è morto Pasolini e  Iltiburtinoterzo. Entrambi girati nel 2009.
“Pino Pelosi  - ha detto la cineasta - è l’ultimo che ha visto Pasolini. Ho appreso molto di più dalle sue bugie piuttosto che dalle sue verità. Non volevo fare un’inchiesta. Volevo conoscere le notti di Pasolini. Ho molto amato certi quartieri di periferia come Tiburtino. Ho cercato altri personaggi, gli odierni ragazzi di vita pasoliniani. Sono dei sottoproletari senza futuro. Vivono in una sorta di riserva indiana. Avrei desiderio di tornare lì, per vedere cosa è successo dopo la realizzazione del documentario. Mi hanno che c’è chi si è sposato, chi si è perso definitivamente. La periferia mi ha sempre attratto. Di recente, ho fatto delle riprese allo Zen di Palermo. Un luogo ostile. Che mantiene, comunque, la propria  dignità”.
A proposito del suo metodo di lavoro, la Torre punta, sempre, sulla ricerca della verità. “Non parto mai da una tesi. Non voglio dimostrare. Seguo la lezione del pedinamento zavattiniano. Non ho mai pensato di essere una regista. Anche perché, volevo fare l’antropologa o la psicanalista. Ma il cinema mi ha dato l’opportunità di indagare i lati più oscuri dell’animo umano”.
La retrospettiva dedicata alla regista si conclude con la visione di quattro corti: Angelesse (Italia 1994, 35’), che mostra sette ritratti di donne palermitane dei quartieri-dormitorio della periferia urbana (Zen e Borgo Nuovo), tradizionalmente considerati “a rischio”; Spioni (Italia 1994, 15’), sui ragazzi del quartiere Brancaccio, che ritengono che la mafia sia l’unica vera prospettiva di guadagno e protezione, di fronte a uno Stato che considerano “assente”; La Fabbrica (Italia 2010, 7’), che narra le vicende di un esercito di bambini che deve esprimere un desiderio, prima di abbandonare la fabbrica; Il Cielo Sotto Palermo (Italia 1995, 6’), su un incontro con i detenuti dell’Ucciardone, nel quale emerge, agghiacciante e reale, la consapevolezza di un mondo parallelo a quello della legge dello Stato.
Si conclude infine il Concorso Internazionale dei Corti del Cinema d’Arte Mediterraneo di Kamarina. La Giuria che decreta il Miglior Corto, cui conferisce il premio di 1.500 euro, è presieduta dalla stessa Torre ed è composta da: Sebastiano Gesù, storico del cinema; Lucia Sardo, attrice; Giuseppe Gambina, esercente cinematografico; Antonella Giardina, storica del cinema. Vengono premiati anche il miglior documentario, la migliore regia, la migliore sceneggiatura, il migliore attore, la migliore attrice.
Per la serata conclusiva, i corti in concorso sono: il documentario 5 kmq di Sonia Giardina e Salvatore Tuccio. Un fazzoletto nero di 5 kmq nel cuore del Mediterraneo. La piccola isola di Linosa, lontana 167 km dalla Sicilia e 145 km dalla Tunisia, si trova, da sempre, in un forte isolamento che condiziona l’esistenza dei suoi abitanti.
Cargo di Carlo Sironi. Storie di una periferia italiana. L’umiliazione di corpi venduti e l’ineluttabile dolcezza di un sentimento.
Il trucco di Riccardo Banfi. Un delicato inno alla prima infatuazione. Gesti appena accennati e la timida scoperta dell’universo femminile di un bambino.
Ainult meie kolm di Giampiero Balia. La scoperta di un abbandono. Il desiderio della conoscenza delle proprie origini. Un doloroso cammino di riconciliazione.
Ngutu di Felipe del Olmo e Daniel Valledor. Una città europea. Il mondo di privazione e disagio di un giovane migrante. La sensibilità del suo sguardo come unica risorsa di sopravvivenza.
Il passeggero di Benni Piazza. Un cortometraggio dalle atmosfere surreali e inquietanti che racconta un incontro imprevisto.
Memorial di Francesco Filippi. Le drammatiche vicende della seconda guerra mondiale. L’incontro tra un vecchio e una bambina.
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Poetica di un jeans, di Marco Belpoliti

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LA SAGGISTICA
Poetica di un jeans
A quarant’anni dalla pubblcazione, la rilettura di un articolo di Pasolini
su una pubblicità “scandalosa” riserva nuove sorprese
di Marco Belpoliti
“L’Espresso”, settembre 2013

UN RINGRAZIAMENTO A BEATRICE DA VELA CHE HA GENTILMENTE INOLTRATO L'ARTICOLO

Il 17 maggio  1973 i lettori del "Corriere dellaSera" trovano tra i commenti un articolo di Pier Paolo Pasolini: "Il folleslogan dei jeans Jesus". Un lungopezzo in cui il celebre intellettualeanalizza la pub­blicitàdi un marchiodi jeans,Jesus, apparsa suimuri dellecittàitaliane: "Non avraialtrojeans all'infuoridi me". Punto centrale, un tema chegli sta molto al cuore: il rapporto tra la Chiesa e il neocapitalismo. Occasio­ne, l'interventocensorio richiesto dall’"Osservatore romano" e rivolto alla magistratura: va sequestrato il manifesto pubblicitario.
Pasolini spiega ai lettori del giorna­le della borghesia italianache la Chie­sa ha perso la battagliacontro il nuo­vo potere. E se il «tono piagnucoloso e perbenistico»dell'articolodell’"Osservatore" nasconde «lavolon­tà Minacciosa del Potere», in realtàil neocapitalismo, il Nuovo Potere, può fare benissimo a meno della Chiesa: «Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è piùspazio». Come mostra il caso della denuncia contro il manifesto, la Chiesa combatterebbe una battaglia in ritardo; la repressione non serve più a nulla. L’alleanza tra borghesia e Chiesa non è più necessaria, il clericalismo è un vecchio arnese.
Un pretore siciliano, Salmieri, ordina il sequestro del manifesto su tutto il territorio nazionale con l’accusa di blasfemia e oscenità. Nel testo, ripubblicato in Scritti corsari col titolo “Analisi linguistica di uno slogan”, non c’è stranamente nessuna analisi visiva del manifesto, come ha notato Giuseppe Mazza, pubblicitario, editore della rivista BILL.
Pur uomo di cinema, attento agli aspetti visivi, Pasolini non spende una parola per commentare l’immagine di Oliviero Toscani su cui è stampigliato lo slogan inventato da Emanuele Pirrella. Nel manifesto si scorge un corpo abbronzato con zip dei jeans calata e peli biondi del pube in mostra. Il sesso è in ombra: uomo o donna? Curioso che l’autore del “Decameròn” non abbia analizzato l’aspetto erotico del messaggio. L’attenzione si fissa invece sullo slogan e sulla reazio­ne della Chiesa cattolica. Spiega che uno slogan per funzionare deve essere espressivo «per impressionare econ­vincere»; tuttavia la sua espressività diventasubito stereotipata, mentre l'espressività deve essere «eternamente cangiante» per offrirsi «a un'ìnterpretaziione infinita».
Che la provoca­zione sia di natura sessuale lo confer­ma il manifesto successivo, sempre di Toscani, su cuiPirrellaimprime una nuova frase a effetto. Si scorgono un paio di natiche femminili - sono di Donna Jordan - inguainate in un paio di jeans; sulla cintura è in evidenza il marchio Jesus. Testo: "Chi mi ama misegua”.
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TETIS, da "Erotismo, eversione, merce", Cappelli, Bologna 1973, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999

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LA SAGGISTICA
Maria Schneider e Marlon Brando in "Ultimo tango a Parigi" (1972) di Bernardo Bertolucci



INVITO ALLA LETTURA. BRANI DALLE OPERE DI
Tetis, di Pier Paolo Pasolini
Da Erotismo, eversione, merce, Cappelli, Bologna 1973,
in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società,
Meridiani Mondadori, Milano 1999

Le forme di un racconto letterario non sono solo tecni­co-linguistiche: ci sono anche delle forme non verbali e quindi non visibili nella pagina: per esempio, l'arco del­lo sviluppo di un personaggio, i tratti in evoluzione della sua psicologia. La critica strutturale, attraverso specchietti e grafici, è in grado di rendere visibili anche que­sti dati interni: ma si tratta di una visibilità astratta, stati­stica.
Per il racconto cinematografico vale lo stesso discor­so, perché l'autore di un film sceglie e rappresenta alcu­ni momenti della vita di un personaggio, il resto lo lascia all'interno del film, dentro le giunte.
Tra un personaggio che appare ridendo nella prima sequenza del film, e poi scompare, per riapparire, pian­gendo, nella terza sequenza, c'è un passaggio psicologi­co che non è una forma audiovisiva, pur essendo co­munque una forma del film.
Lo spettatore tuttavia non acquisisce questo passag­gio dal riso al pianto come una forma: ma si comporta con esso esattamente come se si trattasse di un fenome­no della vita. Opera cioè una interpretazione psicologi­ca, simile a quella che egli opererebbe se in un'ora della sua vita si trovasse con una persona ridente, e, dopo qualche tempo, si trovasse con la stessa persona pian­gente. Egli, nella vita, ha degli elementi «esistenziali» che gli permettono di interpretare la realtà di quel riso o di quel pianto: ma l'autore del film non mancherà certo di fornirgli elementi esistenziali analoghi.
In conclusione: lo spettatore davanti alle «inclusioni» del film, cioè alle forme audiovisive, si comporta come un «ricevente» nella realtà, ma sa che è un'illusione; in­vece davanti alle «esclusioni», cioè alle forme non-audiovisive, si comporta tout court come un «ricevente» nella realtà: le deduzioni e le conclusioni a cui egli arriva per interpretare il comportamento di un personaggio nel film, seguono lo stesso schema che per interpretare il comportamento di una persona nella realtà.
Se una maggiore vivacità caratterizza l'identificazione del codice del cinema col codice della realtà di fronte alle forme audiovisive (cioè alle parti di realtà del racconto «incluse»: riprese e montate), l'identificazione del codice del cinema col codice della realtà di fronte alle forme non-­audiovisive (cioè i momenti del racconto «esclusi» dalle riprese e dal montaggio), è un'identificazione assoluta.
Come in quel piano sequenza infinita che è la realtà, nel cinema il racconto consiste in un seguito di «inclu­sioni» e di «esclusioni». Ora, poiché in un film, la scelta è estetica, si deve dedurre che la prima scelta estetica di un regista è che cosa includere in un film o che cosa escludere.
Una scelta estetica è sempre una scelta sociale. Essa è determinata dalla persona a cui si rivolge la rappresenta­zione e dal contesto in cui la rappresentazione si svolge. Ciò non significa affatto che la scelta estetica sia impura o interessata. Anche le scelte di un santo sono sociali.
Prendiamo una scena erotica da laboratorio. Una ca­mera, un uomo, una donna. Il regista è di fronte alla so­lita scelta: che cosa includere e che cosa escludere? Ven­ti anni fa il regista avrebbe «incluso» una breve serie di atti appassionati e nobilmente sensuali, fino a comprendere un lungo bacio. Dieci anni fa il regista avrebbe «in­cluso» molto di più: dopo il primo bacio sarebbe giunto fino al momento in cui le gambe e, quasi completamen­te, i seni della donna, fossero scoperti, aggiungendo un secondo bacio ormai chiaramente precedente il coito. Oggi, il regista può «includere» molto di più: può inclu­dere il coito stesso (anche se finto dagli attori) e addirit­tura il nudo completo.
Nessuno di questi tre ipotetici registi può venire accu­sato di non aver fatto delle scelte estetiche, e di non essere andato fino in fondo al suo assunto espressivo. Di non avere, con uno sforzo personale, allargato lo spazio che - proporzionalmente - il contesto sociale gli concedeva.
Ora, pare che a questo punto, io sia chiamato in causa direttamente, e che debba testimoniare, oppure illustra­re o giustificare, un'esperienza personale e pubblica nel tempo stesso. Infatti come autore di film, in questi ulti­mi anni, ho indubbiamente compiuto uno di quegli sfor­zi individuali di cui dicevo, per allargare lo spazio espressivo che la società mi concedeva a rappresentare il rapporto erotico. Sono giunto, per esempio - cosa mai accaduta fino a quel momento - a rappresentare il sesso addirittura in dettaglio. Devo dire anzitutto che io stes­so, negli anni precedenti - sia con le opere che con gli interventi esplicitamente politici - e, inoltre, col mio stesso essere e comportarmi - avevo dato il mio contri­buto perché la società italiana mi concedesse quello spa­zio entro cui io potessi esercitare lo sforzo necessario per aumentare ancora di più le possibilità del rappresentabile. Sono state le lunghe lotte - ormai arcaiche se non mitiche - degli anni Cinquanta e quelle, ancora ribollen­ti, dei primi anni Sessanta, a preparare il terreno a questa inclinazione alle riforme e alla tolleranza da parte della società borghese italiana. La censura che un tempo censurava un seno scoperto, ora è giunta a lasciar passa­re, appunto, il dettaglio di un sesso in primo piano; e la magistratura, che, un tempo condannava per una sem­plice illazione, oggi è costretta a rendere molto più elastica la nozione sacra del «comune senso del pudore». C'è, in questi mesi, è vero, la minaccia di un ritorno all'ordine (non citerò gli esempi). Ma io penso che ciò che si è stabilizzato si sia stabilizzato, ciò che è passato sia passato. Se non fosse così, ebbene, chi ha lottato, lot­terà ancora: ma per difendere le ultime posizioni rag­giunte. È ragionevolmente da escludere che si debba ri­cominciare a lottare per difendere posizioni più arretrate. La minaccia non viene più dal Vaticano né dai Fascisti, che, nell'opinione pubblica, sono già sconfitti e liquidati, anche se ancora incoscientemente. L'opinione pubblica è ormai del tutto determinata - nella sua realtà - da una nuova ideologia edonistica e completamente, anche se stupidamente, laica. Il potere permissivo (al­meno in certi campi) proteggerà tale nuova opinione pubblica. L'eros è nell'area di tale permissività. Esso è insieme fonte e oggetto di consumo. La società non ha più bisogno di figli forti e obbedienti e di soldati. Ha bi­sogno di figli a conoscenza di nuove esigenze, e coscien­ti quindi dei nuovi diritti che sono stati concessi loro. Ma di questo dirò più avanti.
Perché io sono giunto all'esasperata libertà di rappre­sentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in dettaglio e in primo pia­no, del sesso? Ho una spiegazione, che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura - e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della bor­ghesia e quella della contestazione ad essa - mi è sem­brato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi a una cultura del passato popolare e umanistico - in cui, ap­punto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tut­to appartenente ancora all'uomo.
Era in tale realtà fisica - il proprio corpo - che l'uo­mo viveva la propria cultura.
Ora, i borghesi, creatori di un nuovo tipo di civiltà, non potevano che giungere a derealizzare il corpo. Ci sono riusciti, infatti, e ne hanno fatto una maschera. I giovani altro non sono oggi che delle mostruose masche­re «primitive» di una nuova specie di iniziazione - finta­mente negativa - al rito consumistico.
Il popolo è giunto con un po' di ritardo alla perdita del proprio corpo. Fino a pochi anni fa (quando io pen­savo al Decameròn e alla susseguente Trilogia della vita)il popolo era ancora quasi completamente in possesso della propria realtà fisica e del modello culturale a cui essa si configurava. Per un regista come me, che avesse intuito che la cultura (in cui egli si era formato) era fini­ta, che non dava più realtà a nulla, se non appunto (for­se) alla realtà fisica, era naturale conseguenza che tale realtà fisica si identificasse con la realtà fisica del mondo popolare.
Dunque riassumendo: alla fine degli anni Sessanta l'Italia è passata all'epoca del Consumismo e della Sot­tocultura, perdendo così ogni realtà, la quale è soprav­vissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere.
Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo - e proprio per ragioni stilistiche - non giungere alle estreme conseguenze di questo as­sunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancora più sintetico, il sesso. Non sarei giunto in fondo alla rappresentazione della realtà corpo­rea se non avessi rappresentato il momento corporeo per definizione. Il popolo può essere anche casto, e con­durre una vita monacale. Ma - almeno fino a pochi anni fa - non era diviso dal proprio sesso. La morale dell'onore, nel meridione, non avviliva o rimuoveva il sesso: anzi, lo esaltava. E così, del resto, la repressione esercitata dalle classi al potere. Castità e violenza sessua­le erano viste con naturalezza. I tabù creavano ostacoli, non dissociazioni.
Naturalmente al fatto che io scegliessi come protago­nista dei miei ultimi film la realtà fisica del popolo, e la rappresentassi nella sua interezza, hanno contribuito an­che altre ragioni, oltre a quella generale e profonda che ho detto. Per esempio, la ragione che i rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni con­fessione è anche una sfida, contenuta nel mio ultimo ci­nema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico piccolo-bor­ghese e benpensante (che peraltro non si è lasciato affat­to provocare, e ha semplicemente, e finalmente, ricono­sciuto nel cinema una sua realtà - naturale per il pubblico popolare, liberatoria per parte del pubblico borghese). Provocazione verso i critici, i quali, rimuo­vendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro conte­nuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprenden­do che l'ideologia c'era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire. Provocazione contro il moralismo gauchista, le cui Vestali si sono indignate e hanno gridato allo scandalo esattamente come le Vestali della tradizio­ne («Potere operaio» ha usato in proposito lo stesso lin­guaggio, anzi, le stesse parole, dei Pubblici Ministeri). Sì, non ho voluto fare del cinema politico d'intervento, non ho voluto fare neanche della politica romanzata. In­fatti, fra non molto, molti si vergogneranno dei loro film degli anni Sessanta (vergogna condivisa dai loro destinatari). Io no, non mi vergognerò. Già - tanto per cominciare - la responsabilità, che mi veniva vergognosamente attribuita, di aver creato un genere cinematografico vol­gare e commerciale, si è stinta, e si è rivelata per quel fat­to passeggero e irrisorio che era. Posso invece vantarmi, se mai, di aver costituito il necessario precedente per i film di Bertolucci e di Ferreri. E, inoltre, potrei anche vantarmi di aver inciso coi miei film sul costume italiano e sulla sua evoluzione; sulla liberalizzazione dell'opinio­ne pubblica e sulla decongestione del «comune senso del pudore». Di questo, invece, non mi vanto. Anche se ne II Fiore delle Mille e una notte e nel prossimo film, che avrà per tema esplicitamente la «ideologia», conti­nuerò a rappresentare anche la realtà fisica e il suo bla­sone, Tetis, mi pento dell'influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, infatti, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi. Nessun po­tere ha avuto infatti tanta possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha vol­to e nome. Nel campo del sesso, per esempio, il modello che tale potere crea e impone consiste in una moderata libertà sessuale che includa il consumo di tutto il super­fluo considerato necessario a una coppia moderna. Ve­nuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani - borghesi, e so­prattutto proletari e sottoproletari - se tali distinzioni sono ancora possibili - l'hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L'obbligo di adoperare la libertà concessa: anzi, d'approfittare fino in fondo della libertà concessa, per non parere degli «incapaci» o dei «diver­si»: il più tremendo degli obblighi. L'ansia conformisti­ca di essere sessualmente liberi, trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici. Così l'ultimo luogo in cui abitava la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch'esso scomparso. Nel proprio corpo i giovani del popolo vivono la stessa dissociazione avvilente, piena di false dignità e di orgogli stupidamente feriti, che i giova­ni della borghesia. Se volessi continuare con film come II Decameròn non potrei più farlo, perché non troverei più in Italia - specie nei giovani - quella realtà fisica (il cui vessillo è il sesso con la sua gioia) che, di quei film è il contenuto.
Varsavia, Museo dell'erotismo

In Note e notizie sui testi

TETIS (1973)
Intervento al convegno Erotismo, eversione, merce, organizzato a Bologna (15-17 dicembre 1973) con il proposito di «analizzare teo­ricamente la funzione sociale e quindi politica dell'Eros». Il volu­me, a cura di Vittorio Boarini (Cappelli, Bologna 1973), compren­de, fra gli altri, interventi di Félix Guattari, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Fernanda Pivano, Gianni Scalia, Elémire Zolla. Datti­loscritto originariamente inserito nella cartella approntata da Pasolini Descrizioni di descrizioni 1974. Il titolo del saggio è legato alla convinzione, più volte riaffermta da Pasolini che "tetis" in greco si­gnifichi «sesso, sia maschile che femminile». Dalla stessa convin­zione deriva anche il nome di Carlo di Tetis per una delle due personificazioni del protagonista di Petrolio.
Il 4 febbraio 1973, nella rubrica Tribuna aperta del «Corriere della Sera» (Libertà e sesso secondo Pasolini),Pasolini si era lamen­tato delle imitazioni subite dai suoi film della "Trilogia della vita", ma rivendicava ancora senza pentimenti la rappresentazione del sesso come forma della libertà d'espressione. Riportiamo qui un brano di quell'articolo [...].
Al Decameron è seguita una lunga serie di film che non sol­tanto lo imitavano, ma cercavano (e ci riuscivano, presso il grande pubblico) di esserne delle perfette contraffazioni; di passare per i suoi «seguiti»; di riprodurne, insomma, l'auten­ticità. Si trattava dunque di vere e proprie truffe o sofistica­zioni. La stessa cosa è successa ai Racconti di Canterbury (e addirittura alle Mille e una notte, che devo ancora girare, per esempio, con un Finalmente le Mille e una notte). Insomma la concorrenza è stata ed è continua, sleale, sfacciata, brutale. Una torma di sciacalli ha seguito il Decameron e segue ora i Racconti di Canterbury, valendosi di metodi che dovrebbero essere inconcepibili in una società appena civile. E, del resto, sono inconcepibili: nessuno di noi potrebbe concepire infatti che uscisse un prodotto chiamato «Agip n. 2», oppure «Fi­nalmente Fiat» (col «finalmente» in caratteri molto piccoli). Ma questo è il lato puramente commerciale o concorrenziale della faccenda.
C'è molto di peggio, ai danni non solo dell'autore dei pro­dotti primi - del Decameron, dei Racconti di Canterbury - ma naturalmente anche del pubblico. Infatti l'equivoco non ri­guarda solo la autenticità, ma anche la qualità dell'opera. La gente - e purtroppo era molta - che, incontrandomi per strada mi chiedeva del Decameron n. 2 o del Decameron proi­bito attribuendomene la paternità, credeva anche che la «qualità» delle opere fosse la stessa (benché, magari, le opere inaugurali gli paressero «riuscite meglio»). Ciò è umiliante per me, ma anche per quegli innocenti. Non si può preten­dere dai singoli spettatori che formano il grande pubblico nessuna forma di correttezza e di autonomia di giudizio. Or­mai la gente - tutta - ha perduto il senso della forma. Il giu­dizio è brutalmente contenutistico. E questo vale non solo per coloro che confondono il Marito cornuto del Boccaccio con quello delle barzellette, ma anche per le élites dei privile­giati (come per esempio i critici cinematografici) che credo­no che un film sia politico perché ha un contenuto politico, mentre la sua forma è quella dei più orrendi e approssimativi prodotti televisivi.
Comunque è un dato di fatto che creare in uno spettatore in­difeso una confusione di valori che identifichi la «qualità» di un'opera di autore con la «qualità» della più volgare e infa­me contraffazione commerciale è delittuoso.
Ebbene, non una voce in Italia si è levata a protestare contro tutto questo. Non c'è stato un prete o un magistrato che ab­bia protestato contro l'indegnità morale e giuridica di una concorrenza sleale che - sia ben chiaro - non è eccezionale ma tipica della vita italiana. Non c'è stato un prete o un ma­gistrato che abbia protestato contro l'indegnità morale e giuridica - ai danni di una singola persona e dell'intero pubbli­co - della confusione di valori creata da tale concorrenza. Non c'è da meravigliarsi, certo. È ben nota l'indifferenza dei moralisti italiani ai reali problemi morali, quelli su cui si fon­da una realtà nazionale.
A compensare questo colpevole silenzio dei nostri moralisti, si è avuta però, un'altra, vibrante, generale protesta per la li­bertà della rappresentazione sessuale del Decameron e dei Racconti di Canterbury (non delle loro contraffazioni, però). A questo punto il discorso si restringe e si allarga nel tempo stesso. Si restringe perché un discorso sul sesso è meno vasto, civilmente e politicamente, di quello sulla «produzione» e sugli annessi «valori»; si allarga, perché il discorso sul sesso è, moralmente, per definizione, più vasto e profondo di ogni altro.
La prima cosa da dire è questa: è un dovere per ogni cittadi­no provare ed esprimere una indignazione morale verso co­loro che, per puro interesse, creano «prodotti» contraffatti con gli impliciti «valori» mistificati. Insomma è giusto indi­gnarsi per la contraffazione e la mistificazione dei vini dei Castelli o degli olii lombardi; e sarebbe giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei film romani (oltre tutto il giro di miliardi non è inferiore). E invece ingiusto - anzi stupido e malvagio - indignarsi per ogni forma di libertà sessuale nel momento in cui essa è li­bertà d'espressione.
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Nico Naldini: "Mio cugino Pasolini l'ho idolatrato senza vergogna quando rifiutai una Dama delle Camelie di Zeffirelli"

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LA SAGGISTICA
Nico Naldini: "Mio cugino Pasolini l'ho idolatrato
senza vergogna quando rifiutai una Dama delle Camelie di Zeffirelli"
di Paolo Di Stefano, "Corriere della Sera" 18 aprile 2011


... Nel suo ultimo libro, Shahrazad ascoltami, affronta anche in termini crudamente realistici la sua omosessualità, filtrata da un narratore in terza persona... Combatto le considerazioni banali e convenzionali con cui si parla oggi dell’omosessualità: essere omosessuali comporta una visione della vita e una visività diverse...

«Io non mi vergogno di idolatrarli, non ho fatto altro per tutta la vita» . Nico Naldini ha da sempre una bella ossessione: ricordare i suoi amici. A loro ha dedicato libri e libri e ritratti formidabili: Giovanni Comisso, Goffredo Parise, Elsa Morante… Pier Paolo Pasolini, che anche se non fosse stato suo cugino, sarebbe comunque un amico speciale. «Per provare ammirazione non mi occorre Fellini, ho ammirato molto la donna araba che faceva da mangiare sotto le fucilate degli sgherri di Ben Ali…» .
Incontriamo Naldini a Milano, nella Libreria Utopia di via Moscova, ma la sua vita pendola da anni fra Treviso e la Tunisia, dove ha una casetta in un villaggio del Nord. Nel suo ultimo libro, Shahrazad ascoltami, affronta anche in termini crudamente realistici la sua omosessualità, filtrata da un narratore in terza persona e dall’artificio del manoscritto in bottiglia: «Combatto le considerazioni banali e convenzionali con cui si parla oggi dell’omosessualità: essere omosessuali comporta una visione della vita e una visività diverse. C’è un fondo drammatico non facilmente assimilabile che va ben al di là delle soluzioni invocate di solito. Volevo superare la tendenza alla confessione di chi dice: oh, Dio mio, quanto ho sofferto. Anche per questo sono incantato dall’agilità, dalle movenze naturali e dall’allegria del mondo arabo, che agli omosessuali non riserva i drammi, le finzioni e le banalità che si riscontrano qui da noi» . 
La mamma di Pier Paolo, Susanna Colussi, era sorella della mamma di Nico, Enrichetta. «Mio padre, che era un pilota di automobili da corsa, dopo il matrimonio, a 21 anni, ebbe il morbo di Parkinson. Venne ricoverato in cliniche di lusso con medici che promettevano la guarigione in cambio di quote mensili tremende: in realtà per calmarlo un po’ allora c’era solo l’estratto di belladonna. Mia mamma spese così anche i soldi che non aveva e l’infanzia mia e delle mie due sorelle fu di totale povertà» . Suo padre sarebbe morto nel ’50 corroso dalle medicine: «Non ho avuto rapporti con lui, se non nell’aiutarlo a vestirsi o a scendere le scale. Mia mamma l’ha difeso anche contro di noi: era dedita completamente a lui e si inventò diversi mestieri, per colmare i debiti». 
La famiglia Pasolini non ebbe una vita migliore: «Zia Susanna ebbe una vita più fortunata e insieme più disperata, a causa del marito e della sua alterazione alcolica diventata una forma patologica». Quando, nel ’29, l’ufficiale Carlo Alberto Pasolini fu rimosso dall’incarico per debiti di gioco, la famiglia si spostò a Casarsa, in Friuli, ospite della casa materna: «Mentre nascevo, i miei cugini giocavano nel cortile con un pupazzo di neve. Pier Paolo aveva sette anni e un neonato dava fastidio in casa» . Il primo ricordo del cugino? «Io arrivo sotto la tettoia dell’ex fabbrica di grappa di mio nonno, ho un gran mal di pancia, faccio una cacchetta per terra, mio cugino mette il piede dentro la cacca e mi rimprovera». Pier Paolo, più in là, sarà per Nico professore di lettere: «Mise su una piccola scuola in casa, durante la guerra e io feci la quarta e la quinta ginnasio con lui. Era affa-sci-na-nte! È diventato famoso nel mondo grazie al suo valore pedagogico. L’insegnamento alla libertà del pensiero viene da lui e dalla sua scuoletta». 
I due cugini condividono la paura dei tedeschi: «Un giorno due partigiani furono uccisi e poche ore dopo il paese fu bloccato dai mezzi corazzati tedeschi. Era un pretesto per rapinare le case. Con Pasolini andammo a rifugiarci nel campanile: passammo lì tre giorni. Pier Paolo aveva con sé la storia della letteratura italiana dell’800 e del 900 di Francesco Flora e se l’è letta tutta. Avevamo il terrore che i tedeschi si accorgessero che il meccanismo dell’orologio del campanile si era fermato». 
Sono gli anni in cui Naldini comincia a scrivere qualche verso e qualche prosa: «Avevo 14 anni, scrivevo raccontini di prosa d’arte sui maggiolini che cadevano dagli alberi e morivano. Non avevo il coraggio di farli vedere a Pasolini, considerato senza nessuna retorica il genio nascente di famiglia. Fu mia nonna a farglieli leggere. Pasolini disse: però, niente male… Mi chiamò per una passeggiata in paese e mi spiegò che cosa significa essere scrittore, l’autonomia, l’originalità… Mi diede dei libri da leggere: Joyce, Rilke, un libro di critica su d’Annunzio... Dopo, sono andato a gran velocità con i poeti spagnoli curati da Carlo Bo, con i lirici greci tradotti da Quasimodo, con i nuovi lirici di Anceschi...». Il giovane Naldini punta sulla poesia in lingua e in friulano: «La domenica c’erano delle riunioni, con altri amici, nella stanzetta di Pasolini: ciascuno diceva i suoi versi come in un’accademia. Pasolini aveva una tensione sempre vigile, il che determinava entusiasmo e vitalità ». 
Da Casarsa a Milano, nel dopoguerra: un salto non da poco, grazie all’amicizia con Giovanni Comisso, che fa il suo nome alla Longanesi. «Era l’inizio dell’industria culturale. In Longanesi avevo compiti commerciali: pubblicità, tirature... Molto alienante per me». 
Nel ’72, Naldini sceglie di raggiungere il cugino a Roma, dove il catalogo dei personaggi incontrati è sterminato: «Da Penna, che era un rompiscatole terribile sempre in cerca di soldi, a Bassani: mi piaceva molto, benché mi rimproverasse una certa superficialità. Nel cinema giravano molti più soldi che nell’editoria, dunque molte più invidie e ghigliottine. Io con manovre tipiche di un Rastignac da strapazzo mi sono conquistato le simpatie di un grande produttore come Alberto Grimaldi. 
La cosa migliore è stata rifiutare una Dama delle camelie di Zeffirelli». Come andò? «Nella sua casa di Positano c’era anche Liza Minnelli, che ballò e cantò per noi, poi ci diede il trattamento di uno scrittore americano. Passai la notte all’Hotel Excelsior di Napoli a leggere e la mattina dissi a Grimaldi: è una gran boiata. E in più sarebbe costato una fortuna. Tornammo in Rolls Royce a Roma, dopo aver rispedito via taxi la sceneggiatura». La cosa peggiore? «Carmelo Bene, in compagnia di Luigi Malerba, venne a proporre un Pinocchio. Grimaldi disse: date a Naldini. Ammiravo molto Bene e l’avrei ammirato anche dopo. Quando ci stringemmo la mano incrociando le braccia, Carmelo Bene disse: ahi, non se ne fa niente. La trattativa andò avanti, ma per Grimaldi era una cosa iperintellettuale. Così dovetti occuparmi di altri pseudocapolavori». 
Scoppia a ridere, Naldini. Per esempio? «Bertolucci era reduce dal successo di Ultimo tango e Novecento fu comprato a peso d’oro. Il mio ufficio era anche quello delle sofisticazioni maligne, oltre che delle esecuzioni: dalla sceneggiatura dovevo tornare al trattamento, con tutti gli ingredienti che piacevano ai finanziatori americani. Un lavoro perverso. Il film poi fu quello che avete visto tutti». 
Con Fellini fu vera amicizia? «Per carità, Fellini! Non si poteva avere un’amicizia vera con Fellini: era molto solitario, bisognoso di compagnia e soffriva di attacchi nervosi. Se aveva bisogno della tua compagnia, dovevi rimanere a sua disposizione sempre: abitavo in via del Babuino, a dieci metri da casa sua e lo accompagnavo avanti e indietro a Cinecittà in auto. La domenica, poi, ti chiamava alle 8: Nicolino, andiamo a Fregene? Mi compensava divertendomi molto e invitandomi nei migliori ristoranti». 
Oggi, che cosa manca rispetto al passato? «L’ammirazione e la modestia che sanno riconoscere i valori e il gusto della scelta. C’è un’élite di giovani bravissimi: ma mi fa paura, una società basata su un’élite. Non c’è una cultura estesa come hanno sognato i grandi riformatori sociali». Speranze per il futuro? «Non uso mai la parola speranza. È un sentimento che non appartiene alla vita. Bisogna avere la vitalità di realizzare progetti, non speranze». Anche in vecchiaia? «In vecchiaia sei già troppo impegnato a camminare senza dimostrare che sei incerto nel passo. Devi controllare la memoria e tenere a bada il desiderio di saperne di più. Certe volte guardo la mia biblioteca e dico: Dio, come sono ignorante. Hai il senso di non aver compiuto doverosamente il tuo percorso e cerchi di riempire i vuoti della tua testa e della tua vita. Ma individuare i vuoti e cominciare a circoscriverli è già qualcosa».
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Revival Pasolini: mostre, balletti e il film di Abel Ferrara

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Abel Ferrara

Revival Pasolini: mostre, balletti
e il film di Abel Ferrara
di Roberto Schinardi - 12 Luglio 2013
http://www.gay.it/


Il Grande Maestro friulano riscoperto da una mostra a Barcellona e dal Mittelfest che si è tenuto a Cividale del Friuli. E il regista Abel Ferrara annuncia un film con Willem Dafoe protagonista.
Pasolini è più vivo che mai: è in corso un grande revival della figura del Sommo Maestro friulano, sempre più attuale nel suo prevedere il degrado culturale e sociale contemporaneo, al punto che all'Esame di Maturità viene riproposto il celebre estratto degli Scritti corsari in cui il consumismo viene descritto come "nuovo fascismo". E forse ha ragione Walter Siti, recente vincitore del Premio Strega e curatore dell'opera omnia pasoliniana, quando a sua volta, in un'intervista a Italica, fa una previsione che potrebbe davvero realizzarsi: «Tra cinquant'anni rimarrà questa tensione provocata dall'insoddisfazione per i vecchi codici, come forza ed energia inscritte nel testo pasoliniano».
E così è tutto un ribollire di iniziative/omaggi/riscoperte dell'universo pasoliniano, a livello nazionale ma non solo: l'anarco-visionario Abel Ferrara ha annunciato che gli dedicherà il prossimo film, non appena avrà terminato Welcome to New York dedicato al caso Strauss-Kahn. Si intitolerà semplicemente Pasolini e sarà un coproduzione italo-belga-francese. A incarnare il protagonista sarà l'ottimo Willem Dafoe, alla sua quarta collaborazione con Ferrara dopo New Rose Hotel, Go go tales e 4:44 Last Day on Earth. La sinossi ufficiale di Pasolini recita che si tratterà della cronaca dei suoi ultimi giorni di vita: «A Roma, di ritorno dalla Svezia, lo scrittore inizia a cercare il suo amante, un giovane prostituto con cui accetta di incontrare altri uomini la sera successiva. Pasolini trova poi degli amici che lo invitano a smettere di scrivere i suoi articoli provocatori contro la Democrazia Cristiana, dopo la morte di un altro giornalista. Ma l'obiettivo di Pasolini è quello di denunciare quel governo di marionette, costi quello che costi».
Una grande mostra dedicata al rapporto fra Pasolini e la Città Eterna è in corso di svolgimento al Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona, si intitola "Pasolini Roma" ed è curata da Alain Bergala, Jordi Ballo e Gianni Borgna. È suddivisa in sei sezioni cronologiche che corrispondono ad altrettante fasi della vita romana di PPP, dal suo arrivo nella capitale il 28 gennaio 1950 alla morte all'Idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975. Sono esposti manoscritti originali di poesie, romanzi, saggi, articoli, sceneggiature, epistole e disegni, affiancate ad opere di artisti quali Guttuso, Morandi e De Pisis. È possibile ammirare anche le splendide foto di scena dei set pasoliniani realizzate da Angelo Novi. "Pasolini Roma" è visitabile fino al 15 settembre ma entro il 2014 arriverà a Parigi, Roma e Berlino. E' terminata invece a fine luglio la retrospettiva integrale Pasolini el cinema de poesia alla Filmoteca de Catalunya, curata in collaborazione con il Centro Studi - Archivio Pasolini e la Cineteca di Bologna. 

Il Mittelfest di Cividale del Friuli, la cui 22esima edizione si è tenuta al Teatro Ristori, gli ha dedicato invece l'omaggio Pasolini Vivo con l'unico progetto concepito da PPP per la danza, Vivo e Coscienza, un insolito "balletto-cantata" ideato nel 1963 che doveva avere le coreografie di Maurice Béjart e la voce narrante di Laura Betti ma non fu mai realizzato. Ne sono rimasti solo quattro fogli dattiloscritti. L'ha riportato in vita il coreografo Luca Veggetti e sarà interpretato dai giovani della Scuola Paolo Grassi di Milano con regia di Massimo Navone, progetto sonoro di Paola Aralla e voce registrata di Francesco Leonetti, attore e amico personale di Pasolini. 
Prima assoluta al Mittelfest anche per lo spettacolo Una giovinezza enormemente giovane diretto da Antonio Calenda e prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con protagonista Roberto Herlitzka, inedito Pasolini immaginario che si ipotizza testimone della propria morte mentre osserva il proprio cadavere per terra e ne riscrive l'omicidio attraverso un evocativo monologo quasi divinatorio. Firma il testo Gianni Borgna, ex assessore romano alla Cultura di Roma molto vicino a Pasolini, della cui morte ha sempre contestato la versione ufficiale, facendo riaprire il suo caso presso la Procura della Repubblica.
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Venezia70: l'omaggio di Iris a Bernardo Bertolucci

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LA SAGGISTICA
Bernardo Bertolucci sul set di "The Dreamers"
Venezia70
L'omaggio di Iris a Bernardo Bertolucci

In occasione della 70ª edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - domenica 1° settembre, dalla prima serata a notte fonda - Iris ha reso omaggio al Presidente di Giuria Bernardo Bertolucci, con una maratona di quattro opere: "The Dreamers", "Il tè nel deserto", L'assedio" e "La commare secca".
Ha arricchito e completato la retrospettiva un'intervista a Bertolucci - doppio Oscar per "L'ultimo imperatore" (1988), Leone d'oro alla carriera a Venezia (1997) e Palma d'oro onoraria a Cannes (2011) - raccolta da Anna Praderio, che anticipiamo in esclusiva su QuiMediaset.
Bertolucci racconta come affronta il ritorno a Venezia: «Molto allegramente... Dalla Mostra di Venezia abbiamo il diritto di aspettarci qualcosa di molto forte, a volte anche di molto rischioso, e questo mi piace.». 
Della prima volta a Venezia con la "Commare secca", invece, il regista ricorda soprattutto: «L'emozione: era un film che veniva da un'idea di Pasolini. Nascevo all'ombra di questo grandissimo personaggio: ero stato aiuto regista ne "Accattone", che era un film straordinario.». 
«Fu emozionante. - prosegue - Non c'ero mai stato prima e sono tornato a Venezia con "La strategia del ragno", "La luna", "The Dreamers". E sono stato presidente nel 1983, esattamente 30 anni fa.».
«Con "The Dreamers" - continua Bertolucci - volevo ripensare al Sessantotto, ricordare come fosse stato bello quel momento così intenso, in cui si passava le notti a discutere, a parlare. Forse qualcuno guarda al '68 in modo diverso, ma da allora non ho mai ritrovato un momento in cui per i giovani ci fosse questa sete di futuro, quest'idea che il domani sarebbe stato il momento in cui si cambiava il mondo.».
In concorso, Bernardo Bertolucci ritrova due suoi attori, Louis Garrel ("The Dreamers") e David Thewlis ("L'assedio"): «Li vedrò, ma cercherò di mantenere questa specie di dignità, severità, che deve avere qualcuno che presiede una giuria.».
Ne "Il tè nel deserto" c'è una famosa battuta sulla differenza tra un viaggiatore e un turista: «Se un presidente di giuria è un turista, le cose si mettono male.», chiosa Bertolucci. «Ed è proprio la sensazione del viaggio, della scoperta - conclude il maestro - che mi ha portato ad accettare l'invito di Alberto Barbera.».
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["Il rosso di Guttuso"] "Presentazione di 'Venti disegni di Renato Guttuso'

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LA SAGGISTICA
Renato Guttuso, "Natura morta con drappo rosso", 1942, olio su tela cm 110 x 81 

"Il rosso di Guttuso"
Presentazione di "Venti disegni di Renato Guttuso".
Una poesia di Pier Paolo Pasolini

La poesia sul "rosso di Guttuso" è in "Dialogo con Pasolini", Inserto redazionale di “Rinascita”, n.42, 1985. Poi in "Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull'arte", tomo II , in "Presentazione di 'Venti disegni di Renato Guttuso', Meridiani Mondadori, Milano 1999. La poesia
faceva parte del testo introduttivo di Pasolini alla cartella di venti riproduzioni di Guttuso (disegni dal 1940 al 1962) pubblicata, nell'autunno del 1962, dagli Editori Riuniti e dalla Galleria 
La Nuova Pesa di Roma. Apparve senza titolo sul n. 23 (13 ottobre), 1962, di “Rinascita”
a pag. 32, con la riproduzione dell'opera di Guttuso L'amico del popolo (che figurava come titolo complessivo della pagina) e una nota redazionale sull'attività del pittore.

C’è un colore antico come tutti i colori
del mondo. Quanto l'abbiamo amato
quasi incarnato nel legno di miracolose
predelline, in refettori romanici,
nel buio di cantorie nell'Appennino estivo!
Un rosso come di cuoio, di sangue oscurato
nei pori del legno da un meriggio ancora
vivo, nel XIII o XIV secolo — ciliege
colte negli orti di una Napoli di Re contadini
lamponi cresciuti in un ronzio di vespe
che i secoli hanno relegato
in radure irriconoscibili, e così familiari!
Il rosso di tutta la Storia.
Pulviscoli e bruniture, su Tebaidi laziali...
ambienti umbri, bolognesi, o veneziani
per stragi di innocenti o moltiplicazioni di pani.
Il sangue dell'Italia è in quel rosso di ricchi
dove il quotidiano è sempre sublime,
e la Maniera ha i suoi regni...

Ora eccolo nelle nostre mani
non più incarnato alle tele o ai legni
in macchine di bellezza sublime, richieste
dal meriggio della potenza.

Un ingenuo rosso maldestro, appiccicato
alla carta o al compensato
come un baffo o uno sgorbio, legato
alla freschezza casuale e arbitraria
di un atto espressivo che non si vuol esaurire.
Illegittimo, incompiuto, grezzo,
non consacrato mai dalla tecnica che incute
venerazione al devoto, all'umile...
Un'altra sensualità, un altro
mistero...

Ma è fatale che oltre questi anni
il casuale diventi intero,
l'arbitrario assoluto.
I significati diverranno cristalli:
e il rosso riprenderà la sua storia
come un fiume scomparso nel deserto.
Il rosso sarà rosso, il rosso dell'operaio
e il rosso del poeta, un solo rosso
che vorrà dire realtà di una lotta,
speranza, vittoria e pietà.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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L'hobby del sonetto: il canzoniere di Pier Paolo Pasolini dedicato a Ninetto Davoli, di Agata Amato. 15 settembre 2013

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I CONTRIBUTI DEI PARTECIPANTI AL "GRUPPO PASOLINI" SU "FACEBOOK"
15 SETTEMBRE 2013
https://www.facebook.com/groups/pierpaolopasolini/

CON UN PARTICOLARE E SENTITO RINGRAZIAMENTO DA PARTE DELL'AUTRICE E CURATRICE 
DEL SITO WEB "PASOLINI.NET" E DEL BLOG "PASOLINIPUNTONET" DEDICATI A PIER PAOLO PASOLINI

L'hobby del sonetto: il canzoniere
di Pier Paolo Pasolini dedicato a Ninetto Davoli 
di Agata Amato15 settembre 2013


L'Hobby del sonetto è una raccolta di 112 componimenti poetici, sonetti scritti fra il 1971 e il 1973 in parte in Inghilterra durante le riprese dei Racconti di Canterbury e in parte in Italia. La raccolta è stata pubblicata integralmente solo nel 2003 nel volume Tutte le poesie (a cura di Walter Siti), edizione Meridiani Mondadori. Alcune poesie erano state precedentemente edite in Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1993 (3,39,46,57,105,110) e per stralci nella Vita di Pasolini di Enzo Siciliano, Mondadori, Milano, 2005 (pp.386-389).

Già il titolo della raccolta è significativo: alla norma, alla metrica tradizionale (rispettata nelle due quartine e nelle due terzine e nello spazio bianco presente tra le quattro strofe, ma non totalmente nella rima, libera, soprattutto negli ultimi sonetti 85-100, e non nella scansione sillabica dell'endecasillabo) si attribuisce valore e significato di hobby = “qualsiasi occupazione perseguita con impegno e passione nel tempo libero dal lavoro consueto, per ricreazione o passatempo” (Devoto-Oli, Il dizionario della lingua italiana). Ciò significa che a questa raccolta il poeta probabilmente non voleva dare ufficialità di pubblicazione, e questo spiega la sua caratteristica quasi di sperimentazione, la mancanza di cura e di perfezione stilistica, nonché, e soprattutto, il valore intimistico di sfogo a una situazione emotiva di abbandono e disperazione.

Cos'era successo nella vita di Pasolini nell'estate del 1971? ce lo spiega molto bene lo stesso intellettuale in una lettera all'amico Paolo Volponi di questo periodo, in cui tra l'altro leggiamo:

“Dopo quasi nove anni Ninetto non c'è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui. Ti prego, non parlarne con persona al mondo. Non voglio che si parli di questa cosa”.

Ninetto Davoli, il compagno che gli era stato accanto per quasi nove anni, lo aveva abbandonato perchè, invaghitosi di una ragazza, aveva deciso anche di sposarsi. E il poeta non riusciva ad accettare questa crudele realtà, che lo risvegliava come da un sogno: “In queste rive/ che mi appaiono come per un improvviso risveglio.”(son.3).


Pasolini aveva conosciuto Ninetto Davoli nel lontano 1963, quando questi era un ragazzetto e il poeta poco più che quarantenne. Le circostanze dell'incontro come ci vengono raccontate da Ninetto, che ha sempre parlato di un incontro casuale durante la lavorazione del film La ricotta, appaiono diverse da come vengono descritte dal poeta nei sonetti 11 (“ora maledico/il giorno che vi ho incontrato/…-con quel vicolo/dove ciò avvenne e le sue puttane.”) e 20 (“Era estate, presso antichi bastioni/e una grande fontana che si apriva/come un enorme macabro fiore su ubriaconi/clienti di puttane. Ed era notte. Giuliva/si alzò una voce alle spalle di un uomo;/era la voce di un ragazzo. Lungo la riva/tra i rifiuti sparsi sotto quei torrioni/i due si presero a braccetto; e il viaggio/della vita cominciò.”), in cui abbiamo uno scenario più plebeo e popolare.
L'opera si apre con un esordio disperato, cioè con un sonetto in cui Pasolini vagheggia l'idea del suicidio: a lui “paziente” (dal verbo latino “patior”=soffrire, cioè sofferente) questa appare l'unica soluzione a una situazione senza via d'uscita (“L'idea che mi ha svegliato, miracolosa come la rugiada,/è quella di come e dove potrei uccidermi:/esattamente, mio Signore, a un albero del giardino,/qui davanti, dietro la serranda: giungo quasi a ridere/della semplicità della trovata:”): per questo l'idea del suicidio gli appare “felice” e la corda con cui impiccarsi a un albero del giardino appare “fida e rassicurante”, come un'amica che gli porge un ultimo aiuto disperato. Un'altra soluzione potrebbe essere la morte della rivale, vagheggiata dal poeta nei sonetti 4 e 7, sonetti in cui Pasolini non ha nessuna reticenza a mostrare la sua “mancanza di pietà” nei confronti della ragazza, anzi se ne compiace (“...se la vedessi maciullata o crocefissa/non ne proverei la minima pena - niente - / anzi me la guarderei a lungo, fissa,/per godere la mia mancanza di pietà -” 4); (...per lei basta poco:/un'infezione, una leucemia, una disgrazia stradale;/il brutto sogno cesserebbe...” 7).


Del resto il matrimonio di Ninetto viene rappresentato come il suo ingresso nel mondo borghese, ed è anche per questo che ad esso Pasolini strenuamente si oppone, sulla scia di una lunga tradizione di contrapposizione tra intellettuale e società borghese che possiamo addirittura far risalire al Romanticismo: a tal proposito, ricordiamo il suicidio di Werther ne I dolori del giovane Werther di W. Goethe, opera nella quale il suicidio del protagonista può essere interpretato come gesto di protesta motivato dall'impossibilità dell'intellettuale di inserirsi nella società borghese; suicidio ripreso da U. Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, opera in cui è anche palese la contrapposizione tra l'intellettuale Jacopo Ortis, alter ego dell'autore, e il borghese Odoardo, il quale “fa tutto con l'oriuolo alla mano”: i due rivali si contendono l'amore della stessa donna: Teresa. Anche nell' Hobby del sonetto la rivale di Pasolini è una borghese e, ci verrebbe da dire, della peggior specie: sonetto 10: “...Io scruto nel vostro viso,/invece, i segni della saggezza, della viscida/saggezza contaminata da ‘lei’.” Col matrimonio Ninetto entra nella meschinità e nel grigiore della borghesia così come rappresentato nel sonetto finale 112, dove la monotonia e l'aridità della società borghese si manifestano nell'arredamento banale e grossolano della casa: “Ecco sarà soddisfatta colei/che ha il genio della banalità;/…È vero anche, come sempre, che/ciò che hai comprato – i grevi mobili, il servizio/di thè d'argento (rubato), la cucina/finto-americana, insomma l'appartamento/che i parenti ammirano – sevizia/la mia povera anima libertina/in un vecchio, atroce struggimento.” o nella noia e nella monotonia dei passatempi: “Io vi derido per la miseria ‘piccolo borghese’/che il vostro amore vi designa e vi fa riscoprire;/le cene dai***, le domeniche spese/al cinema, oppure la grande risorsa di partire/per il Terminillo, in comitiva prese/dai dovuti entusiasmi.” (son.77).


E' evidente che, come Werther e Ortis, anche Pasolini lamenta l'esclusione dal matrimonio, in apparenza a causa della propria omosessualità, così come per Werther e Ortis si trattava in apparenza di un motivo economico: in realtà la causa è molto più profonda e risiede nella diversa visione della vita: materialistica e cinica quella borghese, utopica e idealista quella dell'intellettuale. In questo senso l'omosessualità di Pasolini, se è motivo di esclusione dal matrimonio, è anche provvidenziale perché salva lo scrittore dalle lusinghe della società borghese; lo scrive in maniera molto chiara lo stesso autore nella sua poesia La diversità che mi fece stupendo.
Inoltre, nel sonetto 63 c'è la contrapposizione tra matrimonio convenzionale, retto e “benedetto” dalle regole della società borghese, e rapporto non convenzionale (quello tra Pier Paolo e Ninetto) che “Non ebbe alcuna benedizione”; infatti, nel sonetto 87 l'amore tra Ninetto e Patrizia, inserito nella convenzione borghese, appare benedetto e approvato da tutti e il poeta,  “l'uomo solo”, si ritrova escluso dal consorzio sociale che parteggia per la coppia convenzionale (uomo e donna) e non accetta nessun'altra forma di unione: “Non c'è chi non veda in questo amore/tutto ciò che c'è di bello e la sua convenzione./Tutti vi parteggiano, e nel loro cuore non hanno/alcuna pietà dell'uomo rimasto solo.” Proprio per questo la realizzazione del rapporto omosessuale all'interno dei canoni borghesi appare praticamente impossibile e “l'uomo solo” si ritrova senza nessun diritto sul suo amante, nonostante i suoi quasi nove anni di amore: “...e io son senza/alcun diritto, nel consorzio civile,/di pretendere che non mi diate dolore” (son.39), ancora, nel sonetto 38 il poeta scrive di “un'unione non consacrata da niente”.
Ricordiamo, infine, che negli articoli scritti da Pasolini tra il 1973 e il 1975 (ora in Scritti corsari e Lettere luterane) la coppia eterosessuale viene intesa dallo scrittore come imposta dalla “dittatura” della società dei consumi: “I giovani maschi che camminano quasi religiosamente per strada tenendo con aria protettiva una mano sulla spalla della donna, o stringendola romanticamente per mano, fanno ridere o stringono il cuore. Niente è più insincero di un simile rapporto che realizza in concreto la coppia consumistica” (Soggetto per un film su una guardia di PS, in  Lettere luterane, p.118). Lo stesso accostamento tra coppia eterosessuale e consumismo lo troviamo drammaticamente esposto nell'ultimo film di Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma.


Se l'unione tra Pier Paolo e Ninetto non è consacrata da nessuna convenzione, essa si regge però su un altro foedus, più profondo e sincero, legato ai sentimenti e agli affetti: ed è proprio questo foedus che Ninetto ha violato. Sono tanti i versi in cui il poeta rinfaccia al compagno il suo tradimento: “Il vostro posto era al mio fianco,/e voi ne eravate anche fiero; dicevate,/del sedile della macchina presso il volante,/“Qua ci devo stare solo io” (son.39); “...ora maledico/il giorno che vi ho incontrato/dopo averlo tanto benedetto...” (son.11). Inoltre, il poeta ricorda con tenerezza i giorni del suo affetto per il suo amato: “I nomignoli che vi davo per affetto/erano gli stessi che davo a mia madre;/e vi stringevo la mano come a lei.” (son.41); rimprovera al suo amato la mancanza di pietà: “potete avere un po' di compassione, ma pietà/non ne conoscete, e avete certo calcolato/anche la mia morte...” (son.74) e ancora: “...un Ninetto mai visto/deciso a non avere pietà...” (son.76), addirittura la brutalità: “...vi ascolto, trasognato,/rispondermi che Eduardo al cinema non vale niente,/e lo dite brutale, con occhi da cui ogni riso è sfumato.” (son.75); lo accusa di essere bugiardo: “Ma sei anche bugiardo.” (son.99); lo vede in un'altra luce, col viso deforme e quasi brutto: “vedevo il vostro viso così come è: come di sego/o di pasta ordinaria, plebeo e paccuto,/ma così infantile, così buffamente sulla difensiva,/così tignoso e invincibile, così decisamente muto,/con gli occhi fatti a mezza luna, la guancia densa,/i ricci più fitti che mai...il mio festoso Sancho Panza/ragazzo, ora a me ostile per la mia diatriba,/è posseduto da un Dio che non dà speranza.” (son.26); “...la sua faccia che, così spenta, non è bella;/anzi è quasi brutta.” (son.81): Il suo compagno è ora sottomesso alla sua donna: “Con la ragazza che ami la tua debolezza/ti rende incapace di dignità” (son.86) a cui è legato solo da un vincolo sessuale: “Ti attrae solo il suo sesso di cagnolina/e la pietà che ti ispira.”(son.88), “Tu l'ami male, del resto, come lei;/ami la sua piccola fica;” (son.89). Ci sono tuttavia dei momenti in cui la gaiezza di Ninetto conquista Pasolini come una volta e gli fa dimenticare le sue sofferenze: sono i momenti di estasi dei sonetti 15, 16, 17:

15
Mio capitale, mia riserva, mio giardino,
chi era più felice di me, per la buffa fierezza
di vedervi ridere folgorante come un ragazzino
che non conosce e non vuol conoscere

gli ostacoli che oppone la cosidetta vita, fino
a scorrervi sopra come una distratta brezza?
Mio capitale, mia riserva, mio giardino,
chi la ignora, in fondo la disprezza

la cosidetta vita, e, con essa, chi la vive.
Io che sono un povero umano
implicato in tutto, prosaico, che ride

male, e non sa non piangere, vi ho tenuto per mano
per otto anni, compagno che mi vide
e mi accettò, ma come sempre da lontano.

Si è naturalmente confrontata questa raccolta di sonetti con quelli di Shakespeare, modello a cui si rifà lo stesso autore. A noi vengono però in mente le poesie, altrettanto strazianti, di Catullo, per i tradimenti di Lesbia. Lesbia, cioè Clodia, moglie di Metello Celere, era già sposata e, almeno come ce la descrive lo stesso Cicerone, era una donna di facili costumi. Ma Catullo si invaghì di lei di un amore in cui molto forte era l’attrazione fisica e sensuale: Lesbia era una matrona colta, elegante, affascinante, sensuale e con lei il giovane Catullo credette di stringere un patto d’amore, foedus, che, purtroppo per lui, si rivelò a senso unico. Struggenti sono i carmina in cui il poeta soffre per i tradimenti della sua donna:

72.
Un tempo dicevi di avere come amante il solo Catullo,
o Lesbia; e non avresti voluto cambiarmi con Giove.
Era il tempo in cui ti amavo, non come si suole un’amica,
ma come un padre ama i suoi figli, un suocero i suoi generi.
Ora invece conosco chi sei; e, quand’anche la mia passione divampi più ardente,
tuttavia ti considero più volubile e più abbietta.
“Come si spiega?”, mi chiedi. Un tradimento come il tuo
spinge ad amare di più, ma a voler meno bene.

Altrettanto struggenti sono i lamenti di Pasolini per l’abbandono e il tradimento del suo amato.
Notiamo anche che il sonetto 64, (per caso?), inizia allo stesso modo del componimento di Catullo:

Dicevate un tempo, non molto fa –
in un giorno degli anni che se ne sono andati –
quando, nel vostro modo buffo, parlavate
della morte – che volevate noi due sotterrati

uno vicino all’altro, per restarcene
lì fermi insieme tutta l’eternità;
“Così!”: e cercando di star serio mettevate
le mani in croce sul petto (ma vi scappava

ben presto da ridere). Ed era vero,
che volevate questo, come un ragazzino
che non aveva al mondo altra compagnia.

Adesso lo vorreste ancora? Il pensiero
che nella tomba vorreste star vicino
ad un’altra persona, mi spinge alla pazzia.

Come Catullo pregava gli dei di liberarlo dall’amore per Lesbia, per non soffrire più, così Pasolini cercò in tutti i modi di trasformare l’amore che provava per Ninetto in amicizia e affetto e non sappiamo fino a che punto ci riuscì. Cercò di esorcizzare l’amore per Ninetto anche nel film Il fiore delle Mille e una notte dove non è difficile vedere il poeta dietro la figura di Aziza, la cugina del protagonista, Aziz-Ninetto, e dove alla fine, per la sua leggerezza, Aziz subisce la crudele punizione dell’evirazione.


Noi pensiamo, forse romanticamente, che Pier Paolo amò Ninetto fino alla fine e che in questo senso sia stato giusto il destino che li fece incontrare l’ultima volta, proprio poche ore prima della morte del poeta.
©  Agata Amato
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Porno-Teo-Kolossal, ovvero Una fiaba nel cosmo, di Angela Molteni - 15 settembre 2013

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Porno-Teo-Kolossal, ovvero Una fiaba nel cosmo
di Angela Molteni, 15 settembre 2013

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Si tratta dell’ultima sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini, che purtroppo non riuscì a realizzare il nuovo film poiché la sua vita fu stroncata il 2 novembre 1975, a breve distanza dall’avvenuto montaggio di Salò o le 120 giornate di Sodoma, film non ancora distribuito nelle sale cinematografiche. Ciò che Pasolini ci ha lasciato, ad ogni buon conto, è completo, finito per così dire. Poi vi sarà l’interpretazione soprattutto di Eduardo, per la quale Pasolini aveva chiesto al grande attore anche di improvvisare, lasciandosi trascinare dall’estro creativo.
Moltissime pagine inedite di Pasolini sono state riprese da Matteo Cerami e Mario Sesti in un loro straordinario video - La voce di Pasolini, pubblicato nel 2006 con Feltrinelli - completato da un libro che riporta tutti i testi, letti nel film da Toni Servillo - e Graziella Chiarcossi per quanto riguarda le poesie in friulano - mentre proprio dei testi di Porno-Teo-Kolossal rimangono i nastri audio originali contenenti la sceneggiatura e registrati dallo stesso Pasolini.
Una lettura che fa di Porno-Teo-Kolossal un documento prezioso anche grazie alla creatività e perizia di Annalisa Corsi, che ha creato all’interno del video stesso alcuni significativi momenti di animazione sui temi trattati dalla dettagliata scenografia pasoliniana che lo scrittore aveva già in cantiere da qualche anno.
Sono riportati qui alcuni fotogrammi relativi a tale animazione poiché la Corsi rispetta con le sue immagini, oltreché il buongusto che ne fa uno strumento elegante e piacevole da vedere, il disegno creativo delineato da Pasolini, rappresentando la storia di quello che sarebbe stato il suo ultimo film - come Salò, forse perfino più crudo di quello che in realtà è stato proprio Salò.


In breve, lo schema della storia è il seguente: il Re Magio-Epifanio, che avrebbe dovuto avere come interprete Eduardo De Filippo - parte per andare nel luogo in cui è nato il Messia, in compagnia del proprio servo Nunzio (o il Romanino), la cui parte avrebbe dovuto essere sostenuta da Ninetto Davoli. Strada facendo però gliene capitano di tutti i colori, al punto che quando arriva al “traguardo”, non solo il Messia è nato, ma ha trascorso la vita ed è morto, fondando una religione a sua volta finita. Il Re Magio, arrivato sul luogo inutilmente, muore. Il servo burbero, rozzo e incosciente che ha accompagnato il Re Magio, in punto di morte gli rivela: egli è un Angelo, e prende per mano il Re Magio per portarlo nel Paradiso che ha meritato. Ma il Paradiso non c’è. I due si voltano indietro, verso il mondo della realtà, di cui hanno scoperto i valori cercandone altri, e restano di sale come la Figlia di Lot nel racconto biblico. La storia inizia a Napoli, «dove si è sparsa la chiacchiera che deve nascere il Messia. Scene di fanatismo alla San Gennaro, feste, processioni, chiassate ecc. [1]». 

Rispetto alla realizzazione del nuovo lavoro, tutto sembra maturare in tempi che molto probabilmente si prevedevano assai ravvicinati, se Pasolini scrive a Eduardo il 24 settembre 1975:
  
«Caro Eduardo,
eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo. Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale.
Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. 
Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa.
Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa. Ti abbraccio con affetto, tuo Pier Paolo».

Nel Prologo della sceneggiatura annunciato nella lettera a Eduardo, Pasolini così esordisce:

«Ci troviamo nel buio e nel silenzio delle altezze cosmiche. In fondo, ai nostri piedi, si vede il globo terrestre. (Sarebbe opportuno, naturalmente, che non si trattasse di un globo artificiale, ma del globo terrestre vero e proprio, esattamente così come appare nelle fotografie che un astronauta scatta da una nave spaziale.) Si vedono le tracce rugose della terra, le macchie plumbee dei mari, i confini dei continenti, ecc. ecc., finché, ad un certo momento - poiché il globo, naturalmente, gira - ecco presentarsi ai nostri occhi la sagoma, nebulosa e rossastra, dell’Italia. A questo punto si cominciano a sentire come delle voci lontane, delle grida, dei richiami, e addirittura una voce che canta una vecchia canzone napoletana popolare, molto fioca per la distanza. Ci avviciniamo sempre più... ed ecco il panorama di Napoli. Napoli vista dall’alto, con i suoi vicoli, le sue piazzette, i suoi bassi. È l’alba, le voci che sentivamo sono voci ancora assai rare: di donne, di scugnizzi... A cantare è uno scopino che va in giro per i vicoli. Però, malgrado quest’atmosfera quotidiana e tranquilla del primo mattino, si sente che in quelle voci c’è qualcosa di strano, di concitato; qualcosa di vagamente drammatico. Non si capisce bene di che cosa si tratta. Ad un certo momento, poi, si apre in una delle pareti scrostate di un vicolo una finestrella: e da questa finestrella fa capolino Eduardo De Filippo, assonnato e arruffato». [2]

Epifanio, il Re Magio, e il suo servo partono da Napoli e vagano sulle strade di diverse città seguendo la Cometa dell’Ideologia - che si dirige verso il luogo ove è nato il Messia - alla ricerca della verità. E il Re Magio sa perfettamente che la Cometa gli indica appunto il cammino che lo separa dal luogo in cui troverà il Messia.
Il pellegrinaggio è ispirato da una speranza a carattere religioso (l’avvento di Cristo) e non da una  delusione politica, qual era la fine del marxismo in Uccellacci e uccellini. E tiene conto anche dei tipi, delle modalità del mondo di Utopia che ispirano i nostri due “viaggiatori”: un presente neocapitalistico, un passato paleoindustriale e un futuro tecnocratico.
Quattro sono le città di Utopia in cui i due soggiorneranno, dopo aver viaggiato in treno:

- Sodoma (corrisponde a Roma; nella stazione ferroviaria è indicato “Sodoma Termini”. La norma qui è rappresentata dalle coppie omosessuali rigorosamente divise tra uomini e donne, mentre quelle eterosessuali sono segregate nel Quartiere Borghese, dove sono tuttavia tollerate da una polizia assai benevola (che tutt'al più consiglia ma non proibisce). A Sodoma l'infrazione del divieto viene punita secondo un sistema piuttosto blando che mette in atto uno spettacolo goliardico basato sulla legge del contrappasso. Infine, scrive Pasolini, è istituita una Festa della Fecondazione in cui


«una sola volta l'anno […] gli uo­mini smettono di fare l'amore con gli altri uomini, oppure con i ragazzetti, e le donne, a loro volta, smettono di far l'amore con le altre donne oppure con le ragazzette: e uomini e donne si uni­scono fra di loro, per dar vita ai nuovi figli di Sodoma. La cosa è organizzata un po' come du­rante le elezioni: ci sono cioè le sezioni in cui tutti i giovanot­ti capaci di generare si presentano a fare il loro dovere; e così le ragazze». [3]

Quando i due ripartono avviene quella che Pasolini definisce «una scena grandiosa»:

«Colpita dai fulmini di Dio, Sodoma comincia a bruciare al­le spalle di Eduardo e Ninetto che escono di corsa dalla città. Ad ogni angolo che svoltano, ad ogni piazza che attraver­sano, i fulmini colpiscono, dietro di loro, le case, i palazzi, le chiese; e case, palazzi, chiese vanno a fuoco in un incendio spaventoso. […] Eduardo e Ninetto arrivano finalmente fuori porta: e tutta la città brucia alle loro spalle, come in un quadro surrealista. […]  mentre Roma fiammeggia alle loro spalle, arrivano ad una stazioncina di periferia [in cui] c'è un treno che proprio in quel momento sta partendo. Il gruppo si getta sul treno e tutti si im­barcano, urlando e spingendo dentro le valigie». [4]


- Gomorra (Città-Utopia che corrisponde a Milano) in cui impera un regime fallocratico che non solo permette ma addirittura impone rapporti sessuali violenti tra uomini e donne, nonché ogni genere di aggressione e vandalismo, punendo al contrario, con inaudita ferocia, qualsiasi forma di omofilia clandestina. 
A Gomorra si scatena un macabro rito orgiastico all'insegna della violenza più barbarica che rimanda col pensiero alle atroci esecuzioni di SalòGomorra, per quello che vi accade - compresa l’offerta a Epifanio e al suo servo di acquistare armi per avere un mezzo di difesa rispetto a ciò che succede per le strade in qualsiasi momento o circostanza - è una città in cui si sono persi gli antichi valori. 
E si vive una falsa tolleranza. Ai due viaggiatori viene annunciato che il giorno seguente vi sarà un grande “Festa annuale della Città”, che, scopriranno i nostri, fa di Gomorra l’”Utopia della Città della Violenza”. Una festa che in pratica si impernierà sulla proiezione in una arena all’aperto di un film pornografico di infima qualità.



In tale contesto, tra gli spettatori vi sono un ragazzino bellissimo che si accompagna a un uomo di mezza età: questi mostreranno una loro propensione ad avere rapporti omosessuali, rapporti che vengono immediatamente segnalati alla polizia. Si annuncia che la festa terminerà con l’esecuzione capitale - in mezzo a orribili torture e sofferenze inferte al giovane e all’uomo maturo - in piazza del Duomo dei due “colpevoli”.
Anche il destino riservato a Gomorra è la distruzione. Che si concretizza con la peste che si abbatte di colpo sulla città. Eduardo e Ninetto si allontanano rapidamente e raggiungono nuovamente un treno che li trasporterà altrove. 

- Numanzia. La terza Città che i due pellegrini incontrano lungo il loro cammino incarna un'altra Utopia, quella del socialismo, minacciata da uno stato d'assedio ad opera dell'esercito fascista. Numanzia è in realtà una Parigi "futuribile" (per quanto l'atmosfera di occupazione nazista riecheggi quella dell'ultima guerra mondiale), assediata da una polizia tecnocratica che censisce, smista e incolonna i passeggeri che arrivano, per destinarli ai campi di concentramento.


Numanzia conserva ancora una libertà di espressione, che, tuttavia, sotto la pressione dell'assedio porta all'estrema risoluzione del suicidio collettivo. La proposta compiuta da un poeta della città, il relativo lancio sulla stampa, il dibattito in Parlamento con conseguente referendum e la decisione collettiva di darsi tutti la morte per sottrarsi alla schiavitù fascista avvengono durante un lungo sonno di Epifanio, che non vede lo svolgersi degli eventi e dunque rimane estraneo al momento cruciale in cui si decide il destino dell'intera città.
La fine del popolo di Numanzia (in cui ognuno si uccide immortalandosi nell'azione e con le modalità che più desidera) non è, dunque, stabilita da una vendetta divina che si sfoga attraverso un cataclisma apocalittico (l'incendio, la peste), ma è decisa da una volontà umana che pianifica una sorta di suicidio "ideologico" per prevenire un ben più atroce genocidio tecnocratico messo in atto dall'avvento del regime neonazista. 
Il suicidio collettivo a Numanzia avviene, e rimane in vita soltanto il poeta «proprio quello stesso che aveva lanciato l’idea della morte collettiva [p. 138]», che a sua volta viene fucilato per una disputa sorta in merito a vini sorseggiati.
Eduardo vede la Cometa - la Stella che indica il cammino - che riprende a muoversi verso Oriente e, col fido servitore, riprende il percorso verso il luogo in cui nascerà il Messia.


- Ur.  L'arrivo dei due viaggiatori in Oriente avviene in un'atmosfera di totale desolazione, in cui tra l’altro essi perdono i bagagli e vengono derubati dei vestiti, finché, dopo aver attraversato paesaggi sempre più inquietanti e desertici, da "fine del mondo", al Re Magio, durante il suo ultimo sonno viene sottratto il prezioso pacco che egli aveva sempre portato stretto al petto, contenente il Dono per il Messia: uno splendido presepe vivente interamente d'oro. Il furto del presepe non è che il preludio al fallimento dell'ultima Utopia rappresentata dalla Cometa: quella della fede. Giunti, ormai in mutande, nell'immaginaria località di Ur, i due scoprono che il Messia non c'è più, o meglio è nato ma è anche già morto, in quanto il loro viaggio è durato troppo a lungo, tanto da essere arrivati "irrimediabilmente tardi". 

Dopo avere dolorosamente conosciuto le modalità  della sparizione del Messia - tramite alcune descrizioni - della religione che egli aveva instaurato, e alla fine anche del magnifico Dono portato al bambino, Epifanio - dopo un ultimo profondo sospiro - muore. In quel momento dal corpo di Ninetto-Nunzio prende vita la figura di un Angelo e dal corpo morto di Epifanio si stacca la sua Anima. Purtroppo i due non incontreranno neppure il Paradiso, anche quello sarà scomparso. 

La loro storia continuerà a esprimersi in quell’ascesa che è il contraltare dello stesso paesaggio cosmico che aveva accompagnato i due all’inizio del racconto. Saranno accompagnati soltanto da suoni che arriveranno da laggiù, scrive Pasolini:
«confusi tra le voci e i rumori della vita quotidiana - canti di povera gente, sciocchi canti di moda, e, infine, canti rivoluzionari [p. 146]».



Porno-Teo-Kolossal si conclude con la stessa immagine iniziale della Terra vista "dal buio e dal silenzio delle altezze cosmiche". Se, però, in apertura, "il globo terrestre" veniva a poco a poco messo a fuoco, finché non si individuava l'Italia e poi Napoli "con i suoi vicoli, le sue piazzette, i suoi bassi" (da dove prendeva forma tutta la storia), in chiusura il "mappamondo" diventa sempre più lontano e indistinto, finché non si ode soltanto un confuso brusio di voci, che suscita nel disincantato Epifanio sentimenti di gratitudine e di commozione. 
Vale a dire che l'unico modo per "comprendere" (nel doppio senso di capiree di includere) il dramma dell'uomo - ovvero il fallimento dell'Utopia - è quello di osservarlo a una certa distanza, da un'ottica soggettiva ma allo stesso tempo universale, che possa abbracciare l'umano dibattersi ("le voci e i rumori della vita quotidiana") attraverso un malinconico e disilluso sguardo cosmico.



Nel 1996 il regista Sergio Citti, amico e aiutante di Pasolini, girò il film I magi randagi con interpreti Franco Citti, Silvio Orlando e Ninetto Davoli. Gran parte del soggetto originale del film proveniva da un’idea di Pier Paolo Pasolini. Ed è prendendo spunto dall'idea pasoliniana che Citti nella trama racconta la storia di un gruppo di attori teatrali filosofi che cercano di rappresentare scene della Natività di Gesù Cristo. Tuttavia non vengono capiti e sono costretti ad allontanarsi e a compiere lunghi viaggi da nomadi. Nel film di Sergio Citti si tratta in pratica di un singolare spettacolo offerto da tre saltimbanchi i quali si presentano in uno spettacolo itinerante come uomini vestiti da mafiosi e nazisti. I tre artisti, però, non vengono compresi e sono costretti a fuggire. Trovano posto in un presepe vivente dove interpretano i Re Magi. Questa volta la loro interpretazione è così ben riuscita che convincono gli abitanti a mettere al mondo nuovi bambini. Una notte, all'improvviso, nel cielo compare una Stella Cometa e i tre comprendono di avere un compito davvero importante: cercare il nuovo Bambin Gesù. Tuttavia a causa di una serie di complicate vicissitudini e sfortune, un Re Magio giunge quando Gesù è già dovuto fuggire con la famiglia per le persecuzioni di Re Erode: non trovando ciò che cercava, l'uomo muore di dolore.

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[1] Il virgolettato si riferisce alla trascrizione da audioregistrazione della sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal, in La voce di Pasolini. I testi, a cura di Matteo Cerami e Mario Sesti, Feltrinelli 2006 p. 93.
[2] La voce di Pasolini. I testi, cit. p. 99.
[3] La voce di Pasolini. I testi, cit. p. 111
[4] La voce di Pasolini. I testi, cit. p. 117
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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