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Ostia, pronta la programmazione per il prossimo anno del Teatro del Lido

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"Pagine corsare"
LE NOTIZIE
Ostia, Teatro del Lido
Ostia, pronta la programmazione
per il prossimo anno del Teatro del Lido
di Maria Grazia Stella
http://www.ostiatv.it/ - 5 agosto 2013

Si tratta di un progetto partecipato e condiviso, messo a punto grazie al dialogo
con il territorio e all’impegno costante dell’Assemblea dei soci e del comitato artistico:
si basa sulla partecipazione e sul coinvolgimento attivo
del territorio nella configurazione della programmazione


Ostia - L’Associazione di associazioni Teatro del Lido, costituitasi nell’aprile 2013, ha ultimato la programmazione 2013-2014 per il Teatro del Lido di Ostia. Si tratta di una programmazione partecipata e condivisa, messa a punto grazie al dialogo con il territorio e all’impegno costante dell’Assemblea dei soci e del comitato artistico. Il cuore del progetto “Teatro del Lido” si basa sulla partecipazione e sul coinvolgimento attivo del territorio nella configurazione della programmazione. In forza di questo, durante gli ultimi mesi sono stati attivati numerosi processi virtuosi di dialogo con il territorio - i tavoli di progettazione partecipata, già strumento della scorsa fase storica del Teatro del Lido.
Attraverso i tavoli, divisi secondo le aree artistiche (teatro, danza, arti visive, musica, formazione/territorio), l’Associazione di associazioni “TdL” ha potuto recepire le esigenze, le proposte, le suggestioni provenienti da tutte le fasce che popolano il nostro territorio, per poi tradurle in una programmazione d’eccellenza che le rispettasse, ampliandone l’immaginario. L’ampliamento dell’immaginario è stata un’altra linea guida fondamentale per il concepimento della programmazione: proporre ad un territorio di oltre 250.000 abitanti, per il quale il Teatro del Lido rappresenta l’unico polo teatrale pubblico, visioni artistiche differenti, multisfaccettate e multimediali, interdisciplinari, provenienti da diverse parti del mondo. L’attenzione alle giovani generazioni e alla formazione, il respiro internazionale, la ricerca di nuovi spunti, talenti e spazi di espressione, il criterio di eccellenza, la volontà di portare il teatro fuori dal teatro, di decentrare l’offerta per raggiungere anche le zone dell’entroterra, sempre trascurate, e soprattutto l’intenzione di creare un equilibro tra le aree tematiche, così da costruire un progetto culturale organico ed efficace, sono stati gli altri vettori per la progettazione della programmazione. La tensione all’equilibrio tra le aree tematiche e la volontà di proporre un progetto culturale variegato porteranno all’esplorazione di derive artistiche estremamente differenti tra loro: dalla musica classica (Conservatorio Respighi di Latina) a quella popolare (Nando Citarella), dal teatro di prosa (Ottavia Piccolo) al teatro danza (Babu Teatro/Sosta Palmizi, Compagnia Simona Bucci) a quello di narrazione (Ascanio Celestini, Simone Cristicchi), dalla clownerie (Leo Bassi) agli spettacoli multimediali (Assalti Frontali, Margine Operativo), dalle performance di mapping ai contest hip hop, dagli interventi degli artisti di strada alla comicità intelligente (Andrea Cosentino, Roberto Abbiati), dalla danza classica alla danza contemporanea (Balletto di Roma, Giovanna Velardi) alle opere ispirati a capolavori della letteratura (Jacob Olesen).
La stagione proporrà un fitto avvicendarsi di rassegne multidisciplinari, ispirate alle tematiche suggerite dal territorio: “Pasolini, una vita futura”; “No more”, dedicata all’identità femminile e al femminicidio; “Arte oltre”, dedicata all’integrazione e al disagio fisico, psichico, sociale; “Restiamo umani”, dedicata alla Palestina; “Street arts”, dedicata alle arti urbane; il “Dialog Festival”, che proporrà spunti artistici provenienti da varie parti del mondo; il “TdL jazz festival”, che vedrà la partecipazione dei più famosi jazzisti del panorama italiano e internazionale. Numerose proficue collaborazioni sono state avviate con l’estero: il TdL ospiterà artisti provenienti dalla Danimarca, dal Cile, dalla Spagna, dall’Albania, dalla Norvegia, dall’Africa. L’attenzione alle giovani generazioni ha condotto ad una ricchissima ed eccellente programmazione di Teatro Ragazzi (vedremo tra gli altri il Teatro delle Briciole, i Principio Attivo Teatro, i Tiriteri), alla creazione di eventi multidisciplinari e interattivi (La Befana vien di Notte, Hip Hop DayZ), all’avviamento di numerosi progetti formativi e all’inserimento in stagione di quelle che il Comitato Artistico ha definito “Emergenze artistiche”, ovvero gruppi che si affacciano al professionismo, ma che non hanno ancora avuto la possibilità di crearsi un circuito lavorativo stabile.
Il Teatro ospiterà inoltre la Rassegna Teatrale Zanni (unico concorso regionale per i laboratori teatrali condotti nelle scuole), sarà aperto all’intero territorio per i saggi e gli spettacoli amatoriali durante la rassegna Così Fan Tutti, e metterà a disposizione la sala per le prove delle giovani compagnie nei giorni liberi da eventi in programmazione. Lo spazio espositivo del Teatro vedrà l’allestimento di una mostra diversa ogni mese: dalle mostre fotografiche dedicate al territorio al fotofumetto, dai silent books– libri illustrati per bambini senza parole, e perciò universali - alle graphic novel, dai bozzetti di costumi e scene teatrali alle derive digitali. Ogni esposizione sarà accordata tematicamente all’attività della sala, così da rafforzare l’idea di organicità alla base del progetto. Inoltre, grazie alla collaborazione con la Biblioteca Elsa Morante, verrà avviata una fitta agenda di proiezioni cinematografiche con dibattito e analisi critica e incontri con autori letterari. 
La programmazione della stagione 2013-2014 è il risultato di una collaborazione sinergica, di un dialogo fitto e continuo tra le associazioni e con il territorio, di uno scambio produttivo di opinioni, mission, visioni, della messa in rete di competenze e saperi, della volontà di evitare le decisioni aprioristiche o discrezionali in funzione della ricerca di un progetto culturale condiviso, aperto e sempre in divenire. L’intera proposta di programmazione verrà inviata a Zètema Progetto Cultura, società del Comune di Roma che amministrerà il Teatro, non appena l’Associazione “TdL” riceverà il Contratto di Servizio che regola i rapporti tra Zètema e l’Associazione “TdL” stessa. Da allora in poi, il personale di Zètema avvierà i processi di contrattualistica e comunicazione, per l’avviamento definitivo della stagione 2013-2014 del Teatro del Lido pubblico e partecipato.

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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"Il sogno di una cosa" di Pier Paolo Pasolini, di e con Angela Felice e Paolo Patui

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LA SAGGISTICA - LIBRI - READING
Il sogno di una cosa
di Pier Paolo Pasolini
di e con
Angela Felice e Paolo Patui
con la partecipazione straordinaria di
Paolo Gaspari

interventi musicali alla fisarmonica di Giannino Fassetta
immagini di Duilio Jus
proiezioni a cura dell’ Associazione Culturale MODO
con l’adesione di Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa 
Comune di Casarsa della Delizia / Comune di San Vito al Tagliamento

lunedì 19 agosto, ore 21.00
Corte interna di Palazzo Morpurgo
Via Savorgnana – Udine


Si è chiuso nel nome di Pier Paolo Pasolini il fortunato ciclo in tre puntate di “Letture in corte” che, per UdinEstate 2013 del Comune di Udine in collaborazione con ilTeatro Club, ha richiamato anche quest’anno nel giardino interno di Palazzo Morpurgo un pubblico sempre numerosissimo, attento e sensibile al valore insostituibile della letteratura. Merito della formula rodata ormai da sette anni dai due ideatori e conduttori, Angela Felice e Paolo Patui: lui che legge con partecipazione delicata alcune pagine selezionate dagli autori del cuore, lei che commenta con scioltezza non didascalica gli snodi narrativi, ed entrambi coadiuvati di volta in volta dall’intervento di un ospite  e da alcune suggestioni musicali dal vivo.
Lunedì 19 agosto alle ore 21 è stato dunque alla ribalta “Il sogno di una cosa”, il romanzo-gioiello che Pasolini pubblicò a Roma nel 1962, ma che aveva iniziato a stendere nel 1948-49, negli ultimi anni di una stagione giovanile  e casarsese  ricca di esperienze esistenziali, incontri umani, scritture febbrili e già geniali. Se con la poesia in friulano Pasolini elevò la parlata dialettale alla coscienza linguistica e ai piani altissimi della grande lirica, con quel racconto lungo egli dotò la storia locale di un’inedita sostanza epica, ritagliandola da una vicenda di popolo e trasfigurandone il destino sul palinsesto dei fatti del dopoguerra e sul fondale del paesaggio incantato della Destra Tagliamento. Se ne staccano e se ne fanno portavoci tre giovani amici, Nini, Milio e Eligio, che compiono un esemplare itinerario di maturazione a partire dalla miseria, atavica e storica, delle origini contadine: dapprima con l’avventura picaresca della ricerca di lavoro all’estero, per due di essi perfino in Jugoslavia, presunta terra promessa della libertà e del riscatto dalla fame; poi con il ritorno deluso al paese; infine con il coinvolgimento nelle lotte contadine del 1948 per l’applicazione del Lodo De Gasperi, in un impegno pre-politico, di slancio più etico che ideologico, destinato anch’esso allo scacco.
Nell’intreccio tra le vicende individuali e la storia collettiva, la parabola del romanzo disegna un curva chiara dall’entusiasmo iniziale al disincanto finale, dal pieno al vuoto, dalla speranza al ripiegamento solitario, in cui la “meglio gioventù”, anche quella col fazzoletto rosso al collo, deve registrare infine il fallimento di ogni “sogno di una cosa”. Romanzo di formazione alla rovescia, dunque, ripensato dal Pasolini romano con struggente sensibilità non idilliaca, ma elegiaca, anche a riflesso delle proprie personali disillusioni e insieme dell’amore per quell’Eden friulano dei poveri e dei loro sogni da cui nel 1949 era stato traumaticamente espulso [...].
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Lettura RaiTre Terzo Anello Ad alta voce La Storia di Elsa Morante

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Lettura "RaiTre Terzo Anello Ad Alta Voce"
La Storia di Elsa Morante
Scritto nel 1974, “La Storia” è uno dei capolavori più grandi di Elsa Morante e della letteratura del 1900. Un romanzo destinato a un grande pubblico, quello che molti critici hanno definito un “ romanzo popolare”, importante soprattutto per la grandezza  del suo messaggio, La Storia in quanto tale.  Sullo sfondo della Seconda Guerra mondiale viene rappresentata una società dove gli umili e i poveri sono vittime inconsapevoli di demoni eterni: il potere, la conquista e il denaro. Il libro inizia infatti con una citazione intensa di un sopravvissuto di Hiroshima: 
“Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”.
Persone vittime di una guerra che non hanno voluto, chiamati a combattere per ideali che celano invece oscuri obiettivi dei potenti, che muoiono per cause che non conoscono. Vittime di una Guerra che ha distrutto un paese, il nostro paese. In questo quadro di desolazione conosciamo la famiglia protagonista del romanzo. Una famiglia di modeste condizioni che  fin dalle prime pagine commuoverà il lettore. Ida Ramundo, vedova e madre di Nino, subisce a Roma nel 1941 la violenza di un soldato tedesco. Incredibile come un atto così bestiale e ai limiti della comprensione umana generi una prodigiosa creatura innocente, Giuseppe detto Useppe. Sarà proprio l’innocenza infantile di questo bambino, il suo modo tenero di vedere la realtà, i suoi giochi e le sue risate su uno sfondo di morte, a dare uno spessore maggiore a questo romanzo. La famiglia subirà tutte le traversie della Grande Guerra, dalla perdita della casa  alla scomoda convivenza con altri sfollati, al disagio che solo coloro che hanno vissuto quei duri anni possono comprendere, un disagio dato dalla perdita di qualsiasi bene. Nino, il figlio maggiore, come la maggior parte dei giovani dell’epoca si fa smanioso davanti agli eventi. Il desiderio di crescere in fretta, la voglia di libertà e di indipendenza lo portano prima tra gli schieramenti fascisti, poi la personalità ribelle lo conduce tra i partigiani, e infine il suo coraggio lo rende vittima della polizia. Nino, un giovane come tanti, morto prima di vivere. Il piccolo Useppe invece resta vittima del suo male, l’epilessia. Un bambino che nonostante le circostanze riesce a vivere la sua infanzia come fosse in una bolla di sapone. Elsa Morante con tono distaccato ma non indifferente racconta la storia di questi uomini, la storia degli umili, delle persone che se pur sconfitte sul campo di battaglia sono vincitrici nella vita e quindi nella storia. In un solo libro vengono affrontate tematiche importanti come la guerra, la violenza, il mondo dell’infanzia collocato in un’atmosfera a dir poco magica. L’aspetto realmente affascinante è che tutto ciò che è brutto, la malattia, la morte, la guerra è escluso dalla visione infantile. È come se Useppe non vedesse la realtà che lo circonda. Guarda con gli occhi di un bambino e attraverso una sana fantasia rielabora dentro di sé un mondo fantastico. Così per Elsa Morante l’infanzia diventa non solo “innocenza ignara ma anche vitalità immediata e gioiosa”. Un romanzo che tocca i cuori anche dei più duri e cinici. Un romanzo che emoziona perché all’interno contiene un ingrediente straordinario: la verità storica che si mescola alla letteratura.
Cicerone nel De Oratore scriveva : “ La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzio dell’antichità”. E forse La Storia di Elsa Morante è tutto questo, una testimonianza delle atrocità passate, una triste verità ma soprattutto un mezzo per non dimenticare il passato
RaiTre / Terzo Anello / Ad Alta voce si dedica da tempo alla lettura di romanzi importanti: una delle ultime letture ha riguardato proprio La Storia di Elsa Morante. Tutte le puntate possono essere riascoltate partendo dal link seguente: 
http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/alta_voce/archivio_2005/eventi/2005_04_01_lastoria/
Buon ascolto!
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Elsa Morante, "La Storia". In Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni

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LA SAGGISTICA
Elsa Morante, La Storia
In Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti 1996

L'ultimo romanzo di Elsa Morante è un poderoso volume di 661 pagine, e il suo «soggetto» è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia. E difficile con­cepire un progetto più ambizioso di questo: ma si trat­ta di un'ambizione evidentemente giustificata, se la so­la ambizione ingiustificata è quella di scrivere opere li­mitate e perfette. Illimitatezza e imperfezione sono ca­ratteri della necessità. Illimitato il romanzo della Mo­rante lo è, perché esso indubbiamente trasborda oltre il confine delle 661 pagine, verso immensità di temi, motivi e superfici non verbali. Imperfetto anche lo è. La Morante avrebbe forse dovuto lavorarci ancora un anno o due. Infatti non c'è dubbio che il grosso libro si divide almeno in tre libri magmaticamente fusi tra loro: il primo di questi libri è bellissimo - è straordi­nariamente bello - basti dire che mi è capitato di leg­gerlo nel bel mezzo di una rilettura de I fratelli Karamàzov e che reggeva mirabilmente il confronto! Il secondo libro invece è completamente mancato, non è altro che un ammasso di informazioni sovrapposte disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci sopra; il terzo libro è bello, benché molto discontinuo e con molte ricadute nella confusione un po' presuntuo­sa del libro di mezzo.
Nel primo libro si narra la storia dei padri, visti addirittura come antenati: l'azione è in un «altrove» (la Calabria) che corrisponde alla dislocazione del tempo della narrazione in un periodo «anteriore», già com­pletamente elaborato e quindi cristallizzato dalla mor­te. Quivi gli avi vivono circostanze e azioni perfetta­mente essenziali, poetizzate già dal fatto di appartene­re al passato: possono quindi cadere sotto il completo dominio dell'autrice che ha la ventura di essere in vita e di conoscerle. Sia il ramo calabrese (il padre Ramundo) che il ramo ebreo (la madre Almagià), con la loro cerchia, occupano spazi e tempi perfetti. La loro mor­te non è ideologica, se non in quanto appartenente al mito. Essa consente dunque alla loro vita, finita, di es­sere totalmente espressa: di essere quella e non altra.
Tutto questo «libro» è un enorme excursus che sta tra l'incontro di un soldato tedesco con Ida al quartie­re di San Lorenzo nel 1941, e la violenza che egli eser­cita su di lei: violenza da cui avrà poi la ventura di na­scere un figlio bastardo (mentre lui, il ragazzo bavare­se, morirà qualche giorno dopo). Potremmo però pro­trarre questo libro - stupendo - fino alla nascita del bastardello Useppe, nascita legata agli ansiosi sconfi­namenti della mezza ebrea Ida nel ghetto romano.
Il secondo libro va dalla nascita del bastardello al bombardamento di San Lorenzo, allo sfollamento di Ida e del cucciolo Useppe nella casermetta di Pietralata, alla resistenza anarchico-comunista (alla spagnola), in cui si fa luce il figlio, diciamo così, di primo letto di Ida, Ninnarieddu, insieme con un altro protagonista del libro, Davide Segre, ebreo. (Nella casermetta di Pietralata si ammassano però molti altri personaggi le cui storie danno al racconto un carattere corale, este­riormente neorealistico). La guerra finisce, Ida si trasferisce col figlio a Testaccio, dove compare e riscom­pare l'altro figlio grande, il seduttore (teppista, ex fascista, ex comunista, ex anarchico, borsaro nero rivo­luzionario - un po' retrodatato, per la verità, come il suo amico Davide).
L'ultimo libro è il Libro delle morti. La guerra è fini­ta, ma tutti i nostri personaggi muoiono dopo. Prima tocca al trionfante, al vivo per definizione, Ninnarieddu; poi a Davide Segre; poi al piccolo Useppe, dive­nuto epilettico, e infine alla «povera di spirito» Ida. Erano però antecedentemente morti quasi tutti gli al­tri personaggi minori.
L'insieme del romanzo si configura come un con­fronto tra la vita e la Storia: tra un capitolo e l'altro del romanzo (concepito ad annali) ci sono infatti brevi in­serti che riassumono gli avvenimenti storici oggettivi - con stile da manuale - dal 1941 al 1967. Nel «primo li­bro» questa è una trovata, diciamo «strutturale», straordinaria. Perché? Perché la vita che si oppone al­la Storia è una vita di morti, e quindi una vita non esal­tata e strumentalizzata in quanto tale. C'è una reale in­compatibilità tra essa e la Storia. L'opposizione non può essere dialettica: e quindi non rischia di essere ideologica e velleitaria. Le cose stanno così e basta: il confronto tra la vita dei morti e la Storia produce stu­pendi effetti allucinatori (come il grande «adagio» del­la morte della madre di Ida).
Poi questo «effetto» della contrapposizione della vita alla Storia, di colpo si perde e scade. Tale degra­dazione del testo coincide con la nascita del piccolo Useppe: cioè col formarsi di una vita «esaltata e stru­mentalizzata in quanto tale». Perché è con Useppe che comincia la lunga celebrazione morantiana della vita­lità, dell'innocenza, della joie de vivre dei poveri di spirito. Useppe ne è il simbolo: ma anche tutti gli altri personaggi che in questo periodo (della vita e del ro­manzo) lo circondano, ne sono forme e varianti. Prima di tutti, il fratello maggiore Nino (di cui Useppe si in­namorerà perdutamente). Anzi, Nino si presenta co­me il vessillo della vita vissuta - come dall'eroe di un melodramma - in tutte le sue pieghe, in tutta la sua to­talità, in tutta la sua inconsapevolezza, in tutte le sue tentazioni, in tutte le sue miserie (immediatamente e sistematicamente «perdonate» dall'Autrice: che anzi si premura di glorificarle attraverso una certa ironia evangelica, per cui, delle miserie, anche più miserabi­li, non c'è che da sorridere). Anche Davide Segre, nel­la sua torva e ingenua rabbia e degradazione, è un sim­bolo di questa «vita vivente». E non parliamo poi del carrozzone dei personaggi minori (napoletani o sotto-proletari romani, figurarsi; per non parlare, inoltre, degli animali).
In questo interminabile capitolo del romanzo, tutti i personaggi sono declamati, improbabili, irreali: quindi manieristici. Puro manierismo è l'infanzia di Useppe; puro manierismo è la giovinezza di Nino, pu­ro manierismo la grinta di Davide, ecc.
In essi la Morante non «rappresenta» la vita, ma, appunto, la celebra: senza tuttavia (a mio parere) aver meditato abbastanza su tale ideologizzazione e di con­seguenza sul proprio progetto narrativo. Le «spie» che testimoniano questa approssimatività rappresen­tativa e stilistica sono molte.
1) La Morante, che accetta la convenzione della «fa­vola», e quindi la necessaria funzionalità di ogni sua parte, non è fatta per gli excursus (alla Gadda, per in­tenderci). Eppure queste due o trecento pagine del li­bro, sono fatte tutte di excursus: in cui manca però, ap­punto, l'inclinazione e la follia necessaria a rendere ta­li excursus autosufficienti, funzionali di per sé. Essi so­no in genere diligenti referti la cui funzione è quella di far trascorrere il tempo della macchina narrativa: un referto riguardante Useppe fa «trascorrere il tempo» concernente Nino, un referto riguardante la famiglia napoletana fa «trascorrere il tempo» riguardante Useppe, e così di seguito. La lunghezza del tempo (necessaria a un romanzo come questo) è sentita come prolissità verbale: e un elementare gioco combinatorio tra varie sotto-storie è sentito come capace di sostitui­re la «successività» naturalistica: ossia l'unilinearità della storia (privata o pubblica). Questo equivoco fa sì che in realtà permangano e incombano minacciose nel romanzo sia la successività naturalistica che l'unilinea­rità storica.
2) Tutto ciò è aggravato dal fatto che la Morante non ha saputo o voluto scegliere un personaggio che - in questa parte del libro - le mettesse a disposizione il suo sguardo in modo che i fatti e le cose risultassero «viste da lui».
Ma ogni volta che succede qualcosa, la Morante - che è lei ad amministrare e gestire separatamente tutti i personaggi - si sente in dovere di informarci delle «reazioni» di ciascuno dei presenti a quell'avvenimen­to. E lo fa con una diligenza che rasenta l'ossessione. Talvolta la meticolosità di tali informazioni è puro ar­bitrio: non c'è personaggio, casualmente nominato - e quindi totalmente fuori dalla storia - che non sia gra­tificato di un'intera «relazione» che lo riguarda. Per esempio, un certo Giovannino, figlio di una signora presso cui Ida subaffitta una camera. Egli è soltanto nominato come assente, in quella casa (si trova in Rus­sia): ma nulla impedisce alla Morante di imporci, qual­che tempo dopo, una lunga e circostanziata descrizio­ne della sua morte in Russia, che non riusciamo a ca­pire se sia bella o brutta, tanto poco ci importa di quel personaggio. E così l'amore di una certa ragazzetta per il solito irresistibile Nino: ogni volta che Nino compare, la Morante ci impone un‘osservazione sull'amore silenzioso e senza speranza di questa ragazzetta, che non ha nel romanzo sbocco alcuno: e nemmeno un senso che valga per se stesso. Ho dato due esempi, ma potrei darne a dozzine.
3) La Morante è ideologicamente certa che non ci sia altro mezzo linguistico che un certo umorismo per descrivere le imprese dei suoi eroi. Ma poi il linguag­gio di tale umorismo è di una elementarità disarman­te: esso consiste quasi esclusivamente nell'uso osses­sionante dei due avverbi «presentemente» e «attual­mente» (per indicare un avvenimento vissuto con grande passione e affettività da parte dei personaggi in una situazione, per contro, molto umile e misera), le allocuzioni «a quanto pare» e, un po' meno fre­quente, «che io sappia», e gli aggettivi «futile» e «grandioso» (per prendere in giro gli oggetti del suo amore, i suoi eroi).
Il corollario della povertà del contingente di lingua umoristica, è l'approssimazione e la goffaggine della «mimesi» del linguaggio di quegli eroi, romani o na­poletani che siano (per non parlare dell'alto-italiano Davide). Il romano parlato di Nino e dei suoi amici ri­corda addirittura (la Morante mi perdoni, qui devo es­sere duro) quello di certi trafiletti di costume del «Messaggero»: mentre il parlato di Davide non ha ri­scontro in nulla: il ragazzo si presenta come bologne­se, in realtà è mantovano, ma parla una specie di veneto. Non c'è tuttavia angolo nell'Alta Italia in cui cade­re si dica cader. Per ogni dove, là, nell'Alta Italia, è ca­scare che ha trionfato eliminando ogni altra forma concorrente. Che Davide dica cader è offensivo per il lettore: ma è soprattutto offensivo per lui. Dov'è il co­sì grande amore della Morante per lui, se essa è poi co­sì pigra da non fare il minimo sforzo per ascoltare come parla? Vuol dire che in questo amore c'è qualcosa di precostituito, che impedisce il particolare e il con­creto, come fatti irrilevanti, di fronte alle «grandiose» Leggi dell'Amore. D'altra parte il fatto stesso di de­molire o almeno sminuire e ridicolizzare, sia pure affettuosamente, tutto ciò che i suoi eroi fanno, significa che essi sono amati in base a ciò che sono, cioè per in­duzione aprioristica, non in base a ciò che fanno: che è visto, appunto, come irrisorio e vano. Cosa questa che li rende di colpo miserevoli automi di una realtà incompatibile con le loro illusioni. Anche negli apogei della vita e dell'azione, in cui la vita si oppone alla sto­ria proprio in quanto vita - meraviglioso fenomeno da viversi estremisticamente, come fanno appunto gli eroi della Morante, che per questo li ama - tale oppo­sizione è surrettizia. La mortuarietà della vita non può opporsi che nominalmente a una Storia vista per defi­nizione come mortuaria.
4) Tecnicamente la Morante non si è accorta che nei capitoli di questa parte del libro non doveva ripetere, quasi meccanicamente, ciò che viene esposto nei trafi­letti informativi tra un capitolo e l'altro. L'incomuni­cabilità tra capitoli e trafiletti, per essere poetica, do­veva essere radicale.
26 luglio 1974

Nell'ultima parte del romanzo, nel Libro delle mor­ti, di colpo, con la morte di Ninnarieddu, la vita si li­bera dalla sua mortuarietà: protagonista diviene la morte, cosa che dà di nuovo una grande vitalità al li­bro. L'estrema bellezza delle prime 150 pagine non è più raggiunta, perché la contrapposizione della morte alla Storia (produttrice peraltro di morte) è enigmatica, irrelata e pura. Qui invece tale contrapposizione resta ideologica e polemica. È per colpa della Storia (nella fattispecie l'ultima guerra) che i personaggi muoiono: dunque il loro morire ha una funzione preordinata. Ciononostante qui sì si può dire che le pagine hanno una funzione anche di per sé, al di fuori del loro contesto logico e ideologico. La morte di Ninnarieddu (e soprattutto il ricordo di lui morto nella madre inebetita), la morte di Davide (a parte il delirio in osteria, poco prima), il presagio della morte del pic­colo Useppe (l'apparire del «grande male») sono cose molto alte. Qui la Morante - senza che nulla cambi, ma continuando imperturbabile il diligente e geniale «ron-ron» della sua scrittura di Manierista Onniscien­te - è profondamente ispirata. Si direbbe che anche lei è come il suo Hitler: raggiunge il climax solo quando tutti sono morti (vedi del resto, in proposito, Potere e sopravvivenza di Elias Canetti, Adelphi).
Il grande romanzo della Morante è il complesso prodotto che doveva per forza essere, come dicevo, gi­gantesco e sproporzionato, di un'ansia espressiva ab­norme. Vi confluiscono infatti almeno tre fonti identificabili d'ispirazione: 1) L'esperienza autobiografica, 2) L'ideologia reale, 3) L'ideologia «decisa».
1) Quale filologo che ha reperito documenti e ha raccolto testimonianze scritte o orali (non in quanto amico della Morante!) so per certo che tutta la prima parte del romanzo - al di fuori delle esperienze intel­lettuali che sono anch'esse infine autobiografiche - è dominata dall'elemento autobiografico del terrore della mezza ebrea all'inizio delle persecuzioni razziali. Tale atroce esperienza autobiografica è dalla Morante imparzialmente suddivisa tra la madre di Ida e Ida. Idea straordinariamente poetica. Infatti nessuno dei due personaggi è poi autobiografico: l'una vivendo miticamente la prima parte della tragedia, e l'altra la seconda parte, sono gli unici personaggi davvero oggettivi dell'intero libro. Essi hanno la profondità - l'e­strema precisione e l'estrema imprecisione - delle per­sone viventi.
Assai poetica è poi l'intuizione del personaggio di Ida, una povera di spirito incapace di guardare una so­la volta nella vita in faccia la realtà, eppure così piena di grazia, non mai manieristica. Il manierismo la Morante lo usa coi maschi e gli animali, ma con il suo personaggio Ida la Morante non è mai stata neanche per un attimo insincera. E Ida è anche il personaggio pre­so meno (affettuosamente) in giro: essa è infatti del tutto priva di illusioni e piena, in compenso, di terro­ri. Dunque non c'è niente in lei su cui sorridere. Non si può scherzare su una mortuarietà reale. E sarà pro­prio Ida il personaggio «altro» che vivrà le più recenti e sempre atroci esperienze autobiografiche della Mo­rante. Anche tali esperienze vissute in realtà (come le ricerche filologiche informano) in un'unica persona, nel romanzo sono distribuite fra tre persone: la morte con le sue riapparizioni tocca in sorte a Ninnarieddu; l'epilessia, o «grande male» a Useppe e infine la droga a Davide.
È specialmente Ninnarieddu che lucra di tale attri­buzione. Fino a quel punto egli era stato un perso­naggio falso, tutto costruito aprioristicamente e arbi­trariamente. Nulla di ciò che egli dice o fa è attendi­bile. Come abbiamo visto, l'Autrice è informata di tutto: ci dà notizie dei personaggi minori e minimi - anche quando sono già fuori dalla storia, in un loro remotissimo mondo autonomo; addirittura, la Mo­rante ci dà notizie su personaggi solo nominati. Ma, poiché per Ninnarieddu la Morante aveva bisogno della figura del classico amato, che fugge, dispare, è eternamente altrove, per la disperazione dell'amante (il fratelluccio Useppe), ebbene, la Morante ci dice sempre che Ninnarieddu, appunto, fugge, dispare, sta altrove, non si fa più vivo ecc. Dove vada e cosa faccia non si sa.
Ma qual è la logica che lega l'abbondanza di infor­mazioni, inutili e irrichieste, su un qualsiasi personag­gio appena nominato e puramente parentetico e la to­tale mancanza di ogni informazione su un personaggio come Ninnarieddu che ci sta, invece, molto a cuore? È la libertà dell'artista, si dirà: il suo diritto a infrangere la sua propria logica. Ebbene sì. Ma ciò non toglie che tali infrazioni siano estremamente goffe, e che quindi Ninnarieddu risulti un personaggio «scollato» (come Moravia dice per Madame Bovary). Ma ecco che, dal momento in cui muore e diviene un ricordo, Ninna­rieddu è stupendamente reale.
2) L'«ideologia reale» di un autore è sempre «de­dotta»: il che significa che l'individuarla ed esprimer­la, dipende dall’intelligenza del deduttore. Non pre­tendo, quindi, di poterla qui delineare in tutta la sua oggettività o almeno nella sua configurabilità. Fra l'al­tro, ogni ideologia reale è, per sua natura, illimitata e indefinibile, perché abbraccia tutto il possibile. Mi li­mito ad afferrarne qualche carattere.
Prima di tutto, appunto, la sua illimitatezza, che corrisponde a quella totalità che è la persona di Elsa Morante: totalità che si pone in un rapporto interpre­tativo completo col mondo. E da questa illimitatezza che deriva l'illimitatezza reale del libro, il suo sfumare verso superfici «altre», non verbali. Ed è questa illimi­tatezza che vanifica la convenzione della «favola» (dal­la Morante ostinatamente adottata e applicata): infatti la «favola» è per sua costituzione «chiusa», e non si può «chiudere» in nessun modo un'ideologia illimitata. Tale ideologia è quella che per conto suo produce le parti sincere e «belle» del libro (la prima parte, il personaggio di Ida, la parte finale, anche se non tutta). Non solo: ma essa presiede anche alle due o trecento pagine manierate e «brutte» del libro: infatti non c'è una sola di tali pagine che, estrapolata, non abbia qualcosa di reale, sempre. Per esempio, ognuno dei «referti» inseriti per pura volontà d'autrice, quasi co­me zeppe, nel racconto, e che nel contesto appaiono insopportabili, in se stessi, invece, risultano quasi sem­pre forniti di vitalità e realtà.
Il nucleo parlabile dell'«ideologia reale» della Morante consiste nella morte vista come fenomeno che ri­duce a scherzo la vita: ma a uno scherzo bellissimo, struggente, degno di essere vissuto, anche nelle sue inevitabili brutture. Ciò è accaduto agli avi, che sono già morti, e accade a coloro che muoiono fisicamente. Una stupenda, funeraria musica mozartiana accompa­gna gli atti della vita di costoro. Il fatto che muoiano non riaccende in chi resta l'atroce sentimento della so­pravvivenza: al contrario, riaccende in lui la pietà, o, meglio, il vero e proprio amore per i morti, sentiti co­me i veri fratelli. L'autrice (che, appunto, sopravvive) non prova il piacere del tiranno (Hitler) che si realizza solo attraverso la serie infinita delle morti altrui; ma prova la serena pena di chi vede confermato ciò che impietosamente sa: è il medico Hachiya, sopravvissu­to, che gira per Hiròshima a guardare i luoghi dei morti e a pregare (cfr. ancora il citato Potere e soprav­vivenza).
Elsa Morante
3) È l'«ideologia decisa» tuttavia che, ritagliando l'immenso tessuto dell'«ideologia reale» - oppure, meglio, restringendola e volgarizzandola - produce la struttura del libro: ossia i due schemi dell'abnorme ma canonica dilatazione narrativa e della contrapposizione tra vita e Storia. È essa dunque che rende parlabile l'imparlabile, sia pure attraverso pazienti circonlocu­zioni. Veniamo così esplicitamente a sapere, nel corso della lunga lettura, che la vita, proprio la vita - come vitalità prorompente, ingenuità, dedizione totale alla illusione, corporeità - è il «Bene», mentre la Storia, in quanto produttrice di morte, è il «Male». È un'idea come un'altra. Giusta, fin troppo giusta.
La Morante, però, correda questa idea elementare, e evidentemente insostenibile (come si può separare la Storia del Potere dalla Storia di chi subisce la violenza di tale Potere, oppure se ne estranea?), di un suppor­to filosofìco-politico. La filosofia è quella di Spinoza, quella del Vangelo letto da San Paolo e quella della grande cultura induistica; la politica è quella ideolo­gizzata dagli anarchici. Tale sincretismo non coincide però con nessuna ideologia storica: nessun mistico vi si riconoscerebbe, ma neanche nessun anarchico. Il «pastiche» è unicamente morantiano. Tale affascinan­te ideologia personale rivela però un'estrema debolez­za e fragilità nel momento in cui viene tradotta in ter­mini di romanzo popolare, applicata, volgarizzata. Benché mascherata con un certo umorismo, essa stri­de puerilmente nel testo narrativo; mentre «messa nel­la bocca» dei personaggi diviene totalmente afasica. E chiaro che essa, per valere - come realmente vale - ha bisogno di un'assoluta aristocraticità, di una assoluta illeggibilità. E infatti non per nulla il suo alto valore si manifesta in pieno nel precedente libro della Morante (II mondo salvato dai ragazzini)che è un libro di versi, cui invano il registro gnomico, e, ancora, favolistico, tentano di attribuire leggibilità. Nel momento in cui tale ideologia viene trasformata in un «tema» di ro­manzo popolare - per definizione voluminoso, carico di fatti e informazioni, facile, rotondo e chiuso - essa perde ogni credibilità: diviene un fragile pretesto che finisce col derealizzare la sproporzionata macchina narrativa che ha preteso di mettere in moto.

2 agosto 1974
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La Storia di Elsa Morante. Un romanzo, un film di Tiziana Jacoponi

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LA SAGGISTICA
Elsa Morante

La Storia di Elsa Morante.

Un romanzo, un film

di Tiziana Jacoponi

Nel 1974 esce, presso le edizioni tascabili Einaudi, il romanzo La Storia di Elsa Morante ed è un clamoroso successo letterario, paragonabile a quello avuto anni prima dal Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Da ambedue i romanzi è realizzata la versione cinematografica che, nel caso del Gattopardo conferma il successo letterario, nel caso della Storia si rivela un vero e proprio insuccesso. Del film La Storia, uscito nel 1985, esistono due versioni: una per la televisione della durata di 240 minuti circa ed una per il cinema della durata di 153 minuti. Chi è il regista del film? È Luigi Comencini, lo specialista dei bambini che esordisce nel 1946 con il lungometraggio Bambini in città. [...] Per Comencini il protagonista del film è il bambino, il suo sguardo di regista è quello del bambino, non c'è quindi da stupirsi se questo regista si sia interessato alla Storia che, secondo Manacorda è il racconto di una famigliola romana composta da una donna che non era mai riuscita a crescere del tutto, un ragazzotto, un bambino e un paio di cani. Questo romanzo, ambientato a Roma nel periodo della seconda Guerra mondiale, narra le vicende di Ida, la madre di origine ebrea, di Nino il figlio maggiore e di Useppe, il figlio della violenza subita da Nina ad opera di un soldato tedesco. Per Luigi Comencini l'interprete principale è Useppe, il piccolo protagonista del libro, al punto che pur di avere l'attore-bambino giusto, Comencini ha tradito un elemento essenziale del romanzo. 
I capelli del neonato, tutti a ciuffetti, che parevano piume, erano neri. Ma come lasciò vedere un poco degli occhi, Ida riconobbe quel colore turchino del suo scandalo. Il loro colore assolutamente riproduceva quell'altro turchino che non pareva nato dalla terra ma dal mare.
Il protagonista del film non ha gli occhi azzurri. Comencini ha selezionato migliaia di ragazzi e ha scelto il protagonista, moro e con gli occhi scuri perché, come Useppe, voleva sempre sapere “perché”: ed è questo il primo di una lunga serie di quelli che chiameremo “tradimenti” che Comencini opera, rispetto al testo.
Il regista ha sacrificato la prima parte del romanzo. Nella versione cinematografica del 1985, presentata fuori concorso a Venezia, manca l'accenno all'infanzia di Ida, è abbreviato il ritratto di Nino, l'altro figlio di Ida, il suo rapporto con gli amici, il fratello e con Blitz, il cane che è tra le prime parole pronunciate da Useppe:
Ida era Mà, Nino era Ino oppure aè e Blitz era i.
Comencini è un tenero, effettua una metonimia, vede gli avvenimenti con gli occhi di Useppe, non con quelli del narratore. C'è un soffermarsi sui momenti più felici della trilogia Ida-Nino-Useppe. Useppe vive come un piccolo recluso all'inizio del romanzo. Nella seconda parte, periodo dello sfollamento dopo il bombardamento di San Lorenzo, si apre alla socializzazione:
L’esistenza promiscua in quell'unico stanzone, che fu per Ida un supplizio quotidiano, per Useppe fu tutta una baldoria. La sua minuscola vita era stata sempre (salvo che nelle felicissime notti degli allarmi) solitaria e isolata, e adesso, gli era capitata la fortuna sublime di ritrovarsi giorno e notte in compagnia.


Ed è questa la visione che abbiamo nel film, in cui mancano il miserabilismo, lo squallore e la desolazione presenti in maniera quasi ossessiva nel romanzo, in cui al degrado esterno appartiene un degrado interno dei personaggi. Nel testo Useppe è sempre mal vestito o vestito di stracci, è sempre sporco e trasandato, ma ciò nonostante
non s'era mai vista una creatura più allegra di lui.
Nello stanzone, al momento dei pasti, non vi è nessuna intimità, ognuno mangia per suo conto; nel film, al contrario, si vede la vita in comune, quasi gioiosa nonostante il momento storico terribile - siamo nel 1943. In questa parte del film il regista ha ben centrato e messo in evidenza un'altra delle caratteristiche del romanzo: la Macrostoria, o Storia con la “S” maiuscola, che precede ogni capitolo del libro, è resa nel film attraverso filmati d'epoca in bianco nero, manifesti del periodo ma anche con il soffermarsi su alcuni avvenimenti della seconda parte del romanzo. Largo respiro è dato all'episodio della Stazione Tiburtina, al momento della deportazione degli ebrei; l'armistizio è ripreso come momento di gioia, alcuni buttano giù il busto di Mussolini dopo l'annuncio per radio dell'avvenimento. Nel personaggio di Carlo Vivaldi, che rappresenta l'intellettuale, fautore dell'anarchia e della libertà, sono evidenziate solo le caratteristiche positive. Ne è taciuto l'aspetto ombroso e scontroso del carattere, non è messo in evidenza il rapporto particolare che la gatta Rosella ha con lui né la sua diffidenza verso gli altri. Uno dei “tradimenti” più grandi è dato dalla rappresentazione dell'arrivo degli Americani a Roma. Nel film, Useppe li vede arrivare, alza le mani come un prigioniero. Nella scena seguente, una grande festa alla francese. Nel testo invece: 
La sera del 4 Giugno, per la mancanza della luce elettrica, si coricarono presto. Il Testaccio era calmo sotto la luce lunare. E nella notte, gli Alleati entrarono a Roma. D'improvviso, si levò un gran clamore per le strade come fosse Capodanno.
Il film procede dopo secondo il romanzo con un finale “mostruoso”: assenza di sonoro. I vicini, i carabinieri, di fronte alla porta chiusa, esecuzione in silenzio di Bella, il cane, quarto protagonista del film, inquadratura finale sulla madre invecchiata e stanca e su Useppe morto. 

Clicca sulle due immagini ("Rinascita") sotto riportate per ingrandire e leggere
agevolmente il contenuto dell'articolo di Gian Franco Ferretti
Finale mostruoso perché lo spettatore, contrariamente al lettore, capisce soltanto alla fine la malattia di Useppe. Nella scena a scuola, quando Useppe si strappa i capelli e li strappa alla maestra, o nell'episodio dell'elettroencefalogramma, e nella scena in riva al Tevere, in cui Useppe accompagnato da Bella si fa la pipi addosso - che è uno dei segni dell'epilessia - il lettore è consapevole della malattia, perché già la madre ne aveva sofferto da piccola.
Claudia Cardinale, Ida nel film di Comencini tratto da "La Storia" di Elsa Morante

Il personaggio più penalizzato nel film è Nino, il primo figlio di Ida, nato dal suo matrimonio conclusosi prematuramente per la morte del marito. Non sono sottolineate, come nel romanzo, la baldanza, l'impertinenza, l'ansia di vivere di questo giovane adolescente. E’ l'unico dei protagonisti a possedere voglia di cambiare, rischiare, osare: ha bisogno di amore, è in continua e costante ricerca di donne. Non è dato nel film il giusto rilievo con cui Nino spesso cambia “bandiera”, scegliendo il partito vincente al momento giusto: da fascista, a partigiano, a contrabbandiere, adattandosi con estrema facilità e flessibilità a questi mutamenti di rotta che in altri personaggi - secondo Davide Segre - provocano lacerazioni interiori o scelte difficili. Muore in modo tragico e la sua fine aziona lo scatenarsi della tragedia interiore di Useppe, di cui il lettore è avvertito sin dall'inizio, e della pazzia di Ida.
La madre rappresenta il tradimento più evidente, rispetto al romanzo: siamo di fronte a due personaggi diversi, che a parte il nome, non hanno nulla in comune. Secondo Elsa Morante, Ida 
Di età, aveva trentasette anni compiuti, e davvero non cercava di sembrare meno anziana. Il suo corpo piuttosto denutrito, e informe nella struttura, il petto sfiorito e dalla parte inferiore malamente ingrossata, era coperto alla meglio di un cappottino marrone da vecchia, con un collettino di pelliccia assai consunto, e una fodera grigiastra che mostrava gli orli stracciati fuori dalle maniche. Portava anche un cappello, fissato con un paio di spilloncini da merceria. I suoi ricci crespi e nerissimi incominciavano a incanutire; ma l'età aveva lasciato stranamente incolume la sua faccia tonda, dalle labbra sporgenti, che pareva la faccia di una bambina sciupatella.

Non rappresenta una donna piacevole e attraente, anzi, il suo contrario. Comencini, già nella scelta dell'attrice Claudia Cardinale (attraverso un'ennesima metonimia, probabilmente perché vedendo con gli occhi di Useppe, la mamma è così nella sua immaginazione), rivela la volontà di tradire il testo. Per quanti sforzi abbiano fatto i truccatori e la stessa Cardinale, questa Ida, se non nel colore del cappotto e nel tipo di andatura e nelle inquadrature finali, non assomiglia affatto alla descrizione di Elsa Morante. Comencini, nella scena dello stupro, mostra in primo piano le cosce tonde e ben tornite della Cardinale che non hanno niente a che vedere con la protagonista del romanzo. Nel film Ida, oltre ad essere troppo bella è troppo serena, troppo materna, troppo sorridente. Nel romanzo, Ida è descritta come donna fisicamente poco piacente, è una persona tesa, impaurita, oggetto di derisione, ossessionata dall'ebraicità e dalla sopravvivenza. Per sfuggire a questa realtà che le pesa, come un coperchio (Baudelaire) cerca rifugio nel sonno e nei sogni che dapprima sono i suoi compagni e poi diventano i suoi persecutori. Come madre è assente, distante, non capisce Nino, lascia sempre Useppe solo, non lo rassicura, non ha tempo per farlo. La quotidianità la schiaccia, anche perché Ida non conosce e non ha conosciuto l'amore - non sa cosa sia - vive la maternità quasi con senso di colpa, pensa che l'esistenza consista solo nel rispettare ed onorare certi doveri e obblighi che la società impone. Questa caratteristica di Ida è presente anche in altri personaggi della Morante, in cui l'universo femminile è diviso in due e amore e passione sono visti come momento di sogno, destinato a non durare e a infrangersi nella realtà. Luigi Comencini non ha saputo rendere la dimensione allo stesso tempo “universale” e “quotidiana” di questa storia con la “s” minuscola di Ida, Nino, Useppe, nell'ambito della Storia con la “S” maiuscola. E’ stato comunque un atto coraggioso decidere di adattare una mole, come La Storia, anche se purtroppo il risultato è deludente.

5 settembre 2001 - La Repubblica Letteraria Italiana.
Letteratura e Lingua Italiana online. www.repubblicaletteraria.it

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Il mondo salvato dai ragazzini, in Pier Paolo Pasolini "Il Caos" n. 35, 27 agosto 1968

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LA SAGGISTICA - RECENSIONI
Il mondo salvato dai ragazzini
di Elsa Morante
in Pier Paolo Pasolini “Il Caos” n. 35, 27 agosto 1968

Il mondo salvato dai ragazzini è la raccolta di poesie più importante (dopo Alibi) di Elsa Morante, contenente la sua unica commedia e pubblicata nel 1968. Titolo completo di sottotitolo: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi. 
Pier Paolo Pasolini, nel 1968 ne parlerà in "Caos" ("Tempo"), e nel 1971 risponderà
a questo libro di Elsa Morante con due poesie di Trasumanar e organizzar,
contenute nella sezione Poesie su commissione. I titoli sono rispettivamente Il mondo salvato dai ragazzini e Il mondo salvato dai ragazzini (continuazione e fine).


Si può parlare di ingiustizia a proposito del mancato «grande» successo, di critica e di vendita, del Mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante?
Intendiamoci: successo di vendita e critica c'è stato, ma normale. Mentre il libro della Morante rappresenta un avvenimento eccezionale.
È vero che non è un caso raro che un avvenimento poetico eccezionale passi sotto silenzio oppure sia accolto in un clima di normale amministrazione. Ma io ho davanti a me un «caso» particolare, e non ho voglia di generalizzare, e fare pianti greci sulle ingiustizie umane e sulla loro fatalità. La fatalità non esiste, o esiste nella misura in cui un autore (nel caso di un libro) la provochi. La critica italiana, insomma, non è mai brillata per particolare genialità: in questi ultimi anni, poi, si può addirittura dire che è letteralmente «finita». I giovani corrono  dietro a stupide chimere, imposte terroristicamente e tutto ciò che non «sa» di queste intimidatorie novità, viene lasciato da parte, addirittura non accepito. Gli anziani, in parte a causa dello stesso terrorismo, un po’ seguono i giovani, un po' sono completamente nelle mani dell'industria culturale. Anche la minoranza di spiriti liberi, la cui presenza va pure registrata in Italia, ha un'aria equivoca: cioè non è la «vera» minoranza di spiriti liberi, ne ha solo l'aspetto, le caratteristiche, il codice; in realtà è anch'essa automatica, e fa tutto ciò che una minoranza di spiriti liberi deve fare; gli scandali sono tutti, come dire?, preordinati, accadono sotto la benedizione del ghetto, anziché sotto la benedizione del potere; ecco tutto. Il libro della Morante si presenta al di  fuori di tutti questi schemi culturali; nessuno è, così, pronto ad accoglierlo; ed esso suscita ammirazioni ovvie, anche adorazioni ovvie.
Esso è letterariamente qualcosa di irriconoscibile: non c'è nulla nella tradizione italiana, anche recente, che gli somigli o che esso ricordi (un po' di Palazzeschi, ap­pena appena, e un po' di formalismo russo; ma sono analogie psicologiche e ultrastoriche, non culturali). Ciò naturalmente rende la lettura della Morante difficile, anzi, impossibile. Esso non può non piacere, ma piace, per così dire, inconsapevolmente. Forse il troppo piacere che dà il leggere questo libro, sempre inconsapevolmente, lo fa apparire come una cosa poco seria, una delizia e basta. Invece il libro della Morante è addirittura un manifesto politico. Il manifesto politico, potrei dire paradossalmente, di quella nuova sinistra che in Italia pare non poter esistere, crescere, riaffondando subito nel vecchio qualunquismo, e nel complementare morali­smo. Un manifesto politico scritto con la grazia della fa­vola, con umorismo, con gioia (ecco perché prima dice­vo che se c'è una fatalità nel destino di un libro, essa è voluta dall'autore: la Morante infatti non ha voluto sa­pere che grazia, umorismo, gioia sono sentimenti e stru­menti stilistici, oggi, incomprensibili). Ed è dunque arduo per un lettore e un critico comprendere come, invece, il fondo di questo libro sia atrocemente funebre, econtenga tutte le ossessioni del mondo moderno: l'ato­mica, la morale dei consumi e il profondo desiderio di autodistruzione, non più come flatus vocis o luoghi comuuni, ma come elementi assolutamente originali e vissuti personalmente, dentro un sistema linguistico così co­municativo da scandalizzare.

Pier Paolo Pasolini

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Lucidità di memorie (a Pier Paolo Pasolini), di Michela Zanarella

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LA SAGGISTICA - POESIA

È privilegio sentire nella piazza
lucidità di memorie,
il peso e la ricchezza del tuo sapere.
Negli entusiasmi del Pecetto
colgo un misto di affetto e adorazione
alle tue verità taglienti
e in quel vivo testimoniare
appare la tinta di un dolore ancora caldo
che stride nel grigio dei marciapiedi
di Monteverde.
In questo tempo che annuncia
miserie di valori
mi specchio nei tuoi versi 
presa dalla fame d'una storia
prigioniera del silenzio.
Educo le lacrime a resistere
alla tua assenza
e provo ad amare il mondo,
il reale e l'irreale
con smisurata dedizione
al tuo canto
intatto e sempre eterno.
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Alberto Perozzi e l'ultima partita di Pasolini. San Benedetto del Tronto, 14 settembre 1975

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LE NOTIZIE
Alberto Perozzi e l'ultima partita di Pasolini.
San Benedetto del Tronto, 14 settembre 1975

Uno scritto che Francesco Anzivino
ha tratto dal suo reading NovantaPa', messo in scena
alla Pietraia dei Poeti lo scorso 17 novembre

A San Benedetto del Tronto c'è uno stadio, o meglio c'era (dato che oggi è impiegato per il rugby) e probabilmente, considerata la riqualificazione dell'area, non ci sarà più in futuro. Un impianto intitolato a due delle vittime della tragedia di Superga, Dino e Aldo Ballarin - nome per inciso sicuramente più apprezzabile del precedente “Littorio” e dell'anonimo “Comunale” postguerra - che a sua volta ha visto concretizzarsi in pochi attimi, il 7 giugno 1981, la più grande tragedia avvenuta tra gli spalti italiani, con un rogo che uccise due ragazze e provocò 64 ustionati di cui 11 gravi.
Tuttavia nella storia del quasi fu “F.lli Ballarin” si deve ricordare anche il 14 settembre 1975, giorno in cui a scendere in campo, per altro, non fu la Sambenedettese, perlomeno non la prima squadra che, più che dignitosamente, passò buona parte degli anni '70 e '80 in serie B. Quel giorno infatti i rossoblù erano vittime predestinate in Coppa Italia a Milano contro l'Inter di Vieri, Oriali, Facchetti, Mazzola e Boninsegna (anche se il 3 a 0 senza storia patito a San Siro sarebbe stato vendicato la domenica successiva in casa con una prestazione 'mitologica' contro i campioni d'Italia della Juventus, con il doppio svantaggio, firmato da Capello, rimontato da Chimenti e Simonato, fra gli eroi di un'epica tutta provinciale e rivierasca).
A indossare la maglia dai colori “del vino e del mare” nomi che a nord e a sud del Tronto non dicono nulla, Gigi Traini, Serafino ‘Safì’ Capralini, Etro Ferretti, Luciano Cacchiò, Marcello Flammini, Sirio Santi, Angelo Buratti, Luigi ‘Sufiola’ Palestini IV, Filippo Traini, Dante detto ‘Dio-Madonna’ (sic), Francesco Palma. Vecchie glorie di una Samb ancor minore, che lasciarono per un giorno chi un bar, chi una profumeria, chi una sanitaria, chi i pennelli, per indossare nuovamente gli scarpini e confrontarsi con una formazione “piuttosto originale”, come ebbe a scrivere giovedì 11 settembre 1975 la pagina locale de Il Messaggero, che in una breve annunciava: "Scenderà (sic) in campo per i primi: George Anderson, Ninetto Davoli, Max Din (sic), Don Bachy (sic), Enzo Cerusico, Bruno Filippini, Philippe Le Roy, Gigi Marziali (Supersonic), Maurizio Merli, Pier Paolo Pasolini, Luciano Rossi, Antonio Sabato, Vinella (alto gradimento), Gianni Zani. […]
Si trattava della Nazionale attori e cantanti, animata dall'agente cinematografico Giacomo Ciarlantini (che vanterà nella sua scuderia nomi del calibro di Fabio Testi e Moana Pozzi...), da Livio Lozzi (che trasformò l'improvvisazione iniziale degli artisti appassionati di calcio in una vera e propria associazione sportiva), da figure ambigue come Romolo Croce (che sarebbe stato poi, con le sue rivelazioni, uno dei punti di partenza dell'inchiesta sul calcioscommesse del campionato 1979-80).
A organizzare la partita due particolari personaggi sambenedettesi, Carlo Luzi e Alberto Perozzi. Il primo, fioraio, aveva sfiorato il mondo dello spettacolo nel 1956, considerata la somiglianza straordinaria con Yul Brynner - all'epoca sugli schermi come re del Siam in Il re ed io e come Ramesse in I 10 comandamenti - che lo portò a vincere a Salsomaggiore un concorso collegato al programma televisivo “Un due tre” condotto da Vianello e Tognazzi. In quell'occasione Luzi, vicino di stanza di Celentano che partecipava alla medesima manifestazione come sosia di Jerry Lewis, strinse amicizia con Tano Cimarosa, che ancora non era stato consacrato sugli schermi (il che sarebbe successo solo nel 1968 con Il giorno della civetta di Damiani, in cui interpretò magistralmente il ruolo di Zecchinetta). Il caratterista diventò una presenza abituale nella casa sambenedettese del sosia di Yul Brynner, tanto che decise di spostare da Padova (dopo il diniego delle autorità di Messina, considerato il tema scabroso) a San Benedetto del Tronto l'ambientazione de Il vizio ha le calze nere, esordio di Cimarosa dietro la cinepresa, thriller a sfondo saffico non proprio indimenticabile, pur con qualche intermezzo comico, che annoverava nel cast lo stesso attore messinese, John Richardson, Dagmar Lassander, Giacomo Rossi Stuart e soprattutto Ninetto Davoli. Fu proprio in questa circostanza che Carlo Luzi divenne amico (e lo è tuttora) dell'attore pasoliniano per eccellenza, che nel giallo all'italiana in salsa rivierasca recitava il ruolo – ricorrente – di delinquente borgataro.
Furono proprio i legami di amicizia di Luzi con questi personaggi del cinema che spinsero l'altro organizzatore, Alberto Perozzi, a mettersi in moto. Figura vulcanica, figlio di funaio (mestiere fieramente sambenedettese), ex-partigiano, amico di Renato e Ugo (Pirro) Mattone (che passarano parte della giovinezza a San Benedetto durante la seconda guerra mondiale, al seguito del padre capostazione, come raccontato in Figli di ferroviere, testo autobiografico del grande sceneggiatore pubblicato da Sellerio nel 1999), intellettuale quasi del tutto autodidatta, operatore turistico, giornalista, poeta dialettale, ideò il fantomatico Trofeo SUD-EST che avrebbe visto affrontarsi la squadra di Pasolini e una sfilza di vecchie glorie della Sambenedettese. L'obiettivo principe, come scrisse Perozzi ricordando l'evento nella prefazione al libretto di sala di Tra i pari e i dispari, recital poetico di Eduardo De Filippo tenutosi nel 1981 al Teatro Calabresi di San Benedetto, era quello di portare “personaggi dei quali, in provincia, arriva solamente l'eco, talvolta imperfetta, delle cronache”.
Pasolini giunse in macchina a San Benedetto del Tronto sul tardo pomeriggio del 13 settembre. Aveva impiegato quasi quattro ore lungo la Salaria, l'antica strada del sale che collegava l'Adriatico (proprio da Truentum, antenata dell'odierna San Benedetto) a Roma. Racconta Perozzi in un articolo pubblicato anni dopo su un periodico locale (per altro con alcune imprecisioni dovute alla distanza temporale dai fatti), che il grande regista aveva voluto gustare con calma il paesaggio di quella strada nobile, dato che “a percorrerla in fretta si perdono dettagli importanti. Sarebbe come visitare una galleria d'arte a passo di bersagliere”. Dalle testimonianze ricavate da Marcello Sgattoni, amico di Perozzi e scultore che peraltro, da adolescente, aveva conosciuto nel 1955 un Pasolini poco più che trentenne in quel di Ortisei, l'uno in un campeggio organizzato dalla CISL, l'altro impegnato con Giorgio Bassani per la sceneggiatura del film Il prigioniero della montagna, il regista di Salò passò il dopocena a contemplare il paesaggio marittimo che si intravedeva dalla collina soprastante la città (dove era situato il ristorante “La plancia”) e ascoltò interessato l'idea di organizzare un'opera lirica all'aperto, lì, con il palco costituito dalle zolle di terra plasmate e modellate dallo stesso Sgattoni. Secondo lo scultore, Pasolini avrebbe anche lanciato l'idea di invitare la sua amica Maria Callas, ma qui ci perdiamo nel territorio dei ricordi e dei se.
La mattina dell'incontro Pasolini si fece accompagnare dagli organizzatori in un'edicola sul lungomare di Porto d'Ascoli, frazione di San Benedetto dove era situato l'hotel in cui risiedeva insieme ai suoi compagni, per comprare La Stampa, sul quale era stato pubblicato – come riferitogli da Perozzi – un polemico editoriale dal titolo Il Processo, e poi?, cui lo scrittore avrebbe risposto esattamente due settimane dopo sul Corriere della Sera con un articolo intitolato Perché il Processo (riportato poi nelle Lettere luterane). Del resto era di quei giorni anche la polemica recensione su L'Espresso degli Scritti corsari da parte di Vittorio Solmi.
La partita si tenne nel primo pomeriggio. Pasolini, come ricorda Giacomo Ciarlantini in un'intervista pubblicata sulla pagina nazionale de Il Messaggero il 4 novembre del 1975, preferiva giocare di giorno a causa dei suoi problemi di vista, che di notte gli impedivano di avere una visione globale. Non tutti gli attori riportati nel comunicato stampa dell'11 settembre scesero in campo. Dalle fotografie di gruppo (le poche sopravvissute per vie traverse alla distruzione, causa una delle frequenti alluvioni pluviali di San Benedetto, dell'archivio Baffoni, fotografo ufficiale dell'evento) si riconoscono, con la maglietta bianca con il simbolo del “Trofeo della Pace” (un albero di ulivo dalla cui sommità escono cinque mani, con i colori dei cerchi olimpici, che simboleggiano i popoli della terra e che tutte insieme sostengono il mondo - logo della squadra ideato da Lozzi), Gino Santercole, Pasolini, Marcello Verziera, Franco Bracardi (alias Vinella), Maurizio Merli e Ninetto Davoli. Ad accompagnare la squadra delle vecchie glorie rossoblù la madrina dell'evento, la starlette Sheila Ray (sulla cui carriera cinematografica non si ricorda altro che una partecipazione al softporno La zia di Monica di Giorgio Mille), per l'occasione avvolta da un sari indiano rosso. Per la cronaca il match terminò 4 a 2 per la squadra di casa, come riportò il 16 settembre la pagina locale de Il Resto del Carlino. Da un breve video dell'incontro, gentilmente offertomi da Clementina Perozzi, figlia del defunto Alberto, emergono dei ritmi di gioco molto blandi, da dopolavoro ferroviario, e soprattutto una non eccessiva partecipazione del pubblico, considerato che a stento si riempì la tribuna ovest del Ballarin, come ricorda anche Luca Luzi, figlio dell'altro organizzatore dell'incontro.
Al termine della partita Pasolini ricevette in omaggio da Perozzi (come testimonia la fotografia pubblicata sulla pagina locale de Il Messaggero del 6 novembre) un'antologia di poeti dialettali sambenedettesi (Cicero pro domo sua, c'erano anche componimenti dello stesso Perozzi, per altro curatore del volume...). 
Pasolini partì il giorno dopo, non prima di aver sperimentato, insieme a Davoli, la cucina, tipicamente picena, della moglie di Luzi. Se ne andò da San Benedetto con un'immagine ambigua della città, ammirando quei piccoli residui del borgo marinaro che aveva potuto ancora intravedere (in particolare gli ultimi casotti dei pescatori vicino al faro, che di lì a poco sarebbero stati abbattuti) e criticando la massiccia cementificazione a scopi pseudoturistici (che già aveva potuto denunciare in un passaggio del suo reportage del 1959, La lunga strada di sabbia, pubblicato sulla rivista Successo). E senza sapere che quella sarebbe stata la sua ultima partita di calcio. Come ricorda Ciarlantini nella succitata intervista, sarebbe dovuto scendere in campo ad ottobre a Milano nel derby fra Nazionale Attori e esordiente Nazionale Cantanti (derby che finì in parità, 1 a 1, con reti di Nino D'Angelo e Don Backy), ma uno sciopero di Alitalia lo bloccò a Fiumicino, insieme a Davoli e Franco Citti (e ci rimase molto male). Il 13 ottobre, approfittando di un momento di pausa dalla Fiera del Libro (un “supermercato atroce”, a sua detta), insieme a Giulio Nascimbeni, giornalista del Corriere della Sera, si recò in un negozio di Francoforte per comprare una nuova divisa per la sua squadra. 
Quello che successe a Ostia fra l'uno e il due novembre è (ig)noto a tutti.

Si ringraziano per le informazioni e i materiali d'archivio Anna Maria Quattrini e Clementina e Lucio Perozzi;
Luca Luzi; Barbara Domini   -  Museo Pietraia dei Poeti 63074 - C.da Barattelle - San Benedetto del Tronto - AP -
Italia - credits  -  Fondazione Pietraia dei Poeti - Via San Martino,28 - 63074 San Benedetto del Tronto
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L'autobiografia involontaria di Pasolini, di Piergiorgio Bellocchio

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - LIBRI
L'autobiografia involontaria di Pasolini
di Piergiorgio Bellocchio
Il brano seguente è tratto da
Dalla parte del torto, Einaudi, Torino, 1989


Esco stravolto dalla lettura dell'epistolario di Pasolini (Lettere, I vol. 1940-54 , II vol. 1955-75 , a cura di Nico Nal­dini, Einaudi, Torino 1986 e 1988). Eppure il mio interesse era stato vivissimo fino alla fuga da Casarsa e ai primissimi anni romani, con punte di grande emozione. I momenti di noia, inevitabili in qualunque epistolario integrale (come in qualunque convivenza), quand'anche si tratti di geni, si fanno però più frequenti nella seconda metà del primo vo­lume, fino a diventare prevalenti e oppressivi in tutto il secondo volume. C'è anzitutto la noia del contenuto. Infatti, di pari passo con la sua affermazione professionale, cresce la quota di lettere d'affari. Affari culturali, beninteso, ma non fa differenza: editori, libri, contratti, scadenze, antici­pi, solleciti, recensioni (richieste e promesse di), articoli, ri­viste, ristampe, antologie, bibliografie, interviste, premi, raccomandazioni, omaggi, dediche, complimenti, ecc. ecc. Ma non si tratta solo della materia. Prevedibili, molesti sono anche gli umori e le idee, che si ripetono secondo osses­sivi clichés. Si percorre l'ultimo decennio con la nausea di chi ha raggiunto da un bel pezzo la saturazione.
Questo migliaio di lettere - si chiede, compiuta la fatica, l'esasperato lettore - che occupano quasi duemila pagi­ne, non avrebbero potuto essere vantaggiosamente ridotte a due o trecento, cifra che avrebbe compreso non solo i do­cumenti d'importanza letteraria, biografica, psicologica, culturale in genere, ma ancora un'abbondante campionatu­ra della corrispondenza d'affari e di routine? Perché l'epi­stolario - e integrale (che poi integrale non è) - ad appena un decennio dalla morte? Perché tanta precipitazione, se non per sfruttare, prima che se ne esaurisse l'eco, lo scanda­lo di quella morte? Il solo altro scrittore del dopoguerra a godere del dubbio privilegio della pubblicazione integrale dell'epistolario, è stato Pavese (1966). Un altro “caso”, un altro scandalo. Solo se impotenti o omosessuali, nonché sui­cidi o assassinati, si ha diritto subito all'epistolario? Se già non l'avesse fatto, sarebbe ancora disposto l'editore a pubblicare oggi le lettere di Pavese? E quelle di Pasolini tra ven­t'anni? Reazioni e problemi di qualche fondamento, che po­trebbero essere sviluppati e formare oggetto di specifica trattazione. Senonché...
Senonché succede qualcosa di strano. Smaltito il primo choc, a mano a mano che i sensi frastornati tornano al normale equilibrio, il lettore deve progressivamente arrendersi a un'evidenza del tutto imprevista. Deve cioè ammettere, ancora incredulo, e poi riconoscere con piena convinzione di trovarsi di fronte a un'opera decisiva di e su Pasolini. L'opera forse che meglio lo comprende e lo consegna alle patrie lettere secondo la misura più giusta. Per cui, se prima ne invocavo una radicale selezione, ora preferirei antologiz­zare qualunque altro suo libro (con vantaggio di molti) piut­tosto che l'epistolario. Non è che abbia cambiato opinione su quella larga quota di lettere che mi avevano annoiato e irritato: ma queste con le altre, e con le trecento pagine della Cronologia che integra l'epistolario, concorrono a formare una vera autobiografia. L'autobiografia involontaria dello scrittore forse più furiosamente autobiografico della lette­ratura italiana. Un'autobiografia autentica proprio perché involontaria: nelle lettere, pur gravide di narcisismo, manca infatti il narcisismo supplementare dello scrittore che, oltre al diretto destinatario, pensa all'immagine di sé da conse­gnare ai posteri.
Ma oltre l'importanza biografica di queste lettere ci colpisce il valore letterario (almeno nel primo volume). Esse confermano quanto era rilevabile dalle prime prove poetiche di Pasolini: senza volerne qui cercare le ragioni, Pasolini è un caso di scrittore congenito. La sua vita è subito, nel bene e nel male, letteratura. Certe lettere sono poesia non meno (e talvolta di più) della produzione specificamente poe­tica dello stesso periodo. Sembrerebbe che tra percezione e espressione corra un rapporto di assoluta immediatezza.
Una fra le mie tante compagnie sono le oche: le oche sconten­te, sempre piene di fame, non c'è animale più scontento e ansioso delle oche: le vedi, e credi che siano, giacenti, a poltrire nella dol­ce luce, ma se ti avvicini, immediatamente si alzano e ti si avvici­nano urlanti, con il becco aperto e muovendo il sedere: ciò dimo­stra che non stavano pacifiche a riposare, ma erano continuamen­te in preda all'agitazione e ad un pensiero: mangiare. [...]  (I vol., pp. 78-79). 
Credo che non ci sia cosa più bella della vita in campagna, nel paese natio, tra semplici amici.
Vedo ora un fanciullo che reca l'acqua della fontana dentro a due brocche: egli cammina nell'aria chiara del suo paese, che è un paese a me sconosciuto. Ma egli, il fanciullo, è figura a me notissima, e con il cielo che sbianca con funerea dolcezza, e con le case che si abbandonano a poco a poco all'ombra, mentre ogni cosa, nella piazzetta, è soverchiata da un tormentoso suono di tromba. La giornata è sul finire, ed io ricordo il numero infinito di giorni ch'io ho visto morire in questa maniera, fin dai lontani tempi di Idria e di Sacile. [...] Ma la sera non desiste di lambire i paesi del mondo, le loro piazzette caste e quasi solenni, in un acuto profumo d'erba e d'acqua ferma. Ecco ora che si fa al balcone una don­na, e lancia un grido che a me è un brivido: “Figliooo! ” Così era un tempo nella piazzetta di Sacile, quando indugiavo con gli amici. [...]. Oggi è venuta mia madre a trovarmi ed è partita da poco. Pen­sando a lei provo una dolorosa fitta d'amore; mi vuol troppo bene, ed anch'io. Io sono poeta per lei. (I, 134).
Il primo brano è del '41, Pasolini ha diciannove anni; il secondo è dell'anno successivo. Sono solo due esempi fra tanti che si potrebbero fare.
Dunque, valore documentario e letterario tendono ne­cessariamente a coincidere (mi riferisco sempre al I volume delle Lettere ). Ma c'è di più. Là dove è possibile stabilire un confronto, della stessa materia, tra elaborazione “privata” (diari, lettere) e trasposizione “pubblica”, quasi sempre la prima supera per purezza e forza espressiva la seconda. La verifica probante è fornita dagli inediti “Quaderni ros­si” scritti da Pasolini tra il '46 e il '47, “dove il diario gior­naliero si alterna a ricordi delle stagioni precedenti fino alla prima infanzia” (Naldini), dei quali nella Cronologia sono riportati ampi stralci. Ora, non solo queste pagine mi sem­brano le migliori in assoluto mai scritte da Pasolini, ma se si rapportano, quando l'argomento è comune, alla rielabora­zione “romanzesca” di Atti impuri, è questa a scapitarne (quegli Atti impuri che sono, a loro volta, artisticamente su­periori ai romanzi successivi). Ma Atti impuri parve a Pasolini ancora troppo autobiografico e troppo poco “romanzato” per consentirne la pubblicazione (uscì postumo, Gar­zanti 1982, insieme a Amado mio, che dà il titolo al vo­lume).
“Io vorrei esserlo [sincero], - scrive all'amico Farolfi nell'agosto del '45, - anzi lo sarei senz'altro se avessi più stima degli uomini: ho paura che lo scoprirmi a loro per un superiore impulso morale, mi renda disagiata la vita tra di loro”. (I, 204). 
Sembrerebbe che Pasolini avesse già preso la sua decisione: nascondere prudentemente il suo eros “diverso”. Conosceva il caso di Gide, però su di lui agiva con ben maggior peso l'impressione per la tragica sorte di Rimbaud e Wilde. Ma per una natura come la sua, votata alla sincerità, per cui vita e espressione sono la stessa cosa, la scelta dell'ambiguità appare una contraddizione quasi insa­nabile. Pure, nell'agosto '45 non ha ancora scritto le sue “confessioni ”. Nel '49 scoppia lo scandalo che provoca la sua fuga da Casarsa. A esser colpiti sono gli “atti impuri” realmente praticati, ma anche la loro proiezione letteraria ne viene travolta. Il meccanismo di autodifesa esige la rimo­zione delle “confessioni”.
Nella recensione a Maurice (1972, in "Pier Paolo Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull'arte", Meridiani Mondadori 1999 - vedi QUI il brano di Pasolini), protestando per il de­stino postumo di questo romanzo, Pasolini denuncia il fe­roce moralismo della società britannica che aveva costretto l'autore a nascondere la sua omosessualità, ma non rispar­mia a Forster l'accusa di aver commesso “un atto di viltà”. L'“errore morale” che gli rimprovera, “perché Forster do­veva avere il coraggio di pubblicarlo subito”, equivale a un'autocondanna, consapevole o meno che Pasolini ne fos­se. È fin troppo evidente che la posizione di Forster (che ri­schiava il carcere o l'esilio) era molto peggiore di quella di Pasolini; ma non interessa tanto chi dei due sia stato meno coraggioso, quanto stabilire le conseguenze di quell'"errore morale”. Forster scrive Maurice nel '14, quando la sua ma­turità artistica è già compiuta. Quando scrive i “Quaderni rossi” e Atti impuri, Pasolini ha meno di venticinque anni e ha pubblicato solo, in edizione pressoché privata, le mira­colose Poesie a Casarsa. In pratica, è un esordiente. La rimo­zione è insomma all'origine , e il suo sviluppo umano e arti­stico ne è irreparabilmente segnato.
Paranoia, aggressività e senso di colpa, vittimismo e gu­sto della provocazione, complesso dell'imputato e comples­so del giudice, instabilità, diritto alla contraddizione, atti­vismo frenetico: tratti riconducibili a quel “peccato origi­nale” che ne ha come bloccato lo sviluppo. Naturalmente sono state anche queste tensioni e lacerazioni a determinare l'originalità e la forza della sua migliore poesia, di tantissi­me pagine critiche, di film come Accattone o La ricotta. Ma c'è il rovescio della medaglia: una produzione ipertrofica, abnorme, caotica, di valore estremamente diseguale, che esige sempre grandi sforzi per distinguere il buono dal cat­tivo, il vero dal falso; e lo stesso vale per gli atteggiamenti e gli interventi pubblici. Non è solo colpa della nostra socie­tà, per quanto pessima, se sull'autore s'è subito sovrapposto il personaggio: a volerlo per primo è stato Pasolini, che poi se ne lagnava, ma senza mai smettere di dar pretesto e alimento a questa contraffazione. E certamente colpa della nostra pessima società culturale di essersi mossa quasi uni­camente sulla base di pregiudizi, interessi editoriali, logiche di clan, di schieramento politico, e soprattutto secondo le leggi della moda, favorendo ogni sorta di equivoci sulla comprensione e valutazione dell'opera di Pasolini.


II

Nella settantina di lettere che coprono il periodo della guerra, corrispondenti alle prime duecento pagine dell'epi­stolario (che inizia proprio nel giugno '40), non c'è quasi traccia di interessi politici, salvo il breve momento d'entu­siasmo seguito al 25 luglio. L'a-fascismo del giovane Pasolini si può spiegare in parte con la conflittualità verso il pa­dre militare di carriera e fascista, ma più importa ricordare che la classe intellettuale della sua generazione era uscita sostanzialmente indenne dall'indottrinamento fascista. Parlo della grande maggioranza: i fascisti e gli antifascisti convinti costituivano una minoranza (c'è poi da considerare il caso dei fascisti migliori, come un Berto Ricci, illusi che la “rivo­luzione fascista” fosse ancora tutta da fare: fascisti o antifascisti?) Il regime aveva fallito proprio l'obiettivo princi­pale e più ambizioso: la politicizzazione forzata della futura classe dirigente aveva ottenuto l'effetto di spoliticizzarla. Tuttavia l'entrata in guerra non aveva soltanto radicalizzato le posizioni della minoranza fascista e antifascista, rinvi­gorendo gli opposti disegni e speranze, ma aveva agito anche tra i giovani spoliticizzati. Molti casi di volontariato hanno poco o nulla a che fare con l'ideologia fascista e si ri­chiamano piuttosto al patriottismo, senso dell'onore e del dovere, bisogno d'azione e spirito d'avventura propri dell'età giovanile. Non c'è contraddizione nel fatto che il par­tigiano Guido Pasolini assuma il nome di battaglia di Ermes in ricordo dell'amico di Pier Paolo e suo Ermes Parini, par­tito volontario e disperso sul fronte russo.
La tentazione militare dà inevitabilmente qualche scintilla anche in Pasolini, ma si tratta di manifestazioni del tutto meccaniche, meri tic imitativi. Non solo a-fascista ma immunizzato da ogni suggestione patriottica o scrupolo civico, la guerra non esercita su di lui la minima seduzione (quando più tardi l'avrà sotto gli occhi, gli ispirerà solo or­rore). La ripugnanza per la violenza del giovane Pasolini, pure esuberante di vitalità fisica, la sua mansuetudine sem­brano derivare da un profondo senso della cultura e della tradizione, ma concepite quasi come fatti naturali e eterni, fuori da un processo storico che comporta sempre violenza e distruzione (di altre culture e tradizioni). Riferendo all'a­mico Farolfi (giugno '41 - I, 45) del padre che sta combattendo in Africa Orientale e ha meritato una decorazione, commenta: “Sarò poco eroico, ma io non vedo l'ora che si arrendano”
Leggendo queste lettere, ci si dimentica addirittura che c'è una guerra mondiale in corso. Totalmente estraniato, Pasolini sembra vivere felicemente in un mondo a parte. La fittissima corrispondenza con gli amici ci informa delle sue letture, interessi musicali e cinematografici, pittorici e tea­trali, bagni e bicicletta, sci e calcio, collaborazioni letterarie e progetti di riviste, e soprattutto della sua fervida produ­zione poetica, rivelando una ricettività dei sensi, un'aper­tura intellettuale, una capacità autoanalitica e espressiva ec­cezionali in un ventenne. L'impressione complessiva è di una superiore innocenza e di una splendida salute mentale e fisica. Anche i momenti di depressione esistenziale non sembrano aver rapporto con gli eventi politico-militari, almeno fino al '43; e vengono comunque padroneggiati e su­perati attraverso la loro immediata traduzione in letteratu­ra. “Va là, caro Luciano, che sono felice, tutti noi siamo fe­lici, felici anche nel dolore, quando questo sia ben definito e chiarito interiormente. Viva i poeti, come noi siamo” (31 maggio 1942, I, 129). Da una lettera a Farolfi dell'anno successivo: “Cosí al doloroso e continuamente sofferto ur­gere dei sentimenti, corrisponde metodicamente in me un riordinamento poetico” (I, 170).
Nel luglio del '42 deve seguire un corso di tre settimane per allievi ufficiali. Scrivendone dal campo militare di Porretta Terme all'amico Serra (I, 134-35), se la sbriga in po­che righe: “Lavo le gavette: orribile cosa! Vegliare tutta la notte di guardia: orribile cosa! Questi giorni sono, dal punto di vista della comodità, i più brutti della mia vita”. Una modesta disavventura, un incidente di percorso, da vivere come qualunque altra esperienza (“Il campo è un inferno, ma io lo vivo per la memoria”), e che soprattutto non deve turbare o distrarre minimamente dalla salda fede nel pro­prio alto destino: “Noi siamo poeti. L'ambizione è coscien­za di noi. Il futuro è certo”. Come curiosamente consuona, questo tratto di orgogliosa sicurezza, con certe note diari­stiche ed epistolari di quegli stessi anni del quasi coetaneo Giaime Pintor!
Aggressione dell'Urss, Pearl Harbor, El Alamein, Stalingrado... Nella corrispondenza non ve n'è cenno. Neanche del padre, prigioniero degli inglesi. Che ci sia la guerra trapela soltanto da alcuni sofferti riferimenti a Ermes Parini detto Paria (il soprannome è già un destino: verosimilmente il più semplice, il più sprovveduto del gruppo, l'unico par­tito volontario per la guerra, da cui non tornerà, cancellato, svanito nel nulla):
Ma credo che la ragione principale del mio stato, sia il continuo crudele, insistente penoso pensiero per la sorte di Paria. Ogni volta che dico questo nome devo mordermi le labbra o fissare forte qualcosa per inghiottire le lacrime... (I, 154-55).
Di Paria la notizia ufficiale è che è prigioniero. La sua immagi­ne, là, in Russia, distaccato dalla sua vita, come in un altro mondo dove solo si soffra e si rimpianga, mi dà un'angoscia continua. (I, 180).
Nessun dubbio sull'autenticità dei sentimenti di Pasolini, forse solo meno “continui” e “insistenti” di quel che pretende (l'enfatizzazione è, d'altronde, un elemento costitu­tivo dello stile pasoliniano). Da notare invece che l'angoscia per Paria è rigorosamente “privata”, non sarebbe diversa se Paria fosse affetto da una grave malattia. Che il destino di Paria fosse comune a quello di milioni di uomini travolti dalla guerra, vittime della Storia: ecco una dimensione che a Pasolini risulterà sempre estranea. Mentre la morbosa sensibilità per l'integrità fisica minacciata è un tratto pecu­liare e precocissimo di Pasolini. La sua ansia per la malattia della madre di Farolfi (I, 7) appare del tutto insolita in un ragazzo di diciotto anni.
Non può quindi non destare una forte sorpresa l'improv­visa scoperta della politica subito dopo il 25 luglio '43, e il primo a esserne stupito è proprio Pasolini:
Caro Fabio Luca [Cavazza],
non avrei mai immaginato che un giorno mi sarei messo a scri­verti così seriamente. E tu rispondimi immediatamente, perché l'ansia di sapere notizie di te, di tutti gli amici, mi sta consuman­do. [...]
Sappimi dire qualcosa anche sull'ambiente politico bolognese: che partito era - insomma - quello di Morandi, Rinaldi, Arcan­geli...
In questi ultimi tempi mi ero dato in modo assoluto alla poli­tica, con idee molto decise e rivoluzionarie, ma gli eventi hanno preceduto le nostre intenzioni, colmandoci prima di inenarrabile gioia, e poi lasciandoci come vuoti e inutili. Vogliamo - io e il mio amico di qui, Bortotto - lavorare, agire, esser con qualcuno. [...]
Scrivimi subito, caro Luca, Viva la libertà. Ti abbraccio. (I, 181).
Tuttavia la sorpresa è più per l'entità e la qualità del ri­sveglio politico che per la sua presenza. Sintomi di crisi sono rilevabili da alcune lettere dei mesi precedenti (tra aprile e giugno). Il fervore letterario e la gioia di vivere sono interrotti con aumentata frequenza da momenti di inquietudine, scontento, paura non interamente addebitabili alle classiche crisi di passaggio tra adolescenza e virilità. In ognuna di tre lettere consecutive a Farolfi ricorre l'espressione “non pos­so rassegnarmi” (I, 169, 172, 178): essa si riferisce propriamente al timore di esser giunto, ventunenne, alla propria massima crescita umana e poetica, fissato in uno stampo de­finitivo, e di essere entrato nel cono d'ombra, avendo davanti a sé solo ripetizione e decadenza (“Il futuro non c'è piú”, I, 154). C'è anche l'inevitabile contraccolpo della fe­licità procuratagli dalla favorevole accoglienza aPoesie a Ca­sarsa (Contini anzitutto, “la prima e la più grande mia gioia di scrittore”, poi anche Gatto e Caproni). E ancora, il senso di colpa delle prime esperienze sessuali complete. Ma dietro c'è anche la guerra che si avvicina, la rovina incombente e ormai ineludibile, e il conseguente sentimento che i tempi sono maturi per nuovi doveri.
La vita si fa sempre più difficile, e scrivere è un peso enorme: sono stanco dei miei pensieri che da mille anni nascono uno dall'altro e sono soltanto miei. Vorrei gettarmi sugli altri, trasfigurarmi, vivere per loro. (I, 167).
Ogni immagine di questa terra, ogni volto umano, ogni battere di campane, mi viene gettato contro il cuore ferendomi con un dolore quasi fisico. Non ho un momento di calma perché vivo sem­pre gettato nel futuro: se bevo un bicchiere di vino, e rido forte con gli amici, mi vedo bere, e mi sento gridare, con disperazione immensa e accorata, con un rimpianto prematuro di quanto fac­cio e godo, una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo.
[...] la mia esistenza è un continuo brivido, un rimorso, o nostal­gia. Ho passato perfino un'ora intera a guardarmi le mani, perché sono stato preso dallo scrupolo che in punto di morte l'uomo non sa che mani ha avuto: si è sempre rassegnato ad averle, si è troppo abituato ad esse; non pensa che tra le infinite mani, quelle sono le sue. (I, 170).
Ieri ho visto la fontana di Venchiaredo dove il corpo giovane di Ippolito Nievo ha schiacciato l'erba e ha respirato; allora lui era giovane, lui rideva, lui non pensava neanche lontanamente - e non sarebbe stato ridicolo che l'avesse pensato? - che anche per lui avrebbe dovuto giungere la morte. E infatti è giunta. Io non posso vivere perché non riesco e non riuscirò ad abituarmi a pen­sare che anche per me c'è un tempo, una morte. (I, 173).
Ogni gesto che fanno coloro che sono intorno a me è una fitta al cuore: chiede una collocazione nuova nella mia immagine del mondo. Ogni campana a morte mi fa soffrire come se fosse morto un mio caro, tanto rispetto e amore porto per la vita, che vedo anche quella di uno sconosciuto, direttamente, come se mi fosse stata con concretezza vicina. Lo vedo fanciullo e giovanetto, e nei giorni di festa, cercare i divertimenti come se quel momento fosse eterno e il più importante fra tutti i momenti: e ora è invecchiato e morto. La guerra non mi è mai sembrata tanto schifosamente orribile come ora: ma non si è mai pensato cos'è una vita umana? (I, 179).
“La guerra”: è forse la prima volta che nell'epistolario viene esplicitamente nominata: è il 19 giugno '43. Un mag­gior impegno civile potrebbe essere rintracciato negli articoli pubblicati sul “Setaccio” tra dicembre '42 e marzo '43. Ma è un'impressione superficiale. Lo schema giornalistico e l'ufficialità della sede (la rivistina è un'emanazione della Gil bolognese) condizionano la sostanza del discorso, sottraendogli sincerità a favore di formule generiche, e allen­tano quella tensione, che invece è sempre fortissima nel col­loquio epistolare con gli amici (quegli articoli sono semmai un ulteriore esempio dell'a-fascismo di Pasolini, della sua indipendenza, piuttosto che di un nuovo atteggiamento etico-politico). La reale pressione della Storia, seppure indirettamente, è meglio avvertibile nelle angosce private, proprio nella esasperazione narcisistica con cui si manifestano in quest'ultimo periodo. Quanto alle scelte pratiche, gio­va riportare la testimonianza di Cesare Bortotto (dalla Cro­nologia , I, LII ):
Gli eventi della guerra che precipitava.(erano sbarcati gli alleati in Sicilia) maturarono in Pier Paolo l'idea prepotente della “Piccola Patria” del Friuli, quale si doveva salvare idealmente dal crollo dello stato fascista.Il testo del proclama da inviare “Ai podestà e ai parroci del Friuli”, lo scrisse in poche ore mentre eravamo seduti nel bo­schetto delle Aguzze, in un nostro angolo riparato. La macchina da scrivere per battere le trecento copie era quella della Casa del Fascio. Il lavoro appena avviato, venne interrotto il mattino del 26 luglio quando Pier Paolo, che aveva ascoltato la radio, giubi­lante venne a comunicarmi la caduta del fascismo.
L'idea separatista - che ha e avrà sempre fortissime ra­dici in Pasolini - viene meno di fronte alla svolta naziona­le. Straordinariamente eloquente è la lettera a Serra dell'a­gosto '43:
L'Italia ne avrà bisogno, eccome, di sangue: ma è la mia terra che deve essere bagnata. Ha bisogno di una dilagazione di sangue - o di lacrime - che distrugga tutto un secolo di errori monarchici liberali, fascisti e neoliberali.L'Italia ha bisogno di rifarsi completamente, ab imo, e per questo ha bisogno, ma estremo, di noi, che nella spaventosa ine­ducazione di tutta la gioventù ex-fascista, siamo una minoranza discretamente preparata. E io, in questo, ti accuso, (o devo inve­ce, come spero, accusare i lunghi mesi di rincretinimento militare?), perché, nella tua lettera, non un accenno di sapore politico, non un commento di dolore o di gioia per l'avvento della libertà. E pensare che per me invece, anche per la mia singolare ed inti­missima esperienza poetica, questi giorni sono di una portata im­mensa.La libertà è un nuovo orizzonte, che fantasticavo, desideravo si, ma che ora, nella sua acerbissima attuazione, rivela aspetti così impensati e commoventi, che io mi sento come ridivenuto fan­ciullo. Ho sentito in me qualcosa di nuovo sorgere e affermarsi, con una imprevista importanza: l'uomo politico che il fascismo aveva abusivamente soffocato, senza che io non ne avessi la coscienza.Ora la vita mi sembra più lunga: la retorica giovinezza fascista non è infatti ancora che uno stato di inesperienza e perciò tutti “i noi giovani ” degli ex-fogli del Guf si trovano, giustamente, con tutta una nuova educazione da rifare. E la Storia sembra più vi­cina, nei suoi fatti di mezzo secolo fa, che noi conoscevamo con tanta incuranza e provvisorietà. Mi credi, Luciano?Sento nelle narici un odore fresco di morti; i cimiteri del Rina­scimento hanno la terra appena smossa e recenti le tombe. E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà(I, 184-85).
Di questo documento, - che è poi l'unica pagina di contenuto specificamente politico dell'intero epistolario, e l'u­nica in cui la politica sia sentita in una prospettiva vitale - è da apprezzare la grande sicurezza e la capacità di superare per mera energia intellettuale, slancio etico ma soprattutto per forza espressiva e poetica, le enormi lacune di una for­mazione politica assolutamente improvvisata.
Ma è caratteristico che tra le due lettere “politiche” se ne collochi una di tutt'altro genere. E diretta a Cavazza che aveva prontamente risposto alla sopracitata di Pasolini:
Caro Luca,della tua lunga lettera una cosa sola mi è rimasta in mente, in­grandendosi sempre più, con il seguirsi dei pensieri: la malattia di Ornella. Io spero che si tratti del solito allarmismo caratteristico di Fabio, perché non so conformarmi ad un avvenimento così estraneo e feroce.Ti ricordi quando abbiamo visto Ornella a Bologna? Com'era densa di vita! Dammi presto notizie di lei e di tutta la famiglia: dimmi dov'è e cosa fa Silvana. Scrivimi presto, perché spero tu immagini la mia ansia. (I, 183).
L'ansia fisica per i più prossimi (amici, parenti), il suo mor­boso terrore per la malattia e la morte, sentite come assur­de, totalmente “estranee” e unicamente nella loro “fero­cia ”, hanno il potere di annullare ogni altro problema. La “lunga lettera” di Cavazza era verosimilmente dedicata in gran parte a fornire le informazioni di carattere politico bramate da Pasolini. Ma, di colpo, queste sembrano non interessargli più, cancellate da quella “sola cosa”: la malattia di Ornella.
L'8 settembre lo sorprende a Livorno, richiamato da ap­pena una settimana. Il suo reparto si arrende ai tedeschi senza opporre resistenza, ma Pasolini si sottrae alla cattu­ra e raggiunge fortunosamente Casarsa. Si apre il periodo peggiore, con la guerra in casa, i bombardamenti aerei, l'oc­cupazione tedesca, il pericolo costante di essere deportato o ucciso. Scriverà nei “Quaderni rossi”: “Vivevo in un con­tinuo rischio di perdere la vita; per vari mesi anzi parve certo che uscire vivi da quell'inferno non era che un'assurda speranza. Questo mi dava un continuo senso del mio cadavere ... ” (Cronologia, I, L xx I x- L xxx ). Le comunicazioni epi­stolari di quel periodo sono scarsissime, con brevi accenni inequivocabili: “Si passa da una fifa all'altra” (I, 192); “Paura di lasciarci la pelle...” (I, 196). Il documento più si­gnificativo è la lettera a Serra del febbraio-marzo 1944:
Non so se ci rivedremo, tutto puzza di morte, di fine, di fuci­lazione. [...]La guerra puzza di merda. Gli uomini sono così stomacati che si metterebbero a ridere, e direbbero “non vale!” Ma aspettano, non so che cosa: che si stacchi il marcio. Marcio ce n'è poco, ma puzza come la merda. E io me ne vado a spasso per i campi vuoti, con qualche primoluccia qua e là, qualche lista di verde lancinan­te, contro le nevi del monte Cavallo sospeso con le sue creste bianche nell'aria azzurra. Solo, vado per i campi, e cammino cammino, dentro il Friuli vuoto e infinito. Tutto puzza di spari, tutto fa nausea, se si pensa che su questa terra cacano quei tali [i tede­schi]. Vorrei sputare sopra la terra, questa cretina, che continua a metter fuori erbucce verdi e fiori gialli e celesti, e gemme sugli alni; vorrei sputare sul monte Rest, lontanissimo, in fondo al Friuli, sul mare Adriatico, invisibile dietro le Basse; e anche sulle facce di questi casarsesi, di questi italiani, di questi cristiani. Tutto puzza di fucilate e di piedi. Che cosa mi lega a questa terra? Non aver paura, Luciano, che sono abbastanza puzzolente anch'io per esser capace di non sentirmi legato a tutta questa mer­da. Domani (fra sessanta anni; ci tengo) avremo una buca: non sarebbe una novità se non avessi visto con QUESTI occhi calarci den­tro una morta, di cui sapevo che era stata viva [la nonna mater­na]; e allora in quel corpo che calava giù, ho misurato tutta questa umanità merdosa; viene qualcuno (la morte) a turarti il naso, e tu non senti più niente. Nel mio paese nasce primavera. (1,190-91).
Dell'entusiasmo politico esploso dopo il 25 luglio non è rimasto nulla. Il suo impegno sociale è assorbito dall'aper­tura e dalle cure che dedica a una scuoletta privata per i ra­gazzi della zona. “Tedeschi o non Tedeschi, morte o non morte, speriamo di trovarci questa primavera sugli alberi del tuo orto a mangiar ciliege con il mondo in pace” (otto­bre '44, I, 196). Da ogni forma di resistenza attiva lo separa un'invincibile ripugnanza. Confesserà, con ironia, vent'an­ni dopo: “Poi ci fu la Resistenza | e io | lottai con le armi della poesia” (Una disperata vitalità).

El poeta prepara una fiama,
Pian pianin... e el va via pian pianin,
Sue no xé che le prime falìve,
E la fiama lo spaventarà.

Ci sono altre tre versioni della quartina di Noventa, dove varia solo il verso finale: “El va via... e nissùn savarà ”; “E po' forse l'amor vignarà”; “E po' i santi e l'eroe vignarà”.
La fiammella accesa da Pier Paolo, che subito se ne ritrae, è divampata generosamente (l'amore) nel fratello Guido, appena diciottenne, che dopo aver compiuto rischiosissime azioni di propaganda, sabotaggio, trafugamento di armi, subendo anche un arresto e bastonature, si unisce alla lotta ar­mata. Al poeta (spaventato) succede l'eroe.
Ma il partigiano Guido continuerà a nutrire per Pier Paolo una quasi mitica ammirazione. Nelle poche lettere scritte alla madre, i costanti accenni e appelli al fratello stringono il cuore:
Il mio pensiero ritorna per una strana fissazione a Pier Paolo; anche nei giorni passati ho pensato a lui intensamente... che cosa fa? Perché non mi scrive mai? Alle volte mi ossessiona l'idea che lui pensi a me con una certa amara ironia: ne rabbrividisco... [...] Ho ricevuto il libro: ne sono contentissimo, mandane ancora e so­prattutto, se puoi, qualche scritto di Pier Paolo... (Cronologia, I, LXII).
Ho ricevuto la lettera di Pier Paolo. Mi ha messo una grande pace nell'anima; gliene sono davvero molto grato. La poesia ha inter­pretato straordinariamente il mio stato d'animo di certe giorna­te... [...] Prega Pier Paolo di scrivermi ancora, quando ha tempo, mi dà una grande gioia. (Ibid ., LXIII).
Aspetto con impazienza uno scritto di Pier Paolo... Non dimen­ticarti in ogni tua lettera di trascrivermi qualche sua poesia. (Ibid ., L xxv I).
Il 27 novembre '44 scrive a Pier Paolo una lunga e circostanziata lettera-memoriale sulla drammatica situazione della sua formazione partigiana (la Osoppo, a prevalenza azionista), che stava subendo la massiccia offensiva tedesca, ma doveva anche difendersi dal tentativo di assorbimento da parte della divisione Garibaldi (comunisti), appoggiata dall'esercito partigiano sloveno. Come si sa, il contrasto po­litico precipiterà fino a concludersi di lì a poco (12 febbraio '45) con l'uccisione di Guido e altri che si erano rifiutati di cedere alle pressioni comuniste. In questo documento che acquista valore di testamento, di cui Pier Paolo si trova sen­za volerlo a essere il depositario, Guido invoca ripetutamente l'aiuto del fratello:
Siamo convinti che tu, con qualche articolo, ci puoi essere di grande aiuto... [...] 
Abbiamo fondato fra gli altri un nuovo giornale: “Quelli del Tricolore”, dovresti scrivere qualche articolo che fa al caso nostro [...] io sono convinto che tu ci puoi essere di molto aiuto... con qualche poesia magari, in italiano o friulano (con traduzione), qualche canzone su arie note, pure in italiano e friulano ecc. ecc. Negli articoli cerca appena di sfiorare gli argomenti suaccennati: devi essere un italiano che parla agli italiani. [...]
Naturalmente tutta questa tirata ti ha annoiato moltissimo ma è bene che tu sappia com'è la situazione, anche perché ho bisogno se non altro dei tuoi consigli.
Comprendo perfettamente che molto probabilmente non avrai né tempo né voglia di compilare gli articoli su accennati, co­munque se hai intenzione di farli: falli al più presto e dalli a Berto in busta chiusa...
Se non altro almeno scrivi a me qualche riga... (Ibid ., LXIII-LXIX).
Oltre il bisogno di confidarsi, di avere conforto nella critica situazione in cui si trova, oltre l'affetto e l'ammirazione, colpisce l'ostinata fiducia di Guido nella figura dell'intellet­tuale impersonata dal fratello. L'eroe continua ad aver bisogno del poeta, convinto del potere decisivo della parola, della sua necessaria funzione politica. E questo, pur dando per scontata la renitenza di Pier Paolo: “Naturalmente tut­ta questa tirata ti ha annoiato moltissimo”, “non avrai né tempo né voglia... ”; e ancor più realisticamente nell'attac­co: “quanto ti scriverò in questa lettera ti stupirà moltissi­mo: "Ma io non c'entro!" dirai alla fine facendo uno scon­solato gesto con le mani... ”
Sappiamo che, mentre si consumava la tragedia del fra­tello e di un intero popolo, Pasolini si difendeva dalla realtà angosciosa della guerra sforzandosi disperatamente di ne­garla (fino all'assurdo: “Non vale! ”), sognava di mangiare le ciliege a primavera “con il mondo in pace”, o come con­fesserà impietosamente due anni dopo nei “Quaderni ros­si”: “Il mio reale (unico) sentimento era il dolore di aver perduto l'occasione di incontrare Bruno” (Cronologia , I, L xx I - L xx II). Ma forse lo sapeva anche Guido. Eppure non cessava di reclamarne la partecipazione, quasi nel tentativo di vincerne lo scetticismo (l'“ amara ironia”) e di volerlo as­sociare a tutti i costi alla lotta nella quale lui, Guido, era im­pegnato fino in fondo e a cui stava per sacrificare la vita. Sarebbe comodo giudicare infantile l'atteggiamento di Gui­do, irrealistiche le sue speranze; o vedervi semplicemente o soprattutto una manifestazione del suo complesso di infe­riorità verso il fratello maggiore, segnato dal dono della poesia nonché privilegiato nell'amore della madre. Nella sua ingenuità egli esprime un'esigenza tanto semplice quan­to pura e alta: la parola, che nasce dal bisogno di verità e di amore, non deve abbandonare mai, avvilendolo e impove­rendolo, l'impegno pratico che ha originato. Capire, espri­mere, agire non devono essere funzioni separate, ma proce­dere insieme verso la verità e il bene.
La lunga lettere in cui Pasolini rievoca le circostanze della morte di Guido (I, 197-201) è la piú commovente dell'e­pistolario non solo per il contenuto straziante ma per la di­sarmata semplicità dell'espressione. Destinatario è Serra, e con lui gli amici di Bologna, vale a dire il gruppo di giovani intellettuali dalle cui idee e sentimenti è stata ispirata la scelta di Guido (“E quanto è stato migliore di tutti noi...")
Non è la rassegnazione, la saggezza ciò “che bisogna dare a quel povero ragazzo che se ne sta laggiù chino in quel silen­zio terribile”. Pasolini tocca il punto cruciale del rapporto che legava Guido a lui (“sacrificandosi pel suo fratello mag­giore, forse a cui voleva troppo bene e a cui credeva trop­po”) e non nasconde un certo rimorso:
Ora tutto questo amore che quel ragazzo aveva per me e i miei amici, tutta quella stima per noi e per i nostri sentimenti (per i quali è morto) mi tormentano sempre; vorrei poter contraccambiarlo in qualche modo.
Ma sono debiti destinati a restare sempre insoluti. Ci sa­rà negli anni immediatamente successivi l'impegno militan­te di Pasolini nella sezione Pci di San Giovanni, e poi l'im­pegno generico. La vicenda del fratello Guido non influirà su Pier Paolo più di quanto altre simili vicende non abbiano influito su tanti altri intellettuali. Perché Pasolini avrebbe dovuto fare eccezione? La classe intellettuale, complessivamente, ha dato alla Resistenza un contributo mediocre, molto inferiore a quanto il suo grado di consapevolezza e responsabilità avrebbe comportato, per non parlare della li­bertà di scelta derivante dal privilegio economico. Il maggior peso della lotta armata fu sostenuto dalla classe operaia, che ne pagò il prezzo più alto. Lo stesso rapporto dise­guale e di separatezza si è ripetuto nelle lotte sociali del dopoguerra. Comunque, tornando ai versi di Noventa, già su­scitare la fiammella è destino dei poeti migliori, ché i più neanche di questo sono capaci. E l'opera di Pasolini non ne ha accese poche.
Piergiorgio Bellocchio è nato nel 1931 a Piacenza, dove vive. Nel '62 ha fondato la rivista "Quaderni piacentini" e l'ha diretta fino alla chiusura, nel 1984. Tre suoi racconti sono stati pubblicati nel volume I piacevoli servi (Mondadori 1966). Ha collaborato con l'editore Garzanti scrivendo voci per l'Enciclopedia della letteratura (1972) e per l'Enciclopedia Europea (1976) e prefazioni a Stendhal, Dickens e Casanova. Dal '77 all'80 ha diretto a Milano la piccola casa editrice Gulliver. Dall'85 pubblica, con Alfonso Berardinelli, la rivista "Diario", da cui sono tratti i testi ora pubblicati nelle pagine pasoliniane del volume Dalla parte del torto, Einaudi, Torino 1989
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Pier Paolo Pasolini, "Descrizioni di descrizioni": "Maurice" di Edward Morgan Forster

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Edward Morgan Forster in un ritratto di Dora Carrington, 1924-25

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni
Recensione di Pasolini del 26 novembre 1972 a
Maurice, di Edward Morgan Forster
In Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull’arte, Meridiani Mondadori, Milano 1999


Maurice è stato scritto da Edward Morgan Forster nel 1913-14, ma pubblicato solo dopo la sua morte, per sua volontà. Questo, a proposito di Maurice, è stato l'unico errore di Forster. Errore morale, perché Forster doveva avere il coraggio di pubblicarlo subito, ed errore pratico, perché Maurice è un capolavoro, e sui capolavori de­ve sedimentarsi il tempo di lettura giusto, perché essi possano prendere e tenere il loro posto nelle storie lette­rarie (se ciò ha importanza). I capolavori scoperti o pub­blicati in ritardo, forse non riusciranno mai ad «agire» come tali nelle coscienze. E anche il caso di Osip Mandel'stam, il poeta ebreo-russo conosciuto solo di recen­te, che pure essendo probabilmente più grande degli stessi Majakovskij ed Esenin, mai più potrà essere tenu­to presente in quanto tale: diventare cioè quel nome mi­tico che fa parte dell'elenco indiscriminato dei maestri che costituiscono i cardini delle ingenue informazioni letterarie dei figli. Ma queste son chiacchiere, che hanno valore solo se suonano come esasperata condanna della società puritana che ha obbligato Forster a un atto di viltà (lui così meravigliosamente lucido e coraggioso), e contro la società comunista staliniana che ha relegato Mandel'stam prima nei campi di concentramento e poi nel ghetto dei grandi poeti dimenticati.
Monumento a Edward Morgan Forster
St. Nicholas Church, Stevenage
Forster, in una prefazione al libro da pubblicarsi po­stumo, nel 1960 aveva scritto che esso era «datato», data l'evoluzione del costume, la maggior tolleranza ecc. (aggiungendo però amaramente che si è passati «dall'igno­ranza e dal terrore» «alla familiarità e al disprezzo»). In realtà il libro non è datato - perché malgrado appunto la tolleranza che crea i «liberi» ghetti - la storia di Maurice è una storia che potrebbe ripetersi identica nell'Inghil­terra di oggi, e non solo, ma anche nelle nazioni dove abbia sempre avuto vigore il codice napoleonico (che non prevede l'omosessualità in quanto tale come un delitto). La piccola borghesia non può che essere razzista: odierà sempre e comunque ebrei, zingari, omosessuali o gente del genere che «vive vite indegne di essere vissu­te» (Himmler - che non è inglese): o cesserà apparentemente di odiarli solo nel caso che diventino «marrani» cioè neghino socialmente se stessi.
Per molte pagine, fino a quasi metà libro, Maurice rie­sce a tener segreta la propria reale funzione: sembra dapprincipio un libro di ricordi sulla propria infanzia e la propria giovinezza: lo si legge come tale, ed è affasci­nante già così. L'umorismo inglese - che infastidisce tal­mente, in quanto, direi, privilegio di classe, in tanti ro­manzi inglesi - è così discreto da manifestarsi come stato d'animo generale, piuttosto che manifestarsi nei to­poiche gli sono sacri: tanta leggerezza è la classicità del libro, rifinito senza apparirlo, perfetto ma non simmetri­co e «chiuso», pieno di una raggiante vitalità espressiva, dominata e compressa, che non permette a niente di re­stare oscuro o in penombra. Si crede per un bel pezzo, di trovarsi a leggere una deliziosa opera classica, di quel­la particolare classicità del primo Novecento, che com­prende in un terreno comune di chiarezza e leggerezza, Proust e Apollinaire, Cocteau e i formalisti russi... Inve­ce il libro è destinato a dare due successive grosse ed emozionanti sorprese.
Quando il rapporto tra Maurice - uscito dalla valle dell'infanzia oscurata dall'ombra di alte montagne - e Clive, si chiarisce, e viene chiamato nel suo esplicito ter­mine di amore, sia pur platonico, secondo la suggestio­ne del Convito - il libro non è più un libro di memorie, ossia delle memorie di Maurice. C'è infatti un autore, Forster, che si distingue dal protagonista con cui si era così identificato da fare dell'intero mondo - il collegio, la famiglia - una soggettiva: ed esamina oggettivamente la storia del secondo personaggio, di Clive. Ma non, si badi, «come supposta» da Maurice, bensì vista come un fatto reale, che si oppone alla realtà di Maurice. Il libro da analitico - sia pure analitico in modo deliziosamente riassuntivo - diventa sintetico: assume cioè la forma di «oggetto» del romanzo, col suo artificio principe, cioè l'equidistanza dell'autore da tutti i personaggi. Ed è a questo punto che intervengono anche elementi molto evidenti di tecnica romanzesca: per esempio, in un capi­tolo vengono descritte le pure e semplici azioni di un personaggio, indecifrabili e ontologiche (tali da far di­sperare di supposizioni ed equivoci l'altro personaggio che le subisce), e nel capitolo successivo vengono «spie­gate», come appunto se l'autore fosse testimone sia dell'intimità del protagonista che dell'antagonista.
È questa la parte del romanzo che si legge con una an­goscia sottile, resa tollerabile solo dalla grazia dell'autore (con quella primavera a Cambridge): ciò che angoscia è l'amore non consumato tra i due ragazzi che pure «dico­no» di amarsi, e ne sono felici; il sentimento di una giovi­nezza buttata senza godere ciò che in essa c'è di meglio, il rapporto sessuale: tanto è vero che quando Clive, ormai sulla china discendente dell'amore, dice che sta comin­ciando a perdere i capelli, non si ha quasi più voglia di proseguire una lettura così atroce, che dà, forzatamente, per stupendo e realizzato un rapporto d'amore in realtà ottuso e represso. Poi Clive torna alla normalità, riscopre le donne, cui era destinato (e va a riscoprirle proprio sull'Acropoli, luogo deputato dell'amore greco - abilità suprema e diabolica da grande autore), e Maurice, inver­tito ma semplice e sano come il più normale dei ragazzi, resta di nuovo solo.
A questo punto, con estrema lentezza - con mano che pare non avere nervi, come dice l'Ascoli del Manzoni - Forster fa entrare il romanzo nella sua terza fase, riser­vandoci la seconda e ancora più emozionante sorpresa.
Piano piano la descrizione della borghesia inglese - così amabile da principio - comincia a farsi sempre più feroce: finché, alla fine, i personaggi, a cui avevamo sem­pre perdonato (e quasi ammirato) il controllo, l'adesio­ne al codice di comportamento, il terrore per la verità, il distacco dalle cose, il rigore sociale quasi ascetico, fini­scono col diventare dei mostri. Anne, l'amata e poi la moglie di Clive, è quasi la caricatura di un mostro ridi­colo; la famiglia di Maurice, madre e due sorelle, diven­ta una piccola tribù di pazze, ecc. Cosa succede? Forster, che per i primi due terzi del libro aveva descritto il puritanesimo e l'ipocrisia della sua perfetta società quasi con amore, d'improvviso, senza cambiare stile, descrive quella stessa società con un disprezzo che suona con­danna definitiva e totale. Ed è a questo punto che com­pare il terzo personaggio del dramma, Alec.
Di colpo, comprendiamo perché con tanta ostinazio­ne - anche se con altrettanta logica - Forster aveva fatto di Maurice un così accanito conservatore, quasi un rea­zionario: perché lo aveva fornito di tanto aristocratico e quasi invasato disprezzo verso le classi povere e di un così alto e assoluto concetto della propria classe e della sua appartenenza ad essa.
Nel momento in cui egli vede Alec - e il suo conscio non lo realizza,mentre lo realizza il suo profondo - que­sto suo «fascismo all'inglese» si irrigidisce e si fa più du­ro e inflessibile: per poi - d'incanto - vanificarsi, crolla­re, non esistere più, diventare quella cosa priva di realtà che è sempre stato.
Alec appartiene all'altra classe sociale: è figlio di un macellaio (orrore!) che momentaneamente fa il guardia-caccia della villa di Clive e si accinge a emigrare in Ar­gentina. È un povero. Sia l'intuito di Alec nel compren­dere l'amore non detto, non ammesso, di Maurice, sia il successivo abbandono di Maurice di tutto il suo mondo ideologico, vengono taciuti da Forster, ma parlano solo magicamente i fatti.
Alec porta con sé una sincerità sacrilega, la sua roz­zezza e la sua sfacciata ingenuità (che si manifesta in due stupende letterine di ricattatore) sono senza equi­valente nel mondo di Maurice, e quindi dapprincipio mancano della possibilità di interpretazione. Il corpo stesso di Alec è impossibile, è altro. E Alec vive la pro­pria classe sociale nel proprio corpo. Maurice, amando il corpo di Alec, ama in esso la sua classe sociale. E poi­ché è la prima volta che accetta e ammette di amare un corpo, ecco che la classe sociale che da quel corpo è vis­suta, viene accettata e ammessa, come una rivelazione. Alec irrompe nella vita classista di Maurice, non solo come un vento misterioso d'amore sfacciato, meravi­gliosamente ingenuo e carnale, ma come una forza rivo­luzionaria. La storia della borghesia inglese avrebbe in seguito fagocitato il socialismo che, quando Forster sta­va scrivendo questo stupendo libro terrorizzava come un fantasma le buone coscienze inglesi, e la rivoluzione - da lì a quattro anni - sarebbe esplosa altrove. Eppure Alec, con la sua stessa presenza, o, meglio, ripeto, col suo stesso corpo, è rivoluzionario: pur accettando le convenzioni e i condizionamenti (a lui profondamente estranei) della classe dominante, ad Alec non ci vuol niente a ridurli a quell'irrealtà che sono, e a sostituirli di prepotenza con qualcos'altro, comunque, di reale. In questo caso è il sesso. Ma nel sesso si concentra, come in un simbolo, tutta l'alterità di una vita ignorata dalla classe dominante, che ne è sgominata e dissacrata fino alla dissoluzione. Nel libro di Forster queste cose non sono scritte, ma non si possono non pensare: a meno di non essere sessualmente repressi e razzisti - anche se progressisti! - e quindi di essere così incapaci di pensa­re da prendere questo libro per un'elegante confessione o una denuncia superata dallo stile delizioso con cui è scritta.
Maurice è anche un film - tratto da Edward Morgan Forster - del 1987 diretto da James Ivory, con James Wilby e Hugh Grant.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Due Pasolini, di Antonio Tricomi

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LA SAGGISTICA
Due Pasolini
di Antonio Tricomi
   

Pasolini è, dall'inizio alla fine, un autore impolitico, non, però, perché la sua sia una visione estetica del mondo e, dunque, egli si cali soltanto volontaristicamente nella tematica dell'impegno, come nota Asor Rosa. Al contrario, in Pasolini la vocazione politica è assolutamente autentica, soltanto che mai essa è sostenuta e guidata da una vera e propria cultura specificatamente filosofica e politica. A questa Pasolini sostituisce, reputandola in tutto e per tutto equivalente, una cultura più strettamente letteraria e figurativa, perché considera intrinsecamente politica, e cioè sovversiva, l'arte in sé. L'artista per Pasolini è il solo in grado di contestare, mettendolo irrimediabilmente in crisi, lo stato esistente delle cose e, dunque, le gerarchie sociali e gli stereotipi culturali consolidati. E' colui che condanna in qualche modo se stesso ad un vero e proprio "destino d'opposizione" (come si legge in Progetto di opere future, contenuta in Poesia in forma di rosa), mai fine a se stessa e mai semplice espressione di una rivolta puramente individuale, ma sempre inserita nel contesto di una dialettica e di una lotta tra classi sociali o, una volta consumatasi la dissoluzione di queste, tra blocchi trasversali di potere. Ecco, allora, che per Pasolini, in quanto artista e, dunque, intellettuale, la prima questione da affrontare è, per così dire, di tipo tattico e strategico, riguarda, cioè, il giusto posizionamento, la corretta definizione della propria utilità pubblica e del proprio ruolo specifico all'interno della società classista prima, interclassista poi. 
E' in merito a questo problema che scopriamo l'esistenza di due Pasolini. Il primo convinto della persistenza di una cultura e di una classe sociale genuinamente popolari e contadine, delle quali farsi autorevole portavoce al cospetto della cultura e della classe dominanti, quelle borghesi, così da tentare di contrattare con esse, in nome e a vantaggio del popolo, la gestione del potere non soltanto economico e politico, ma anche, e forse soprattutto, culturale. Per Pasolini, infatti, la vera lotta non è quella per la conquista del potere: il fascismo rappresentò il trionfo massimo della piccola e media borghesia, ma ciononostante probabilmente mai come allora la cultura popolare seppe dimostrare la propria vitalità. Anzi, soltanto rimanendo ai margini del potere ed escluso da esso il popolo può evitare di perdere la propria specifica identità, può rappresentare un'alternativa concreta alla cultura borghese. 
Ciò, da un lato, spiega le ragioni delle critiche mosse da Pasolini al prospettivismo lukacsiano; dall'altro, dimostra che non sono del tutto infondate le accuse di populismo in più circostanze rivolte a Pasolini. E poiché a quest'altezza, per ammissione dello stesso Pasolini, sono la filosofia gramsciana ed il modello dell'intellettuale organico ivi delineato a costituire i suoi punti di riferimento, occorrerà immediatamente dire che si tratta di un Gramsci palesemente corretto con Rousseau. Il posizionamento di questo primo Pasolini, dunque, risulta del tutto eretico da un punto di vista strettamente marxista e materialista perché egli non vede in maniera corretta la dinamica e la dialettica tra struttura e sovrastruttura, mentre non contraddice affatto una visione del mondo e della società meno laica, più religiosa e cattolica, addirittura. Ecco, allora, spiegato perché con Gramsci e Rousseau, è Cristo il terzo modello di riferimento, il terzo exemplum al quale Pasolini si ispira. 
Ve ne sono, ancora, un quarto, Freud, ed un quinto, che non ha nome semplicemente perché potrebbe averne svariati: il già citato Rimbaud o Pascoli, ad esempio. E', insomma, il poeta, santo, martire e profeta. Il secondo Pasolini è quello che poi, con il tempo, diverrà il Pasolini corsaro e luterano. Il Pasolini, insomma, che nota come lo stato democratico borghese ed il tardo capitalismo siano riusciti laddove anche il fascismo aveva fallito: distruggere la cultura popolare e contadina. Nel regime tecnocratico, cioè, ogni uomo è intrinsecamente e inevitabilmente un uomo medio, in altri termini borghese; risultano ormai dissolte le varie classi sociali; ciascun individuo è in lotta con l'altro per difendere il proprio diritto individuale all'esistenza. Perduto è quel senso del sacro che sempre aveva contraddistinto la civiltà contadina; non possono più esservi trasgressione e scandalo, dunque lotta e rivoluzione, poiché il potere, tollerante e capace di recuperare a sé qualsiasi spinta centrifuga, riesce immediatamente a convertire queste istanze di contestazione in puro spettacolo, consumo, merce, in momenti, insomma, del proprio consolidamento. L'arte, allora, divenuta anch'essa spettacolo e merce, perde tutto il proprio valore politico e d'opposizione, trasformandosi in un'arma in più a disposizione del regime democratico e borghese. Si impone, inoltre, una lingua nazionale fortemente unitaria, comunicativa ma non espressiva, dunque asettica, piatta, specialistica, morta già in partenza, laddove, in passato, la lingua italiana era sempre stata viva ed in continua evoluzione, perché continui erano stati gli scambi, le interferenze tra l'italiano ufficiale e scritto, modellato sul toscano della nostra tradizione letteraria ed i dialetti, lingue non scritte e d'uso, ora, invece, esistenti solo nominalmente, ma di fatto privi di identità propria. 
Ciò che, insomma, Pasolini chiama omologazione linguistica e culturale è un vero e proprio genocidio, frutto di uno sviluppo senza progresso. In questo mutato contesto, Pasolini sente l'esigenza di ripensare e ridefinire il proprio posizionamento e capisce di non poter più guardare alla filosofia gramsciana ed in verità neanche a quel marxismo comunque eretico dal quale fin lì egli comunque aveva preso le mosse. Uccellacci uccellini, tra le altre cose, inscena proprio questo congedo da Gramsci e Marx. Infatti, sebbene nella già citata Progetto di opere future, che precede di poco Uccellacci uccellini, egli dichiari la volontà d'impegnarsi nella costruzione di un'opera monumentale che nascerà "sotto il segno primario di Marx, e quello, a seguire, di Freud" e che poi sarà, dieci anni dopo circa, Petrolio, il lettore di Pasolini sa bene che le opere che precedono ed annunciano quel suo testo postumo devono moltissimo a Freud, ma più nulla, o quasi nulla, devono a Marx. Conscio, infatti, di non poter più rappresentare l'anello di congiunzione tra due classi sociali, essendo stata l'una omologata ed assorbita dall'altra, Pasolini di fatto diventa l'interlocutore ed il portavoce di se stesso, accelera e intensifica un vero e proprio processo di trasformazione di sé in icona vivente ed in feticcio. Egli, infatti, conduce una battaglia tutta sua contro la borghesia dominante, questo è evidente, ma anche contro quegli ultimi rappresentanti della cultura e della classe popolari più disposti a salire nella graduatoria sociale, e cioè a farsi omologare, diventando da sottoproletari proletari, che a resistere al genocidio operato dalla vigente civiltà tecnocratica. In un certo senso Pasolini vede nel regime democratico e borghese la perfetta realizzazione di una sintesi orrenda, frutto di quella dialettica ch'egli non considerò mai una descrizione corretta della dinamica dei processi storici e di quell'ottimismo puramente utopico e consolatorio, consustanziale all'idea marxiana di lotta di classe, che egli sempre contestò. Ed allora, contro Hegel e contro Marx, Pasolini scopre e teorizza l'esistenza di un andamento della storia e del pensiero non dialettico, che prevede la coesistenza di tesi ed antitesi. 
L'intera struttura di Petrolio, ad esempio, nascerà da questa convinzione e dimostrerà che l'avvenuta omologazione culturale e linguistica non esclude del tutto la possibilità della persistenza di una dimensione autenticamente altra, di uno spazio, un recinto, all'interno del quale si conservi il senso del sacro, secondo, però, i criteri di una logica, appunto, non del superamento, ma della convivenza nel presente di stadi di civiltà cronologicamente sfalsati e gli uni antecedenti gli altri. 
Pasolini, insomma, non concepisce più il tempo in maniera lineare, ma tutt'al più circolare, come nella postmodernità, e nei testi letterari più significativi di questi ultimi venti o trenta anni, diverrà praticamente abituale. Il dato più significativo è, tuttavia, un altro. Il primo Pasolini era uno scrittore e un cineasta che aveva saputo amalgamare un'ispirazione simbolista di partenza con gli stilemi e le tecniche narrative del neorealismo, convinto di dover raccontare la realtà che aveva sotto gli occhi (la vita rurale, le borgate) e di poterlo fare, volendo, anche attraverso il filtro del mito, e soprattutto di quello che per Pasolini è il mito per eccellenza, ovvero il mito cristiano. Non si dava, infatti, contraddizione logica tra mito e realtà. Nel momento, però, in cui scompaiono la cultura e la classe contadine, che in qualche modo quel mito cristiano detengono e continuamente alimentano e rendono attuale nelle forme di una religiosità istintiva, naturale, quasi pagana e animistica, si consuma un divorzio assoluto tra mito e realtà. Se per il primo Pasolini realismo e mito non sono in opposizione, ma si identificano, per il Pasolini, invece, corsaro e luterano, il mito è la realtà nel senso che l'ordine esistente delle cose, cioè il regime democratico-borghese omologante e neofascista, è una cattiva realtà, falsa, inaccettabile, una catastrofe storica, laddove il passato e la forma di rappresentazione che lo contiene e salvaguardia, cioè il mito, sono, essi sì, dimensioni in tutto e per tutto positive e, dunque, le uniche forme di realtà autentica, non degradata. Il mito, cioè, non spiega la realtà dei fatti storici ed il presente, ma si sostituisce, nell'ottica pasoliniana soprattutto degli anni Settanta, agli uni come all'altra, riscattando la loro totale negatività. 
Ad un primo Pasolini, a suo modo ancora storicista, succede, dunque, un Pasolini nemico dichiarato di qualsivoglia forma di storicismo, un Pasolini per il quale il mito per eccellenza diventa ora quello dell'esistenza, nei secoli, di una irrinunciabile tradizione letteraria da salvaguardare assolutamente dall'attacco della nuova civiltà post-umanistica e tecnocratica. Nascono così la Trilogia della vita e Petrolio, concepiti come attualizzazione di quel mito e di quei testi fondamentali che lo compongono, la prima; come biblioteca, summa, galleria di capolavori recuperati ed esposti, il secondo. Questo Pasolini vede quella rivoluzione antropologica che egli stesso definisce tale e che oggi possiamo tranquillamente definire il momento di passaggio dalla modernità alla postmodernità, ma non può darcene un ritratto fedele o avere di essa una giusta percezione, perché egli la rifiuta a priori e ne prende radicalmente e pregiudizialmente le distanze. 
Il che non significa che Pasolini non abbia spesso colto nel segno, quantunque anche la presunta e drammatica lungimiranza dei suoi scritti, delle tesi in più circostanze sostenute e delle sue strategie espressive andrebbe, talora, ridimensionata. Ad esempio, Pasolini non si accorge del fatto che proprio una strenua difesa della letteratura e del suo valore, e dunque della tradizione letteraria e della civiltà umanistica, quale egli conduce, in un contesto nel quale, con la dissoluzione delle classi, l'autore non può più dare una motivazione sociale e politica in senso lato di questa difesa, rischia di risultare del tutto sterile. Da un lato, infatti, quest'autore non può parlare, ormai, che a titolo personale, e cioè non può che difendere la propria mera esistenza; dall'altro, insistendo sul valore della tradizione letteraria in quanto tale, egli non può che avallare, in un certo senso, quella strategia di estetizzazione della vita quotidiana ancora oggi sotto i nostri occhi. Anzi, forse è più corretto dire che in ultimo Pasolini si accorse dei rischi connessi alla propria intransigente difesa dell'umanesimo e della letteratura: di qui la sconfessione della Trilogia, di qui, soprattutto, Salò.
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I discorsi del mondo - Linguista per caso, di Massimo Arcangeli

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LE NOTIZIE
Silvio Parrello nel suo studio a Roma Donna Olimpia (Monteverde)

I discorsi del mondo.
Linguista per caso
di Massimo Arcangeli


La targa nella foto è posta sopra l’entrata di un singolare locale di via Federico Ozanam (al n. 134), in un luogo tanto piacevole quanto sospeso nel tempo; ce l’ha messa tredici anni fa Silvio Parrello, il più famoso dei ragazzi di vita pasoliniani, l’intellettuale del gruppo, che ha riattato ad atelier culturale la piccola bottega paterna. Una seconda targa ricordo dedicata a Pasolini è ben visibile su un muro delle scuole elementari Giorgio Franceschi di via di Donna Olimpia (al n. 45), la strada dai caratteristici “Grattacieli” (i torreggianti palazzoni, riuniti nel condominio al numero civico 30, costruiti dallo IACP nel 1932) situata al confine tra Monteverde Vecchio e Monteverde Nuovo e che dava allora il nome alla borgata di cui faceva parte. La targa si trova sul lato occupato dallo stabile in via Abate Ugone (all’angolo con via di Donna Olimpia); è stata progettata da Enzo De Camillis, regista e scenografo, e affissa il 16 ottobre 2005, a trent’anni dalla morte dello scrittore. In Ragazzi di vita (1955) il pittore e poeta Parrello, di madre abruzzese e padre calabrese, era er Pecetto (nella vita reale il padre Giuseppe, er Pecione, faceva il calzolaio). La sua famiglia, sfollata dal Pigneto per via della casa lesionata, si era insediata a Monteverde nel 1948; Pier Paolo Pasolini sarebbe diventato monteverdino sei anni dopo.
Nel 1954 Pasolini lascia l’incarico di insegnante di lettere nella scuola media inferiore (parificata) Francesco Petrarca, a Ciampino, ottenuto nel 1951 grazie all’aiuto del poeta dialettale abruzzese – e ispettore scolastico – Vittorio Clemente; fra i suoi piccoli allievi un timidissimo Vincenzo Cerami, che anni dopo, in un’intervista, avrebbe ricordato come il suo giovane insegnante sottolineasse in blu «i luoghi comuni e le banalità» (http://www.vittoriozincone.it/2009/06/17/vincenzo-cerami-magazine-novembre-2007). Pasolini era arrivato a Roma il 28 gennaio 1950, con la madre Susanna, pur essendoci già stato due volte nel 1946. I due, dopo essere stati momentaneamente ospiti del fratello antiquario della donna (Gino), in via di Porta Pinciana 34, avevano abitato in una stanza d’affitto in piazza Costaguti, al Portico d’Ottavia; alla fine di febbraio Pasolini fa sapere all’amico Luciano Serra in una lettera: «Mia madre è a servizio e io non riesco a trovare lavoro, mi sento solo, incapace, in condizioni tremende. Per adesso mi mantiene mio zio».
Nel 1951 Pier Paolo e Susanna traslocano a via Tagliere 3, a Ponte Mammolo, nei pressi del carcere di Rebibbia, dove Carlo Alberto avrebbe raggiunto la moglie e il figlio. In un’altra lettera (di quell’anno) al cugino – e suo biografo – Nico Naldini, ormai ambientatosi, Pasolini scrive:
E tu che fai? Io sto diventando romano, non so più spiccicare una parola in veneto o in friulano e dico «Li mortacci tua». Faccio il bagno nel Tevere, e a proposito degli “episodi” umani e poetici che mi succedono, moltiplicali per cento in confronto a quelli friulani.
Nel 1954 i Pasolini si trasferiscono a Monteverde, in una strada che sbuca su via di Donna Olimpia: via Fonteiana (al n. 86). Da lì nel 1959, morto l’anno prima il padre, Pasolini sarebbe andato a stare con la madre nella vicina via Giacinto Carini (al n. 45), nello stesso edificio in cui risiedeva Attilio Bertolucci con la sua famiglia. Ci sarebbe rimasto fino al 1963, quando si sarebbe trasferito, sempre con la madre, in un appartamento di nuova costruzione acquistato all’Eur.
Pier Paolo Pasolini in via Carini, quartiere Monteverde, 1961

In Ragazzi di vita la famiglia del personaggio principale, il Riccetto, si dice sistemata nel corridoio delle scuole Franceschi. Avevano abitato in quella scuola, scrive Pasolini nel romanzo, «prima i Tedeschi, poi i Canadesi, poi gli sfollati e da ultimo gli sfrattati, come la famiglia del Riccetto». Sfollati e sfrattati, le cui abitazioni, rispettivamente, erano state rese inagibili o rase al suolo dalle bombe anglo-americane (luglio 1943) o erano state reclamate dai loro legittimi proprietari, provenivano dal rione Borgo e da Trastevere, da San Lorenzo e dal Pigneto, dal Casilino e dal Tiburtino. Il 17 marzo 1951 l’ala sinistra delle scuole Franceschi, costruite nel 1939, sarebbe crollata; i suoi occupanti si sarebbero spostati in un altro casermone di edilizia popolare, non ancora ultimato, che s‘affacciava sulla stessa via di Donna Olimpia (al n. 56), e fra le vittime del crollo c’è la «sora Adele» (così nel romanzo), la madre del Riccetto. L’episodio è narrato anche in Ragazzi di vita, e per il Riccetto si conclude con il racconto del suo trasloco in un altro quartiere:
«Addò è ito a stà, adesso?» s’informò Marcello.«Me pare a Tibburtino a Pietralata da que’ e parti,» disse Agnolo.Marcello restò un po’ sopra pensiero. «E che ha detto quanno ha saputo ch’era morta su’ madre?» chiese.«Che ha detto», fece Agnolo, «è sbottato a piagne, che vvòi.»
Il Riccetto – nel romanzo, a un certo punto, si presenta come Claudio Mastracca – è all’anagrafe Orlando Marecchioni; è morto qualche mese fa. Ma il Riccetto e il Pecetto non sono gli unici, fra i ragazzi di vita pasoliniani, a cui è possibile attribuire una precisa identità. Er Pecetto ha spesso ricordato le scorribande con i giovanissimi amici di un tempo: Agnolo, Oberdan, Zambuia. Zambuia era Guglielmo Arissi (1938-2000), Oberdan è Oberdan Capolioni, Agnolo fa di cognome Ciarimboli. Degli altri Alvaro è Rocco Fulcinidi, er Traballa è Alvaro Muratori.
Silvio Parrello ha 70 anni e una memoria di ferro. Dell’uomo Pasolini, ossessione di tutta una vita, mi ha raccontato vicende che conoscevo e altre che ignoravo, condite da molti aneddoti. La Fiat 600 regalatagli da Fellini, parcheggiata con gli sportelli aperti perché i suoi giovani amici potessero prelevare dai suoi tasconi interni gli spicci che aveva messo lì appositamente. La spedizione punitiva a via Fonteiana, poi rientrata, che avevano organizzato i più grandicelli all’indomani dell’uscita di Ragazzi di vita. Le 10.000 lire regalate nel 1956 a sua madre, quasi un terzo del suo stipendio da insegnante a Ciampino (guadagnava allora 25.000 lire al mese). La superiorità fisica ogni volta ribadita nelle lotte inscenate per gioco con i giovani del quartiere fisicamente più prestanti e – quasi da leggenda – la mucca che un giorno riuscì a sollevare sulle spalle.
Ma cosa sopravvive oggi, di uno dei nostri più grandi intellettuali del Novecento, nella memoria di tanti giovani e giovanissimi romani? Secondo uno di loro, Luca Fanelli – nella sua tesina di maturità si è cimentato con il Pasolini regista –, ben poco. I suoi coetanei, pensa il diciannovenne Luca, avrebbero ormai perso molto dell’aria “genuina” che ci si può immaginare si respirasse a Roma, negli anni Cinquanta, anche grazie a Pasolini. Gli ho chiesto di definirlo in tre aggettivi. Mi ha risposto: sincero, geniale, lungimirante.
In tante occasioni Pier Paolo Pasolini, con lucida determinazione, ha voluto guardare lontano. Talora ad affascinarmi, quando penso a lui, è però il profetismo “involontario” delle sue tante creazioni. L’ideologia cede alla passione, l’intellettuale lascia il posto all’artista, i lumi della ragione soggiacciono ai veli della seduzione.
Massimo Arcangeli

Vedi anche in pasolini.net:
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Pier Paolo Pasolini “Un paese di temporali e primule”, a cura di Nico Naldini, Ugo Guanda Editore, Parma 1993

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INVITO ALLA LETTURA. BRANI DALLE OPERE DI
Pier Paolo Pasolini “Un paese di temporali e primule”
a cura di Nico Naldini, Ugo Guanda Editore, Parma 1993

I testi raccolti in Un paese di temporali di primule, che vanno dal 1945 al 1951,
sono nella maggior parte dei casi apparsi sui gloriosi fogli quotidiani del dopo­guerra:
«Libertà», organo del Comitato di Liberazione Nazionale di Udine,
e «II Mattino del Popolo» di Venezia.
Altri sono apparsi sulle riviste casarsesi dirette e pubblicate da Pasolini:
«Stroligùt di cà da l'aga» (1944), «II Stroligùt» (1945-46), «Quaderno romanzo» (1947),
stampate in poche centinaia di esemplari e molti anni dopo raccolte da Gianfran­co Polena
in una pubblicazione del «Circolo filologico lingui­stico padovano» (Padova 1983).
Altri infine sono apparsi in riviste friulane tradizionali
co­me «Ce Fastu?», «Il Tesaur», «Lo Strolic furlan» eccetera.
Il titolo Un paese di temporali e di primule si rifa a un verso dell'autobiografia Who is Me.


Pier Paolo Pasolini, Spiritual

A Malafiesta, lungo il Tagliamento, viveva il Nini con nove fratelli e i genitori. La loro casa era stretta in mezzo al borgo, senza strade, ma pieno di cortili, orti, vasche di letame, conci­mai, stalle; tutto ammucchiato contro l'argine del fiume. Non c'era il campanile. Gli abitanti ne avevano costruito uno di pa­li - tronchi di pioppo segati lungo le rive del Tagliamento. Malgrado la miseria, tutti a Malafiesta erano allegri. Le ragaz­ze e i ragazzi la domenica ballavano in un grande stanzone da­vanti al campanile.
Il Nini era il più povero di tutti, ma anche il più bello. La gente di Malafiesta però si accorgeva più del primo fatto che del secondo. Perciò il Nini era infelice. Nelle luminose matti­ne di primavera, quando i suoi compagni tenendo per il manu­brio le biciclette, passeggiavano per il borgo, oppure filavano via verso San Michele, Morsano o Latisana, coi vestiti della festa e le sciarpette attorno al collo, egli si sentiva morire di malinconia.
I suoi fratellini, con gli altri ragazzi del borgo, andavano a giocare sull'argine del Tagliamento, tra le boschine. Egli non sapeva cosa fare, mal vestito com'era e senza una lira in tasca; e allora andava a camminare per qualche posto solitario.
Una domenica d'estate se ne stava solo come sempre, lungo la riva del fiume.
Dietro a Malafiesta il Tagliamento era un grande deserto di boschine, cespugli, sabbia. Proprio sotto l'argine correva un canale d'acqua verde e profonda. All'argine erano legate due o tre vecchie barche, e il barcone del guado. Il Nini era seduto sul bordo del barcone e guardava l'acqua verde.
Ad un tratto sentì una voce che chiamava, alzò la testa e guardò dall'altra parte della corrente per vedere se qualcuno voleva guadarla. Ma tutto era deserto: i gabbiani volavano radi tra le canne, lontanissime, al di là del greto, suonavano le campanelle di Staccis.
Allora il Nini tornò a guardare dentro l'acqua. Era così lim­pida che si vedevano distintamente i sassolini rosa della ghiaia. Ma sulla superficie, come in uno specchio, tremolava la sua immagine. Si scorgeva la camicia di tela rigata, la vecchia giacca che era stata di suo padre, il collo robusto, la bella fac­cia di contadino, e i capelli... Egli aveva stupendi capelli d'o­ro, ma d'un oro massiccio, striati di luce che gli cadevano sulla fronte con una grande onda. Egli guardava i suoi capelli, quan­do si sentì chiamare. Si voltò, questa volta, verso la sommità dell'argine dietro al quale si stendeva il borgo, e vide il fattore del suo padrone che lo guardava ridendo. Il Nini arrossì. «Non vai a ballare coi tuoi compagni?» gli chiese il fattore. «Non ho soldi», rispose il Nini. «Che stupendi capelli d'oro!» gridò il fattore. «Ti pago il biglietto del ballo, se me li dai.» «È troppo poco», disse il Nini. «Be'», contrattò il fattore, «ti trovo anche da lavorare a Latisana.» «Ci sto», disse allora il Nini. Il fattore scese nell'acqua, sulla barca, tirò fuori dal panciotto le grosse forbici che servivano a potare, e tagliò alla radice i capelli del Nini.
Il Nini intascò i soldi per il ballo, e corse su per l'argine. I ragazzini che giocavano tra i cespugli e le bambine che andava­no al pascolo con le oche, vedendolo, cominciarono a ridere e a canzonarlo. Ma egli era leggero e felice. Corse ansimando nella sala da ballo, pagò il biglietto ed entrò. Si accontentò di guardare gli altri che ballavano, standosene in un angolo, sotto l'orchestra, seduto ai piedi del violinista.
Il giorno dopo andò a Latisana a lavorare. Stavano rico­struendo il ponte distrutto dai tedeschi, ed egli per un anno si massacrò a lavorare sotto il pelo dell'acqua, dentro i piloni, o i cassoni di cemento, o sulle impalcature di ferro. Quando il ponte fu finito restò senza lavoro. Ma a Malafiesta non voleva tornare. Si mise sull'argine del fiume, seduto sull'erba sporca, sotto un freddo solicello d'inverno. Guardava dei ragazzetti che giocavano alle palline, e sorrideva. Passò di lì, tra le rovine del suo palazzo, la padrona, lo vide e gli disse: «Nini, cosa aspetti tutto solo?» «Non lo so», disse il Nini. «Perché non sei a divertirti oggi che è l'Epifania?» «Non ho soldi», rispose il Nini, «tutti quelli che avevo li ho mandati a casa.» Continuava a sorridere, timido e forte. «Se mi dai il tuo sorriso», gli disse la padrona, «ti do mille lire e ti trovo lavoro a Trieste.» «Ma­gari!» disse il Nini. 
Dopo pochi giorni era a Trieste, e faceva il facchino nel por­to. Lavorava da mattina a sera e mandava quasi tutto quello che guadagnava a casa. In primavera lo licenziarono. Egli andò in giro disperato per la città. Capitò in viale XX Settembre, tutto umido nella bella luce primaverile, con le prime foglie dei castagni che verdeggiavano tranquille e i primi tavolini dei caffè all'aperto, con le bibite e i cristalli rilucenti al sole. Si se­dette sotto un castagno, sull'orlo dell'aiuola, e si guardò dispe­rato intorno. Era senza capelli e senza sorriso, ma in mezzo al volto gli restavano come due pietre preziose, i suoi occhi turchini.
Passò davanti a lui un vecchio signore con un cane al guin­zaglio, e si fermò a contemplare in quel bel volto devastato la luce cupa e dolce delle pupille. «Sei solo?» gli disse. «Sì, sono solo», rispose il Nini. «Hai fame?» «Sono due giorni che non mangio.» «Vieni con me allora», disse il vecchio, «ti invito a pranzo.» Lo portò in un albergo lussuoso, dove erano tutti ric­chi: il fulgore dei lini e delle stoviglie abbagliava, i vecchi ca­merieri triestini volavano tra i tavoli, severi e leggeri. Il Nini assaggiò tutto quello che mangiavano i ricchi, e che non sareb­be stato capace di sognare. Alla fine del pranzo, il signore gli disse: «Hai degli occhi stupendi...» Il Nini lo guardò stupito. «Se me li dai», continuò il signore, «ti regalo un vestito, una bicicletta e un orologio d'oro.» «Affare fatto!» esclamò pronto il Nini, mezzo ubriaco.
Così tornò a Malafiesta; dopo pochi mesi il vestito nuovo era tutto stracciato. La bicicletta e l'orologio dovette venderli per comprare delle scarpe e qualche medicina per i fratelli pic­coli. Ormai, rugoso, calvo e cieco, anche la gioventù, unica sua ricchezza, era nelle mani dei padroni.
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Venezia 70 apre i battenti tra una miriade di star e qualche illustre assente

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LE NOTIZIE - MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
Bernardo Bertolucci, Ettore Scola, Carlo Lizzani e Pier Paolo Pasolini.
Venezia tributerà loro un omaggio quali grandi maestri del cinema italiano

Venezia 70 apre i battenti
tra una miriade di star e qualche illustre assente
Il Lido è in fermento per quest'attesissima e ricchissima 70esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Tanti gli ospiti che presenteranno i film e i documentari in gara, ma anche qualche grande assente. Siete pronti a fare una bella scorpacciata di cinema?


Tutto pronto al Lido per la 70esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Tantissimi saranno gli ospiti che presenzieranno all’importante kermesse, a partire dall’emozionatissima madrina, la modella e attrice Eva Riccobono, estasiata dal ruolo che le è stato affidato e molto nervosa allo stesso tempo. Come non capirla. Stasera, 27 agosto ore 20:30, la Biennale ha organizzato una pre-inaugurazione con la proiezione del film “Le mani sulla città”, di Francesco Rosi, vincitore del Leone d’Oro mezzo secolo fa, ma a partire da domani si parte col concorso e l’apertura è affidata allo sci-fi “Gravity” di Alfonso Cuaron, e per l’occasione ci saranno gli attesissimi protagonisti Sandra Bullock e George Clooney.  Il grande regista de “L’esorcista”, William Friedkin, sarà al Lido per ritirare il Leone d’Oro alla carriera, mentre Nicolas Cage presenterà il suo nuovo film, “Joe”. James Franco non vede l’ora di presentare ai critici la sua creatura “Child of God”, ma c’è grande attesa anche per Lindsay Lohan e il pornoattore James Deen, protagonisti del film dall’alto tasso erotico, “The Canyons”, ma ad infiammare Venezia ci penserà anche la coppia, tutta italiana formata, da Tinto Brass e Serena Grandi, al Lido per presentare il documentario “IstintoBrass”.
La seconda settimana sarà illuminata da altre stelle di prima grandezza: Scarlett Johansson, Tom Hardy, Rebecca Hall, Louis Garrel e Anna Mouglalis mentre tra gli italiani ci saranno Valerio Mastandrea, Antonio Albanese, grande protagonista de “L’Intrepido” diretto da Gianni Amelio, Paola Cortellesi, Carolina Crescentini, Luca Argentero, Alba Rohrwacher, Maria Rosaria Omaggio e l’affascinante Claudia Cardinale, madrina di Venezia Classici. Come dimenticare i grandi maestri del cinema italiano? Bernardo Bertolucci sarà il Presidente di Giuria e poi ci saranno Ettore Scola– che racconterà Federico Fellini – Carlo Lizzani e uno splendido documentario su Pasolini, intitolato “Profezia – L’Africa di Pasolini”, a cura di Gianni Borgna. Le assenze illustri? L’attore americano Matt Damon; Daniele Luchetti e il suo film “Anni felici”, che ha preferito Toronto a Venezia; il maestro nipponico Hayao Miyazaki, regista del film d’animazione, in concorso, “Si alza il vento”, ma il direttore Alberto Barbera, quest’anno, ha fatto veramente un lavoro eccellente e siamo sicuri che non sentiremo la loro mancanza.

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Le parole tra gli uomini. Intervista a Luca Baldoni di Fabio Donalisio.

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LA SAGGISTICA
Le parole tra gli uomini
Intervista a Luca Baldoni
di Fabio Donalisio 


È uscita a gennaio, per un piccolo editore romano, la prima antologia di poesia gay italiana dal Novecento al contemporaneo. Un lavoro (anche nel senso di fatica, fisica e mentale, per non dire sociale) che riempie un vuoto grande. Proprio in uno dei paesi in cui il cammino dei diritti (in generale e in particolare) procede a rilento, se non a gambero, tra interminabili distinguo, tra pagliuzze spaccate in quattro e travi ignorate, tra cecità volute e pudori abnormi (e anche con una pervicacia ghettizzante – in entrambi i versi – tutta peculiare). Proprio in un paese, poi, che ha abdicato quasi in toto, negli ultimi lunghi anni, alla propria capacità di esporsi alla poesia, alla propria attenzione per un’enorme modalità dello sguardo. Complice un’editoria povera di visuale ma ricca di abilità nel trincerarsi sempre più spesso dietro il mero dato numerico, ultimo e definitivo alibi di ogni piccola e grande mancanza di coraggio, o anche solo di attualità. Ecco perché questo, seppur non privo di limiti, è un lavoro “grande”.
Sono certamente tanti e sono complessi i motivi per cui un libro come questo arriva così tardi. Domande con risposte difficili, cui Luca Baldoni, curatore amorevole di un lavoro corposo e spinoso, cerca di dare risposte plausibili in un’introduzione che non poteva essere che lunga. Prevede gli attacchi, sceglie i fronti, para i colpi che, sicuro come la morte, arriveranno. Si muove in un campo minato in cui l’ecumenismo è spesso trappola, la rivendicazione setta. Fa l’equilibrista sulle definizioni (gay, omosessuale, omoerotico), mette i puntini su molte (troppe, fa sconforto vedere quante) i. Tutto questo per mappare un secolo e poco più di poeti (49, quelli scelti) che hanno, in modi diversissimi (stilisticamente, filosoficamente, materialmente), messo in versi l’amore, il desiderio, il concetto pubblico e privato di uomini che sono, che esistono per gli uomini, che hanno usato, con la mente e con le mani, quelle parole tra gli uomini, cui rimanda, splendido, il titolo. Lo fa con amore, appunto, con un rigore, una consapevolezza mirabili. Lo fa con quella “militanza” che un libro del genere non può escludere dal proprio orizzonte, ma che lui per primo non vuole disgiunta da un godimento intrinsecamente letterario.
Sì perché in queste (quattrocento) pagine, oltre le categorie, gli intenti, e la storia di un modo di desiderare che ancora oggi fatica (e in parte recalcitra) a essere completamente rivendicato al “normale”, consustanziata a quelle, c’è della grande, a tratti grandissima poesia. Che ha l’ulteriore pregio, incurante di osare un arco temporale che copre generazioni lontane o lontanissime, di evidenziare i fili (tanti, e rossi) che uniscono autori percepiti come lemmi sui manuali (crepuscolari, “futuristi”, etc.) e poeti nati a ridosso degli anni ’80. Si va da Saba (nato nel 1883) a Simonelli (nel 1979). Ci sono autori notissimi, da Pasolini a Penna a Bellezza, e figure più defilate (Lolini, Turolo), classici decisamente viventi (Buffoni) o morti troppo presto (Chiamenti).
La sensazione finale, e forse Baldoni la giudicherebbe una vittoria, è di aver camminato un percorso in cui la connotazione fortissima, lungi dal chiudere, apre (anche con violenza, con rabbia, o con disperazione) un mondo, apre ad un mondo. Che tutto cospirava a tacere, a chiamare fuori. E invece è lo stesso in cui sfanghiamo tutti. Tutti quelli ancora capaci di desiderio, almeno. Di vita o, magari, di poesia. *
Di tutto questo, e molto altro, abbiamo chiacchierato con lui.
In breve (anche se non si può), qual è il punto di equilibrio tra letteratura e “militanza” in un lavoro come questo?
Forse più che di punto di equilibrio parlerei di punto d’incontro. La militanza si sposa con il lavoro critico quando all’oggetto del proprio interesse e della propria ricerca non viene riconosciuta, dai discorsi dominanti, una piena legittimità. Questo accade ancora oggi in Italia per ciò che riguarda le ricerche sull’omosessualità, il cui ritardo nei confronti delle esperienze straniere di gay e queer studies non è che un riflesso della più vasta arretratezza morale del nostro paese. Da noi la critica, il mondo editoriale e l’università, cospirano per mantenere l’omosessualità nell’ombra quale fenomeno culturale. Chiunque se ne occupi si trova giocoforza in una posizione militante, che indaga e svela le omissioni, le assurde pruderies, come anche i più vieti pregiudizi, al fine di ristabilire uno stato negato di imparzialità.
Questo è in un certo senso il paradosso: la parola “militanza” suggerisce la parzialità, mentre dal mio punto di vista militanza significa il coraggio e la chiarezza necessari per ripristinare una situazione iniziale di uguaglianza, di parità di trattamento. Bisogna combattere soprattutto l’automatismo omofobo per il quale trattare di omosessualità è una prospettiva di per sé parziale e ghettizzante. Secondo questo assunto, inquadrare Saba come poeta triestino, o Testori come poeta cattolico, è assolutamente lecito, mentre indagarne l’omoerotismo risulterebbe una grave limitazione del carattere universalitisco della testimonianza poetica. Un atteggiamento mentale stigmatizzato dal sociologo francese Pierre Bourdieu quale forma di “un’ipocrisia universalistica” che denuncia la rottura del discorso egemone da parte di minoranze che da quel discorso stesso sono escluse.

Quale potrebbe essere un(o dei) fil rouge che lega Saba e Simonelli, aprendo un varco tra preNovecento e postNovecento?
Nell’introduzione ho cercato di spiegare come Le parole tra gli uomini non ambisca a isolare un’ipotetica “poesia gay”, ma a presentare le molteplici modalità in cui l’omosessualità è stata declinata nella nostra poesia moderna e contemporanea. In questo senso, resisto all’idea di un fil rouge, per lo meno se lo si intende come uno schema identitario rigido, da manifesto, o come la realizzazione di un rapporto univoco tra identità sessuale e testo. L’antologia, nella sua pluralità di voci (quarantanove in tutto), dimostra come ci siano diversi tipi di omosessualità, insieme a diversi modi di esprimerla in poesia. Mi pare che questa impostazione sia stata condivisa anche da studiosi in parte critici con le mie scelte antologiche, come Roberto Galaverni nella sua recensione sul Corriere della Sera.
Va invece riconosciuto un fatto letterario: in Italia i poeti che hanno parlato di omosessualità lo hanno fatto in modo tutto sommato piano, riconoscibile, sfuggendo qualunque tentazione di una scrittura cifrata, velata o oscuramente simbolica. All’estero esiste anche una cifra queer allusiva e privata – penso a Hart Crane, come anche a vari testi di Auden – che è stata un modo per negoziare le paure e le difficoltà legate all’espressione delle proprie passioni segrete sulla pagina letteraria. Da noi ha chiaramente prevalso la linea che il grande critico Giacomo Debenedetti definiva della poesia relazionale, quella che parte da un dato di rappresentabilità e comunicabilità dell’esperienza, coniugato con una salda anche se problematica presenza dell’io. È forse questo il filo che lega Saba, attraverso Penna, Pasolini, e Bellezza, al più giovane autore dell’antologia, Marco Simonelli, e che costituisce un significativo elemento di continuità tra moderno e postmoderno.

A livello personale, con che umore, con che ansia e, (spero) con che gioia hai affrontato lo sforzo discretamente ciclopico (e rischioso) di creare (verbo che preferisco a “assemblare”) un’antologia come questa?
Il progetto è iniziato sotto ottimi auspici, principalmente perché studiavo all’estero. L’Università di Londra mi ha finanziato una ricerca dottorale sull’omoerotismo nella poesia di Saba, che ha costituito il fondamento per gli studi successivi. In seguito ho usufruito di una borsa posdottorale della British Academy presso l’Accademia britannica a Roma, grazie alla quale ho formulato il progetto dell’antologia. Il sistema accademico inglese non solo non ha problemi con i gay studies, ma li incoraggia finanziandoli adeguatamente in quanto lì considera particolarmente attuali in rapporto ad altri tipi di ricerca.
Tornato in Italia, ho deciso di mantenermi fuori dall’università italiana, e quindi ho continuato a lavorare senza sostegno istituzionale. L’impresa mi è parsa spesso folle oltre che immane. Ma via via che procedevo, ho avuto anche la soddisfazione di conoscere un buon numero dei poeti che stavo antologizzando, e di scoprire ogni volta una forte adesione, umana e intellettuale, al progetto. In molti mi hanno detto: “Se un libro così non ci fosse, bisognerebbe farlo.” Così è maturata la consapevolezza, profondamente consolatoria, che questo lavoro è un’opera comune e corale, giunta in porto grazie al contributo di molti.
I problemi più seri sono arrivati quando si è trattato di trovare un editore. A tutte le porte a cui ho bussato, da quelle dei grandi ai più piccoli, ho avuto l’impressione che proporre un’antologia di poesia gay italiana venisse considerata un’idea aliena. Al di là della chiusura mentale, mi ha sorpreso che nessuno considerasse le potenzialità editoriali de Le parole tra gli uomini, e non mostrasse conoscenza di pubblicazioni analoghe presenti nelle maggiori collane tascabili in inglese, tedesco, o francese. Così ho messo il manoscritto nel cassetto per quasi due anni, maledicendo l’Italia, e rassegnandomi al fatto che i miei sforzi non avrebbero sfondato. Infine l’intervento provvidenziale di uno dei poeti antologizzati, Enzo Villani, che mi ha proposto al suo editore, il quale ha accettato entusiasta.

Un problema critico (e poi anche poetico, esistenziale, sociale ecc.): la rimozione delle “stigmate” (uso la parola in senso ironico, ora, ma forse non era usata in modo così ironico, allora) dell’omosessualità nell’opera di canonizzazione, diffusione, antologizzazione (di critica insomma e a tratti autocritica) nel trattare poeti anche molto ingombranti, come Saba, per esempio. Perché è stata così longeva questa rimozione? Dal punto di vista del critico/lettore. E dal punto di vista del poeta?
Mettendo “stigmate” in rapporto a “rimozione”, mi pare che più che alla stigmate cristologica tu ti riferisca allo stigma tout court, al “marchio d’infamia” che ha accompagnato l’omosessualità sino a tempi troppo recenti. Rimuovere questo marchio – o ancor meglio sentirlo come ormai in fase di superamento – non l’ho certo vissuto come un problema critico. Uno sforzo sì, ma non un problema. È stata al contrario un’impresa molto gaia, in cui l’amore per la poesia si è coniugato ad una passione civile per il vero e il giusto. Il caso degli autori “ingrombranti” non è diverso da quello dei meno noti. Possono ovviamente verificarsi episodi assurdi – e questo mi è accaduto – quando si presentano i risultati della propria ricerca in pubblico. Ma ciò non rende lo studio più problematico o meno appassionante.
Se poi mi chiedi perché il silenzio su queste materie sia da noi durato così a lungo, non posso che sconfinare nel sociale e nel politico, facendo riferimento a vari aspetti che tuttora caratterizzano in profondità il nostro paese, come il machismo e il familismo, il ruolo della Chiesa cattolica, la debolezza culturale (soprattutto negli ultimi vent’anni) delle forze progressiste. Lo stesso crogiuolo di elementi che blocca l’approvazione di una legislazione sulle coppie di fatto analoga a quella dei paesi europei ai quali vorremmo paragonarci. In questo senso, la rimozione dell’omosessualità dal panorama culturale del paese non è che un riflesso della più generale arretratezza dell’Italia in questo ambito.
Ma il tuo uso della parola stigmate mi suggerisce anche un altro tipo di osservazione. Le stigmate sono anche, in senso stretto, un attributo cristologico, un segno cruento di elezione e martirio. Si tratta di una matrice dell’immaginario che ha giocato un ruolo determinante nella self-awarenss di molti omosessuali intrisi di Cattolicesimo. In Pasolini, Testori o Bellezza, l’omosessualità da un lato è esaltata come atto di estrema rivolta verso l’ordine costituito, e al contempo vissuta come peccato e colpa. Le ferite reali dell’ostracismo sociale vengono traslate su un piano quasi mistico, con forti impronte agiografiche; l’omosessuale si identifica visceralmente con la figura di San Sebastiano, o di Cristo in croce, in un’oscillazione tra esaltazione del sé e abbandono voluttuoso alla punizione e alla violenza.
È un modello piuttosto diffuso, e che ha erroneamente finito per venire identificato come qualcosa di intrinseco all’essere omosessuale. Per la verità, non mancano anche esempi che sono andati in una direzione diversa. Saba ad esempio – in linea con il suo psicologismo molto avanzato nel contesto italiano – percepisce la sua attrazione per i ragazzi come un aspetto certamente problematico, oggetto di analisi e di un graduale disvelamento, ma senza lo stigma del pariah, la teatralizzazione della vittima sacrificale.

Qual è stata l’evoluzione della self-consciousness e del comportamento letterario e sociale dei poeti omosessuali lungo il Novecento e oltre?
Il mondo della letteratura e dell’arte ha sicuramente rappresentato, per buona parte del secolo passato, una dimensione privilegiata in cui poter esprimere la propria omosessualità. Mi risulta che già tutti i poeti attivi a inizio Novecento (oltre a Saba e Penna, Palazzeschi, De Pisis e De Libero) non facessero mistero della loro sessualità (sebbene con diversi gradi di discrezione) all’interno dei circoli intellettuali che frequentavano. Persino del super represso Gadda – che è riuscito a espungere qualunque traccia di omoerotismo dalla sua opera – erano note e accettate le preferenze sessuali. Insomma, a livello di vita personale, “si sapeva”.
Il problema (come il caso Gadda appunto illustra), si presenta quando l’omosessualità deve arrivare sulla pagina, e dunque farsi pubblica. Un discreto numero di poeti, che conducevano un’esistenza relativamente libera e liberata a livello sociale, dimostrano maggior discrezione quando si tratta di pubblicare testi apertamente gay. Penso a Palazzeschi, le cui avventure erotiche romane venivano vissute con estrosa leggerezza, o alla personalità flamboyant di De Pisis, cui fanno riscontro espressioni letterarie importanti ma tutto sommato ancora timide oltre che quantitativamente esigue.
È il segno di difficoltà e paure che permangono sino a tempi recentissimi. Se infatti la nostra tradizione poetica ha la fortuna di avere, da Saba, a Pasolini, a Buffoni, una grande quantità di voci gay di altissimo calibro, è altrettanto vero che molti autori presenti ne Le parole tra gli uomini arrivano a svelarsi con notevole ritardo rispetto all’età anagrafica, iniziando a pubblicare testi espliciti intorno o ben oltre i cinquant’anni. Si tratta di un processo di deferimento dell’espressione letteraria dell’omosessualità che caratterizza tutto il secolo passato per esaurirsi solo intorno al Duemila.
A livello di self-consciousness, per la maggior parte del secolo i poeti omosessuali, come d’altronde gli omosessuali in generale, non hanno coscienza di sé in quanto minoranza oppressa. Non tematizzano la discriminazione, l’omofobia, perché queste vengono vissute quasi come un portato naturale dell’essere omosessuali. Di conseguenza non reclamano diritti o uguaglianza. In questo senso tutto il quadro viene mutato drasticamente dalla diffusione globale del movimento di liberazione gay. Dagli anni Settanta in poi gli omosessuali possono sentirsi parte di una comunità, reclamare diritti, lavorare alla riscoperta e alla costruzione di una tradizione culturale condivisa.
Una consapevolezza post-Stonewall è un dato sempre più evidente nelle opere dei poeti più giovani, nati dalla fine degli anni Sessanta in poi: penso ai nomi di Antonio Turolo, Pierre Lepori, Tiziano Fratus e Marco Simonelli. Sono autori ai quali, sono sicuro, non dispiace essere definiti “poeti gay”; proprio perché gli è propria una self-consciousness radicata nei cambiamenti degli ultimi trent’anni, in cui molti dati che un tempo si sarebbero considerati, to say the least, “delicati”, sono ormai acquisiti come normalità.

Viene spesso mossa l’obiezione che il genere, o l’orientamento sessuale, non possa essere “categoria” letteraria. Un tema delicato che svisceri a  fondo nella tua introduzione al libro. Ce ne puoi dare conto brevemente? Mi sembra che sia uno dei momenti cardine del lavoro critico che ha portato alla nascita di un’antologia come questa.
Hai ragione. Proprio perché in ambito italiano ci si attende una simile obiezione, ho dedicato non poche pagine dell’introduzione a chiarire questo punto. Il discorso è, nelle sue linee essenziali, molto semplice. Siamo usi sin da piccoli, quasi senza rendercene conto, a utilizzare delle categorizzazioni che derivano da esigenze di studio, dalla necessità di delineare un ambito di indagine. Parliamo naturalmente di letteratura italiana, di teatro elisabettiano, di lirica pastorale o, per avvicinarci al nostro ambito, di Saba come scrittore triestino, di Testori come autore cattolico, o di Pasolini come poeta civile. In nessuno di questi casi si pensa che apporre un aggettivo che delimita un campo di ricerca, risulti in un impoverimento della materia trattata. È evidente a tutti che Dante non è solo un poeta italiano, come Montale non è solo un poeta ligure o Saba uno triestino. Solamente quando la parola in questione è “omosessuale” questo meccanismo di buon senso si inceppa, creando smarrimento e costernazione. Parlare di Saba come poeta gay viene allora fatto passare come una grave limitazione della vocazione universalistica della poesia; argomento solo apparentemente “alto”, ma in verità carico di un’omofobia appena celata dietro il velo di quell’“universalismo ipocrita” che ho già menzionato.
I testi, tradizionalmente, vengono dunque letti a prescindere dal loro contenuto gay, mentre il mio studio vuole dimostrare come essi siano più interessanti proprio in virtù della loro gaiezza. L’omosessualità non è un aspetto ingombrante, precipitato per caso dentro a una bella poesia, del quale è meglio tacere proprio per non ledere o turbare l’apprezzamento estetico: è al contrario un nucleo profondo che genera e aggrega significati importanti. Questi “fondamentali” sono ormai accettati nella pratica della critica letteraria dei paesi più avanzati, mentre da noi occorre ancora lottare per farsi intendere.
C’è poi un secondo corno del problema. Se l’orientamento sessuale è categoria così ininfluente, come si spiega che tutte le maggiori antologie italiane di poesia d’amore del Novecento, pubblicate per grandi editori come Mondadori o Einaudi, sistematicamente cerchino – e purtroppo riescano – a cancellare la presenza omosessuale dal nostro panorama poetico? Nei volumi che ho consultato e che discuto in dettaglio nell’introduzione, Saba viene presentato come poeta esclusivamente eterosessuale senza dare spazio agli affetti maschili, Penna viene depurato scegliendone i testi più generici e meno espliciti, e persino Pasolini appare come autore di poesie in cui il genere dell’oggetto d’amore è indefinito! Di che cosa si tratta, se non di un’opera collettiva e strisciante di censura e rimozione? E quando si rimuove, c’è ovviamente qualcosa che dà fastidio, che batte sul dente. Una presenza/assenza che in qualche modo parla pur essendo ridotta al silenzio. Le parole tra gli uomini serve quindi anche a aprirci gli occhi, a farci leggere poesie che non si vuole che leggiamo, che – sembra incredibile costatarlo nell’anno di grazia 2013 – ci vengono sottratte dai curatori delle antologie generaliste. In questo senso ho svolto un lavoro che, al di là del suo interesse, ritengo soprattutto necessario.
Una delle poesie da "L'Hobby del sonetto"
scritte per Ninetto Davoli da Pier Paolo Pasolini

Infine, una domanda di gusto personale. Qual è il tuo “canone personale” di poeti? Quali sono quelli che ti hanno, usando espressione trita ma vera, cambiato la vita? Sono sovrapponibili alle tue scelte critiche posteriori?
Saba ha senz’altro un ruolo particolare, perché ho scritto la mia tesi di dottorato sull’omoerotismo nel suo Canzoniere, una sfida che mi ha sicuramente cambiato la vita, altrimenti oggi non sarei qui a parlare de Le parole tra gli uomini. Tra i più grandi, sceglierei poi Pasolini e Bellezza; mi trascinano poeticamente, inoltre tramite la loro opera ho amato e conosciuto Roma. Penna lo apprezzo e lo frequento meno di un tempo, mentre se devo fare un nome tra quelli degli autori established ma meno universalmente noti, opto senz’altro per Rodolfo Wilcock: il suo Italienisches Liederbuch rimane per me il più esaltante canzoniere omoerotico del nostro Novecento.
Il mio canone personale necessita di contemporanei oltre che di “classici”. Qui, il cambiamento esistenziale non ha solo a che fare con la forza dei testi: c’entra molto anche la bellezza di potersi conoscere, di istaurare uno scambio regolare, di seguire la reciproca produzione nel suo evolversi, a tratti sentendosi parte di un’opera comune. Tutto ciò fiorisce su una solida base di ammirazione poetica che ha creato un cerchio nel quale mi sento incluso con alcuni miei contemporani come Turolo, Lepori, Chiamenti, Fratus, Cascio, Sciacoviello e Simonelli.
Quanto queste vicinanze poetiche ed esistenziali abbiano influito sulla mia lucidità di critico lo lascio decidere al lettore. Per ciò che riguarda i nomi più noti, penso che sia difficile criticare l’ampio spazio che ho loro consacrato. I poeti maggiormente rappresentati sono Saba, Penna, Pasolini, Bellezza, Buffoni, insieme a Bona e Naldini, questi ultimi meno noti al pubblico ma di caratura letteraria ampiamente riconosciuta.
Mi si potrà invece chiedere conto della generosità con cui ho trattato i contemporanei. La giustificazione non può che essere di tipo pragmatico. Ho talvolta abbondanto nella selezione di autori più recenti in quanto mi è parso che, fermo restando la preminenza dovuta ai maggiori, i testi di questi ultimi fossero comunque più facilmente reperibili dal lettore interessato. Mentre la produzione attuale, di autori solo in parte affermati, scompare in genere poco dopo la data di pubblicazione, e talvolta non è neanche reperibile in biblioteche pubbliche. Mi è dunque parso giusto offrire una selezione consistente della contemporaneità, consapevole che si tratta di scelte provvisorie proprio perché incidono su un presente non ancora storicizzato, e che il tempo potrà senz’altro incaricarsi di smentire.
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"Fascista", un film di Nico Naldini

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Nico Naldini

"Fascista", un film di Nico Naldini 

Basato interamente sul montaggio di ampi e rari brani dei cinegiornali Luce
realizzati durante il Ventennio, Fascista fu realizzato da Nico Naldini quando lavorava
come capo ufficio stampa per la PEA di Alberto Grimaldi, la società che finanziò
gli ultimi quattro film di Pasolini e che produsse anche Fascista.
Il commento, scritto dall'autore, venne letto da Giorgio Bassani e costituiva una sorta
di contrappunto critico alla propaganda mistificatoria degli speaker del regime. 


Pasolini su Fascista (1974)
di Nico Naldini (estratto)

«(...) Vedendo quella prima sequenza [del film Fascista di Nico Naldini], ho osservato le facce dei fascisti e della gente che, partecipe o indifferente, li attorniava. Le persone “importanti” (professori, avvocati, ecc.) avevano delle facce da imbecilli, al solito. (...) Sono proprio quegli imbecilli, magari rozzi, ingenui, e, oltre tutto, anche in buona fede (non in quanto fascisti, dico, ma in quanto piccolo - e medio - borghesi). Ma intorno c'erano le facce dei sicari fascisti. Facce magre, ossute, con occhi fortemente disegnati. Facce tirate dalla vita povera, dalla fame. Macerate da abitudini nate dall'osservanza della più stretta economia, dal bisogno (lettucci, stanzette polverose, stanzoni vuoti, niente riscaldamento, un paio di calzoni e una camicia, l'osteria, la messa domenicale, la periferia della città quasi campestre). Insomma, ciò che quei fascisti erano socialmente, aveva infinitamente più forza di ciò che erano ideologicamente. Erano lavoratori poveri e piccoli borghesi poveri come loro. Facevano la marcia su Roma come una scampagnata; al massimo si può pensare che essi, culturalmente, imitassero l'impresa fiumana. La maggior parte erano chiaramente “assoldati”, come soldati di ventura di second'ordine.
... le folle oceaniche...Questa prima impressione di trovarsi di fronte a un tipo antropologico di italiano che è stato così per secoli e secoli, ed è cambiato solo in questi ultimi dieci anni, dura e si consolida durante tutto il film di Naldini. Questa inoffensività, non bonacciona o qualunquistica , ma “fisica” degli italiani in camicia nera, si estende anche ai capi. I famosi gerarchi, che io ricordavo come il massimo della ferocia e del ridicolo, sono invece dei patetici imbecilli: qualcuno di loro fa addirittura una specie di schifosa tenerezza, tanto è stupido e visibilmente attaccato alla greppia, come un allampanato animale. C'è qualche sguardo gettato da costoro su Mussolini che è un capolavoro di recitazione involontaria. È lo sguardo di un cane che sa un po' di latino gettato su colui che gli procura il cibo. 
La copertina di una edizione della vita e opere di Pier Paolo Pasolini
pubblicata da Nico Naldini in traduzione ungherese
Ad accentuare questa inoffensività di poveraglia e di piccola borghesia affamata, è l'inevitabile confronto sia con i fascisti, che con la folla e i “gerarchi” attuali. Rispetto ai fascisti attuali, che sono ormai dei veri e propri nazisti, quelli hanno un'aria casalinga che stringe il cuore (tanto più quando il loro entusiasmo fascista si manifesta in sorrisi sinceri di vecchia felicità popolana o contadina); rispetto alla folla attuale, quella folla (non necessariamente fascista) è piena di dignità; in essa contano valori di cui il fascismo approfittava degradandoli. Infine rispetto ai “gerarchi” attuali quei “gerarchi” fanno pena. Cosa possono aver rubato, in quell'Italia miserabile? Qualche miserabile gruzzoletto di palanche. Lo si vede. E il pensiero corre alle ruberie, alle grassazioni, alle violazioni, ai delitti dell'attuale classe dirigente, fatta di parassitismo e di clientele, come ormai i dirigenti democristiani stessi ammettono, senza vergognarsi, e invece di togliersi per sempre di mezzo. Il fascismo non è stato alle origini che umile manovalanza del padronato. Alla fine è stata una bieca mascherata assassina. Ma a questo punto il film finisce.
Mussolini al balcone(...) Naldini ha preso delle decisioni stilistiche direi ferree nel progettare il film. Niente retorica antifascista, niente facile “ridicolo” sul fascismo, rappresentazione del fascismo attraverso materiale elaborato dai fascisti stessi, cioè attraverso la loro idea falsa e vera di sé. In tutto questo però Naldini è stato travolto da un dato incalcolabile: cioè dall'accumulazione di un materiale che aveva quasi costantemente per oggetto il rapporto pubblico tra Mussolini e le folle cosiddette oceaniche. Alla fine, e proprio filmicamente, il film è un film sul rapporto tra un Capo e il suo Popolo. (...) Rapporto inaudito, assurdo, manifestamente arrangiato, ritagliato e mistificato, ridicolo, bieco: ma in qualche modo, quello lì, proprio quello lì, come compare nella realtà fisica dei materiali del film. Materiali che si accumulano, e infine esplodono in una espressività abnorme e involontaria. È stato un terribile gioco, e il film di Naldini gioca con questo gioco. Per questo è un film bellissimo. Ma anche pericoloso, perché sono i destinatari in buona fede che accettano il gioco. Quelli in cattiva fede fanno il “loro” gioco, cioè, come si sa, non sanno giocare. Il fascismo è un tetro comportamento coatto».

Pier Paolo Pasolini, da Poveri ma fascisti, «Il Messaggero», 17 ottobre 1974.


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“Profezia. L’Africa di Pasolini” nella sezione Venezia Classici del Festival di Venezia

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“Profezia. L’Africa di Pasolini”
nella sezione Venezia Classici del Festival di Venezia
http://www.megamodo.com - 26 luglio, 2013


PROFEZIA. L’Africa di Pasolini” a cura di Gianni Borgna, con la supervisione artistica
di Enrico Menduni è presente nella sezione Venezia Classici – Documentari sul cinema,
del 70. Festival di Venezia. Dopo Accattone (1961) Pasolini cerca in Africa
la genuinità contadina e quella forza rivoluzionaria che invano aveva cercato nel suo Friuli
e poi nel sottoproletariato romano. Così la sua poesia e i film: La Rabbia (1963),
Edipo Re (1967), Appunti per un’Orestiade africana (1968-1973).

Profezia – L’Africa di Pasolini esplora questa speranza che finirà in una nuova cocente delusione: l’Africa è un serbatoio di contraddizioni insanabili che esploderanno negli scontri, nelle dittature, nei massacri di ieri e di oggi.
È un’Africa sfrangiata e dagli incerti confini, che parte dalle periferie del primo mondo. Paradossalmente le borgate di Roma in cui vivevano i sottoproletari di Accattone, come il Pigneto, adesso ospitano migliaia di extracomunitari.
L’afflato profetico di Pasolini continua a turbarci, quando descrive – trent’anni prima – l’esodo degli africani sui barconi e la loro “conquista” dell’Italia. Ma il poeta è destinato a una morte prematura, come Accattone a cui è dedicato l’inizio e la tragica fine del film.
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Pasolini altra vittima della strage di Bologna: i mandanti

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LA SAGGISTICA
Pasolini altra vittima
della strage di Bologna: i mandanti.

http://francescolatteri.blogspot.it/ - venerdì 2 agosto 2013

Pier Paolo Pasolini (3P), figura tra le più insigni della letteratura e dell'arte italiana del Novecento, è stato assassinato barbaramente ad Ostia nella notte tra il 1° ed il 2 Novembre 1975. Come potrebbe allora mai essere ulteriore vittima di un attentato tra i più nefasti e terribili dell'Italia degli anni di piombo, accaduto il 2 agosto 1980, cinque anni dopo, alla stazione di Bologna? Eppure di quell'attentato di cui si è giunti ad arrestare gli esecutori e per cui esiste il dovere inderogabile per uno Stato civile di giungere ai mandanti ed alla loro consegna alla giustizia, come ha asserito oggi alla commemorazione la Presidente della Camera Laura Boldrini, si sa per certo che le indagini furono fuorviate e depistate da Licio Gelli, famigerato capo della P2, per questo condannato insieme a uomini dei servizi. E' certo anche il coinvolgimento della banda della Magliana. Dunque strage di Stato. 

Ebbene, Pier Paolo Pasolini di quella strage non solo parla, ma la descrive minuziosamente. Descrive il contesto che a quella strage porterà e che la implica di necessità. La implica in quel contesto che implica già l'assassinio del Presidente dell'ENI Enrico Mattei. Il contesto originario anzi - quello da cui si parte - è proprio quello che porterà all'attentato a Mattei, commissionato alla mafia dalle compagnie francesi, dei cui retroscena dettagliati era a conoscenza il giornalista Mauro de Mauro, amico di Pasolini e che a questi li avrebbe rivelati. Mauro de Mauro è stato anch'egli per questo ucciso. Pasolini avrebbe smascherato - o voluto smascherare - l'assassino di Mattei nell'ultima e purtroppo incompiuta sua opera: lo stupendo "Petrolio", un satyricon in chiave moderna, dove a pagine anche di grande filosofia - bellissimo il tema metafisico - si aggiungono le molte altre in cui è sviluppato il ritratto della società italiana del Novecento e di volti tipici di essa dalle classi più infime a quelle più elitarie in uno smascheramento straordinario in cui la figura del nuovo presidente dell'ENI, Cefis, è ritratto non solo nella sua scissione psichica alla Jekyll/Hyde, ma anche nella sua bisessualità e nelle sue perversioni squallidissime. Il potere si intreccia fittamente alla sessualità, perché, e Pasolini lo dimostra accuratamente, per Cefis (Carlo di Tetis nel testo), ma anche per altri personaggi dell'egemone classe economico politica, il sesso è potere ed il potere è vissuto nei modi della sessualità. 

Sullo sfondo, tra le moltissime altre cose, c'è anche il golpe Borghese. La trama di potere economico e politico che porta, anzi necessariamente implica, l'assassinio di Mattei è smascherata magistralmente da Pasolini, ma essa non si ferma assolutamente lì: essa prosegue decisa - e d'altronde l'assassinio di Mattei era storicamente già avvenuto - ed arriva alla strage della stazione di Bologna (nel testo pasoliniano è quella di Torino) ed oltre. E' doveroso soffermarsi sul fatto che la strage alla stazione, al pari che l'attentato a Mattei, è una implicazione necessaria e non prescindibile. E' curioso che il testo pasoliniano non sia stato preso agli atti né per il caso Mattei, né per il caso de Mauro, né per il caso Pasolini e neppure per la strage di Bologna. Eppure, almeno per lo stesso caso Pasolini, sarebbe stato doveroso.

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Intervista con Gesù, di Marco Cicala - "Il Venerdì di Repubblica", 30 agosto 2013

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - CINEMA - INTERVISTE
Enrique Irazoqui e Pier Paolo Pasolini a Matera. Foto di Domenico Notarangelo
Intervista con Gesù
di Marco Cicala
"Il Venerdì di Repubblica", 30 agosto 2013

Era un giovane antifranchista. Pasolini ne fece il suo messia nel
Vangelo secondo Matteo.Alla vigilia di una conferenza italiana, incontro
con Enrique Irazoqui. Cristo riluttante, che del regista dice:
«Fu un genio. Non un santo. Né un martire»

CON UNA NOTA DI ENRIQUE IRAZOQUI

E UN RINGRAZIAMENTO AD AGATA AMATO E GIORGIO DI COSTANZO

Enrique Irazoqui
Cadaqués. Gesù non beve. Fu­mava, ma ha smesso. Era marxista. Ha smesso. Da giovane, l'ha stracciato a scacchi il princi­pe del dadaismo; ha rubato la scena al pa­dre della beat generation;ha mangiato i tortellini in trattoria con Elsa Morante. E andava da Rosati assieme a quelli che an­davano da Rosati: Guttuso, Moravia, Maraini: «Ma se c'era Elsa, Dacia non veniva».
Vabbè però adesso basta col giochetto: Gesù si chiama Enrique Irazoqui e nella sua vita avanti Cristo era uno studente di econo­mia all'università di Barcellona. Militava pure nel sindacato giovanile. Comunista. Clandestino. Perché al volante della Spagna c'era Francisco Franco. Per via della madre (nata, quasi un presagio, a Salò) Enrique se la sbrogliava bene con l'italiano, e così il Par­tito lo spedì a Firenze e Roma in missione speciale. 
Si trattava di cercare appoggi tra i big della politica e della cultura. Sostegno pecuniario, ma non solo: «Volevamo invitar­li in Spagna a tenere conferenze contro la dittatura. Se li lasciavano parlare, bene. Se li arrestavano, pure meglio. Lo scandalo ci avrebbe fatto ancora più gioco». Era il feb­braio 1964. Irazoqui aveva 19 anni e un bel volto angoloso da antico eresiarca. In Italia venne preso in consegna da un gentil accompagnateur del Pci. Gli fecero vedere La Pira, Pratolini, Nenni, Bassani... Per ultimo lo por­tarono all'Eur, da Pasolini. Avvertendolo: «Guarda che è poeta. E omosessuale».
Sul set del "Vangelo"

Enrique Irazoqui sedeva a casa di PPP e quello lo ascoltava in piedi, girandogli intor­no senza spiccicare parola. Alla fine disse: «D'accordo, verrò in Spagna. Ma prima tu devi farmi un favore». Quale? «Interpretare Gesù nel mio prossimo film». Pardon? «Sarà un racconto epico-lirico, in chiave nazional-popolare, sai Gramsci? Dobbiamo restituire Cristo al popolo. Perché gli è stato rubato dalla classe dominante».
Irazoqui era allibito. «Risposi di no. Per me la religione significava il cattofascismo franchista. Ero un ateo militante. Fedele al motto di Kropottón secondo cui L'unica chie­sa che illumina è quella che brucia». Parole sante, «ma non ti hanno mandato in Italia anche a raccogliere soldi?» gli bisbigliò, luciferino, l'emissario del Pci. «Guarda che se accetti sono m-i-l-i-o-n-i». Eh già. Allora affa­re fatto. Prodigi del materialismo dialettico. Tempo pochi giorni, Enrique, ancora mino­renne, ottiene il nihil obstat dei genitori. Sarà sua madre a negoziare il contratto col pro­duttore Alfredo Bini. Le riprese del Vangelo secondo Matteo lo porteranno a Barletta, Crotone, Matera... Un Meridione dove «i vol­ti degli uomini parevano scavati nel diaman­te e nel carbone». Un sud «molto, ma moolto più sud di quello spagnolo». Nelle pause di lavorazione, donne di nero vestite gli chie­devano miracoli. Così, a la carte. Ma poi sor­prendendolo con la cicca in bocca, si ritira­vano sdegnate. Perché Cristo non fuma.
Temendo che a quasi mezzo secolo dal film non lo riconoscessi, Irazoqui mi è venuto incontro benedicendo. Porta un panama si­gnorile e scarpe minorchine. Da anni vive qui a Cadaqués, che fu la Saint-Tropez catalana e il Vittoriale mediterraneo, ora casa museo, di Salvador Dalí. «Quel fascistone» dice En­rique accenando alla (brutta) statua del Divi­no, che domina la baia e lo ritrae molto più ricciuto del vero: diresti Sor Pampurio.
Sediamo nel bar accanto a quello dove Irazoqui, giocatore precocissimo e temibile, batteva a scacchi Duchamp: «Era stato un asso, ma ormai aveva i suoi anni. Alla fine, la moglie Teeny mi pregò: Evita le partite con Marcel, che poi la notte sta lì a rimuginare e non mi dorme». C'era anche John Cage: «Simpa­ticissimo. Mai visto scacchista peggiore» sogghigna Gesù. E punzecchia: «Vediamo se anche lei mi farà  la domanda che tutti mi ri­volgono nelle interviste. Quale? Glielo dirò alla fine». Parla un italiano irreprensibile. Ma sul set non gli servì. Sarebbe stato doppiato. «Durante la scena della crocifissione davo i numeri. Letteralmente. Urlavo al cielo: Cin­que, sei, sette!!». Messia riluttante, non si è mai voluto rivedere nel Vangelo. «Mi invitano spesso a parlarne. Ma appena comincia la proiezione vado a farmi un giretto». Non de­rogherà nemmeno a Trieste dov'è ospite del festival Mille occhi, dal 12 al 15 settembre.
Ride ripensando a Ninetto Davoli che, allora sedicenne, si aggrappava alla giacca di PPP, implorando tra due ciak: Pier Paolooo, moo compri er motorino! «Non ho l'impressio­ne di aver fatto un film. Giravo cinque, dieci minuti. Poi si giocava a pallone. Pasolini era forte. A scacchi invece non ha mai voluto af­frontarmi. Gran narciso». Si sentiva Gesù Cristo? «Si sentiva tutto. Voleva essere Cri­sto, la croce, i sassi di Matera, Mamma Ro­ma...». Mentre alla madre Susanna fece recitare la Madonna da vecchia: «Sul set la trat­tava malissimo. Ai piedi della croce la  voleva disperata. Le gridava: Pensa a Guido!».L'altro figlio, il partigiano morto ammazzato nelle foibe. 
Evgenij Aleksandrovič Evtušenko
Perché scelse Irazoqui per la parte? «Da tempo cercava un Gesù iconoclasta. Ave­va pensato di proporre il ruolo a Jack Kerou­ac, ad Allen Ginsberg, poi al poeta russo Evtušenko... Forse la mia faccia gli ricordava la pittura che amava: Giotto, Piero della Francesca, El Greco. Eppoi c'era il fatto che ero un militante rivoluzionario. Ma quando discutevamo di Spagna mi faceva incazzare. Diceva: Beati voi che avete una dittatura. Alme­no potete ancora identificare il nemico. No, io preferivo la libertà di Roma. Entrare alla li­breria Rinascita e comprarmi DasKapital in santa pace. Oppure andarmene da Rosati».
Pasolini «era uno torturato, angosciato da tutto. Non rideva mai. Al massimo sor­rideva. Vestiva come un borghese di provin­cia, attento ai completi, alle cravatte. E malgrado le tirate contro l'industrializza­zione, stravedeva per le macchine veloci. Era un uomo di eccezionale intensità. Esat­tezza radiografica. Per impersonare i fari­sei, voleva uomini dalle facce stronze. Sce­gliendoli, li scrutava in volto: Scommetto che lei vota Msi. Vero? E quello: Beh, in effetti...».
Nel cast aveva tirato dentro anche intel­lettuali: Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto, Francesco Leonetti... «Sì, mi ricordo di Enzo Siciliano e Giorgio Agamben: minaccia­rono uno sciopero in difesa della madre Susanna e di Ninetto che ritenevano anga­riati da Pier Paolo. Lui non era un santo. Né un profeta. E - di là delle persecuzioni che subì - forse non fu nemmeno un martire. Mi domando come sarebbe stato da vecchio. Anche di Gesù mi chiedo come sarebbe sta­to se non fosse morto giovane».
Nessuna indulgenza: «Perché beatificar­lo? Su alcune cose Pier Paolo aveva fiutato giusto e in anticipo. Su molte altre no. Appli­cava l'etichetta fascismo a troppi fenomeni che non c'entravano: società dei consumi, tv... Idealizzava il mondo contadino, che invece può essere atroce. Difendeva le tradizioni, che possono essere mostruose. Qui in Spa­gna, fino a pochi anni fa, c'era una festa po­polare dove una capra viva veniva portata in cima a un campanile e scagliata giù. A lei sembra che tradizioni del genere vadano tu­telate?». Che ne pensa Irazoqui degli altri film di Pasolini? «Il mio preferito resta Accattone. La Trilogia della vita non mi piace. Teorema mi dà sui nervi. Salò non l'ho visto».
Sul set del "Vangelo"

Meglio parlare di Elsa Morante: «Un'a­narchica. Il mio vero Pigmalione. Fu lei ad insegnarmi tutto in quei mesi romani. Al giradischi ascoltavamo le musiche che ave­va scelto per il Vangelo. Mi iniziò ai tortelli­ni alla panna». Enrique alloggiava in un alberghetto dei Parioli e girava con biglietti da diecimila lire arrotolati in tasca. Ma se li scialò tutti, e per tornare in Spagna gli toc­cò svendersi le macchinette fotografiche.
A casa ebbe noie dal regime: «Roba di poco conto. Mi arrestarono un paio di volte e subito venni rilasciato: dopotutto ero un figlio della buona borghesia». Recitò in qualche filmetto da nouvelle vague catala­na. Ma intanto aveva capito un paio di cosette utili: «Primo: che anche in Spagna la gente non voleva la rivoluzione ma la Sei­cento. Secondo: che l'economia sarà pure, marxianamente, il motore della storia, però non faceva per me. Tornando a casa dalle lezioni mi buttavo a leggere Kafka e i Sur­realisti. Non ho mai capito fino in fondo la differenza tra debito e credito».
Pier Paolo Pasolini con la madre

Passò ad altra disciplina. Acchiappò una borsa di studio negli Stati Uniti e rimase a lungo laggiù. Insegnando letteratura spa­gnola nei college, smanettando coi primi programmi di scacchismo informatico («Ma il computer è cretino. Non impara. Ripete sempre lo stesso errore»). Apprese della morte di Pasolini a Minneapolis. Dai giorni del Vangelo l'aveva rivisto solo una volta, di sfuggita, a Parigi. In quello stesso novembre del 75 morì anche il Caudillo. Ma Irazoqui tornò in Spagna solo a fine anni Ottanta. Oggi ha tre figli, cinque nipoti, tut­ti negli States. La terza moglie, Ans, olan­dese, l'ha conosciuta qui a Cadaqués. Pensionato non domo, passa il tempo bighello­nando tra i caffè, fotografando la gente ai tavolini, socializzando su Facebook.
Ma Pasolini mantenne la promessa? Ven­ne a parlare in Spagna? «Certo. All'universi­tà di Barcellona non si riuscì ad ottenere un'aula Così ripiegammo sulla sala autopsie dell'istituto di medicina legale. Stracolma. Lui fece un discorso sull'antifascismo».
Adesso è ora che Irazoqui riveli qual è la domanda che si sente rivolgere in ogni santa intervista. «Con sguardo mistico, finiscono sempre per chiedermi, all'incirca: Aver inter­pretato il Figlio di Dio ha cambiato nel profondo la sua visione della vita?». Io però non gliel'ho chiesto. «Lei no». Allora glielo chiedo.
La risposta del Gesù di Pasolini è un gesto mediterraneo. Molto eloquente. As­sai poco benedicente.

Marco Cicala
*   *   *
Mentre sto per pubblicare questo documento ripreso dal "Venerdì di Repubblica" del 30 agosto 2013 giungono alcune brevi precisazioni che Enrique Irazoqui scriveva nel tardo pomeriggio di oggi nel "Gruppo Pasolini" all'interno di Facebook. Le riporto puntualmente qui per dovuta e corretta informazione.
«A proposito della intervista apparsa ieri su Repubblica. Il giornalista non ha ancora avuto la gentilezza di mandarmela, ma grazie a voi ho potuto leggere un po'.
Non ho mai detto che Pier Paolo Pasolini trattava malissimo sua madre sul set. Era semplicemente incapace, la adorava. Nella scena della crocefissione è vero che le diceva "pensa a Guido", come a me diceva "pensa ai fascisti" di fronte ai farisei, per stabilire un rapporto tra la scena che dovevamo girare e la nostra vita personale.
Agamben e Siciliano volevano fare uno sciopero, vero, ma io sono stato contro e non si è fatto. E sono stato contrario perché non ero affatto d'accordo con chi diceva che Pier Paolo trattava male sua madre o che si sarebbe dovuto cacciare via Ninetto. Sono sempre stato marxista, dai 16 anni in poi, grazie mille. Come ho detto prima, non ho ancora letto tutta la intervista. Intanto volevo chiarire questi punti. [Enrique Irazoqui, 31 agosto 2013]
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"Una disperata vitalità": un video e i testi poetici di Pier Paolo Pasolini scelti e interpretati da Laura Betti - Regia televisiva di Mario Martone, adattamento radiofonico di Ida Bassignano, 2 aprile 1999. Con una presentazione di Laura Betti

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - POESIA
Pier Paolo Pasolini con Laura Betti. La foto, di cui purtroppo non conosco la fonte, è molto probabilmente
del 1975: da quando l'ho vista la prima volta ho pensato di individuare, nel gesto di Laura Betti,
una sorta di sua affettuosa premonizione protettiva nei confronti dello scrittore-regista.


Una disperata vitalità
Testi poetici di Pier Paolo Pasolini
scelti e interpretati da Laura Betti
Regia televisiva di Mario Martoneadattamento radiofonico di Ida Bassignano
2 aprile 1999.  Con una presentazione di Laura Betti

QUI DI SEGUITO E' INSERITO IL VIDEO INTEGRALE DELLO SPETTACOLO DI LAURA BETTI "UNA DISPERATA VITALITA'"
DI PIER PAOLO PASOLINI. DALLO SPETTACOLO RADIOFONICO MESSO IN SCENA DA LAURA BETTI IL 2 APRILE 1999
VENGONO INOLTRE RIPORTATI QUATTRO CAPITOLI [PER MOTIVI DI COPYRIGHT] DEL TESTO
DEL POEMA PASOLINIANO CHE DA' IL TITOLO ALLO SPETTACOLO STESSO.


QUI DI SEGUITO, IL VIDEO CON LA VERSIONE TEATRALE REALIZZATA PER LA RAI DA LAURA BETTI.


UNA DISPERATA VITALITA', di Pier Paolo Pasolini, interpretato da Laura Betti (1996)

Video pubblicato in YouTube in data 11 agosto 2013 riguardante INTEGRALMENTE lo spettacolo teatrale
ideato e realizzato da Laura Betti (Produzione Rai, 1996) su testi poetici di Pier Paolo Pasolini
(elencati nei titoli di coda, insieme ai brani musicali utilizzati)
Regia teatrale Laura Betti, regia televisiva Mario Martone.
Pubblicazione del video in attesa di liberatoria (11 agosto 2013) 
L'elaborazione video è dedicata al Professore della Université Libre de Bruxelles,
Faculté de Philosophie & Lettres,  Fabien Gerard,
al Responsabile del Centro Studi-Archivio Pasolini presso la Cineteca di Bologna, Roberto Chiesi.

*  *  *
… una figura femminile in fondo al palcoscenico, completamente chiusa alla vita, ghiacciata. Poi pian piano si scongela attraverso le parole e la musica delle canzoni scritte per me da Pier Paolo negli anni ’60. Qui inizia il recital e io  divento Pier Paolo… è Pier Paolo che parla direttamente alla gente tramite me…
Così Laura Betti descrive l’inizio del suo recital su Pasolini ai microfoni di Radio3 il 2 aprile 1999, prima della messa in onda della versione radiofonica di  Una disperata vitalità, curata da Ida Bassignano dalla regia televisiva che Mario Martone realizzò per Rai2-Palcoscenico dello spettacolo teatrale andato in scena al  Piccolo Teatro di Milano, 12 dicembre 1998.
Laura Betti ha scelto per il suo recital il titolo di un poema tra i più pregnanti  e autobiografici di Pasolini, contenuto in Poesia in forma di rosa,  un poema il cui titolo già chiedeva silenzio tanto si intuiva che veniva da lui, che era lui Una disperata vitalità...

Laura Betti è scomparsa il 31 luglio 2004
Gli ultimi anni di vita li ha dedicati a curare il Fondo istituito nel nome di Pasolini. Per lo scrittore, Laura Betti era una tragica Marlene, una vera Garbo con sopra al volto una maschera inalterabile di pupattola bionda. In realtà - parole dello stesso Pasolini - l'attrice era una persona amabile e simpatica, oltre che, pare, un'ottima cuoca, forse retaggio delle sue origini emiliane. Il suo rapporto con Pasolini, il suo carattere e le difficoltà dei suoi ultimi anni sono stati descritti impietosamente da Emanuele Trevi nel suo libro "Qualcosa di scritto" (Ponte alle Grazie, 2012). Oltre a portare avanti come direttrice l'attività del Fondo, come ultimo atto di fede in Pasolini, nella parte finale della carriera (1996) la Betti riuscì a mettere in scena un recital di poesie e testi pasoliniani dal titolo Una disperata vitalità.
Nel 2003 il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna ha acquisito, tramite donazione, tutti i materiali precedentemente raccolti a Roma. Presso la Biblioteca della Cineteca di Bologna oggi si conservano più di 1000 volumi e altro materiale inerente all'opera di Pasolini. Il trasferimento del Centro Studi da Roma a Bologna ha causato notevoli attriti fra l'attrice e l'amministrazione capitolina. Laura Betti è morta a 77 anni per le conseguenze di un'obesità trascurata che la affliggeva da anni. Riposa al Cimitero della Certosa a Bologna nella tomba di famiglia.


Da "Pagine corsare" / La saggistica
"Una disperata vitalità", un filmato di Mario Martone con Laura Betti. 
Testi di Pier Paolo Pasolini. 
Produzione Rai Radio Televisione Italiana.
Lo spettacolo è stato messo in scena in occasione dell’assegnazione dei Premi Pasolini 1996-98: Piccolo Teatro di Milano, 12 dicembre 1998.

Intervento di Mario Martone 
Ho filmato “Una disperata vitalità” basandomi sui principi che mi guidano da alcuni anni nella ripresa dei lavori teatrali, miei o, come in questo caso, di artisti che amo: filmo lo spettacolo senza “aggiungere” cinema ma cercando, attraverso Il cinema, di restituire il teatro così come è. Questo processo apparentemente elementare è grandemente aiutato se c’è una frontalità oratoriale della messa In scena: e in questo caso (coerentemente con il dettato teorico del teatro di Pasolini) la frontalità è assoluta, trattandosi di un’attrice che non si sposta dal suo leggio. 
Questa attrice è Laura Betti, cioè non solo un’attrice, ma la testimone vivente di un mondo, di un’epoca e di una vita che mi stanno fortemente a cuore. Il poeta non è solo “detto”, in questo monologo, ma rivissuto attraverso l’amore: e se un po’ dell’amore che trasmette Laura quando legge Pasolini in teatro attraverserà anche lo schermo, allora vorrà dire che avrò reso un buon servizio a questo spettacolo.


Intervento di Laura Betti 
Ho passato anni interminabili a tentare di chiudere finestre, porte che si aprivano immancabilmente su altre porte o su buchi nel muro o crepe nel soffitto, e da quelle fessure, quel buchi o quelle crepe, finestre e ancora porte, entravano a folate voci di ogni genere: insidiose, corrotte, pure, brutali, fresche, dolci, invitanti  e poi tanta gente, tanti eredi, molti eredi e tutti con un Pier Paolo in mano o in cima ad una bandiera o nel paniere della biancheria sporca o seduto su un libro… e sempre più spesso, per allontanare quel fracasso veramente volgare, leggevo e rileggevo un poema il cui titolo già chiedeva silenzio tanto si intuiva che veniva da lui, che era lui  “Una disperata vitalità”... 
Quindi ho cominciato a studiarlo perché avevo capito che là avrei trovato molte chiavi per aprire o chiudere le porte, per decifrare molti, troppi segreti. Avrei potuto ritrovare Pier Paolo nella sua integrità e anche il nostro modo di sapere, di riconoscere la vita. 
Poi ho pensato che il silenzio, in fondo, è un’emotività “calda” e che avrei forse potuto trasmetterla. “La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. 
Cominciai a costruire lentamente uno spettacolo intorno a quel poema ed ero un po’ spaventata e in uno stato di ansia quasi vicina al panico. 
Ero certa che avrei potuto dare qualcosa di lui e di me insieme. Perché sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica dl perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsionl forse dimenticate da sempre oppure taciute… per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra. 
Un’elaborazione paziente. Ma non avevo dubbi sul fatto che dovevo cominciare - con prudenza - dagli anni 60’… dalle canzoni di Pier Paolo e poi... poi, forte della certezza che quegli anni che passammo insieme furono splendidi - e nessuno me li potrà rubare -, trovare il coraggio dl “scendere” di perdermi e proprio In questo, per questo, finalmente esistere. 
Non è uno spettacolo facile. D’altra parte nulla è stato mai facile per me. 
I “corridoi” sono pieni di insidie, e non poche volte, svoltando l’angolo, ti puoi ritrovare in una notte mai accettata, all’Idroscalo di Fiumicino... 
Non è facile perché le parole, con la loro ambiguità mi invadono ogni sera nuove, inattese. Spesso, senza che me ne renda conto io non sono più Laura ma Pier Paolo. 
Ma anche questo, in un certo senso è teatro. 
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