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2. Enrique Irazoqui: un ragazzo che non voleva essere Gesù di Virgilio Fantuzzi S.I. (15 giugno 2013)

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - CINEMA
Enrique Irazoqui, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante
Enrique Irazoqui:
un ragazzo che non voleva essere Gesù
di Virgilio Fantuzzi S.I.

© La Civiltà Cattolica 2013 II 581-595 | 3912 (15 giugno 2013)

PARTE  SECONDA
UN SENTITO RINGRAZIAMENTO A VIRGILIO FANTUZZI E A ENRIQUE IRAZOQUI 

Qualcosa di grandioso

Giunti sulla piazza del Duomo, si spalanca davanti ai nostri oc­chi in tutta la sua grandiosità il panorama di Matera. Pasolini di­ceva che con l'arrivo di Gesù a Gerusalemme, cioè qui a Matera, il film avrebbe cambiato il suo andamento stilistico. Nella precedente predicazione di Gesù, in Galilea e in altre parti della Palestina, tut­to è semplice, spoglio, lineare... Nella storia raccontata da Matteo e nel modo in cui Pasolini ha inteso rappresentarla, l'apparizione di Gerusalemme segna il momento nel quale la predicazione di Cristo da strettamente religiosa, in qualche modo, senza la diretta volon­tà di Cristo e degli apostoli, ma per dati oggettivamente storici, diventa un fatto, oltre che religioso, anche pubblico e politico. «Il momento dell'arrivo a Gerusalemme - diceva - segnerà nel film un nuovo passo. Ci sarà nel film qualcosa di grandioso». Chiedo a Enrique se si è accorto, nel momento in cui la troupe si è trasferita, da altri luoghi più spaesati, qui nel centro di Matera, che il film ha cambiato tono e ha assunto uno spessore diverso...
Matera

«Ti ricordo che avevo 19 anni - dice Irazoqui, trattenendo una punta d'irritazione -. A quel tempo non sapevo niente né di toni, né di spessori. Forse Pier Paolo parlava di queste cose con Elsa, con la quale ha avuto rapporti strettissimi durante la preparazione e la lavorazione del film. Non ne parlava certo con me, né con gli altri miei coetanei che facevano parte della troupe. Passare da un luogo a un altro per me voleva dire semplicemente passare da un Jolly hotel a un altro. La Matera cinematografica era tutta nella mente di Pasolini. Ricordo soltanto che mi piaceva uscire la sera con Giaco­mo Morante, nipote di Elsa e interprete dell'apostolo Giovanni, per andare a mangiare fragole e panna».
«Fragole e panna... È tutto quello che mi sai dire? Non la vedi anche adesso questa città unica nel suo genere? Non ti senti proiet­tato come me in questo momento verso le soglie della preistoria? Cinquant'anni fa Matera doveva essere ancora più vicina al suo stato originario di quanto lo sia adesso. Questi quartieri rupestri, che in seguito sono stati evacuati e ripuliti, erano ancora abitati da coloro che vi erano nati e cresciuti. Al posto delle automobili e dei motori­ni di adesso c'erano ancora i somarelli con le loro carrette...».
«Per me e per i giovani della troupe, Matera era rappresentata dai Sassi. Esattamente questi quartieri e questo ambiente che abbia­mo sotto gli occhi e che, pur avendo subito molte trasformazioni, conserva ancora un fascino senza uguali. 
Qualcosa di simile a certe grotte con tracce di vita preistorica che ho visto nel Nord della Spagna. Testimonianze di una cultura primitiva. Un mondo molto lontano dal nostro. La gente che si vedeva cinquant'anni fa in que­ste strade non assomigliava alla gente di adesso. Oggi siamo diven­tati tutti uguali. Giovani e vecchi, uomini e donne si assomiglia­no un po' ovunque. Guardano tutti gli stessi programmi televisivi, hanno tutti lo stesso iPhone, mangiano più o meno le stesse cose. Quando abbiamo girato il film, i caffè di Matera erano frequentati soltanto da uomini con sguardi torvi. La gente era magra, fatta "col diamante e col carbone". Penso che se, allontanandoci da Matera, andassimo in qualche paese dei dintorni, forse potremmo trovare anche adesso alcune persone simili a quelle che una volta si vedeva­no qui. Uomini venuti dalla terra, che lanciano occhiate furtive da sotto i berretti. A Matera la gente non è più così. Mangiano molto meglio, per fortuna. Sono molto accoglienti. Hanno bei musei, una grande cineteca. Matera è oggi una bellissima città, colta e moder­na. La gente viaggia, compera... Ricordare la Matera del '64 vuol dire fare un viaggio a ritroso nel tempo».
Enrique rievoca i suoi rapporti con Pasolini e con Elsa in quel '64 che è stato, al di fuori di ogni dubbio, l'anno più sensazionale della sua vita. «Benché Pier Paolo ed Elsa rappresentassero entrambi, per il diciannovenne che ero allora, criteri di verità, credo di essere stato influenzato e, direi quasi, plasmato più da lei che da lui. Pier Paolo era molto preso dal lavoro e aveva poco tempo da dedicarmi. Elsa invece era sempre disponibile, accogliente e le piaceva stare in mia compagnia».
Matera. Una sala ricavata nelle grotte all'interno di Palazzo Pomarici,
sede del Museo di Scultura Contemporanea (MusMA)

Varchiamo la porta del museo della scultura contemporanea re­centemente allestito all'interno del palazzo Pomarici. Ci inoltriamo negli ipogei che si incastrano gli uni dentro gli altri fino a formare un intricato labirinto rupestre. Nei vani enormi, che un tempo ospitavano cantine, stalle, cisterne, sono esposte opere imponenti, che raccontano mezzo secolo di scultura moderna in Italia e fuori d'Italia. Le sculture sono illuminate da fasci di luce che le isolano e lasciano in ombra gli spazi circostanti dalle dimensioni ciclopiche. Accoccolato nell'ombra di una nicchia scavata nella roccia, Enrique si abbandona all'onda dei ricordi:
«Quando l'ho conosciuta, Elsa si dichiarava buddista e parlava con entusiasmo della reincarnazione. Durante le riprese del Van­gelo mi sono accorto che aveva un rapporto profondo con la figura e con le parole di Gesù. Non so quale fosse il suo rapporto con il cristianesimo. Posso dire soltanto che, se c'è mai stata una persona disposta a credere nella bontà e nella purezza assolute, quella era Elsa. A casa sua si parlava di tutto. Quello che lei diceva era per me come un oracolo. Meno quando si parlava di politica, perché lei era anarchica mentre io ero marxista-leninista-rivoluzionario-resistente-antifascista. Aveva ragione lei, naturalmente, o almeno non ero io quello che aveva ragione. Adesso lo so, anche se allora Pier Paolo faceva il tifo per me».

Uscendo dal museo scavato nella roccia, gli occhi, investiti dai raggi del sole allo zenit, restano abbacinati per qualche minuto. Da Porta Pistola appare improvvisamente davanti a noi, al di là della valle sottostante, la gobba oscura della Murgia, la collina sassosa, disseminata di chiese rupestri, dove Pasolini ha ambientato il Cal­vario [v. foto qui sopra]. Immobile accanto a me, Irazoqui osserva come me il profilo della «montagna sacra». Non riesco a capire quali pensieri gli stia­no passando per la mente in questo momento. Non scorgo sul suo volto nessun segno che possa indicare una particolare emozione...
«Questo è il tuo Calvario, Enrico. Vorrei che tu mi dicessi tutto quello che hai visto, che hai udito, che hai provato in quei giorni che, come suppongo, sono stati per te memorabili ...».
«Non so cosa dirti, Virgilio. Se ti dico che non ricordo quasi nulla, temo di deluderti. Ricordo che giravamo in fretta e furia. Avevo paura che la croce fosse troppo pesante da portare, mentre invece non pesava niente. Era vuota al suo interno. Poi il caldo. Un caldo soffocante, implacabile, che non dava tregua. Mi sono sentito comunque sollevato quando, per aiutarmi, qualcuno mi ha tolto la croce dalle spalle. Ma è rimasta la corona di spine che mi dava fasti­dio. C'era ressa, confusione, baccano... Tutto era scomodità, fretta, calore... Nella crocifissione era ancora più caldo, ancora più sco­modo. Per me era difficile mantenermi in equilibrio. C'era soltanto un gancio che mi teneva da dietro per la vita. Lo sforzo per tenere le gambe e le braccia tese dovevo farlo da solo. Il sole era terribile. Dovevo gridare e il mio grido di dolore non era mai abbastanza forte. Urlavo con tutte le mie forze, una volta, due volte... Non vedevo nulla e nessuno. Sentivo soltanto la voce di Pier Paolo che gridava: 
Matera. La Collina dove fu ricostruito il Calvario (fotogramma dal film)

"Più forte! Grida più forte che puoi!". La luce era accecan­te. Il calore, lo sforzo per tenermi in equilibrio. Non vedevo nulla. Non capivo nulla. Non pensavo a nulla. Gridavo soltanto: "Padre, perché mi hai abbandonato?", senza rendermi conto di cosa signi­ficassero quelle parole».


Sul dorso della Murgia

L'indifferenza ostentata da Irazoqui nei confronti della religione suscita in me qualche dubbio e mi suggerisce di metterlo alla prova.
«Tu sai che in Italia, soprattutto qui nel Meridione, ma anche in Spagna, c'è la tradizione di rappresentare la Passione di Gesù, durante la Settimana Santa, come atto di devozione popolare. So bene che, nonostante la tua educazione dai gesuiti, all'epoca del Vangelo non sentivi nessun trasporto religioso nei confronti di Gesù. Tuttavia, nel rivivere sia pure in forma scenica i momenti estremi della sua vita, posso pen­sare che qualche emozione deve averti attraversato...».
Matera. Parco della Murgia Materana
«Se pensi che io mi sia identificato con Cristo mentre mi trovavo sulla croce, ti sbagli di grosso. Sapevo che dovevo stare lì. Era il mio compito in quel momento e basta. Nella situazione della Spagna fran­chista, la Chiesa era alleata con Franco. Gli antifranchisti militanti come me vedevano nella Chiesa un nemico. Mi rendo conto che sto semplificando molto le cose, ma non vorrei che ci fossero tra di noi equivoci e malintesi. La Chiesa diceva di rappresentare Gesù; dunque il Gesù della Chiesa non era in nessun modo dentro di me. Era fuori, se non addirittura contro. C'era da fare la crocifissione e dunque ho fatto la crocifissione, ma per me sarebbe stata la stessa cosa se in quel momento avessi dovuto fare il pistolero in un western».
Nel pomeriggio, dopo una sosta conviviale in casa del comu­ne amico Domenico Notarangelo, Enrique e io ci mettiamo in cammino verso la Murgia. Lungo la strada lui ricorda un brano di Pasolini, che parla di teologi senza religione. «Si potrebbe dire allo stesso modo - aggiunge - che ci sono religiosi senza teologia, e forse anche slanci di assoluto senza religione. E un problema più grande di me. Non arrivo a trovare la soluzione. Posso dirti soltan­to che avverto una certa affinità con Simone Weil, e non soltanto con lei, ma anche con gli anarchici spagnoli della guerra civile o con l'umanesimo di Primo Levi... Sono questi i miei compagni di strada».

Giungiamo sul dorso della Murgia quando il sole volge verso Occidente. Sulla superficie della collina rocciosa fili d'erba bianca scossi dal vento ricordano le immagini del Vangelo. Ecco il luogo dove sono state piantate le croci. Qui ci sono i soldati che giocano a dadi. Lì le donne che piangono... 
«Enrico, mi hai già parlato dei disagi fisici che questa scena ti ha provocato. Ma, adesso che ci tro­viamo sul posto, vorrei che tu ricordassi con maggiore precisione quello che accadeva attorno a te. Qui c'è una donna, Susanna, che cade in deliquio. Non so se tu dall'alto della croce riesci a vederla e cosa pensi di lei. Io penso che quella donna, venti anni prima, ha perduto un figlio in guerra. Penso che dieci anni dopo perderà un altro figlio in maniera non meno assurda e crudele. Capisco che tu, in quel momento, potevi avere difficoltà a identificarti con il Cristo della devozione popolare, ma sull'identificazione di Susanna con la Madonna penso che non possano esserci dubbi di alcun genere».
Il pensiero di Susanna spinge Irazoqui a concentrarsi in uno sfor­zo di memoria. «Ricordo perfettamente Susanna ai piedi della croce durante la crocifissione. Credo anche di capire il motivo profondo per il quale Pier Paolo abbia scelto sua madre per farle interpretare il ruolo della madre di Gesù. Dal punto di vista della resa cinemato­grafica era fondamentale che lei sapesse che cosa vuoi dire perdere un figlio. Durante le riprese, Pier Paolo ripeteva a sua madre: "Ri­cordati di Guido!". Non tutti i presenti erano in grado di apprezzare il modo in cui Pasolini spingeva sua madre a esprimere con forza il suo dolore. Sapevano che non si trattava di un dolore finto, ma del dolore vero di una madre per la morte del proprio figlio».
Alle parole di Enrique aggiungo una riflessione: «Ritengo che fra i tanti motivi che possono aver spinto Pasolini a fare un film come il Vangelo, quello prevalente sia stato il desiderio di risarcire, in qualche modo, sua madre per il dolore immane che le ha procu­rato la morte del secondogenito. Ho inteso dire che, dopo la morte di Guido, Susanna andava in giro per i campi urlando come una pazza...».
«Non credo - ribatte Irazoqui - che tutti coloro che si trova­vano presenti sul set in quelle giornate veramente terribili, non sol­tanto per me che soffrivo sulla croce, sarebbero stati d'accordo con questo tuo modo di vedere le cose. Enzo Siciliano e Giorgio Agamben, per esempio, che interpretavano i ruoli di due apostoli, sono venuti da me a dirmi che avrei dovuto esigere da Pier Paolo che la smettesse di maltrattare sua madre. "Povera donna - dicevano -, accovacciata per terra tante ore con questo caldo". Naturalmente ho rifiutato di farlo. In Susanna loro vedevano soltanto una vecchietta sfruttata dal figlio e se ne lamentavano...».
«Forse erano invidiosi perché avrebbero voluto essere sfruttati anche loro nella stessa maniera... Scherzi a parte, ritengo che il ri­sultato ottenuto da Pasolini in questo punto del film sia di altissima poesia, degna di lacopone da Todi. Per questo considero del tutto fuori proposito le osservazioni di Siciliano e di Agamben».

«Quando, questa mattina, ti dicevo che, per me, interpretare il ruolo di Gesù nel film di Pier Paolo era come interpretare il ruo­lo di un pistolero in un western, forse ho esagerato. Ci sono stati momenti nei quali, sia in Pasolini, sia in me, si manifestava non dico una vera e propria identificazione, ma una specie di empatia nei confronti della figura di Gesù. Me ne ricordo adesso perché, in certi casi, questa, chiamiamola così, empatia durava anche dopo che le riprese erano finite, tanto è vero che gli apostoli "intellettuali" di cui ti dicevo, quando se ne accorgevano, prendevano un po' in giro Pier Paolo, ma soprattutto me...».
«...Come i soldati che giocavano a dadi ai piedi della croce».
«Non proprio così...».
«Stavo citando una battuta di un altro film di Pier Paolo: La ricotta».
«A volte ho avuto l'impressione che Pasolini volesse essere al mio posto mentre interpretavo Gesù. Ma, a pensarci bene, lui avrebbe voluto essere anche al posto degli altri interpreti. Avrebbe voluto fare tutte le parti. Era innamorato del Vangelo, nel quale vedeva incarnarsi quella "bellezza assoluta" di cui ha parlato in una lettera a Bini».
Panoramica sulla Murgia Materana. © Foto di Giovanna Gammarota

In una lettera al produttore Alfredo Bini del giugno 1963 Paso­lini diceva: «Per me la bellezza è sempre una "bellezza morale"; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di "bellezza morale" non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l'ho sperimentato nel Vangelo».


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Due poesie di Elsa Morante per Pier Paolo Pasolini: "Madrigale in forma di gatto" e "A P.P.P. In nessun posto"

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LA SAGGISTICA - POESIA
Due poesie di Elsa Morante
per Pier Paolo Pasolini

Dopo aver letto Poesia in forma di rosa, nel 1964, Elsa Morante scrive e invia all’amico
Pasolini un testo “scherzoso”, Madrigale in forma di gatto, un calligramma in cui
lo accusa di ipocrisia, di finto amore, di malafede ideologica.
Non sono accuse da poco. Sostanzialmente Elsa accusa Pasolini proprio
di falso amore verso il sottoproletariato, di narcisismo e protagonismo.
La seconda poesia di Elsa Morante, A  P.P.P. In nessun posto è uno straziante
componimento poetico tramite il quale la grande scrittrice indirizza a
Pier Paolo Pasolini l'ultimo saluto...

UN RINGRAZIAMENTO DI CUORE A ENRIQUE IRAZOQUI


Madrigale in forma di gatto 
La rosa è la forma delle beatitudini.
Beata l’angoscia in forma di rosa.
Beato il disordine e la libidine sanguinosa
la passione di sé invereconda gli eccessi di velocità e
le orge funebri
il nero rifiuto dello sposalizio le bandiere dell’oltranza
le corazze dell’ignoranza
i vari equivoci dell’egoismo le mascherate degli stracci
le carità pretestuose le immondizie deificate
i pregiudizi di casta l’alibi storicistico
le complicità attuali, l’adorazione ai padri farisei, la
paura della castrazione
il candido tradimento il pianto vantone
la corda sentimentale e la spada della ragione
beate le secrezioni i visceri della letteratura l’oratorio
la mistificazione
quando finalmente s’aprono in forma di rosa!
Il ragazzo che si intende protagonista del mondo
(protagonista anche se bandito, anzi di più perché bandito…
starà sempre beato al centro della rosa.
E lui beato ignorerà gli altri peccatori al bando della rosa
e al bando di se stessi
non protagonisti del mondo
non leggenda di se stessi
soli senza nessun addio. Agonie senza nessun pianto
e nessuna rosa

Il gatto che non crepa[vi]


A      P.P.P.                             In nessun posto  
E così,
tu – come si dice – hai tagliato la corda.
In realtà, tu eri – come si dice – un disadattato
e alla fine te ne sei persuaso
anche se da sempre lo eri stato: Un disadattato.
I vecchi ti compativano dietro le spalle
pure se ti chiedevano la firma per i loro proclami
e i “giovani” ti sputavano  in faccia
perché fascisti come i loro baffi:
(già, tu glielo avevi detto, però
avevi sbagliato in un punto:
questi sono più fascisti dei loro baffi)
ti sputavano in faccia, ma ovviamente anche loro
ti chiedevano la propaganda per i loro volantini
e i soldi per le loro squadrette.
E tu non ti negavi, sempre ti davi e ti davi
E loro pigliavano e poi: “lui dà”
– bisbigliavano nei loro pettegolezzi –
“per amore di se stesso”. Viva, viva
chi ama se stesso e gli altri ama come se stesso.
Loro odiano gli altri come se stessi
e in tale giustizia magari si credono
di fondare una rivoluzione.
Loro ti rinfacciavano la tua diversità
dicendo con questo: l’omosessualità.
Difatti, loro usano il corpo delle femmine
come gli pare. Liberi di usarlo come gli pare.
Il corpo delle femmine è carne d’uso
ma il corpo dei maschi esige rispetto. E come no!
Questa è la loro morale. Se una femminella di strada
avesse assassinato uno dei loro
non la giustificherebbero perché immatura.
Ma in verità in verità in verità
quello per cui tu stesso ti credevi un diverso
non era la tua vera diversità.
La tua vera diversità era la poesia.
È quella l’ultima ragione del loro odio
perché i poeti sono il sale della terra
e loro vogliono la terra insipida.
In realtà, LORO sono contro-natura.
E tu sei natura: Poesia cioè natura.
E così, tu adesso hai tagliato la corda.
Non ti curi più dei giornali
– [la] preghiera del mattino – con le crisi di governo
e i cali della lira, e decretoni e decretini
e leggi e leggione. Io spero
che un’ultima sola grazia terrena ti resti ancora – per poco –
ossia ridere e sorridere. Che tu di là dove sei
– ma per poco ancora – di là, dal Nessun Posto
dove ti trovi ora di passaggio
che tu sorrida e rida dei loro profitti e speculazioni e rendite accumulate
e fughe dei capitali e tasse evase
e delle loro carriere ecc.
Che tu possa riderne e sorriderne per un attimo
prima di tornartene
al Paradiso.
Tu eri un povero
E andavi sull’Alfa come ci vanno i poveri
per farne sfoggio tra i tuoi compaesani: i poveri,
nei tuoi begli abitucci da provinciale ultima moda
come i bambini che ostentano di essere più ricchi degli altri
per bisogno d’amore degli altri.
Tu in realtà questo bramavi: di essere uguale agli altri,
e invece non lo eri. DIVERSO, ma perché?
Perché eri un poeta.
E questo loro non ti perdonano: d’essere un poeta.
Ma tu ridi[ne].
Lasciagli i loro giornali e mezzi di massa
e vattene con le tue poesie solitarie
al Paradiso.
Offri il tuo libro di poesie al guardiano del Paradiso
e vedi come s’apre davanti a te
la porta d’oro

Pier Paolo, amico mio
Roma, 13 febbraio 1976
ASCOLTA ALCUNI ACCENNI AL REQUIEM DI WOLFGANG AMADEUS MOZART
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Parla il premio Strega Siti: «Vi affascino con il male»

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LE NOTIZIE
Parla il premio Strega Siti:
«Vi affascino con il male»
Intervista L'Unità 6 luglio 2013

Il romanzo che giovedì sera al Ninfeo di Villa Giulia ha fatto razzia di voti, il premio Strega 2013, racconta la storia di un uomo giovane e incommensurabilmente ricco che, quando si spoglia, sembra «un animale di peluche mal ricucito»: è Tommaso, borgataro figlio di un detenuto, genio matematico che la cosca del padre ha deciso di trasformare in un gangster finanziario, mandandolo alla Luiss e dandogli una presenza fisica socialmente accettabile col tagliargli via, con operazioni che hanno lasciato immense cicatrici, 60 chili di troppo. Con quell’Io nuovo Tommaso opera ora in un mondo di lussi mirabolanti e crimini orribili, trasformando soldi sporchi in soldi puliti. E, entrato in contatto con uno scrittore di nome Walter Siti decide di consegnargli la sua storia. Walter Siti, 66 anni, modenese, docente universitario in pensione, esegeta di Pasolini (ne ha curato i Meridiani), autore di sette romanzi, compreso questo, in cui la componente omosessuale esplicita e strutturale è ora il nostro interlocutore.
Il titolo del suo romanzo, «Resistere non serve a niente», deriva da un commento che il protagonista, Tommaso, fa a proposito dell’ossessione sessuale del personaggio che nel libro si chiama Walter Siti. La parola «resistere» in Italia da un decennio ha un’altra eco, rimanda alla linea del Piave evocata da Saverio Borrelli. Scegliendo il titolo ci pensava? 
«La frase di Borrelli mi è venuta in mente e ho provato a leggerla contropelo. Esattamente come nelle prime pagine del libro, durante una scena di garrotamento, c’è la battuta atroce con cui uno di questi delinquenti prende in giro l’implorazione di quella ragazza siciliana, la vedova Schifani, ai funerali di Falcone. È come se in questo mondo alcune parole del bene venissero diabolicamente cambiate di senso. Dunque “resistere non serve a niente” è un specie di ripresa sarcastica di quella frase così significativa. Diceva Kafka che la letteratura è il salario per il servizio al demonio: interpreta in nero cose che la vita ci presenta in chiaro». 

In nota al romanzo ringrazia alcuni magistrati, giornalisti e finanzieri per l’aiuto che le hanno prestato. Quanta realtà c’è, in questo suo romanzo iper-reale?
«C’è stato un lavoro di documentazione per la terminologia finanziaria. E ho letto tutto ciò che si poteva sulla criminalità organizzata. Ciò che cercavo era capire come parlano. Però contatti diretti si potevano avere solo coi pentiti e loro, di quel mondo, ti danno una versione ormai edulcorata, moralistica. Il criminale che è tale non parla con te. E dunque ho provato a supplire. Nel mio lavoro non riesco a limitarmi a vedere le cose da fuori, devo entrare nelle anime e nelle menti dei personaggi. Capire l’effetto che fa il male, cosa ci sia di attraente in esso, è importante per imparare a combatterlo. Se il male non avesse un lato attraente chi lo praticherebbe?».

Quanto ai fatti, in che percentuale sono copie dal vero? È vero il nesso criminale tra mafia e alta finanza?
«Ho puntato alla distinzione tra lo storico e il romanziere di cui parlava, mi sembra, già Aristotele. Lo storico racconta le cose accadute, il romanziere quelle che potrebbero accadere. Non so davvero se c’è un legame tra mafie e finanza dei derivati. Ma suppongo che vista l’enorme quantità di liquidità in mano alla malavita, e vista l’oscurità in cui essa si muove, il legame possa esserci».

Parliamo del Walter Siti che - sia quello reale, sia un avatar - troneggia nei suoi romanzi. Prima mi levi una curiosità: quanto di lei c’è in realtà nell’altro personaggio del romanzo, Tommaso?
«Forse sono più Tommaso che W.S., anche perché Walter Siti nel romanzo parla poco di sé. Mentre la bulimia di cui ha sofferto Tommaso la conosco personalmente. E quel desiderio che lui prova per Gabriella, la donna disposta a concedersi per soldi, girato di senso l’ho provato nella mia vita. Certe frasi di Gabriella le ho dovute subire personalmente». 

Si è fatto un’idea del perché sia un suo tratto stilistico questo «Io» che trasloca nelle sue narrazioni?
«So solo che non riesco a fare la parte del narratore onnisciente. Ovvero quel narratore come Balzac cui nessuno chiede perché sappia la storia di Eugénie Grandet… Forse devo inocularmi la malattia per capirla e avere un legame di complicità coi miei personaggi. Un narratore ha sempre una complicità con loro, io però la metto in scena».

Autobiografismo, diari di sventure e malattie, discesa diretta dello scrittore sulla pagina sono fenomeni ricorrenti in queste stagioni letterarie. In cinquina tre romanzi, il suo e quelli di Perissinotto e Sparaco, riportavano a questo clima. Da critico letterario sa spiegarsi il perché?
«L’individuo è sempre meno sicuro di se stesso. Ci si costruisce un’individualità a pezzi, assemblando componenti più o meno glamour. L’individuo forte non c’è più: non c’è più il Padrone, ci sono sigle. E allora questa insicurezza individuale, in letteratura, al contrario, produce il bisogno di dire “Io ci sono, io c’ero”.»

Che rapporto c’è tra la rubrica di critica televisiva che tiene sulla «Stampa» e il mondo televisivo che troneggia in questo romanzo, come altrove nella sua opera?
«È la rubrica che è una filiazione, mi è stata proposta dopo «Troppi paradisi», romanzo che, nello scriverlo, mi fece scoprire quanti ircocervi, creature tra realtà e finzione, vengono creati dalla televisione».

Viene definito scrittore post-moderno. Le piace la definizione?
«Quando ho cominciato a scrivere nel 1982 ancora era una definizione poco usata, non inflazionata. Oggi mi sembra sorpassata e in fondo non vera. Siamo all’ultimo capitolo della modernità, piuttosto».

Nel Meridiano Pasolini da lei curato appare lo scritto con cui PPP nel 1968 annunciava che, arrivato in cinquina allo Strega con «Teorema», rinunciava all’ultima tenzone. Denunciando le manovre dell’industria e la fine della libertà culturale. Nel partecipare al premio Strega quel giudizio l’ha avuto in mente?
«Da questo punto di vista sono piuttosto ingenuo. Pasolini vivendo a Roma era consapevole di ciò che succedeva. Io ho spesso partecipato a premi letterari, ma sono stato scartato sempre perché troppo impegnato, o scomodo, o scabroso… Stavolta ho pensato: “Arrivato a 66 anni, ho poco da perdere. Se va bene, bene, se va male tutto resta uguale”».

All’indomani della vittoria come si sente?
«Ieri sera mi sentivo un cavatappi travestito da ballerina. Avevo quei flash in faccia e mi chiedevo “Ma perché mi fotografano?” Stamattina sono finalmente meno frastornato e, quindi, riesco a essere contento».
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Interviste celebri. Pasolini incontra Pound, di Marco Marchi

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LA SAGGISTICA
Interviste celebri. Pasolini incontra Pound
di Marco Marchi

Pasolini intervista Ezra Pound (1967)

Firenze, 10 luglio 2013 – È stato Enzo Siciliano, in quello che resta con tutta probabilità il suo libro più bello, la Vita di Pasolini, a testimoniare della iniziale indisponibilità di Pasolini a riconoscere la grandezza di Pound: diciamo pure della sua insofferenza sub specie ideologica ad affrontare il caso, ad accedervi veramente tramite quella costituitasi chiave preferenziale deliberatamente bilanciata tra 'passione e ideologia' e così, in tali termini, efficiente. Una chiave d’accesso soggetta tuttavia ai mutamenti del tempo, sensibile e storicizzabile anch’essa, disposta ad assestamenti, perfino in balia di stati d’animo.
L’episodio narrato da Siciliano è rivelatore: «Quando lo conobbi, ed era il 1956, avevo appena scritto un articolo su Le ceneri di Gramsci,  il singolo poemetto stampato nella serie di “Nuovi Argomenti“ di Alberto Carocci e Moravia. Lo incontrai nella sua casa romana di via Donna Olimpia. Mi chiese cosa leggessi, e gli parlai di Ezra Pound. Avevo letto e riletto i Pisan Cantos. Mi accanivo a tradurre qualche stralcio da Rock-Drill 85-95 de los cantares. Ebbe una reazione furiosa: Pound razzista, fascista eccetera». «Quel primo incontro fra noi – continua Siciliano – andò male. Quanto a me, militavo a sinistra: ma perché avrei dovuto negare che Pound fosse un grande poeta? In lui leggevo la tragedia della storia e dell’umanesimo vissuta dentro la barbarie della guerra dei nazisti e dei fascisti, Pound era il barbaro penitente, messo tangibilmente a nudo nella gabbia di Pisa, un Whitman redivivo che ha perso e lasciato sfumare in nero la panica bellezza del vivere».
E il problema fondamentale, l’interrogativo più inquietante e più bisognoso di risposte è proprio quello proposto dal giovane Siciliano: l’impossibilità di sacrificare sull’altare dell’ideologia l’autoevidente, luminosa e incontrovertibile grandezza di un autore. Siamo, si ricordi, a metà degli anni Cinquanta: gli anni in cui Pasolini è un autore letterario, meglio un poeta, un poeta che a varie forme della poesia si affida, ma non ancora un regista; un poeta impegnato, un poeta ideologizzato e già sufficientemente eretico e imbarazzante per i suoi, per la sua parte. Le ceneri di Gramsci non sono ancora diventati la raccolta edita da Garzanti (lo sarà l’anno dopo), ma il tema della coniugazione storia-coscienza-poesia costituisce già per Pasolini un banco di prova ineludibile e prima ancora una base fondante.
C’era in Pasolini, detto in altro modo, nel Pasolini di quegli anni, la fiducia – sia pure drammaticamente contesta ed incrinata, dubitata e contraddetta – in una possibilità di incidere sull’evoluzione stessa di quella storia, di poter offrire un determinato contributo di collaborazione a un vero progresso umano, ad un progetto migliorativo gramscianamente societario nel cui cerchio includere, come sempre in Pasolini accade, le trame di una propria esistenza, di una propria visione in nero (come in Whitman, come in Pound, a ben vedere), infera e invece desiderosa di luci, di trasparenze e iridescenze del vivere, di riscatti umani e prima ancora di compartecipazioni, di vicende comuni (magari proprio quelle concesse dalla poesia, sconfinate e inclusive, senza distinzioni tra la vita e la morte).
«Passarono gli anni – prosegue la rievocazione di Siciliano –. Pasolini incontrò Pound: ne risultò una testimonianza, mai più replicata, d’ottima televisione, un’intervista. Nelle rughe, nelle sclere secche del vecchio Pound c’era lo sconvolgimento di un Occidente che si vedeva travolto dalle proprie stesse ragioni di vita, nella propria sapienza conoscitiva. E Pasolini gli stava di fronte: le sue domande specchiavano una medesima disperazione, la stessa apocalisse –, lontani entrambi da qualsiasi connotazione di ideologia e politica, entrambi vivi come esorbitanti poeti fuori norma, disobbedienti a qualsiasi galateo di sanità letteraria, fiduciosi che la Storia comunque andasse per i propri strani sentieri avanti».
Ancora «geni a confronto», forse, come Cavalcanti e Pound, o come Dante e Pasolini, con uno stesso desiderio di conoscersi e di conoscere, di essere vicendevolmente illuminati e rassicurati dalla propria genialità ‘singolare’, inevitabilmente separata e distante e insieme universale e rappresentativa proprio all’insegna della ispirazione, della chiamata della poesia, di una stessa ansia a quella vocazione umanamente incaricata ed essenziale collegata. «Era una duplice verità che veniva a galla – lo dice benissimo Siciliano –, due solitudini che si specchiavano e si cercavano, più moderni di ogni moderno, fratelli che non sono più». E se è vero – come Siciliano conclude – che la poesia di Pasolini rischia l’incomprensibilità «fuori dalla percezione della Storia del Novecento», è altrettanto vero che Pasolini non meno di Pound, effettuando la loro disobbedienza artistica, protestando, affermando con coraggio davvero intrepido disappartenenze a molte cose del mondo nel nome e attraverso la poesia, in realtà obbediscono a richiami cogenti, a ragioni profonde.
L’assenza nel poeta produce presenza: una sorta di «mysterium mortis», per citare un titolo di Ladislaus Boros, una «kenosi del poeta» confidente nella capacità di esprimere se stessi e il mondo morendo a se stessi e al mondo. Esiliato e morto al mondo Dante, esiliato e morto al mondo Cavalcanti, ma tutt’altro che scomparsi i frutti della loro applicazione, le cose viste dai loro strani, distanziati e implacabili sguardi. Il poeta conosce bene le condizioni notturne del suo operare; ha confidenza con questi stati della creazione in apparenza funerei, sommersi e nostalgicamente attratti, e invece produttivi, vitali, generatori di illuminazioni, avanzamenti e aperture: tali anche nella «disperazione» in atto, nell’«apocalisse» vissuta in corpo e anima, nell’intimo della loro paradossale e irrefutabile «esorbitanza» artistica, della loro solitudine imposta.
Ha scritto Pound di Cavalcanti nella sua antica Introduzione a tradotti Sonetti e ballate, coniugando vita ed esercizio della poesia: «Dino Compagni, che lo conobbe, ci ha lasciato forse la più accurata descrizione dicendo che Guido era “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario”, io almeno me lo raffiguro così. E così lo ritroviamo nelle sue poesie». Ha scritto a sua volta Pasolini, riferendosi a Pound: «Pound chiacchiera nel cosmo. Ciò che lo spinge lassù con le sue incantevoli ecolalie è un trauma che lo ha reso perfettamente inadattabile a questo mondo. L’ulteriore scelta del fascismo è stata per Pound un modo sia per mascherare la sua inadattabilità, sia un alibi per farsi credere presente. In che cosa è consistito questo trauma? Nella scoperta di un mondo contadino all’interno di un mondo industrializzato, di molti decenni in anticipo sull’Europa. Pound ha capito, con abnorme precocità, che il mondo contadino e il mondo industriale sono due realtà inconciliabili: l’esistenza dell’una vuol dire la morte (la scomparsa) dell’altra». E si dica se dietro a queste analisi e a questi giudizi non si intravedano le filigrane dell’autobiografia, le consonanze della forse inevitabile personalizzazione di ogni giudizio.
Sconfinamenti, slittamenti, differimenti. Creature davvero strane, i poeti: creature tra fantasia e realtà, artificio e naturalezza, obbedienza a richiami cogenti e desiderio di libertà, infrazione delle regole e tensione a più ampie ed accettabili dimensioni dell’esistere; e ancora creature solitarie e con gli altri, tremendamente attaccate all’ombelico della loro anima e insieme smaniose di orizzonti, con lo sguardo concentrato su una carta piena di segni e nel contempo protesi sull’infinito…
Ezra Pound insieme al compositore Gian Carlo Menotti
al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel giugno 1971
«Lassù», come dice Pasolini, o «laggiù», come dirà in un’altra circostanza, poco importa. Di là, da quell’altrove, Pound e Pasolini ascoltano suoni, i suoni di ciò che Pindaro chiamava la «cetra d’oro» e li trasmettono ad altri, umanamente li partecipano, li perpetuano, modulando le loro forme e i loro ritmi su quella «cetra» che resiste, armonica e musicale, melodica e attraversata da mani, tutt’altro che da appendere ai rami, anche nella franta, disperata e apocalittica modernità.
Ha dichiarato Pound intervistato da Donald Hall a proposito della composizione dei Cantos: «Il problema era trovare la forma (…). Doveva essere una forma tale da non eludere qualcosa solo perché non vi si adattava». E ancora: «È difficile scrivere un paradiso quando è evidente che faresti bene a scrivere un’apocalisse»; e di nuovo, proprio in riferimento a Villon e a Cavalcanti, musica e temi musicali che davvero si ritrovano in spartiti: «Volevo la parola e la melodia. Volevo della grande poesia da cantare». Per mio conto vorrei solo aggiungere che mi è capitato una volta di intitolare uno dei miei saggi su Pasolini Moralità dell’indecenza, proprio a sottolineare, in totale sintonia con la figura e con l’opera di Ezra Pound, la sua totale obbedienza alle ragioni oscure, misteriose e incoercibili della poesia.
Sosteneva Heine, un poeta, che dove le parole finiscono inizia la musica: come in Pound esemplarmente, testualmente accade, con l’interruzione dei versi e con l’improvviso, inaspettato subentro di uno spartito. Heine affermava, volendo, una sorta di primato, ma per noi, soprattutto, sulla scia delle considerazioni sul ritmo di cui scrive Ezra Pound occupandosi di Cavalcanti, un possibile parallelismo, una  declinabilità di valore operativo: una verificabile, sinergica e determinante interazione in cui le note dell’invisibile spartito del testo non solo seguono e inseguono l’effetto poetico, tendendo a ineffabili, affatto musicali e del tutto scorporati traguardi della parola, ma agiscono nel corpo stesso di quella parola, nel suo farsi, nel suo costituirsi ed inverarsi, nel suo fisico incarnarsi come realtà.
Ed eccoci dove inizia la musica ma le parole non finiscono e anzi cominciano pure loro: in quei molto indagati e molto misteriosi spazi dell’avantesto, in cui un’ispirazione musicale, sonora, fonica o addirittura intonazionale, è in cerca dei suoi significati, o in quelli analogamente ispirativi e già concretamente generativi, in cui il processo in atto sembra ormai consistere: una sorta di danza e controdanza tra senso e suono, in un necessitato, instabile ed esigente messaggio in fieri che progressivamente si definisce, e una sua accettabile formalizzazione espressiva e comunicante, appunto, fino all’ispirazione che musicalmente non è affatto e per sempre un attimo, un momento raggiunto e subito imperituro, ma un continuo, inesorabile e insoddisfatto variantismo di essere mutante. Un essere mutante perennemente pregato, corteggiato, inseguito e cacciato, destinato – come anche i percorsi di due ulteriori «geni a confronto» certificano – a durare intere vite: intere vite di uomini-poeti.
E vengono  a questo punto urgentemente in mente alcuni versi di Pier Paolo Pasolini datati 1966, anteriori di un anno rispetto alla celebre intervista a Pound realizzata per la Rai nell’autunno del 1967 (il 23 ottobre) e dalla Rai trasmessa nel 1968 il 19 nell’ambito della rubrica Incontri: versi provenienti da un dibattuto secondo Novecento della crisi, della ridefinizione poetica dei ruoli e delle pertinenze, della caduta delle speranze e dell’accresciuta indecifrabilità moderna degli eventi. Pasolini si affida ancora all’io, a un io da autoritratto tragicamente storicizzato, avviato ai traguardi crudelmente sfregianti da «tetro entusiasmo» di chi alla musica e alla poesia come a speranze totali si era per destino rivolto: ai suoni del «celeste Bach», ma anche, con la musica di Bach promossa a esistenziale colonna sonora del reale, a quel fisico, anonimo e irresistibile «brusio della vita» che la sera molte volte, già negli anni giovanili e prepotentemente narcissici di Casarsa, gli recapitava; lui il poeta settentrional-regressivo, pascolian-friulano di «Sera imbarlumida tal fossàl / a cres l’aga…» e del «nini muàrt», lui partecipe e discusso testimone civile di eventi storici e intime eclissi ed apocalissi costantemente misurate tra corpo e musica, perso dietro all’apparizione cromatica di un glicine, di un semplice e sontuoso albero che profuma.
«Io vorrei – ecco la sua voce di poeta spoglia e pedagogicamente atteggiata, ma che pure così ritrova la sua musica – soltanto vivere / pur essendo poeta / perché la vita si esprime anche solo con se stessa. / Vorrei esprimermi con gli esempi. / Gettare il mio corpo nella lotta.  / Ma se le azioni della vita sono espressive, / anche l’espressione è azione. / Non questa mia espressione di poeta rinunciatario, / che dice solo cose, / e usa una lingua come te, povero diretto strumento; / ma l’espressione staccata dalle cose, / i segni fatti musica, / la poesia cantata e oscura, / che non esprime nulla se non se stessa».
 «Non farò questo con gioia – continua l’autore non delle Ceneri di Gramsci ma di Poeta delle Ceneri– Avrò sempre il rimpianto di quella poesia / che è azione essa stessa, nel distacco dalle cose, / nella sua musica che non esprime nulla / se non la propria calda e sublime passione per se stessa. / Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, / che io vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti / dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, / nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto / sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta / innocenza di querce, colli, acque e botri, / e lì comporre musica / l’unica azione espressiva / forse alta, e indefinibile come le azioni della realtà».
Un rimpianto, la musica, e un desiderio inestinguibile; un poeta in una torre e un poeta in fondo a un pozzo (secondo l’intervista di Pasolini  a Pound, probabilmente svolgendo in quella immagine isolante, in ascolto e operosa, una suggestione di Eliot: la dedica in calce a The Waste Land), per via di concentrate verticalità contrapposte a distese vastità, a «ricordare», a «macinare» come dice Pasolini a Pound, o a «rimasticare», come dice Pound replicando, il ricordo della propria vita.
Il giudizio di Pasolini su Pound è ormai chiaro, si è fatto adulto, trasparente, pronto sintonicamente e fraternamente a ridefinirsi a specchio di un già avvenuto, autorizzante confronto da «odi et amo» come quello intrattenuto da Pound con Whitman; pronto a credere scandalosamente, oltre ogni abiura e ancora nel nome della poesia, in agnizioni, trasformazioni, dialoghi: per «amore della vita» e nient’altro, se – come la poesia di Ezra Pound ci assicura – «Quello che veramente ami non ti sarà strappato».

Dal Canto LXXXI 
(Strappa da te la vanità...)

Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie
Quello che veramente ami non ti sarà strappato
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
Il mondo a chi appartiene, a me, a loro, o a nessuno?
Prima venne il visibile, quindi il palpabile Elisio, sebbene fosse nelle dimore d'inferno,
Quello che veramente ami è la tua vera eredità

La formica è un centauro nel suo mondo di draghi.
Strappa da te la vanità, non fu l'uomo
A creare il coraggio, o l'ordine, o la grazia, Strappa da te la vanità, ti dico strappala
Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo
Nella misura dell'invenzione, o nella vera abilità dell'artefice.
Strappa da te la vanità, Paquin strappala!
Il casco verde ha vinto la tua eleganza.

«Dòminati, e gli altri ti sopporteranno» Strappa da te la vanità
Sei un cane bastonato sotto la grandine,
Una pica rigonfia in uno spasimo di sole,
Metà nero metà bianco
Né distingui un'ala da una coda
Strappa da te la vanità Come son meschini i tuoi rancori
Nutriti di falsità. Strappa da te la vanità,
Avido di distruggere, avaro di carità,
Strappa da te la vanità, Ti dico, strappala.

Ma avere fatto in luogo di non avere fatto questa non è vanità

Avere, con discrezione, bussato
Perché un Blunt aprisse Aver raccolto dal vento una tradizione viva
o da un bell'occhio antico la fiamma inviolata
Questa non è vanità. Qui l'errore è in ciò che non si è fatto,
nella diffidenza che fece esitare.

(traduzione di Alfredo Rizzardi)


(Pull down thy vanity...)

What thou lovest well remains, the rest is dross
What thou lov'st well shall not be reft from thee
What thou lov'st well is thy true heritage
Whose world, or mine or theirs or is of none?

First came the seen, then thus the palpable Elysium, though it were in the halls of hell,
What thou lovest well is thy true heritage

The ant's a centaur in his dragon world.
Pull down thy vanity, it is not man
Made courage, or made order, or made grace, Pull down thy vanity, I say pull down.
Learn of the green world what can be thy place
In scaled invention or true artistry,
Pull down thy vanity, Paquin pull down!
The green casque has outdone your elegance.

«Master thyself, then others shall thee beare» Pull down thy vanity
Thou art a beaten dog beneath the hail
A swollen magpie in a fitful sun,
Half black half white
Nor knowst'ou wing from tail
Pull down thy vanity How mean thy hates
Fostered in falsity, Pull down thy vanity,
Rathe to destroy, niggard in charity,
Pull down thy vanity, I say pull down.

But to have done instead of not doing this is not vanity

To have, with decency, knocked
That a Blunt should open To have gathered from the air a live tradition
or from a fine old eye the unconquered flame
This is not vanity. Here error is all in the not done,
all in the diffidence that faltered.

Ezra Pound
(da Canti Pisani, LXXXI, versi finali)


Massimo Cacciari parla di Ezra Pound presso la sua tomba veneziana, breve filmato biografico
(da "Intelligenze scomode del Novecento", RaiCultura)
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Dalla Calabria bandita di Pasolini a quella tradita della Lanzetta, di Gioacchino Criaco

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LA SAGGISTICA
Santa Maria dell'Isola, presso Cutro (Crotone)

Dalla Calabria bandita di Pasolini
a quella tradita della Lanzetta
di Gioacchino Criaco
http://www.zoomsud.it/ - Martedì, 9 luglio 2013

Scriveva Pasolini nella sua lettera dalla Calabria: "Anzitutto a Cutro, sia ben chiaro, prima di ogni ulteriore considerazione, il quaranta per cento della popolazione è stata privata del diritto di voto perché condannata per furto: questo furto consiste poi nell'aver fatto legna nella tenuta del barone.
Ora vorrei sapere che cos'altro è questa povera gente se non 'bandita' dalla società italiana, che è dalla parte del barone e dei servi politici? E appunto per questo che non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuole perpetuare questo stato di cose, ignorandole, mettendole a tacere, mistificandole".
 La Lanzetta, nella sua missiva da Monasterace, dice di lasciare per: “le ragioni dei principi che stanno alla base della mia esistenza umana, professionale e amministrativa: lavoro, giustizia sociale, cultura e rispetto dell’uomo e della donna in quanto tali. Principi che ho appreso dai miei genitori e da molti uomini e donne che hanno sacrificato sacrificati la loro vita per rispettare i principi su cui avevano fondato la loro esistenza. Purtroppo queste scelte, quando non vengono comprese, conducono anche a perdere le amicizie di una vita e al peso della solitudine, ma sono il pilastro su cui è possibile poggiarsi per conservare la Libertà del proprio agire umano e amministrativo”.
Le lettere rivelano la stessa Calabria, a distanza di mezzo secolo. Una terra fuori dal contesto nazionale, per fatti suoi nemmeno di frontiera. L’una “bandita”, incompresa, ignorata e mistificata. L’altra tradita dal suo interno e, sostanzialmente, abbandonata al suo destino dalla politica nazionale, vicina solo a parole e parate. L’una, comunque, amata e difesa, nella sua gente, da una generazione di intellettuali liberi da pregiudizi, impegnati e curiosi. L’altra trattata con superficialità, se non vilipesa, da una letteratura e un giornalismo oziosi, da scrivania. L’una con una politica che capiva i bisogni, ed era vicina alla gente, e anche se non risolveva comprendeva, Amendola incredulo raccontava del pane nero di Africo. L’altra, con una politica che prescinde dai calabresi e parla solo ai rappresentanti istituzionali, possibilmente quando sono accomunati dalle stesse bandiere.
L’una, romantica, di quando il popolo si ribellava alle regole contro l’oppressione del padrone e dei servi politici. Di quando, a dispetto delle tesi antropologiche e di quelle apocalittiche, della ‘ndrangheta, dal Pollino fino al passo della Limina non c’era nemmeno la puzza, nel crotonese i reati più gravi erano il pascolo abusivo e il furto di legna e Catanzaro rincorreva il suo record mondiale di assenza di omicidi, due in 40anni, Silipo e Malacaria (per altro, forse, di matrice politica). Di un tempo in cui si lottava per le terre e le idee, in modo spontaneo senza il gagliardetto di un partito o di un’associazione. Di quando i calabresi erano ancora vivi.
L’altra, la nostra, stracciona e opportunista, in cui il popolo non esiste più, la mafia è considerata immanente e o stai di qua o di là. E non c’è spazio per proteste o discussioni, e di altro non si può parlare se non dentro un dibattito soffocante di mafia e antimafia.
E poi, non ci sono più i Pasolini, gli Amendola. Non esistono figure di riferimento né a destra né a sinistra. Il giorno della Civettaè tramontato oltre Gomorra, il popolo non ruba per sfamarsi ma per avere l’ultimo iPhone, e la gente se ne frega del voto senza bisogno che le sia tolto il diritto. E nel reggino, fra dimissioni e scioglimenti, votare è diventato inutile.
Così, evito sempre di essere amaro, ma stavolta ci vuole. Non so se alla fine la Lanzetta mollerà davvero o se, in un tripudio di speranze, con la Boldrini si rilancerà la sfida. Non ho retro-pensieri, o notizie altre, ma credo che il sindaco di Monasterace non voglia mollare, solo, per il voto contrario di un suo assessore, alla costituzione di parte civile in un processo. Se lascia, lascerà perché è sola, come sole sono le amministrazioni comunali calabresi, prive di mezzi per dare risposte concrete, lontane da un popolo stanco, che non crede più a nulla, sommerso dalle chiacchiere e senza nemmeno un bosco in cui rubare legna o un barone contro cui bestemmiare. Banditi e abbandonati, abitanti di un mondo a parte, con politici, istituzioni e intellettuali che non sanno più di che colore sia il pane calabrese.

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Gli “Stroligut” per UdinEstate 2013, Centro Studi Pasolini di Casarsa

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Casarsa della Delizia. Panorama, 1939

Gli “Stroligut” per UdinEstate 2013
Centro Studi Pasolini di Casarsa
Interessante focus pasoliniano dal titolo Le muse a piedi scalzi all’interno del progetto Libri fuori controllo, ideato per l’estate del Comune di Udine da quattro librerie indipendenti (Kobo shop, Art books and records, La Pecora Nera, libreria per ragazzi, Libreria editrice Odos e libreria martincigh). Nella suggestiva cornice all’aperto della Loggia del Lionello, per tre mercoledì di seguito, dal 10 al 24 luglio 2013, protagonista  assoluto è stato il libro ‘vivo’, oggetto e soggetto di molteplici relazioni, tra presentazioni, intervalli musicali e mostre dedicate. Un libro vivo e soprattutto raro, perché, per questa occasione speciale, scelto tra le pubblicazioni autoprodotte e le chicche da bibliofili, di piccoli editori indipendenti, stampatori artigiani o d’artista.
Ad aprire la piccola rassegna sono state le cinque rivistine che, con un primo nome di “Stroligut di cà da l’aga” e poi con successive intitolazioni diverse, Pier Paolo Pasolini promosse e finanziò dall’aprile 1944 al giugno 1947, nella fertile stagione del suo apprendistato friulano e a ridosso delle esperienze della scuola di Versuta e dell’”Academiuta di lenga furlana”. A raccontarne la vicenda editoriale e i contenuti è stata Angela Felice, direttore del Centro Studi Pasolini di Casarsa, nel cui archivio si conservano le copie originali di quei rarissimi fascicoli. Nel loro insieme essi offrono  testimonianze preziose della poesia e del pensiero del Pasolini casarsese e della nascita del neofelibrismo friulano e costituiscono una delle prime, più serie e generose riflessioni sul destino di una cultura regionale dentro la cornice italiana e romanza e sul senso di un’azione autonomistica. [...]
La micro-rassegna di Libri fuori controllo ha conosciuto poi altri due appuntamenti:  il 17 luglio, con  un incontro sulle Biblioteche e sulle autoproduzioni, anche di poesia (con Romano Vecchiet, Chiara Carminati, Aldina De Stefano e Loris Zecchin) e infine, il 24 luglio, con un’esplorazione dei cataloghi d’arte e dei libri di viaggio, con Vania Gransinigh, Anna e Valentino Turchetto, Paolo Toffolutti, Aldo Colonnello, Serenella Castri e gli Arbe Garbe.
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Degrado del paesaggio: la lucida analisi di Pier Paolo Pasolini, di Fabio Balocco

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La città di Orte
Degrado del paesaggio:
la lucida analisi di Pier Paolo Pasolini
di Fabio Balocco

Ci sono uomini le cui opere resistono al tempo. Magari si impolverano, ma se ci soffiate sopra tornano splendenti come quando sono nate. Sono uomini che sanno davvero analizzare e capire la realtà.
Quando riguardo ‘La dolce vita’ (e mi capita spesso), ogni volta mi stupisco della capacità di Federico Fellini di andare a fondo di quella realtà, di vedere il vuoto che si nascondeva tra le pieghe dell’Italia del boom.
Pier Paolo Pasolini era un altro di questi grandi uomini, un uomo che vedeva la fine dell’Italia contadina con i suoi antichi valori soppiantata dall’omologazione della rampante economia capitalista, con la televisione a fare da apripista. Anche con gravi ripercussioni sull’ambiente (come non ricordare la scomparsa delle lucciole? “Il fenomeno è stato fulmineo e sfolgorante: dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato.”) e soprattutto sul paesaggio. La civiltà dei consumi (“il vero fascismo”) distrugge il paesaggio interiore degli uomini esattamente come quello esteriore.
Nel 1973 Pasolini realizzò un film per la Rai pressoché sconosciuto “Pasolini…e la forma della città”. È stupefacente l’attualità che ancora oggi sprigiona da quelle immagini ed è davvero straziante che egli affermasse sconsolato che oramai non c’era più nulla da fare, che il capitalismo omologante l’aveva avuta vinta in pochi anni. Profetico: il degrado è continuato galoppante e l’Italia di allora sembra quasi un gioiello rispetto al degrado di oggi.
Pasolini fu espulso da partito comunista. Alla sua morte, De André gli dedicò la magnifica “Una storia sbagliata”.
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Massimo Recalcati: Il complesso di Telemaco. L'inferno di Salò

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Sul set di "Salò"

Massimo Recalcati: Il complesso di Telemaco
Attractor Factor Cultura
http://fattorediattrazione.blogspot.it/ - 18 aprile 2013

UN SENTITO RINGRAZIAMENTO A MANOLO TRINCI




L'inferno di Salò

Un ultimo riferimento cinematografico può sintetizzare ancora più radicalmente il fenomeno dell'evaporazione del padre e i suoi effetti nel nostro tempo. Penso all'ultimo film-testamento di Pier Paolo Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Pasolini lo concepisce volutamente come un film impossibile da vedere. Accade in gran parte dell'arte contemporanea più estrema: il reale senza veli del Terrificante costringe lo spettatore a indietreggiare nell'angoscia; l'orrore della scena fa abbassare gli occhi, rende impossibile lo sguardo, come in una delle ultime scene, dove una vittima viene sodomizzata e, nello stesso tempo, prima di essere uccisa senza pietà, scalpata brutalmente con un coltello. L'ultimo racconto di Pasolini vuole esibire il reale del godimento senza filtri simbolici: supplizi sadici, coprofagia, umiliazioni, sevizie, assassinii gratuiti. 
"Tutto è buono quando è eccessivo," afferma bataillianamente uno dei quattro libertini sadici nella prima scena del film. Le vittime appaiono come puri strumenti al servizio della sola Legge del godimento: corpi straziati, sgozzati, martoriati, bruciati, torturati, ammazzati cinicamente. In questo universo senza Dio, non c'è salvezza, non c'è orizzonte, non c'è desiderio. Tutto si consuma nel chiuso claustrofobico della volontà di godimento. 
Mentre per un lungo tempo della propria opera Pasolini aveva fatto valere una versione rousseauiana e batailliana del corpo sessuale come potenza trasgressiva che sfida la dimensione repressiva e coercitiva della legge nel nome di un ritorno (impossibile) alla Natura, in Salò egli sembra prendere congedo da questa rappresentazione del conflitto tra la Legge e il desiderio riconoscendo il culto del godimento e la logica del suo puro dispendio - presente in Sade e teorizzata da Bataille - sono divenuti un regime di amministrazione e manipolazione biopolitica dei corpi sotto la nuova Legge dettata dal discorso del capitalista: il sesso compulsivo, l'affermazione di una libertà senza Legge, la ripetizione eternizzante di tutti gli scenari sadiani mostrano che il nostro tempo ha fatto del godimento un imperativo che anziché liberare la vita la opprime rendendola schiava. (1) 
In questo risiede la denuncia politica radicale che attraversa Salò. Non si tratta affatto come aveva pensato Cesare Musatti di un rigurgito della sessualità perversa-polimorfa di fronte al fallimento di un accesso normativo a una sessualità pienamente genitale che rivelerebbe il fantasma inconscio del suo autore, (2) ma del tentativo, assai più "alto", di descrivere l'inconscio del discorso capitalista come radicale distruzione dell'Eros del desiderio (3). Non si tratta affatto della messa in scena del teatrino privato che caratterizzerebbe il fantasma perverso di Pasolini - secondo una applicazione meramente patografica della psicoanalisi all'opera d'arte -, ma dell'esibizione dell'"eccesso" come affermazione di una Legge che rifiuta ogni limite e che qualifica la degradazione neocapitalista del corpo erotico e mero strumento di godimento. Non si tratta di una rappresentazione provocatoria della sessualità polimorfa dell'infanzia, ma di un godimento disperato e totalmente anti-erotico che senza rispetto alcuno nei confronti della Legge della castrazione simbolica si impasta rovinosamente con la pulsione di morte. Non è questa una delle cifre fondamentali del nostro tempo, del tempo in cui sembra trionfare l'imperativo a godere come unica forma della Legge?
Avendo visto Salò una sola volta da giovane, nel 1976, avevo memorizzato erroneamente una scena in cui una ragazza e un ragazzo, mentre venivano fatti affogare in un mastello di merda, reagivano alla loro morte imminente l'una con il segno della croce e l'altro alzando il pugno chiuso. Dopo aver recentemente rivisto il film di Pasolini mi sono reso conto che questa scena non esiste, ma era solo il frutto di una mia combinazione inconscia di altre due presenti nel film. In una di queste una ragazza si trova immersa nella merda e invoca il Dio cristiano - "Dio, Dio, perché ci hai abbandonati?" -, mentre in un'altra un milite di Salò viene scoperto mentre fa l'amore con una serva - ovvero trasgredisce la Legge che imponendo che vi sia solo godimento vieta paradossalmente la possibilità dell'amore - e viene crivellato brutalmente di colpi di pistola. Prima di morire egli ha il tempo di alzare fieramente il pugno chiuso. Questo "errore della memoria" contiene in realtà un'interpretazione soggettiva che mi pari resti fedelissima alla narrazione pasoliniana: il discorso capitalista affoga nella merda e nel sangue gli ideali (cristiani e comunisti) in nome del godimento come unica forma paradossalmente possibile dell'Ideale e della Legge. 
Più precisamente, Pasolini raggiunge Lacan quando mostra come nella perversione il soggetto viene eletto alla dignità di un nuovo Dio, di un Dio che ha un potere assoluto sull'Altro, di un Dio del godimento che annulla ogni senso del limite. Non è forse questa l'ambizione suprema che abita il terribile quartetto di Salò? Lo dichiara espressamente Pasolini stesso in una intervista sul marchese de Sade, rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo, quando afferma che "i libertini, nell'adoperare i corpi delle loro vittime come cose, non sono altro che dei in terra, cioè il loro modello è sempre Dio". (4)  
Come in Moretti (5), anche nell'ultimo film di Pasolini i simboli del cristianesimo e del comunismo naufragano miseramente. Mentre però Moretti evidenzia i sintomi mentali del nostro tempo (afasia, amnesia), Pasolini illustra focaultianamente l'ontologia del corpo che sottende questi sintomi, ovvero la riduzione perversa del corpo stesso a pura macchina sadiana di godimento. Per questo il nostro tempo - così come viene anticipato profeticamente da Salò - è il tempo in cui gli ideali si rivelano inconsistenti, salvo quello del godimento (di morte) come fine ultimo della vita. "Non sai che noi vorremmo ucciderti mille volte?" grida uno dei torturatori in faccia a una vittima terrorizzata. La macchina del discorso capitalista consuma infinitamente se stessa così come accade negli scenari eternamente ripetitivi e claustrofobici del marchese de Sade: la loro serialità anonima mostra come il godimento debba ritornare sempre allo stesso posto per scongiurare l'evento della morte. (6) Si tratta di mostrare che la sola cosa per cui vale la pena vivere è il proprio godimento, che non esiste altra Legge al di fuori di quella imposta dall'imperativo del godimento. Questo è il contenuto profondamente perverso di Salò e questa è la posta in gioco decisiva del nostro tempo. 
Per cosa vale la pena vivere? Esiste una risposta convincente a questa domanda, alternativa a quella sadiana? Voglio dire: esiste una alternativa etica a questa logica che non sia il ricorso moralista al "buon-senso" o all'universalità astratta di una ragion pratica di matrice kantiana? Esiste, intendo, una alternativa etica che può opporsi con forza all'affermazione del godimento cinico come unico valore della vita? Non è questa una domanda decisiva per il nostro tempo che promuove il godimento dell'Uno come beatificazione terrena della vita? E' possibile un altro avvenire rispetto a quello previsto dalla macchina del discorso del capitalista, dalla macchina impazzita del godimento? Non è questa la risposta che si attendono da noi le nuove generazioni? Esiste un Altro godimento, rispetto a quello libertino rappresentato da Pasolini in Salò, che possa rendere la vita degna di essere vissuta?
L'indebolimento e la crisi generalizzata del discorso educativo fanno emergere la dimensione traumatica del godimento sganciato dalla Legge della castrazione. E' il tema clinico che ho sviluppato ampiamente ne L'uomo senza inconscio: nel tempo del declino dell'Altro simbolico, del naufragio dell'Ideale, del suo smerdamento senza ritorno, il godimento mortale sembra non trovare più argini simbolici adeguati. Se l'Ideale aveva la funzione di orientare il godimento differendone il soddisfacimento, canalizzando positivamente la sua forza pulsionale, il suo tramonto sembra lasciare l'esistenza sprovvista di bussola. Nondimeno la pratica della psicoanalisi non può fomentare il recupero nostalgico dell'Ideale. Essa punta piuttosto sul desiderio come possibilità di realizzare  - grazie all'apporto della Legge della parola e al rifiuto del godimento mortale - un godimento nuovo, supplementare, un godimento Altro, un Altro godimento rispetto a quello mortale che Lacan nomina col termine plusgodere. 
Quello che dobbiamo notare oggi è che l'indebolimento dell'azione normativa del Simbolo ha reso la stessa trasgressione un abito conformista della pulsione. Il godimento fine a se stesso è una forma radicale dello spirito più reazionario. E' molto più trasgressivo giurare amore eterno che passare da un corpo all'altro senza alcun vincolo amoroso. E' molto più trasgressiva l'esperienza della fedeltà allo Stesso che non il culto aleatorio del Nuovo. E' molto più trasgressiva l'apparizione del senso del pudore che non la sua estinzione. Niente, infatti, sembra più degno di risultare osceno! Il proliferare del godimento sganciato dalla Legge della parola mostra che l'azione del simbolico non è più in grado di temperare il reale del godimento che invece prolifera illimitatamente. Il sentimento dell'osceno implica, infatti, una credenza nel limite, nel valore etico del pudore, mentre nell'epoca del trionfo del disincanto cinico e narcisista, provocato dall'affermazione del discorso del capitalista, questa credenza è destinata a eclissarsi e la nostra epoca diviene quella del godimento in eccesso, l'epoca dei traumi.

Trascrizione tratta da "Il complesso di Telemaco",
di Massimo Recalcati, psicoanalista, classe 1959, Feltrinelli, 2013.
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Note:

1 - E' quello che nota puntualmente Antonio Tricomi nel suo eccellente lavoro sull'opera di Pasolini: "La logica del dispendio non è più una alternativa praticabile in età di neocapitalismo trionfante. Se, per esempio, Bataille aveva potuto credere di dover riconoscere alla lordura un incredibile valore trasgressivo, ora Pasolini è costretto ad accorgersi che anche questa è strumento del potere: i produttori costringono i consumatori a mangiare merda". A. Tricomi, Sull'opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005, p. 421.
2 - C. Musatti, Il Salò di Pasolini regno della perversione, in "Cinema Nuovo", n. 239, gennaio-febbraio 1976.
3 - Tentativo la cui importanza cruciale non sfugge invece a G.C. Ferretti, Pasolini. L'universo orrendo,  
Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 106 - 110. Sul concetto lacaniano di "discorso del capitalista", rinvio a M. Recalcati, L'uomo senza inconscio, cit., in particolare parte prima.
4 - Citazione tratta da A. Tricomi, Sull'opera mancata di Pasolini, cit., pag. 417.
A proposito di Lacan, si veda, J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1976, pp. 764-791.
5 - Si fa riferimento al film "Habemus Papam".
6 - In questo senso la villa di Salò ricorda quella - assai più farsesca non meno tragica - di Arcore nei suoi anni più "gloriosi"; in entrambi i casi sulla scena non è tanto la fantasia pervertita dei suoi attori (quale fantasia sessuale non lo è?), né la dimensione erotica del desiderio, ma il terrore del "padrone" di fronte alla verifica dei propri limiti, al crollo dell'illusione del proprio fantasma di autogenerazione, alla imminenza sovrastante della propria morte. Si tratta allora di mostrare lo smerdamento dell'Ideale, la riduzione di ogni Ideale a puro sembiante, per affermare che la sola cosa eterna, la Cosa che conta, la sola Legge capace di scongiurare l'inevitabilità della morte, è la "volontà di godimento".
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Bologna, a lezione di cinema con Bertolucci: "Non chiamatemi maestro"

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LA SAGGISTICA
Bologna, a lezione di cinema con Bertolucci:
“Non chiamatemi maestro”
La prima edizione dell'International Filmmaking Academy ha come ospiti d'eccezione il regista di Parma e Abbas Kiarostami dall'Iran. A scuola dai due artisti, studenti provenienti dalle università di Hong Kong, Corea del Sud, Stati Uniti e Canada
di Davide Turrini, "Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2013

Non chiamatemi maestro. Dal profluvio di appellativi e superlativi che accompagna la prima edizione dell’International Filmmaking Academy a Bologna, Bernardo Bertolucci se ne sottrae amabilmente. Gli studenti provenienti dalle università di Hong Kong, Corea del Sud, Stati Uniti e Canada che hanno affollato la prima lezione di cinema del settantaduenne regista di Parma sono atterrati sul pianeta Bertolucci privo di gerarchie professionali.
“Gli ho detto subito di dimenticare la cattedra”, ha spiegato l’autore de “L’Ultimo imperatore” incontrando la stampa in un hotel del centro città dove soggiornerà per pochi giorni, “Sono qui per uno scambio: voglio imparare dalla loro inesperienza e loro imparare qualcosa da me. Non è retorica, ma quello che speravo succedesse e che è successo”.
Un’attenta visione delle tesine video dei partecipanti, un confronto molto tecnico e pratico sulla realizzazione di un film, e un grande entusiasmo al cospetto di uno dei più blasonati “auteurs” del cinema italiano, amato in Europa e negli Usa, dove ha vinto parecchi Oscar: “E’ stato un dialogo sul cinema fuori dalle convenzioni. I ragazzi sono stati scelti bene, i loro lavori hanno qualcosa di speciale. In loro c’è qualcosa del cinema inteso come sogno, sono dei “dreamers”.
L’accademia diretta da Gian Vittorio Baldi (“un amico, a cui ho risposto volentieri di sì”) ospiterà in stretta collaborazione con l’Università di Bologna il primo anno di lezioni consacrandolo con l’arrivo, il 15 luglio, di un altro regista internazionale come l’iraniano Abbas Kiarostami. E, si racconta nel foyer, in attesa di Kim Ki-duk, Roman Polanski e Marco Bellocchio nel 2013.
“Quando un giovane mi chiede da dove cominciare per fare il regista gli rispondo sempre di andarsi a vedere almeno 2000 film”, spiega Bertolucci, “per fare questo sono fondamentali istituzioni come le Cineteche che archiviano, restaurano e ripropongono la storia del cinema. Guardate il successo in sala di un film come Vogliamo Vivere. Abbiamo molta strada da fare partendo della proiezione in prima visione di film in lingua originale”.
Anche se il settore culturale in Italia subisce ogni giorno ulteriori restrizioni alle sovvenzioni statali, come il paventato taglio del tax credit per la produzione cinematografica: “Anche “Io e te” ne ha usufruito. Sarebbe una sciagura accadesse in un sistema già così povero d’aiuti”.
E alla mente ritorna lo straordinario appello del regista parmigiano nel giugno del 2007 quando chiamò a raccolta i “100 autori” per far sentire la propria voce allo stato italiano che se ne stava dimenticando: “Se ci fosse un’occasione come quella, di chiamata collettiva, ridirei le stesse cose. Quella parole erano il risultato di 3 o 4 anni di frustrazione provocata della “malaeducation” della cultura berlusconiana. Ci vorrà del tempo prima che si dissolva la sottocultura che Berlusconi ha creato con le sue tv. E pensare che c’è stato un vuoto in mezzo, direi di qualche mese, non ricordo più il periodo preciso, ma è stato un momento bellissimo in cui non apparivano più personaggi come Gasparri e Brunetta”.
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L’artigiano Gian Vittorio Baldi torna a far cinema: “E’ come se fosse il mio primo film” di Enrico Bandini, Brisighella (Ravenna), 2 agosto 2011

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LA SAGGISTICA - CINEMA
L’artigiano Gian Vittorio Baldi torna a far cinema:
“E’ come se fosse il mio primo film”
di Enrico Bandini, Brisighella (Ravenna), 2 agosto 2011

Dopo parecchi anni di assenza torna a dirigere un film Gian Vittorio Baldi,
l'autore del folgorante "Fuoco!" (1968). Tra i ricordi di Pasolini e Fellini, per i quali è stato produttore, sbucano i filari del suo vigneto dalle piante basse e diradate:
"prima ho fatto cinema d'autore, oggi produco vino d'autore"


Gian Vittorio Baldi è un “giovane” del 1930, libertario e combattivo. Si ritiene “un artigiano che cerca e non ha ancora trovato”. Nonostante sia conosciuto prevalentemente dagli addetti ai lavori, ha ricevuto oltre 100 riconoscimenti in tutto il mondo (due Leoni d’oro al Festival di Venezia, una nomination all’Oscar, un Nastro d’Argento e una Grolla d’Oro) e i suoi film sono stati oggetto di retrospettive in Francia, Finlandia, Cina, Stati Uniti e Brasile.

In qualità di produttore, Baldi ha al suo attivo 28 lungometraggi e 200 corti. Nel 1962 ha fondato una società indipendente, la Idi Cinematografica, per la quale ha prodotto film del calibro di “Cronaca di Anna Magdalena Bach” di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, “Porcile” e “Appunti per un’Orestiade africana” di Pier Paolo Pasolini, “Quattro notti di un sognatore” di Robert Bresson e “Vento dell’est” di Jean-Luc Godard (1969). È tornato da poco dal Brasile, dove si è recato per le riprese del suo ultimo film “Il cielo sopra di me”.

Dalle note di sceneggiatura sembra una grande riflessione sull’esistenza, sulle stagioni della vita e sulla morte, che è vista come un tornare a far parte di un tutto indivisibile. È questa la visione di Baldi sul destino dell’uomo?
“Penso che il transito dell’uomo sulla Terra sia talmente infinitesimale che il nostro compito è quello di agire il meglio possibile, cercando di portare avanti un discorso di umanità, nella convinzione che torniamo negli atomi e nulla rimane di noi, se non una piccolissima parte di quello che abbiamo fatto, se l’abbiamo fatto. Gregorio, il protagonista, conclude il film con una poesia: ‘Per favore fate silenzio, zitti, io non ci sono più. Sono ritornato nelle stelle’”.

Baldi, lei ha esordito al cinema, nel 1962, con “Luciano” che sviluppa un suo precedente cortometraggio del ’58. Lo stesso anno esce “Accattone” di P. P. Pasolini e “Banditi a Orgosolo” di Vittorio De Seta. Fellini ebbe un qualche ruolo nel vostro esordio?
“Federico Fellini a quei tempi aveva deciso di fare il produttore e ci aveva contattati tutti e tre, come talenti da lanciare. Dovevamo realizzare il nostro primo lungometraggio con un contratto di un milione a testa con la società Federiz (Federico Fellini-Angelo Rizzoli). In realtà nessuno dei tre fece il film perché lui ci ripensò e ognuno di noi lo realizzò con altri produttori”.

“Luciano” ebbe diverse traversie produttive e censorie. Ce le racconta?
“In ‘Luciano’ si affronta, tra l’altro, il tema dell’omosessualità dei preti. Ciò non ha fatto molto piacere alla censura di quel tempo. Anche ‘Porcile’, uno dei due film che ho prodotto a Pasolini, ha attraversato un brutto periodo o ‘Anni duri alla Fiat’, un film sulla repressione operaia alla fine degli anni ’60. ‘Luciano’ uscì solo nel ’67 in parte censurato”.

Nel suo manifesto “Tema e dettato” del 1953, lei porta avanti un’idea di cinema che mantiene un rapporto mimetico col reale: macchina a spalla, luce naturale, no al montaggio manipolatore, attori visti come modelli, no al commento musicale. Pare che il danese Lars Von Trier, con le 10 regole del suo “Dogma” (1995), fosse in ritardo di 40 anni…
“Sì, effettivamente il mio manifesto e “Dogma” sono simili. Io sono contrario al commento musicale: per me la musica non deve sottolineare l’azione, ma deve essere una componente espressiva dell’immagine. Per quanto riguarda gli attori non sono solo: Robert Bresson riteneva che l’attore dovesse essere non qualcuno che recita, ma che rappresenta e fa parte del racconto che il regista propone”.

Tatti Sanguineti ha detto che “prima di Baldi il documentario in Italia era un’altra cosa”. Lei è il primo a cui viene attribuito l’uso della presa diretta in Italia, nell’immediato secondo dopoguerra. Come nacque quest’esigenza di adottare un linguaggio differente?
“Il cinema diretto in Italia esisteva già. Durante il periodo fascista i film erano tutti in presa diretta ma girati nei teatri di posa, perché le macchine erano enormi. Finita la guerra siamo usciti dai teatri, andando verso la libertà con le macchine portatili. Poi si è abbandonato il sonoro e i film venivano realizzati in post produzione. I documentari, a quel tempo, erano davvero qualcosa che documentava. Io ho rotto questa tradizione e ho cominciato a fare dei racconti in presa diretta, che allora era una cosa folle, perché la macchina da presa faceva rumore, tant’è che noi dovevamo metterci sopra un cappotto”.

Come produttore ha finanziato, tra i più celebri, Pasolini, Bresson, Godard e Straub. Chi le è rimasto più impresso e con chi, invece, avrebbe voluto lavorare?
“Ricordo con grande affetto Pier Paolo Pasolini. Abbiamo avuto un rapporto di una straordinaria correttezza, umanità e sapienza. Era il poeta gentiluomo. Mi piace ricordare i grandi tentativi che ho fatto e credo di essere il più importante produttore del mondo, nel senso delle intenzioni, non delle realizzazioni. Ho tentato, senza riuscirci, di produrre i film di Dreyer. Ce l’avrei fatta se lui non fosse caduto nel bagno morendo, nel marzo del ’68. E non solo: ‘Erendira’ di Gabriél García Marqué ero pronto a produrlo, poi Ponti, il distributore, si tirò indietro. Avrei dovuto produrre anche il primo film di Bernardo Bertolucci, che poi non è mai uscito”.

Quando nel ’69 comprò casa e terreno sulle colline vicino a Brisighella, decise di produrre vino. Che cosa la spinse a inventarsi viticoltore?
“L’esigenza di sperimentare il mio linguaggio in un’altra attività. Ho fatto un vino d’autore, come ho cercato di fare dei film d’autore. Il criterio numero uno era quello della trasgressione, trasgredire per creare, uccidere la tradizione nota, usata e abusata e cercare di andare verso un futuro più qualificato e prezioso. Oggi la Romagna è qualificata. Quando io sono arrivato su queste colline, 40 anni fa, chi faceva il vino bene ne faceva tanto. Io invece ho puntato sulla qualità, introducendo delle tecniche che ho appreso in Francia: vigne basse e diradate. Dopo di me, in Romagna, sono nate tante aziende, oggi se ne contano quasi 200 e fanno ottimi prodotti”.

Il suo amico Tonino Guerra sostiene che il vero autore di un film sia il regista, lei pensa invece che sia lo sceneggiatore. È modestia o avete entrambi sbagliato mestiere?
“Tonino Guerra è stato per Fellini e Michelangelo Antonioni importantissimo. Come Cesare Zavattini lo è stato per Vittorio De Sica. Fellini è un grande regista, ma non è un autore. Un regista può essere come un bravo direttore d’orchestra, che prende uno spartito e di questo fa ciò che vuole. Avendo io conosciuto per moltissimo tempo Ennio Flaiano, posso dire che è veramente un genio e che senza di lui Fellini non avrebbe mai potuto girare ’8 e mezzo’ né ‘La dolce vita’. Si sarebbe limitato a dei racconti aneddotici di provincia, non sarebbe riuscito a volare così alto”.

Nel 1975 affermava: “Nel bene e nel male, il cinema va per conto suo. Il produttore, gli esercenti, il pubblico, i finanziatori fanno tutti parte della grossa macchina che sforna, quasi a caso, titoli su titoli. Per me, fuori di ogni pudore, è la grande passione della mia vita; nel farne provo un piacere fisico, sessuale quasi”. Oggi è ancora di quest’opinione?
“Sì, il film che sto per cominciare vorrei veramente che fosse il mio primo film, come il primo innamoramento, la cotta”.

Chi è oggi il poliedrico Gian Vittorio Baldi: un regista, un produttore, uno scrittore, un pittore, un viticoltore?
“Sono un umilissimo artigiano che, con quel poco che sa, cerca di fare cose diverse. Ho cercato anche di essere un buon padre e non so se ci sono riuscito”.
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Pier Paolo Pasolini nella "Treccani"

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Pier Paolo Pasolini
nella prestigiosa enciclopedia "Treccani"

Nome mitico del secondo Novecento italiano, Pasolini ha attraversato, forse più d’ogni altro intellettuale dell’epoca, molte forme di esperienze artistiche e letterarie: è stato poeta, regista, romanziere, critico letterario e giornalista. Lui amava definirsi semplicemente "scrittore".
Nei suoi scritti egli ha saputo di volta in volta rispecchiare la storia di un paese, l’Italia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni ’70, confrontandosi con i grandi temi sociali, letterari e politici del secolo scorso: la Resistenza e il Fascismo, Democrazia Cristiana e PCI, l’avvento del neocapitalismo borghese nell’Italia del boom economico, il Sessantotto e gli anni della "strategia della tensione".
Giacomo Jori rilegge tutta l’avventura pasoliniana a partire dalla fine violenta del poeta, morto ammazzato a Ostia il 2 Novembre del 1975. E’ tutta una vita a trovare in questo tragico ultimo atto il suo compimento. Vita consumata nell’inesausta "ricerca di fraternità e unione con l’Altro". Durante il periodo romano di Ragazzi di vita e Una vita violenta l’Altro ha il volto dei giovani di borgata, per poi, dal ’68, assumere i contorni sempre meno definiti di un Altrove metafisico e quasi mistico.
Non solo poeta civile dunque, ma anche metafisico. Ambiguità, questa, rappresentata emblematicamente dall’ultima raccolta poetica dell’autore: Trasumanar e Organizzar. E’ in questi versi che Pasolini dichiara il suo esser "poeta dell’aria", dando voce a un’intima, e definitiva, scelta verso il bando, l’esclusione, il Nulla. La "disperata vitalità" caratteristica dei primi anni ha lasciato il posto al desiderio di una libertà sentita prima di tutto come "libertà di scegliere la morte".
Dalla non-poesia degli ultimi versi alla poesia impegnata de Le ceneri di Gramsci, poemetto che Giovanni Bertolucci sceglie quale simbolo dell’autore e di una nazione che in quell’epoca viveva il suo momento forse cruciale. E invero, dopo la morte dello scrittore, il lato politico e civile della poesia pasoliniana è stato quello prediletto dalla maggioranza di esegeti e intellettuali, dando vita a un’interpretazione spesso fuorviante.
"Pasolini è stato tradito", dice Giacomo Jori, rivendicando in questo modo la necessità di una rilettura che sappia tener conto di tutta la reale complessità dello sperimentalismo "corsaro" del poeta di Casarsa. A partire magari dalle parole di Andrea Zanzotto, che per primo ha colto l’importanza di una dimensione pedagogica che "svela, spalanca vita".

Voci correlateApprofondimenti

Pagine corsare - www.pasolini.net
I Medium di Massa (video) - http://www.youtube.com/watch?v=A3ACSmZTejQ
Sabaudia e la "civilta' dei consumi" (video) - http://www.youtube.com/watch?v=e6ki-p1eW2o
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Quando Pasolini passò da Rodi: «I tuoi limoni dicono com’è l’Italia»

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LA SAGGISTICA - NARRATIVA
Quando Pasolini passò da Rodi:
«I tuoi limoni dicono com’è l’Italia»

Tratto da «La lunga strada di sabbia»
di Pier Paolo Pasolini

Rodi Garganico, luglio. E’ appena passata mezzanotte, e sono solo. Ma solo come può essere solo uno spettro. Tutti sono serrati nelle case, di questo paese peraltro abbastanza elegante. I piccoli borghesi foggiani in villeggiatura, i rodigiani, che domani mattina si devono alzare alle tre, alle quattro, per andare nei campi col mulo. E’ suonato un misterioso coprifuoco: nessuno lo trasgredisce.
Io cammino per la piccola spiaggia deserta, ai piedi del paese. E nel silenzio che c’è fuori e dentro di me, sento come un lungo, afono crolla. L’intera costa pugliese si sfa in questa quiete, dopo aver infuriato ai miei occhi, ai miei orecchi, per mattinate e meriggi di caos preumano, sottoumano.
Lo sperduto Salento, severo come una landa settentrionale, coi suoi paesi greci in sciopero secolare; poi l’esplosione di Brindisi, la più caotica, furente, rigurgitante delle città di mare italiane; e le stupende Otranto e Ostuni, le città del silenzio del Sud; e Bari, che segna i pericolanti e informi come accampamenti, folle sotto i palchi delle luminarie e i podi bianchi traforati delle bande, sono un solo, sordo frastuono. Che si infrange contro le muraglie del Gargano, il cui periplo, a picco sul mare, tra le severe, deserte montagne, allontana dall’Italia di migliaia di chilometri.
Ho perso il battello delle Tremiti, non ci potrò andare. Ma qui sono in un’isola, non credo laggiù sia diverso. Cammino, eslege, nel buio del coprifuoco, e già rimpiangono l’interminabile giorno su cui è caduta questa imprevista sera.
♥    ♥    ♥
L’amministrazione sta preparando un volume (a cura di Antonio Motta), ma l’idea che ronza in testa al sindaco Nicola Pinto è onorare quella “benedizione laica” sugli agrumi con un busto. Una statua se proprio bisogna esagerare, magari lungo la spiaggia. La stessa spiaggia che lui, 54 anni fa, solcò a piedi poco dopo mezzanotte e che oggi il mare ha (quasi del tutto) ingoiato soprattutto nel tratto litorale. Oggi lo sanno tutti che Pier Paolo Pasolini è stato a Rodi. In città tengono a precisare. «Non a Peschici, non a Vieste. E’ stato qui… » quando invece, per comodità visto che veniva dal Salento, avrebbe potuto fermarsi a Manfredonia (non a Foggia, visto che il viaggio si sviluppava solo sulla Lunga strada di sabbia del Paese).
Oggi lo sanno tutti, che una notte di luglio del 1959 Pasolini passeggiò in questa Rodi deserta, un’altra cosa rispetto alla cittadina garganica circondata (forse troppo, specie in alcuni punti) da alberghi. All’epoca ce ne erano solo due: la pensione Bologna (oggi non esiste più, allora era un raduno di cacciatori che si recavano sul Gargano non ancora area protetta) e il Miramare (all’epoca in un’altra posizione rispetto a dov’è ora). «Non ho alcun documento ufficiale che possa confermarlo, ormai sono passati tanti anni e non conserviamo più i registri antecedenti agli anni Sessanta – racconta Antonio Apicella, proprietario del Miramare – ma secondo me… ha dormito qui da noi. Lo facevano tutti i personaggi famosi, anche Marcello Mastroianni (che l’anno prima a Rodi aveva girato parte del film La legge, ndr) venne a dormire da noi: e questo lo so sicuro».
Ma lui, Pasolini, anche se reduce dal grande e controverso successo di Ragazzi di vita (Garzanti, 1955) non era ancora uno di quelli che resta impresso, non era ancora – come lui stesso odiava dire – uno “popolare ”. «Perché? Perché io scrivo, non vado in televisione a far dibattiti».
Sembra oggi, sono passati 54 anni e l’Italia è alle prese (ancora) con gli stessi dibattiti. Dello stesso parere il sindaco Pinto, che sul luogo in cui ha soggiornato Pasolini dice: «Credo al Miramare, non credo proprio ad altre teorie. Comunque verificheremo anche noi, coi nostri studiosi e con le persone (pochissime purtroppo, ndr) che dicono di averlo visto in paese». Ma perché è importante stabilire se Pasolini dormì in albergo o, come sostengono alcuni, all’addiaccio nella sua macchina? Perché al mattino, dopo il risveglio, nel proprio diario di bordo personale – che non entrò nel reportage – il poeta scrisse «ho dormito bene, anche comodo… ho sognato sogni sereni, come non facevo da tempo, oggi questo odore di limoni che invade l’aria appare come una profezia. Rodigiani o rodesi, i vostri limoni dicono tutto del bel Paese». Espressione tipica del poeta bolognese, con cui intendeva ironizzare sui grandi paradossi dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Una metafora coltissima sul fatto che, l’odore di civiltà e progresso, stesse in realtà nascondendo l’odore del malaffare che avrebbe caratterizzato l’Italia del boom economico.
Una “consacrazione laica”, a cui (purtroppo solo ora) Rodi guarda con attenzione, ma meglio tardi che mai. «Il paese deve prendere atto di questo testamento – dice Piero Cotugno, due generazioni di imprenditoria turistica e oggi a capo dell’hotel Tramonto – che potrebbe essere l’occasione per diversificare la natura del nostro turismo. Dal prossimo anno abbiamo aperto agli inglesi (tra i maggiori lettori di Pasolini, ndr) e nelle schede di presentazione noi dobbiamo dire che Pier Paolo Pasolini trascorse qui un giorno, un giorno durante cui ha capito tutto quel che c’era da capire del Gargano e dei Garganici. Stiamo lavorando per questo, una strada, un busto, un segnale attivo e intelligente della sua presenza qui, ma che non sia un segnale inutile come le tante statue presenti in Italia… » Ma chessò, una via dei limoni che parta da Rodi per arrivare a Monterosso, il paese di Montale (lui ai limoni dedicò una poesia, una delle più belle del Nobel 1975). «Purtroppo Rodi accolse Pasolini nel periodo in cui si stava disamorando dei suoi agrumi – argomenta Alfredo Ricucci, presidente del Consorzio agrumi del Gargano – e nonostante ciò rimase colpito dalla bellezza, dall’odore. Solo alcuni anni dopo, Rodi ha capito che doveva ripartire dagli agrumi. Quello dei limoni è certamente un modo per interpretare la realtà dei garganici, noi dobbiamo fare tesoro di questi lasciti, anche letterari, perché se sono avvenuti… il motivo è che questo territorio li merita».
Davide Grittani

Vedi anche in pasolini.net:
http://www.pasolini.net/libri_seclier_stradasabbia.htm
http://pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/09/con-me-stava-in-silenzio-niente-appunti.html

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni

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Il dogma sull’omicidio di Pasolini, di Carla Benedetti

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LA VITA
Il dogma sull’omicidio di Pasolini
di Carla Benedetti
ilprimoamore.com - 15 novembre 2010


Carla Benedetti
Continua sul “Corriere della sera” la campagna di Pier Luigi Battista contro la riapertura del processo Pasolini. Poiché i suoi argomenti sono sempre gli stessi nel tempo, ripubblico qui quello che scrissi due anni fa, quando uscì il pamphlet di Marco Belpoliti e un articolo di Battista quasi uguale a quello di ieri (CB) Alcuni esperti di Pasolini e alcuni giornalisti continuano ancora oggi, nonostante i tanti dubbi emersi negli ultimi anni, a dare per assolutamente certa la matrice sessuale dell’omicidio di Pasolini. Sono Nico Naldini (cugino e biografo di Pasolini), Marco Belpoliti (autore del volumetto Pasolini in salsa piccante, uscito da poco Guanda), Pierluigi Battista (in un articolo sul “Corriere della sera” dell’8 novembre) e qualche altro. Come mai queste persone sono così convinte che Pasolini sia stato ucciso in una rissa omosessuale? Su cosa poggia la loro certezza? Non su prove né su indizi. Solamente su un sillogismo. Eccolo: Pasolini era omosessuale, rimorchiava ragazzi nelle notti romane e praticava una pericolosa sessualità sado-maso. Quindi non può che essere stato ucciso in quel modo. La fallacia è lampante. Dalla stessa premessa può discendere benissimo anche la conclusione opposta:
“Pasolini era omosessuale, rimorchiava ragazzi ecc… Quindi era gioco facile nascondere un altro tipo di delitto dietro a quella falsa pista “.
Quel sillogismo è stato per tanti anni la versione ufficiale sulla morte di Pasolini. C’era un reo confesso, il diciassettenne Pino Pelosi, e questo bastò. Però neanche il Tribunale di primo grado fu in grado di eliminare i dubbi, tanto che condannò il Pelosi “assieme a ignoti”, lasciando aperti molti interrogativi. Oggi che gli interrogativi sono cresciuti, il sillogismo viene invece riaffermato senza argomenti e senza dubbi- cioè come dogma.

In questi ultimi anni si sono aggiunti nuovi fatti, testimonianze e indizi (1) che mostrano platealmente le lacune e le incongruenze di quella versione. Tanto che nel 2009 la procura di Roma ha riaperto le indagini, affidate al sostituto Diana De Martino. Ecco i più importanti:
1) Nel 2005 Pelosi, dopo aver scontato la pena, ritratta la sua confessione, sostenendo di essersi accusato dell’omicidio perché sotto minaccia. Dopo tanti anni – spiega – non ha più paura a parlare, probabilmente chi lo minacciava è morto.
2) La notte dell’omicidio Pasolini non andava a rimorchiare ragazzi ma a incontrarsi con un ricattatore da cui si aspettava di avere indietro le bobine del film “Salò” che gli erano state rubate (testimonianza di Sergio Citti). 
3) Sul luogo del delitto c’era una seconda auto su cui non sono state fatte indagini (diverse testimonianze). Secondo Pelosi a uccidere Pasolini furono tre uomini che parlavano siciliano. 
4) Il 20 febbraio 2003 il sostituto Procuratore pavese Vincenzo Calia concluse una lunga inchiesta, durata 9 anni, sulla morte di Enrico Mattei. L’aereo del Presidente dell’Eni era precipitato la sera del 27 ottobre 1962 nella campagna presso Pavia. La procura pavese aveva già svolto anni prima un’inchiesta, che però si era conclusa con un “non luogo a procedere, perché i fatti non sussistono”, avendo attribuito la caduta dell’aereo a un incidente. Nella Richiesta di archiviazione Calia accerta il sabotaggio dell’aereo e prospetta per l’omicidio una regia tutta italiana, di cui Eugenio Cefis (futuro presidente dell’Eni) teneva le fila. Pasolini aveva scritto la stessa cosa trent’anni prima in un appunto di Petrolio“In questo preciso momento storico […] Troya [nome nella finzione dato a Eugenio Cefis] sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei)”. E poco dopo scrive: “Inserire i discorsi di Cefis”. Il giudice Calia ingloba questa pagina di Petrolio nella sua Richiesta di archiviazione e accumula molte testimonianze e indizi che portano a sospettare la stessa mano anche dietro l’omicidio di Mauro De Mauro, giornalista dell’ ”Ora” di Palermo, sparito nel 1970.
L’elenco delle cose che non quadrano con la versione della rissa omosessuale è più lunga (per saperne di più si vedano G. Borgna e C. Lucarelli, “Così morì Pasolini”, in “Micromega” n. 6, 2005 ; G. D’Elia, Il petrolio delle stragi, Effigie, 2006; G. Lo Bianco e S. Rizza, Profondo nero, Chiarelettere, 2009; C. Benedetti e G. Giovannetti, “Come corsari sulla filibusta”, introduzione a G. Steimez, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, Effigie, 2010). Ma bastano queste.
Come reagiscono gli assertori dell’omicidio sessuale a questi nuovi dati? Ne tengono conto quando ribadiscono la loro versione? No. Dicono invece che sarebbe ora di smettere di farsi tante domande. “Forse è venuto il tempo di seppellire il corpo insepolto di Pasolini” (Belpoliti). Se qualcuno in America sostenesse una cosa del genere riguardo all’omicidio di John Kennedy, sarebbe semplicemente ridicolo. In Italia lo si fa passare.
Pierluigi Battista, sul “Corriere della sera” dell’8 novembre 2010 si spinge persino a prendere in giro chi ha chiesto che si facessero nuove indagini (“vorrebbero che i Ris, distolti dai lavori su delitti come quello di Garlasco, lavorassero sul cadavere assassinato di Pasolini”).
Altri, più diplomatici (visto che le indagini sono in corso), invece che ai magistrati inoltrano l’invito al mondo della cultura, agli studiosi, agli intellettuali, agli storici… Smettete di avere dubbi! Ecco un esempio. Bruno Pischedda sul “Sole 24 ore” del 31 ottobre 2010: “Ben venga la riapertura del procedimento giudiziario. Ma si metta fine alla farandola delle ipotesi, delle sovracostruzioni fantasiose su Cefis e Mattei, la Montedison, la strategia della tensione: ciò vale per Gianni D’Elia e Carla Benedetti, per Carlo Lucarelli e Gianni Borgna, non solo per Marcello Dell’Utri”. (Il riferimento a Dell’Utri si spiega perché il senatore imputato per concorso esterno in associazione mafiosa annunciò qualche mese fa in una conferenza stampa di avere per le mani un inedito di Pasolini intitolato “Lampi su Eni”, che però poi non rese pubblico. [...]).
Il dogma è debole nelle argomentazioni. Perciò si fa aggressivo verso chi lo mette in discussione. I dubbiosi per lo più vengono tacciati di complottismo: Battista ad esempio li definisce “dietrologi compulsivi”.
Come se fosse stata la mania del complottismo e non il desiderio di verità – di una verità coperta per decenni – a spingere nel 2005 migliaia di persone in Italia e all’estero a firmare un appello per la riapertura del processo Pasolini, promosso dalla rivista ” Il primo amore” (n. 1, 2006) e presentato al Presidente della Repubblica. Nel testo si leggeva:
“Noi non sappiamo se a far tacere [Pasolini] sia stata una decisione politica. Quello che però sappiamo – come lo sa chiunque abbia prestato attenzione alla vicenda – è che la versione blindata della rissa omosessuale tra due persone non sta in piedi”.
Di recente è stato inventato un nuovo capo d’imputazione per i dubbiosi: hanno tutti un ”complesso” nei confronti dell’omosessualità . La cultura italiana non accetta l’omosessualità di Pasolini e la rimuove convincendosi che l’omicidio abbia altri moventi  questa è la tesi del libro di Belpoliti.

Infine il dogma si aggrappa a altri due pseudoargomenti. Eccoli.
1) Un letterato non potrà mai essere tanto pericoloso da dover essere eliminato.
Chi ragiona così evidentemente pensa che la letteratura sia un insieme di fiction innocue. Abbiamo purtroppo esempi di scrittori e giornalisti minacciati (Roberto Saviano) o uccisi (basti ricordare Mauro De Mauro e Giuseppe Fava). E poi Pasolini non era solo un letterato. Era anche un regista internazionalmente noto, un critico della cultura che scriveva su diversi periodici e un collaboratore del maggiore quotidiano italiano, il “Corriere della sera”.
2) Ciò che Pasolini sapeva era già pubblicato in giornali e libri. Quindi non c’era ragione di eliminarlo. Lo scrive Belpoliti, lo ripete Battista, e qualche altro.
Questa affermazione, che rasenta la disinformazione, si riferisce alle fonti usate da Pasolini per Petrolio. E cioè:

- i discorsi di Cefis che Pasolini intendeva inserire nel romanzo.

- due inchieste di Giuseppe Catalano, pubblicate da “L’espresso” nel 1974 che raccontano i “mattinali” che il capo dei Servizi segreti Vito Miceli (tessera P2 1605) quotidianamente inoltrava a Cefis, allora presidente di Montedison, quasi che il Sid fosse una sua polizia privata (ritagli conservati da Pasolini);

- Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, pubblicato nel 1972 dall’Agenzia Milano Informazioni sotto lo pseudonimo di Giorgio Steimez. Questo libro, scritto probabilmente da qualche avversario di Cefis con intento di avvertimento o di minaccia, fu subito ritirato dalla circolazione e fatto sparire anche dalle due biblioteche nazionali. Da poco lo ha ripubblicato Effigie. Pasolini ne ebbe le fotocopie da Elvio Fachinelli.

Quindi, conclude il sillogismo, cosa sapeva Pasolini più di altri, se le sue fonti erano note al mondo giornalistico dell’epoca e potevano essere fotocopiate e diffuse?
Evidentemente per chi sostiene questo non c’è alcuna differenza tra sapere e divulgare : tra avere un’informazione e la possibilità di farla esplodere nell’opinione pubblica. Le informazioni “pericolose” (come quelle possedute dall’anonimo o dagli anonimi estensori di Questo è Cefis) possono anche essere note senza danno, se chi le possiede non ha abbastanza forza per farle pesare nel discorso pubblico, o non ha l’autorità per renderle credibili o per trasformarle in un’accusa. Pasolini aveva l’una e l’altra. Collaborava al “Corriere” e la sua voce pubblica godeva in quegli anni di grande notorietà e autorità.
Quella “fonte”, inoltre, fatta sparire dalla circolazione con un veloce lavoro capillare, non è vero che fosse nota e condivisa. Tanto che a scoprirla non è stato uno studioso di Pasolini ma un magistrato, nel corso di un’indagine sull’omicidio di Mattei. E’ stato il sostituto Procuratore Calia ad aver indicato nella sua Richiesta di Archiviazione le somiglianze tra quel libro e alcune pagine di Petrolio. Dopo di che, la curatrice Silvia De Laude ne ha tenuto conto nel commento alla nuova edizione Oscar Mondadori di Petrolio uscita nel 2005 (in tutte le edizioni precedenti invece non se ne faceva cenno).
Ma la più grossa falsità del sillogismo sta in questo: nessuno può dire che Pasolini sapeva quello che tutti sapevano, per la semplice ragione che non si sa cosa sapesse, e cosa avesse ancora intenzione di scrivere se ne avesse avuto il tempo (per esempio cosa avrebbe scritto nel capitolo “Lampi sull’Eni”, se è vero che l’ha lasciato in bianco -, o cosa vi avesse già scritto, nel caso sia stato sottratto come sostiene Dell’Utri). E se non si sa, non si può dire che era già noto. Non si può ragionare solo su ciò che Pasolini ha scritto, perché qui entra in campo anche ciò che Pasolini non ha fatto in tempo a scrivere, essendo stato ucciso.

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Fratello selvaggio: Pier Paolo Pasolini tra gioventù e nuova gioventù, di Gian Maria Annovi

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LA SAGGISTICA - LIBRI

Gian Maria Annovi alla Golena del Furlo, La Zattera dei Poeti (2011)

Fratello selvaggio: Pier Paolo Pasolini
tra gioventù e nuova gioventù
di Gian Maria Annovi
Transeuropa, 2013

I saggi raccolti nel volume aiutano a fare luce sulle modalità con cui Pier Paolo Pasolini ha affrontato il tema della gioventù nell'analizzare i rapidi e traumatici cambiamenti della società italiana. Dalla sua prima raccolta di versi, "La meglio gioventù", fino all'ultimo e imperdonato film "Salò o le 120 giornate di Sodoma", i giovani incarnano nell'opera pasoliniana le trasformazioni più radicali avvenute nel passaggio da un'Italia rurale a quella del consumismo del boom economico. Esperti nazionali e internazionali s'interrogano nei loro saggi sulla presenza del tema della gioventù nella complessa opera poetica pasoliniana; particolare attenzione viene dedicata allo studio delle opere giovanili, alla ritrattistica e ai rapporti con le nuove generazioni di registi degli anni Sessanta. Contributi di: Gian Maria Annovi, Marco Antonio Bazzocchi, Simona Bondavalli, Roberto Chiesi, Hervé Joubert-Laurencin, Tomaso Subini, Antonio Tricomi, Gianni Vattimo, Franco Zabagli.
La meglio gioventù, pubblicata a Firenze dalla casa editrice Sansoni nel 1954, raccoglie la maggior parte delle Poesie a Casarsa e tutte le altre poesie friulane di Pasolini coprendo un arco di tempo che va dal 1939 al 1940 fino al 1953. Non sono comprese in questo volume alcune poesie pubblicate sui volumetti dell'"Academiuta di lenga furlana" e altre poesie disperse che saranno raccolte in seguito dalla Società filologica friulana a Udine nel 1965 con il titolo Poesie dimenticate.
Nella valutazione delle poesie friulane dal 1942 in poi è necessario ricordare alcuni avvenimenti che hanno segnato la poetica pasoliana in questo arco di tempo. Importante senza dubbio è la forte spinta istituzionale che la poetica friulana in generale riceve dalla fondazione dell'Academiuta che rende chiari lo scopo e la ragione del suo utilizzo. Si aggiunge a questo l'esperienza della resistenza che porta a recuperare il tema storico e politico e soprattutto lo studio che Pasolini compie in quegli anni della poesia popolare e dialettale in Italia. Da questo attento studio derivano all'autore gli strumenti linguistici necessari che gli danno la possibilità di usare la lingua friulana sfruttando al massimo tutte le sue potenzialità.
La nuova gioventù, uscito in prima edizione nel 1975, è stato l'ultimo libro pubblicato in vita da Pasolini, il segno della sua fedeltà alla poesia, in particolare a quella dialettale che ne aveva caratterizzato gli esordi. Il volume raccoglie infatti i due cicli delle poesie friulane, La meglio gioventù (del 1941-53) e La nuova forma de «La meglio gioventù» (del 1974), una riscrittura a venti-trent'anni di distanza del primo. Opera centrale, vissuta e rivissuta, propone un intero arco creativo, dalle primissime Poesie a Casarsa alle rievocazioni storiche de I Colús, per finire con Tetro entusiasmo, dedicato a problematiche di una contemporaneità non soltanto italiana (e in cui, non a caso, l'italiano si sostituisce progressivamente al friulano). Sui motivi e sul senso di questi testi Pasolini, già nel 1952, scriveva, parlando di sé in terza persona: 
«Egli si trovava in presenza di una lingua da cui era distinto: una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente: il suo regresso da una lingua a un'altra - anteriore e infinitamente più pura - era un regresso lungo i gradi dell'essere. Ma era questo il suo unico modo di conoscenza». 
Questa nuova edizione è completata da un saggio di Furio Brugnolo su metrica e poetica del Pasolini friulano, e dall'autopresentazione scritta dall'autore per la prima edizione.
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Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, di Marco Antonio Bazzocchi

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Círculo de Bellas Artes de Madrid, Café, Donna nuda, scultura e progettazione dell'Ambiente Liberty
di Antonio Palacios, 1919. Al Círculo de Bellas Artes si svolse nel 2005 una tra le più belle, significative
e complete mostre su Pier Paolo Pasolini, del quale fu anche organizzata una retrospettiva cinematografica
strepitosa. Fui tra l'altro loro ospite per la presentazione del film "Edipo Re",
e del mio saggio "Nella rete con Pasolini", più volte aggiornato e presente anche  in questo blog:

Una sezione molto ampia di "Pagine corsare – www.pasolini.net" raccoglie  le numerosissime pagine dedicate alla Mostra
"Palabra de corsario" ("Parola di corsaro"), omaggio di Madrid del 2005 a Pier Paolo Pasolini
a trent'anni dalla sua tragica scomparsa. Sono dunque qui presentati i saggi, le poesie, i brani di narrativa,
le foto, i disegni del grande intellettuale italiano che hanno costituito il corpus della mostra madrilena.
Tutti gli scritti sono sia in spagnolo sia in italiano. La scelta del Círculo de Bellas Artes di riprodurli nel sito
dedicato a Pier Paolo Pasolini costituisce un inestimabile contributo a "Pagine corsare" e ai suoi
sempre più numerosi visitatori e un rinnovato stimolo ad approfondire la conoscenza dell'opera
di Pier Paolo Pasolini. Non mi stancherò mai di rinnovare il mio ringraziamento anche personale,
oltreché al Círculo de Bellas Artes e al curatore della mostra Alessandro Ryker,
a Graziella Chiarcossi e al Centro Studi-Archivio Pasolini presso la Cineteca di Bologna
che - tramite Alessandro Ryker - hanno messo a disposizione di "Palabra de corsario" i documenti esposti. [A.M.]

Corpi che parlano.
Il nudo nella letteratura italiana del Novecento
di Marco Antonio Bazzocchi
Recensione di Aldo Meccariello
in Kainos, rivista on line di critica filosofica, Milano, Bruno Mondadori, 2005 

Il titolo di bel questo saggio di Marco Antonio Bazzocchi allude ad una inconsueta linea materialistica, a torto minoritaria, che attraversa in lungo e in largo la letteratura italiana degli ultimi decenni laddove parlare di corpi significa un disinibito sconfinamento in molteplici aree disciplinari. A dire il vero, molti sono gli scrittori italiani (Moravia, Pavese, Gadda, Parise, Volponi, Pasolini, Morante, Calvino) che hanno affrontato in maniera esplicita i temi della sessualità, della nudità e della corporeità contaminando il nostro Novecento letterario di infrazioni e aggiunte trasgressive ma mai si è avviata contestualmente una discussione teorico o filosofica su questi temi come, ad esempio, in Francia con Genet, Bataille, Foucault.
Già Franco Fortini in un celebre scritto del 1961 Erotismo e letteratura, poi posto in apertura di Verifica dei poteri (1965) scriveva: 
“Nella letteratura contemporanea, la presenza dell’erotismo non si intende se non la si vede come pretesa contrapposizione di una «verità»[…] alla «falsità» dell’industria ideologica che vorrebbe mediare sesso, erotismo, e amore ed affermare una ipocrita unità dell’esistenza umana”.
In altri termini, per Fortini, esibire i corpi nudi in una società di repressione generalizzata non sempre costituisce una pratica disalienante a patto che passi per l’economia politica e per la sua critica pratica.
Di questo è consapevole Bazzocchi nell’accingersi a far parlare corpi nudi femminili che si materializzano in molte pagine dei nostri più importanti scrittori. La novità teorica è che i corpi nudi posseggano tanta forza di diagnosi nel dare conto dei mutamenti e delle trasformazioni della società italiana anche in una sfida obliqua e perenne col Potere. L’esordio del libro è il celebre discorso sui capelli di Pasolini del 1973 con cui lo scrittore istituiva un vero e proprio ordine foucaultiano del discorso, trasformando i capelli e di rinvio il corpo dei giovani in linguaggio.
Bazzocchi concentra l’analisi sui nudi corpi in cui si riconoscono e si condensano esperienze esistenziali e/o ossessioni di molti personaggi letterari.
A partire dal corpo di Cecilia, la conturbante ed inquieta giovane protagonista de La noia, il romanzo di Moravia del 1960 che racconta la crisi di un quarantenne Dino, impegnato in una difficile ricerca nel ricostruire il suo rapporto con il mondo. Cecilia è come un fiore capovolto: a significare la bellezza e - letteralmente - la perversione del personaggio. Cecilia è perversa nel sembrare una cosa e nell’esserne un’altra, sembra una bambina ma è una donna sembra innamorata ma è indifferente, sembra un corpo concreto ma è un corpo inafferrabile e irrapresentabile. L’Autore viviseziona le pagine moraviane con acutezza e perizia fenomenologica spiegando come il corpo nudo di Cecilia diventi l’impossibile rappresentazione della realtà nella sua assolutezza quando raggiunge l’estrema significatività nel suo diventare corpo muto e silenzioso. Speculare a questa stupenda immagine moraviana è la descrizione della donna senza gambe, la donna-sgabello, primo esemplare di una lunga serie di freaks che popolano il racconto calviniano degli stessi anni La giornata di uno scrutatore.
Come è noto la scena è il Cottolengo, l’enorme ospizio destinato a dare asilo a infelici, minorati e deficienti in cui finisce per caso il povero Amerigo, militante comunista, incaricato di fare lo scrutatore nell’imminenza delle elezioni politiche del 1953 (quelle della legge truffa). In un crescendo contrappunto tra bellezza e mostruosità, Calvino non riesce a concepire un rapporto uomo e donna se non filtrandolo attraverso questo tema dell’anomalia fisica facendo di queste figure femminili le portatrici nientemeno di una visione alternativa dell’evoluzione e dell’esistere. Di corpi scomposti, mostruosi, ibridi, smembrati e ricomposti narra Edoardo Sanguineti nel suo più discusso romanzo del 1963, Capriccio italiano che è la trascrizione onirica di un frammento di vita qualsiasi. A raccontarsi è un uomo in piena crisi coniugale, aggravata dalla terza gravidanza della moglie. Il romanzo è costituito da centoundici frammenti, privi di consequenzialità logica e temporale, che riproducono le caratteristiche del sogno: metamorfosi di ambienti e personaggi, atmosfera nebulosa, luoghi imprecisati, temporalità dilatata, sfumata, ricca di elementi simbolici che tornano ossessivamente, fuori da ogni criterio di verosimiglianza. Tema del libro sanguinetiano - osserva Bazzocchi - è la trasformazione del corpo, a partire da quella del corpo femminile durante la gravidanza, che produce un nuova e più provocatoria immagine dell’umano. Lungo questa linea di significativa ricapitolazione di una letteratura polimorfa come nuova ipotesi del narrare non poteva mancare la letteratura e il cinema di Pier Paolo Pasolini. Da Teorema al teatro di parola (Affabulazione, Pilade, Orgia, Bestia da stile) dalla Trilogia della vita a Salò, il poeta di Casarsa esibisce corpi in situazioni estreme al confine tra atto sessuale e sacrificio. Dove l’erotismo confina ora con la gioia ora con l’annullamento e la distruzione. Poi l’Abiura dalla Trilogia della vita del 1975, pochi mesi prima di morire, porta Pasolini ad una visione apocalittica dei corpi ormai manipolati e corrotti dal nuovo Potere consumistico. Sono i corpi nudi di Salò letteralmente manipolati, torturati ed espropriati per il piacere depravato dei Signori.
Bazzocchi che è un fine studioso di Pasolini prende spunto dall’ultima sua scandalosa opera per stigmatizzare, in termini foucaultiani, controlli disciplinari, sistemi penali e meccanismi di tortura che, in età moderna, hanno ridotto il corpo umano a pura cosa, a pura merce. Da qui le domande cariche di valenze e di implicazioni conoscitive sulla funzione dei corpi e della loro nuda esposizione nelle scritture narrative e cinematografiche degli ultimi decenni. L’Autore non nasconde le pratiche censorie che hanno sempre dominato la nostra letteratura laddove la rappresentazione del corpo rispondeva ai facili stereotipi della bellezza, della perfezione e dell’omogeneità mentre si occultavano le sporgenze irregolari, gli organi genitali al lavoro, l’espulsione, l’escrezione. Del resto una campionatura significativa che viene segnalata al lettore è tratta da un romanzo di Goffredo Parise, L’odore del sangue (scritto nel 1979 e rimasto inedito fino al 1997) in cui il sesso del giovane amante di Silvia è descritto con una sovrabbondanza di particolari ed è oggetto di ossessione visiva da parte del marito della stessa fino a quando ‘l’odore del sangue’ che il marito narratore percepisce allude all’odore di morte che inonda Roma invasa dalla violenza di natura fascista. Anche in Parise, come in Pasolini, la sessualità ha un forte legame con il potere, con la perversione morale, con le trasformazioni politiche e sociali ma soprattutto in entrambi gli autori, il corpo nudo evoca il mistero e il trauma della sessualità, insomma “un testo troppo immenso per essere interpretato”.
Nell’ultimo capitolo del volume dei sei che lo compongono, Bazzocchi dedica una speciale attenzione ai corpi giovani, esplorando le ultime tendenze della letteratura (Celati, Tondelli, Scarpa, Magrelli) che si limitano, però, a prendere atto della graduale e progressiva smaterializzazione della corporeità in continue e raffinate catene di rappresentazioni. Oggi, infatti, il vortice alluvionale di corpi-simulacri, corpi immagini, corpi pellicole, corpi interscambiabili, corpi transgender ci fa sentire che, forse, non c’è più nessun corpo.
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La letteratura e il cinema nell'opera di Pasolini, el Aleph, Rivista letteraria indipendente

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LA SAGGISTICA
La letteratura e il cinema nell'opera di Pasolini
10 giugno 2007 - el Aleph, Rivista letteraria indipendente - Archivio storico
     
L’opera di Pier Paolo Pasolini non è mai stata legata soltanto ad un genere specifico. Oltre ai romanzi e alle poesie, infatti, l’autore di “Ragazzi di vita” ha esplorato anche altre forme espressive. Pasolini ha manifestato la sua arte e le sue intuizioni più innovative anche nel cinema. Quali sono i punti di contatto tra la sua letteratura e il grande schermo? Quali sono gli elementi in comune che si possono rintracciare nelle diverse opere che ci ha lasciato? Marco Antonio Bazzocchi, docente di Letteratura italiana contemporanea e Letteratura del romanticismo all’Università di Bologna, nel saggio “I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema”, pubblicato dalle edizioni Bruno Mondadori (Milano, 2007) traccia un percorso tra le creazioni artistiche dell’autore bolognese individuando i legami tra la letteratura e il cinema.
Il percorso si basa sull’analisi puntuale dei temi principali che animano gli scritti e i film di Pasolini. La prima considerazione alla quale Bazzocchi fa riferimento è che l’uso della televisione e la letteratura arricchiscono la creatività di Pasolini. In realtà, i mezzi audiovisivi non contrastano con la sua produzione letteraria. Al contrario, l’autore del saggio spiega che nell’opera di Pasolini il cinema offre la possibilità alla letteratura di “recuperare la propria origine profonda”. In molti casi, d’altra parte, la letteratura ispira anche la produzione cinematografica.
In questa prospettiva, i miti greci e le opere narrative delle origini rappresentano la materia dalla quale lo scrittore ha tratto ispirazioni feconde. Un dato è certo. La scelta di Pasolini di passare dalla letteratura al cinema costituisce un evento nuovo nel panorama letterario italiano. 
“Il passaggio di Pasolini – spiega infatti l’autore – dalla letteratura al cinema è uno dei fatti più nuovi e imprevedibili della cultura italiana del Novecento. E’ quasi inutile paragonarlo a quello che succede in Francia con Jean Cocteau o a ciò che si verifica con un autore della generazione più vecchia, amato comunque da Pasolini, come Mario Soldati”. 
Quali sono stati i risultati più evidenti ed interessanti di questa scelta? Attraverso il cinema, l’espressività e i contenuti pasoliniani, a volte complessi, sono stati semplificati e sono stati arricchiti notevolmente. “E la letteratura – afferma ancora Bazzocchi – non viene assolutamente sostituita dal cinema, ne ricava anzi in complessità sperimentale”.


La quarta di copertina

Proviamo a collegare tutto ciò che Pier Paolo Pasolini ha scritto - poesie, romanzi, saggi -, tutte le immagini che lo riguardano - foto, ritratti, interviste -, tutti i suoi film. E pensiamo di trasformare questo insieme in un'unica, lunghissima pellicola, una specie di debordante audiovisivo in cui ogni scena, ogni immagine, ogni particolare acquista un significato che dipende dalla fine, dall'ultima inquadratura. In un ipotetico rewind ogni singolo fotogramma rivelerebbe qualcosa che era sfuggito, e che ora emerge perché si conosce la fine. Così, in una prosa giovanile che racconta un sogno si trovano gli echi delle Ceneri di Gramsci e poi, più compiutamente, del teatro dei burattini di Che cosa sono le nuvole?-, nell'analisi critica intorno a Dante si intravedono le giustificazioni teoriche del passaggio dalla scrittura al mezzo audiovisivo; l'atto del mangiare nella Ricotta nasconde l'ossessione di essere mangiati in Uccellacci e uccellini - alcune scelte formali di Teorema trovano corrispondenza nella rappresentazione della sessualità dell'ultimo romanzo, Petrolio. Tanti "cortometraggi" che ricompongono l'opera di Pasolini al pari di un unico, lungo film da guardare provando sempre lo stesso stupore, uno smisurato cinema della realtà.

Marco Antonio Bazzocchi insegna Letteratura italiana contemporanea e Letteratura del romanticismo all'Università di Bologna. Ha curato l'edizione dell'Antologia della lirica pascoliana di Pier Paolo Pasolini (Einaudi, Torino 1993); tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo il commento ai Paralipomeni della Batracomiomachia di Giacomo Leopardi (con R. Bonavita, Carocci, Roma 2002) e Nietzsche, Campana e la puttana sacra (Manni Editori, Lecce 2003). Per Bruno Mondadori ha pubblicato Pier Paolo Pasolini (1998) e Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento (2005).

Vedi anche: 
di Marco Antonio Bazzocchi, recensione di Aldo Meccariello
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre tredicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

I film di Pasolini in DVD, di Nicola Catelli. In "Studi pasoliniani" n. 3, 2009, Fabrizio Serra Editore

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
I FILM DI PASOLINI IN DVD
di Nicola Catelli
“Studi pasoliniani” n. 3, 2009 - Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma

A proposito della grande attenzione dedicata alla produzione artistica e alla figura intellettuale di Pasolini negli anni recenti, Angela Molteni, sulle pagi­ne di questa rivista, scriveva che «Pasolini è anche il primo grande artista di livel­lo internazionale che possa essere qualificato come 'multimediale', cioè adeguato alle tecnologie contemporanee della comunicazione», [1] alludendo così, ma con un significativo spostamento di prospettiva, a un noto giudizio di Tullio De Mauro. Se infatti De Mauro definiva la multimedialità di Pasolini come confluenza di differenti linguaggi, [2] la Molteni ha ampliato l'ambito di applicazione del termine segnalando come la pluralità di codici linguistici esperita da Pasolini, «poeta multimediale», [3] ri­sulti in sintonia con la pluralità dei mezzi di comunicazione attualmente disponibili, i quali sono per statuto basati sull'integrazione fra codici espressivi e comunicati­vi diversi. 
La multimedialità o 'crossmedialità' dell'opera pasoliniana, da intendere in primo luogo in relazione alla contiguità e all'interrelazione dei media attraver­so cui si dispiega e di volta in volta trova forma la poetica di Pasolini, [4] da un lato ha avuto riscontro negli studi volti a documentare e ad approfondire l'interesse del poeta per ambiti artistici apparentemente extravaganti (la musica, ad esempio, la pittura, il fumetto) e il loro influsso sulla produzione 'maggiore', dall'altro ha sti­molato quasi per intima affinità l'utilizzo delle possibilità offerte dalle nuove tecno­logie, e in particolare dalle tecnologie digitali, quale strumento di divulgazione e talvolta di arricchimento critico. 
È appunto all'incrocio fra le coordinate costituite da queste due accezioni di multimedialità che si collocano le edizioni in formato DVDdelle pellicole di Pasolini, le quali rappresentano uno dei veicoli «che hanno favorito il riaccendersi dell'attenzione [...] nei confronti di Pasolini» [5] e la diffusione a un più largo pubblico dei suoi lavori. Pare pertanto utile proporre in questa sede una breve rassegna delle edizioni dei DVD pasoliniani - peraltro sempre più spes­so citate a supporto delle indagini critiche su Pasolini anche nel versante lettera­rio - nel tentativo di evidenziare alcune linee di tendenza, limitando per ragioni di coerenza il campo d'indagine ai DVDdei film di Pasolini commercializzati in Italia.
Oltre a rendere effettivamente disponibili anche titoli difficilmente armonizzabili con le esigenze del mercato cinematografico, [6] il supporto del DVD si offre, com'è noto, quale mezzo particolarmente adeguato alla messa in circolazione del restauro digitale. In ambito pasoliniano, tralasciando le edizioni nelle quali l'unico fattore di rilievo consiste nell'adattamento del tracciato sonoro al formato Dolby Digital 5.1, [7] si impongono all'attenzione i restauri audio e video di alcune pellicole effettuati a partire dal negativo originale: l'edizione di Mamma Roma, pellicola restaurata da Vin­cenzo Verzini e approvata da Tonino Delli Colli nella quale sono stati inseriti alcuni fotogrammi mancanti rinvenuti grazie a indagini presso il Fondo Pasolini, la Cine­teca Nazionale e il magazzino Mediaset; [8] del Vangelo secondo Matteo, che presenta il recupero, grazie a duplicati, di alcune scene lacerate e la ricostruzione di oltre venti fotogrammi perduti; [9] di Uccellacci e uccellini, restaurato all'interno di una collana di capolavori di Totò; [10] di Medea e di Le mura di Sana’a, contenute nello stesso disco, il cui restauro si è giovato della supervisione di Ennio Guarnieri, direttore della fotografia di Medea; [11] infine di La rabbia, la cui versione, tra l'altro, restituisce per la prima volta a colori i quadri di Guttuso ripresi nel film, dando rilievo in tal modo all'impor­tanza che il colore, il rosso principalmente, assume nella iconologia 'rivoluzionaria' dell'episodio pasoliniano. [12]
Benché veicolo privilegiato per la diffusione su larga scala del restauro cinematografico, [13] il disco digitale non esaurisce la propria funzione ponendosi sem­plicemente come contenitore destinato alla trasposizione di un film da un supporto ad un altro di più agevole fruizione: l'operazione di riversamento del contenuto filmico nel DVD, infatti, attrae o ingenera ulteriori contenuti, i 'contenuti speciali' (o 'extra' o 'bonus') che non solo costituiscono un elemento tutt'altro che accessorio dal punto di vista della qualità artistica e commerciale del prodotto, ma tendono sempre più a caratterizzarsi come parte essenziale nell'articolazione del DVD, indi­viduandone e definendone lo statuto mediatico tout court. Concepito ormai quasi esclusivamente non «come la mera riproduzione su supporto fisico di un'opera cine­matografica ma come la creazione di una autonoma opera con specifiche peculiarità contenutistiche», [14] il DVD dischiude così spazi di dialogo fra la pellicola e lo spettato­re proponendo strumenti interpretativi relativi all'opera cinematografica (in modo esplicito grazie ai commenti del regista o degli sceneggiatori, implicitamente per mezzo dell'accostamento ad altri materiali audiovisuali, grafici e testuali volti a svi­luppare determinate tematiche del film) attuando «una radicale apertura narrativa del testo filmico», [15] che può avvalersi anche di prodotti 'di scarto' [16] quali riprese delle fasi preparatorie del film o scene eliminate. La conformità fra la prassi e la riflessione artistica di Pasolini da un lato e alcune tipologie di contenuti speciali dall'altro - nella loro dialettica fra centralità e marginalità rispetto al film riprodotto nel DVD, o tra finito e non-finito, o ancora nella dinamica fra testo filmico e commento del regista, fra immagine e parola - appare perciò evidente: si pensi in particolare all'affinità di tali prodotti 'di scarto' con i sopralluoghi, le inchieste televisive, gli 'appunti' pasoliniani. [17]
A dispetto di questa rilevante sintonia, i DVD pasoliniani commercializzati in Italia si mostrano, in generale, poco inclini a sfruttare le potenzialità tecniche del medium, sia in termini di durata dei contenuti speciali, sia sotto il profilo dell'interdiscorsività narrativa fra pellicola e materiali 'extra' messi a disposizione (appunti filmici, sequen­ze inedite, conversazioni con il regista). [18] Il contenuto speciale di gran lunga più fre­quente è costituito dalle interviste a collaboratori, ad attori e comparse, a colleghi e a studiosi, sorta di premesse o meglio di post-fazioni al testo filmico che assumono il carattere di testimonianza e di riflessione sviluppata a partire dall'opera dell'autore. [19] 
Così come Ugo Gregoretti e Dino de Laurentiis commentano gli episodi che com­pongono rispettivamente Ro.Go.Pa.G. e Capriccio all'italiana, ricordando il periodo di lavorazione dei due film, [20] allo stesso modo Alfredo Bini, a proposito di Sopralluoghi in Palestina,spiega come l'idea del reportage sia nata in relazione alla difficoltà di reperi­re finanziamenti per il Vangelo, [21]mentre Carlo Lizzani, nel ricco DVD di Medea sopra menzionato, si sofferma in particolare sulla centralità del paesaggio «arcaico» della pellicola, che evoca le sembianze della terra dopo il diluvio universale e che risulta «protagonista insieme alla figura umana» di tutto il film.
Alcune interviste assumono la forma del documentario. Il breve filmato Pasolini a Sant'Angelo Lodigiano, realizzato da Roberto Figazzolo e inserito nel DVD di Edipo re, [22]alterna la testimonianza di due abitanti del paese lombardo coinvolti da Pasolini durante le riprese del prologo moderno del film alle inquadrature dei luoghi che hanno fatto da ambientazione alla vicenda; analoga impostazione si riscontra nel do­cumentario Roma e Pasolini, curato da Mario Sesti, che compare nel DVD di Accattone edito all'interno della stessa collana: Vincenzo Cerami e altri intellettuali discutono sull'impossibilità di realizzare un nuovo Accattone, constatata l'avvenuta trasforma­zione antropologica degli italiani, dei loro corpi e delle loro città, e individuano nella Roma anni Sessanta una città aperta a una miriade di esperienze, la cui 'forma' ha influenzato anche sotto questo profilo la composizione 'per frammenti' di alcune opere pasoliniane. Ad opera dello stesso curatore è poi il documentario (di diciasset­te minuti) intitolato Comizi e pregiudizi. Pasolini e la società inserito in Comizi d'amore, [23] che propone interviste a Goffredo Bettini, a Ugo Gregoretti, a Valerio Magrelli, allo storico Guido Crainz e al comparatista Arturo Mazzarella. Le interviste vertono in particolare sugli aspetti antropologici dell'inchiesta, che ha significato per Pasolini, secondo Crainz, la scoperta di un'Italia arretrata, luogo di pregiudizi e di qualunqui­smo nel quale il miracolo economico non ha implicato un miracolo spirituale bensì ha distrutto l'Italia arcaica sostituendola con un'Italia la cui modernità era in realtà priva di contenuti, senza etica, solo nominalmente progressista: un'Italia, insomma, in cui sono già visibili le tracce di un «paese spoliticizzato [...] che non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione», secondo quanto scriverà Pasolini nell'abiura dalla Trilogia.
La tipologia dell'intervista trova uno sviluppo ulteriore con il mediometraggio La Rabbia 1, la Rabbia 2, la Rabbia3... l'Arabia, documentario di Tatti Sanguineti (65') che, anche grazie agli interventi di Ugo Gregoretti, Carlo di Carlo, Claudio Quarantotto (vice direttore del «Borghese»), Alberto Guareschi e Fabio Carapezza Guttuso, rico­struisce la vicenda del film di montaggio pasoliniano, mostrando peraltro come il medium del DVD, proprio in virtù dei suoi peritesti, sia in grado nei casi più avvertiti di porsi come strumento di aggiornamento critico. [24] Il documentario prende avvio dalla constatazione secondo cui vi fu certamente un 'archetipo' della Rabbia di Pasolini, una copia lavoro presentata al produttore Gastone Ferranti della durata di circa 100 minuti: Sanguineti lo deduce dalla sovrabbondanza iniziale della sceneggiatura rimastaci (che ha infatti inizio con i funerali di De Gasperi e con il ritorno delle ceneri dei martiri di Cefalonia, non con gli avvenimenti d'Ungheria, come nell'episodio pervenutoci, che corrispondono invece alla sequenza XX della sceneggiatura) e soprattutto dalla stretta rispondenza fra questa e le immagini e i commenti in over sound del cinegiornale «Mondo libero». A questa prima Rabbia fece seguito una seconda versione, [...] dovuta alla decisione da parte del produttore di dimezzare la durata della parte di Pasolini e di inserire la voce 'da destra' di Guareschi, in una sorta di agonistica e quasi fisica sfida al buio fomentata abilmente in sede di promozione del film. Il film, uscito per poco tempo al cinema e subissato dalle critiche, venne infine ritirato, secondo Sanguineti soprattutto a causa delle critiche agli americani - ridi­colizzati e ritratti come carnefici e assassini - condotte dall'episodio di Guareschi; emerse tuttavia in Ferranti l'idea di rivedere il progetto e di riproporre nuovamente la pellicola, con l'aggiunta di un terzo tempo volto a prospettare una mediazione da affidare a Ugo Gregoretti: il progetto rimase tale, ma ne fa testimonianza una lettera di risposta dello stesso Gregoretti (menzionata nel documentario e riprodotta nel booklet allegato al DVD).
Alla ricostruzione del contesto dei film pasoliniani concorrono, oltre alle testimo­nianze e alle introduzioni critiche, anche materiali audiovisivi d'epoca. La presenza del trailer originale del film, ad esempio, oltre a fornire in generale un utile tassello per lo studio dell'evoluzione di questo micro-genere filmico, rappresenta un elemen­to per l'analisi delle strategie promozionali inerenti le opere filmiche (e la figura pub­blica) di Pasolini. È il caso del trailer di Ro.Go.Pa.G.,in cui la voce di presentazione, giunta all'episodio di Pasolini, evita di menzionare riferimenti alla Passione lasciando alle inquadrature del film che scorrono sullo schermo il compito di annunciare allo spettatore la rivisitazione evangelica operata dal regista; di Comizi d'amore, incentra­to sull'opzione di un cinema di verità che dà la parola agli stessi italiani provocandoli a violare il tabù del sesso («gli italiani divisi in opposte fazioni discutono sul sesso», secondo uno degli slogan del trailer) e anticipa alcune tematiche affrontate nell'in­chiesta (il divorzio, l'educazione sessuale, l'ineffabilità dell'argomento, le declinazio­ni regionali dei pregiudizi sulla condotta sessuale, la legge Merlin, la verginità); o an­cora di La rabbia, vero e proprio congegno pubblicitario messo in atto per enfatizzare la conflittualità ideologica e l'opposizione insanabile fra Pasolini e Guareschi al fine di sollecitare le attese del pubblico. [25]
Di particolare interesse sono inoltre i brani di cinegiornali, frequente contenuto speciale rivolto soprattutto a documentare come anche attraverso questo strumento fosse compiuta la persecuzione mediatica nei confronti di Pasolini. Se nel DVD di So­pralluoghi in Palestina è mostrato un passaggio della «Settimana Incom» del 12 luglio 1963 in cui Pasolini, in aereo, spiega a un intervistatore il motivo del proprio viag­gio in Palestina informandolo circa l'intento di realizzare un nuovo film sul Vangelo («un'impresa insolita per il populista Pasolini», commenta la voce del cinegiornale), gli inserti di «Ieri, oggi, domani» che figurano, a cura di Sesti, nel già menzionato DVDdi Uccellacci e uccellini, testimoniano anche da questo punto di vista come l'at­tenzione mediatica di cui era oggetto Pasolini si focalizzasse in particolare sulla sfera sessuale del poeta: vi compaiono infatti uno spezzone del 1960 in cui Laura Betti can­ta il Valzer della toppa di Pasolini; un secondo passaggio dello stesso anno nel quale si annuncia che Pasolini, interprete nel Gobbo di Lizzani, recita ora le battute scritte da altri dopo averne egli stesso composte per altri attori in qualità di sceneggiatore e si constata che «era tempo che anche il rapporto tra il cinema e Pier Paolo Pasolini fosse invertito»; un servizio su un convegno del 1963 su cinema e censura al quale Pasolini tiene una relazione giudicata, «come tutte le sue relazioni, un po' troppo ardita»; un commento alla presentazione pubblica di Memoriale di Volponi tenuta da Moravia, Pasolini e Pampaloni (1962) in cui si ironizza sulla congenialità del romanzo ai ‘volponi' Moravia e Pasolini; una notizia sulla lavorazione di Uccellacci e uccellini (1965) che diviene occasione per denigrare «Pipipì», «uno che ama la vita violenta» e che ha affidato al «suo ultimo discepolo, tale Ninetto Davoli, di Trastevere» la parte principale di un film su cui si vuol mantenere il massimo riserbo, così che «nessuno è riuscito a sapere se Ninetto sia l'uccellaccio o l'uccellino», segreto «che il regista vuol tenere tutto per sé». [26] 
Approfondisce lo stesso ambito anche il DVD di La rabbia di Pa­solini, in due inserti intitolati L'aria del tempo: il primo pone in sequenza un passaggio della «Settimana Incom» del 1961 che ironizza sulla volontà di Pasolini di cimentarsi con la regia mettendosi «a fare l'accattone»; della «Settimana Incom» del 1960, in cui a Pasolini viene idealmente conferito il Nastro d'argento per aver sceneggiato le migliori parolacce dell'anno; di «Caleidoscopio ciac» del 1962 sulla cerimonia del premio Strega cui Pasolini prende parte esibendo «occhiali da gerarca»; lo stesso servizio di «Ieri, oggi, domani» trascelto da Sesti per il DVD di Uccellacci e uccellini; infine una breve scena tratta da Le confessioni di un poeta (documentario di Fernaldo Di Giammatteo del 1967) nella quale Pasolini parla del proprio linciaggio mediatico e si raffigura, citando Saba, come uno di quegli animali che, forse, vogliono essere mangiati. 
Il secondo inserto è invece un breve sketch,recitato e cantato, tratto dal film Scanzonatissimo di Dino Verde (1963), nel quale Elio Pandolfi, Antonella Steni e Alighiero Noschese, nei panni di una prostituta, un protettore e un omosessuale, ritraggono Pasolini come «profeta» di un'arte facile e volgare e stigmatizzano la ten­denza dell'autore ad attingere i personaggi delle proprie opere letterarie e cinematografiche dai sobborghi malfamati della capitale, a trattare tematiche scabrose, ad utilizzare un lessico turpe ricavandone un considerevole profitto economico. [27]
Le scene espunte, le riprese degli operatori, le foto di scena, che in generale rap­presentano contenuti speciali tipici delle edizioni in DVD, possono fornire un impor­tante contributo alla comprensione dell'opera cinematografica, [28] ampliando i confini del text world cui il DVDè dedicato. L'inserimento di scene e inquadrature eliminate o foto di scena inedite si rivela tuttavia, nel caso dei DVD di film pasoliniani, un'opportunità che in ambito italiano è stata colta raramente. Si prendano a confronto le edizioni francesi prodotte da Carlotta Films: i tre DVD della Trilogia della vita includono i trailers, le foto di scena, due scene eliminate dal Fiore delle Mille e una notte un'intervista a Ninetto Davoli intitolata L'ami pasolinien; [29] l'edizione di Salò mette a disposizione, insieme alla versione italiana e al trailer, anche la versione 'ufficiale' in lingua francese con doppiaggio condotto sotto la supervisione di Jean-Claude Biette, una serie di foto di scena (alcune delle quali inedite), le riflessioni sul film dei registi Bertrand Bonello, Catherine Breillat, Claire Denis e Gaspard Noè (Enfants de Salò, di circa venti minuti) e il documentario realizzato da Amaury Voslion Salò d'hier à aujourd'hui,costruito con immagini d'archivio che mostrano Pasolini mentre dirige le ultime riprese a Cinecittà nel maggio del 1975 e con interviste ad attori e collaboratori; [30] l'edizione restaurata del Vangelo offre come bonus il trailer del film, un inter­vento di Hervé Joubert-Laurencin sul rapporto di Pasolini con la religione (Pasolini: un religieux sans foi, di dieci minuti), un'intervista a Virgilio Fantuzzi (Pasolini face à l'Église, di quindici minuti) e una testimonianza di Enrique Irazoqui, protagonista del film, a oltre quarant’anni di distanza dalle riprese (Un Chrìst a Cadaqués, di ventidue minuti) [31]. 
Il cofanetto Les années 60. Pier Paolo Pasolini comprende nei suoi tre DVD, oltre ad Accattone, La ricotta, Comizi d'amore, Uccellacci e uccellini, Che cosa sono le nuvole?, La sequenza del fiore di carta, Edipo re e a quattro trailers, le scene superstiti dell'episodio Toto au cirque (o L'aigle)e il documentario Pasolini l'enragé realizzato nel 1965 da Jean-Andre Fieschi; [32] infine il doppio DVDdedicato a Medea contiene, insieme al film, al trailer e a una spiegazione divulgativa del mito, un documentario con parte delle riprese in Super8 di Ennio Guarnieri, alcune foto di scena inedite, interviste ad attori e collaboratori (Médée passion, souvenirs de tournage, di circa trenta minuti), una presentazione di Christophe Mileschi, traduttore in francese della sceneggiatura di Medea (Médée, le choc des cultures, di dodici minuti), una lettura delle Visioni della Medea in traduzione francese e nove scene inedite soppresse in fase di montaggio e ritrovate presso la cineteca CinemaZero di Pordenone. [33] 
Nelle edizioni italiane, invece, un bre­ve frammento inedito è allegato fra gli extra di Sopralluoghi in Palestina: sul tracciato visivo di sequenze non comprese nella versione definitiva del reportage, la voce di Alfredo Bini - con il quale, nella finzione narrativa del documentario, Pasolini instaura un dialogo a distanza - giustifica la necessità di abbandonare l'idea di utilizzare la Palestina come ambientazione per il Vangelo e di rivolgersi piuttosto alla Puglia e alla Calabria. A questa tipologia possono essere accomunate le riprese in Super8 realizza­te da Ennio Guarnieri durante la realizzazione di Medea, che mostrano sopralluoghi, locations del film e scene di pausa dalle riprese. Occorre infine segnalare, in quanto testimonianza di riprese irrimediabilmente perdute, le foto di scena di Deborah Beer relative al finale di Salò e ad alcune sequenze di agguato previste per l'inizio del film incluse nel DVDPasolini prossimo nostro di Giuseppe Bertolucci. [34]

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NOTE

Nicola Catelli, Università degli Studi di Parma, Dipartimento di Italianistica, via Massimo D'Azeglio 85, 43100 Parma; e-mail: nicola.catelli@gmail.com.
1 Angela Molteni, Nella rete con Pier Paolo Pasolini, «Studi pasoliniani», 2, 2008, p. 164.
2 Cfr. Tullio De Mauro, L'Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 154: «Pasolini è il primo (un altro potrebbe essere Zavattini), il primo artista di grande livello internazionale che possa definirsi multi­mediale nel mondo di oggi. Pasolini è un infaticato sperimentatore di linguaggi profondamente diversi».
3 Angela Molteni, Nella rete con Pier Paolo Pasolini, cit., p. 165.
4 Si pensi a questo riguardo, ad esempio, ai casi eminenti di Teorema e Porcile, la cui concezione coinvolge cinema e romanzo da un lato, cinema e teatro dall'altro; al 'poema visivo' Iconografia ingiallita, che contamina letteratura e fotografia; o ancora all'episodio La terra vista dalla luna, in cui si registra la compresenza di parola (la sceneggiatura), disegno (lo storyboard a fumetti, che potrebbe ipsofacto costituire il 'contenuto speciale' di un ideale DVD di Le streghe) e immagine (il film).
5 Angela Molteni, Nella rete con Pier Paolo Pasolini, cit, p. 164.
6 Occorre osservare a questo riguardo che tutte le opere cinematografiche di Pasolini sono ad oggi disponibili nel mercato home video (in VHS o DVD), ad eccezione di La terra vista dalla luna e di Appunti per un film sull'India (quest'ultimo compare però in versione non integrale all'interno del DVD del film Via Pasolini: si veda la nota 18). Più in generale, anche altri ambiti del lavoro di Pasolini per il cinema sono stati oggetto di iniziative editoriali, sia in relazione alla sua attività di sceneggiatore e adattatore di dialoghi (ad esempio per Una vita violenta di Paolo Heusch e Brunello Rondi, La notte brava di Mauro Bolognini, Ostia di Sergio Citti, Trash di Paul Morrissey), sia a riguardo della sua interpretazione in II Gobbo e in Requiescant di Carlo Lizzani. A queste edizioni si aggiungono i CD musicali con le colonne sonore dei film e i volumi che raccolgono foto di scena e manifesti promozionali (fra i più recenti, II diaframma di Pasolini. Angelo Novi fotografo di scena/La poesia dell'immagine, catalogo della mostra omonima a cura di Pier Marco De Santi, Andrea Mancini, introduzione di Paolo e Vittorio Taviani, scritti di Francesco Galluzzi, Giovanni Guerrieri, Livia Novi, Pier Paolo Pasolini, Roberto Spocci, Angela Tromellini, Corazzano, Titivillus, 2005, con CD allegato, che raccoglie manifesti e materiali fotografici sui film pasoliniani provenienti dall'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna e dal Centro Multimediale del Cinema di Ponsacco; Mario Dondero, Scatti per Pasolini, a cura di Elisa Dondero e Massimo Raffaeli, introduzione di Federico De Melis, Milano, 5 Continents, 2005; Medea di Pasolini. Cronache del tempo e ricordi dei protagonisti, a cura di Laura Ceccarelli e Marina Cipriani, Roma, Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, 2006, che contiene tra l'altro le foto di Mario Tursi per Medea).
7 Si vedano le edizioni del Decameron, dei Racconti di Canterbury, del Fiore delle Mille e una notte e di Salò prodotte da Videa-CDE, distribuite da Eagle Pictures a partire dal 2002 e più volte riedite fino al 2007. Caso unico in Italia per quanto riguarda i DVD pasoliniani, tali edizioni sono disponibili anche in due tipologie di cofanetto, la prima contenente la Trilogia della vita, la seconda comprendente anche Salò e il film Pasolini. Un delitto italiano di Marco Tullio Giordana. I DVD non hanno contenuti speciali, e offrono la possibilità di vedere il film, oltre che nella versione rimasterizzata e remixata in Dolby 5.1, anche con il suono mono originale. La stessa doppia opzione sonora è presente anche nelle edizioni di Accattone, La ricotta, Comizi d'amore e Edipo re pubblicate nell'ambito della collana dedicata a Pasolini da Medusa Home Entertainment (collana che tuttavia annovera solo i quattro titoli indicati, su cui si veda oltre).
8  Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma, Mediaset Cinema Forever-Medusa, 2004.
9 Idem, II Vangelo secondo Matteo, Mediaset Cinema Forever-Medusa, s. a. Il restauro da negativo originale è stato compiuto a cura di Mediaset Cinema Forever e del Centro Sperimentale di Cinematografia in collaborazione con Compass Film. La colonna sonora è stata filtrata digitalmene e riequalizzata per elimi­nare i disturbi, mantenendo - come nell'edizione di Mamma Roma - il suono mono originale.
10  Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Medusa, s. a. [2008].
11 Idem, Medea. Le mura di Sana'a, Minerva/Raro Video, 2005, con booklet allegato.
12 Pier Paolo Pasolini, Giovannino Guareschi, La rabbia, a cura di Tatti Sanguineti, Minerva/Ra­ro Video-Cineteca di Bologna-Istituto Luce, 2008 (con doppio booklet). L'edizione è stata restaurata dalla Cineteca di Bologna a partire dal negativo originale e dai materiali d'epoca messi a disposizione dal gruppo editoriale Minerva/Raro Video. Si è potuta visionare solo nella fase di correzione bozze di questo contribu­to l'edizione di Appunti per un'Orestiade africana restaurata presso il laboratorio L'Immagine ritrovata della Cineteca di Bologna grazie ai materiali messi a disposizione dal produttore Gian Vittorio Baldi: se ne dà notizia solo in questa nota, sebbene l'operazione di restauro e i contenuti speciali che la accompagnano meritino uno spazio maggiore.
13 Sulle tecnologie digitali come strumenti in grado di coadiuvare la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali cfr. Fabio Ciotti, Gino Roncaglia, II mondo digitale. Introduzione ai nuovi media, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 373 sgg.
14 Davide Rossi, Note introduttive, L'arte dei DVD. Il paradigma della tripla evoluzione: Prodotto, Mercato, Con­tenuto, convegno UIEA e Confindustria, 2003, cit. in Patrick Coppock, Nicola Bigi, I segni intorno al testo. I DVD di Paz ! e di Santa Maradona, in Remix-Remake. Pratiche di replicabilità, a cura di Nicola Dusi e Lucio Spaziante, Roma, Meltemi, 2006, p. 338.
15 Patrick Coppock, Nicola Bigi, I segni intorno al testo, cit., p. 335.
16 Cfr. Edoardo Fleischner, Il paradosso di Gutemberg. Dalla crossmedialità al Media on Demand, prefazio­ne di Piero Gaffuri, Roma, Rai, 2007, p. 276. Si tratta di prodotti di scarto che tuttavia «si stanno affermando come parte irrinunciabile» del medium del DVD, come «produzione autonoma nella produzione principale» cui è dedicata un'attenta pianificazione contemporaneamente alla realizzazione del film (ibidem).
17 Cfr. Hervé Joubert-Laurencin, Pasolini, portrait du poète en cinéaste, Paris, Cahiers du Cinéma, 1995, p. 128: «L'inachèvement, sous différentes formes, rassemble donc les Appunti. Il règne pour cette raison sur tous ces films une sensation de liberté créatrice que ne possèdent pas toujours les longs métrages de fiction. On dirait que les Appunti réalisent des choix qui avaient été faits, ou révés, depuis longtemps dans le cycle dominant. Non pas en mineur, mais justement en allant franchement, si l'on peut dire, jusqu'au bout de l'inachevé». Sempre Joubert-Laurencin riconosce negli 'appunti' un carattere marcatamente metalinguistico, che si fa carico di riflessioni interne sull'andamento del film progettato, «révé», forse impossibile da produrre e distribuire, e si traduce spesso nell'uso della voice off e del commentario interno all'opera stessa: anche tali aspetti si accordano con lo statuto del 'contenuto speciale'.
18 Gli appunti filmici editi come contenuti speciali sono due : Le mura di Sana’a, documentario in forma di appello all'UNESCO affinché l'organizzazione preservi l'intatta bellezza architettonica di Sana'a, capitale dello Yemen, compare nel DVD di Medea prodotto da Raro Video nella versione contenente anche alcune scene tratte da La forma d'Orte, mentre Appunti per un film sull'India, in versione non integrale (16'), è un extra del DVD del documentario Via Pasolini (cfr. Igor Skofic, Via Pasolini, RaiTrade, 2005, mediometrag­gio prodotto dalla Rai e trasmesso come puntata del programma La Superstoria di Andrea Salerno). Brani di interviste a Pasolini sono invece utilizzati ampiamente nella costruzione di film-documentari dedicati al poeta, da A futura memoria di Ivo Barnabò Micheli (1985) a Pasolini e la ragione di un sogno di Laura Betti (2001), da Pasolini legge Pasolini di Gianni Barcelloni e Gabriella Sica (2001) a La voce di Pasolini di Matteo Cerami e Mario Sesti (2006) e a Pasolini prossimo nostro di Giuseppe Bertolucci (2006).
19 Si prescinde qui dalle brevi introduzioni di carattere divulgativo presenti nei DVD di Mamma Roma (cit., presentazione di Maurizio Porro), del Vangelo secondo Matteo (cit., presentazione di Maurizio Porro) e di Uccellacci e uccellini (cit., presentazione di Mario Sesti). Il DVD di Mamma Roma contiene anche interventi di Bernardo Bertolucci, Tonino Delli Colli ed Enzo Siciliano (produzione Criterion Collection, 2004). In questi come nella maggior parte dei casi seguenti, le interviste sono state realizzate appositamente per l'uscita del DVD.
20 L'intervista a Gregoretti, intitolata 1963-2006: il lavaggio del cervello, si trova all'interno del DVD di Ro. Go. Pa.G. (Medusa Home Entartainment, 2006), mentre l'intervista a De Laurentiis, II capriccio... di Dino, è contenuta in Capriccio all'italiana (FilmAuro, 2005 e 2008).
21 Pier Paolo Pasolini, Sopralluoghi in Palestina, Ripley's Home Video, 2005 (con booklet allegato). Si tratta di un'edizione in doppio DVD, il primo contenente il reportage in Medio Oriente, l'intervista a Bini e altri contenuti extra di cui si dirà in seguito, il secondo dedicato al documentario A futura memoria: Pier Paolo Pasolini di Ivo Barnabò Micheli.
22 Pier Paolo Pasolini, Edipo re, cit.
23 Idem, Comizi d'amore, cit.
24 Pier Paolo Pasolini, Giovannino Guareschi, La rabbia, cit. L'intervento critico di Sanguineti co­stituisce non soltanto un'introduzione al film, ma anche il prologo ideale all'ipotesi di ricostruzione della sequenza iniziale mancante che Giuseppe Bertolucci ha realizzato nel 2008 basandosi sulla sceneggiatura e sui cinegiornali di «Mondo libero». Per inciso, «l'Arabia» del titolo fa riferimento all'indicazione posta sulla scatola in cui era archiviata una pellicola originale, ritrovata da Tatti Sanguineti, che ha permesso il restauro del film.
25 Le relative edizioni in DVD sono citate sopra. Si segnala la presenza dei rispettivi trailer originali an­che nelle edizioni in DVD del Vangelo secondo Matteo, di Uccellacci e uccellini, di Edipo re e di Accattone sopra menzionate.
26 Cinecronaca, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, cit. Nel DVD è compreso anche un breve servizio sulla presentazione al pubblico di Poesia in forma di rosa.
27 Giuseppe Bertolucci, La rabbia, di Pasolini. Ipotesi di ricostruzione della versione originale del film di Pasolini, a cura di Roberto Chiesi, Minerva/Raro Video-Cineteca di Bologna-Istituto Luce, 2008. Il DVD propone la ricostruzione, o «simulazione» (la definizione è dello stesso Bertolucci), della parte iniziale del film pasoliniano presentata al Festival del Cinema di Venezia del 2008. Un terzo inserto, intitolato sempre L'aria del tempo, consiste in un frammento dell'intervista Pasolini l'enragé realizzata nel 1965 da Jean-Andre Fieschi; sono presenti inoltre interviste a Giuseppe Bertolucci, Vincenzo Cerami, Carlo di Carlo, Mario Dondero, Luigi Ficacci, e Valerio Magrelli. Valorizzando la rispondenza fra testo e immagine del film di montaggio, all'uscita del DVD ha fatto seguito il volume Pier Paolo Pasolini, La rabbia, a cura di Roberto Chiesi, Bologna, Edizioni della Cineteca di Bologna, 2009, in cui le sequenze della pellicola sono accostate ai brani della sceneggiatura (si rimanda sull'argomento all'articolo di Roberto Chiesi posto in apertura di questo fascicolo di «Studi pasoliniani»).
28 Cfr. Patrick Coppock, Nicola Bigi, I segni intorno al testo, cit., alle pp. 346-349, nelle quali gli autori si soffermano sul ruolo del finale alternativo o sostitutivo introdotto grazie ai contenuti speciali.
29 Pier Paolo Pasolini, Trilogie de la vie, Carlotta Films, con la collaborazione del Centre National de la Cinématographie, 2002.
30 Idem, Salò ou les 120 journées de Sodome, Carlotta Films-Columbia Tristar, con la collaborazione del Centre National de la Cinématographie, 2002.
31 Idem, L'Évangile selon St.-Matthieu, Allerton Films-Carlotta Films-Studio Canal, con la collaborazione del Centre National de la Cinématographie, 2003. La versione restaurata del film è stata accolta nella Sélection officielle Films Restaurés del Festival del cinema di Cannes nel 2003.
32 Les années 60. Pier Paolo Pasolini, Carlotta Films-Columbia Tristar, con la collaborazione del Centre National de la Cinématographie, s. a. [2004].
33 Pier Paolo Pasolini, Médée, Allerton Films-Carlotta Films-Cipa, con la collaborazione del Centre National de la Cinématographie, 2004 (il secondo DVD è interamente riservato ai contenuti speciali). Le scene tagliate sono precedute da cartelli curati da Nicolas Ripoche che precisano il luogo delle riprese e contestualizzano la scena rispetto allo svolgimento del film. Attraverso un'opzione interattiva, inoltre, la visione del film può essere interrotta all'inizio di alcune scene per dar luogo alla lettura delle Visioni della Medea, realizzando in tal modo una piena rispondenza fra testo e immagine, partitura poetica e partitura filmica. Va ricordato inoltre, per le stesse edizioni, il cofanetto intitolato Pasolini scénariste (2004), che con­tiene in due DVD i film Una vita violenta e Ostia.
34 Giuseppe Bertolucci, Pasolini prossimo nostro, Ripley's Home Video-CinemaZero, 2007.


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Il volto di Pasolini restituito, di Antonio Tricomi

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Il volto di Pasolini restituito
di Antonio Tricomi
in Antonio Tricomi, In corso d’opera. Scritti su Pasolini, edito da Transeuropa Edizioni, 2011

Amarlo, con generosità, e insieme contraddirlo, con forza. Affrancarsi dal suo mito per riscoprire la reale sostanza della sua opera di geniale bricoleur e inesausto pedagogo. Nel modo in cui tenne la scena pubblica, riconoscere un disperato tentativo di riaffermare il valore civile dell'arte, e della letteratura in specie, ma anche una forma di equivoca, e ancora eversiva, complicità con quel sistema dell'industria culturale che ormai non sembra più permettere a un intellettuale, a uno scrittore, margine di autonomia alcuno. Usarlo, e infine superarlo. A distanza di decenni dalla sua morte, è sempre questo che, con Pasolini, siamo chiamati ambiguamente a fare. 

Quanti sono i volti che lo sfaccettato prisma intellettuale di un autore inconcluso come Pasolini rimanda al lettore e, di converso, alla nostra epoca? Davvero tanti. Tanti quanti le controverse interpretazioni di un autore complesso e sfuggente hanno reso possibili sia tra gli irriducibili detrattori, sempre pronti a scovare nelle manie dell’uomo e dello scrittore, o nel suo ostentato ribellismo sociale, un facile appiglio per le teorie complottiste che si sono succedute nel tempo, sia tra i serafici sostenitori che, per pura agiografia, finiscono immancabilmente per rilevarne gli indiscussi meriti di polemista, pedagogo, sismologo dei propri tempi senza metterne sufficientemente in luce alcune contraddizioni, o quanto meno aporie, legate alla figura di intellettuale.
Finalmente un giovane studioso, Antonio Tricomi, che da un decennio conduce ricerche approfondite sul Pasolini attraverso una fedeltà che si estende dal 2002 al 2010 ed ingloba saggi, note, appunti, contributi accademici continuamente rivisiti e corretti per assecondare “i rovelli interpretativi” ed i “risorgenti dubbi esegetici” legati alla produzione pasoliana, dà alle stampe un volume collettaneo dal titolo “In corso d’opera. Scritti su Pasolini”, edito da Transeuropa Edizioni, che scatta una fotografia il più possibile distaccata e turgida del magma in continua evoluzione dell’opera dell’autore bolognese.
Con una scrittura saggistica ficcante e densa, precisa e rigorosa, ricca di spunti e suggestioni, dotata di una sorprendente acutezza di analisi e prospettive, il prof. Tricomi non si accontenta di fermarsi alla convenzionalità dei dati biografici ed anedottici, ma penetra decisamente, come ogni buon ricercatore, nel tessuto intimo della rete di rapporti formali ed estetici che regge un qualsiasi testo.
Pasolini è stata una figura controversa e del tutto particolare perché ha voluto fare del suo corpo e del suo stesso agire letterario una metafora volutamente deforme ed ingrossata del disfacimento culturale e morale che vide palesarsi e prendere lentamente forma nel nostro Paese. E’ stato, cioè, un autore importante per capire uno spaccato di storia italiana, tra gli anni ‘60 e ‘70, eppure non lo scrittore fondamentale, direbbe Tricomi, in grado di regalarci l’opera perfetta o decisiva nelle sorti delle nostre patrie lettere. Ha voluto spiegare il degrado della nostra convivenza sociale, la massa di congiure, ignominie, ricatti, perversioni e complicità che si celavano dietro al cosiddetto Potere (identificato in massima parte con la nascente borghesia edonistica e consumistica, falsamente tollerante e perbenista) passando attraverso il sotterramento inesorabile di ogni funzione di riscatto etico e formazione civile del letterato, ricollegandolo all’avvilente quanto progressiva emarginazione del suo ruolo ed assumendone su di sé, senza alcuna indulgenza, le stigmate e il durevole ribrezzo. 
Sporcandosi le mani e facendo del proprio corpo “martoriato” la fonte prima delle contraddizioni del suo tempo, assumendo l’intera sua opera a misura di paragone dell’intellettuale incompreso, Pasolini cercò, come poté e d’altronde senza alcuna speranza di successo, di entrare nei meccanismi di funzionamento dell’industria culturale italiana, ormai ridotta ad una massificata proliferazione di oggetti di pura distrazione e rapida fruizione, in scrupoloso ossequio alla logica dominante di un’acritica uniformità di pensiero, per scardinare dal di dentro i gangli di un processo di omologazione avviato a inesorabile compimento.
Le sue scelte non furono mai lineari bensì sofferte e restarono segnate da contraddizioni proprio perché fluttuante dovette ben presto rivelarsi il terreno sociale e intellettuale da cui presero le mosse e in cui vennero pensate con tanta lucida, rabbiosa determinazione. Dice bene Tricomi quando rimarca che le conflittualità ideologiche in cui Pasolini si dimenò possono considerarsi “il cardine del suo pensiero, il punto forte della sua arte”. In effetti, dopo aver fatto propria una certa militanza politica a sinistra non mancò di far sentire le sue critiche alle omissioni ed ai colpevoli silenzi del partito «al punto da guadagnarsi, per così dire, il tacito appoggio di una borghesia ostinatamente conservatrice e dunque disposta ad aprirgli le porte del “Corriere della Sera” così da assecondare il disegno strategico di indebolimento e demonizzazione della proposta politica e della cultura comuniste» (pag. 20). 
Apertamente schierato contro ogni forma di oscurantismo religioso si disse favorevole ad un “arcaico cattolicesimo” fatto di adesioni ad una certa purezza e semplicità evangelica, fedele ai punti fermi della dottrina sociale della Chiesa che rintracciava nella tradizione culturale preindustriale della civiltà contadina. Pur dichiarando apertamente la propria condizione di omosessuale non ebbe a cuore i movimenti gay ed un certo femminismo militante ritenuti funzionali ad una concezione edonistica del “nuovo potere totalitario borghese” (pag. 21). Sebbene si imponesse per il carattere innovativo e rivoluzionario della sua pedagogia “luterana”, mossa da un intransigente bisogno di liberazione etica dei costumi, contestò aspramente il Sessantotto per il suo carattere irriducibilmente ideologico, in cui percepì, acutamente ed in anticipo sugli altri, nel roboante conflitto generazionale, la strisciante lotta per il passaggio di privilegi e posizioni acquisite di dominio tra padri e figli.
I laceranti strappi al tessuto sociale vennero insomma sedimentati così in profondità da Pasolini da esserne restituiti con palpitante drammaticità. Allo scrittore i semplici mezzi di raffigurazione di un mondo desolato e stravolto non bastavano più e fu per questo che, dagli anni Sessanta in avanti e più precisamente a partire dal 1961, anno dell’ingresso di Pasolini nel cinema, i sui orizzonti artistici, lo statuto estetico stesso dei testi che licenziò, cambiarono totalmente. Lasciato un filone tradizionalista di perfettismo formale e didascalico (“Le Ceneri di Gramsci”, la “Religione del mio tempo”, le poesie in dialetto friulano, ad esempio), Pasolini cedette a una scrittura manierista e fortemente viscerale, labirintica, improntata a un incessante sperimentalismo linguistico e un altrettanto fibrillante multiformità stilistica così “da stravolgere e riformulare le tecniche delle più svariate forme di discorso per realizzare opere inclassificabili in base a comode partizioni di ambiti estetici o generi espressivi e quindi tali da smentire l’esistenza stessa di competenze, saperi, settori disciplinari distinti e rigidamente fissati” (pag. 95). 
Da quel momento, ad essere messi in scena furono degli organismi tentacolari e costantemente manipolabili di cui Tricomi è particolarmente attento a cogliere le sfumature e la drammatica intensità, mettendo intelligentemente in risalto il passaggio a un corpus letterario, intenzionalmente involuto ed irrisolto, in grado di sedimentare schemi e forme della traduzione letteraria in maniera “alterata e straniante”, non tanto e non solo per “abiurare” o a prendere le distanze dai maestri, quanto piuttosto, come direbbe Alessandra Ottieri, per riportare alla luce un passato che potesse “tradurre nel linguaggio dell’oggi i valori anzitutto etici dell’umanesimo” (pag. 11). 
Sentì di farlo in maniera plateale ed emblematica servendosi della lingua per rimodulare, ritracciandoli e rendendoli disponibili ad una pluralità di sensi, i significati fissati dal Potere che, dirà Roland Barthes dopo la morte di Pasolini, “fascisteggiava” anche attraverso “l’autorità dell’asserzione” e “la gregarietà della ripetizione”, intese come subdole e inconsce modalità di coercizione.
Tricomi ci suggerisce che la fede riposta di Pasolini nasceva da un’imprescindibile adesione ad una società patriarcale e premodernista, schiettamente popolare, dove il rispetto dei valori umani ed etici veniva prima di ogni commercio e compromesso. Anche nell’antifascismo vedeva una resistenza spirituale, prima ancora che politica, contro ogni forma di barbarie e riconosceva a quel genere di comunità una dignità che il suo mondo, indiscriminatamente divorato dagli istinti predatori di cinici potentati affaristici ed economici e da un disperato, qualunquistico egoismo, non aveva più ritrovato. Anche il suo estremo tentativo di creare pastiche linguistici o di percorrere possibilità artistiche diverse (dalla narrativa alla poesia, dal saggio al teatro e poi al cinema) dovette essere un ultimo disperato omaggio alla gloriosa, purtroppo irrimediabilmente perduta, tradizione culturale ed umanistica italiana. 
Senza cedere in nulla ad una perfetta coerenza di visione ed omogeneità dell’impianto esegetico, Tricomi ci ha restituito, sulla scia di altri grandi critici, come Gianfranco Contini e Walter Siti, un’immagine meno edulcorata, bistrattata o travisata e, per questo più vera, di Pasolini, appunto perché letta con le corrette lenti di un discorso interpretativo equilibrato, in grado di ristabilire le giuste distanze e le adeguate proporzioni di fondate messe a fuoco, prima di chiudere, con il dossier Pasolini, un importante capitolo della sua recente storia di valente accademico. (*)

(*) I corsivi sono miei (A.M.)
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Pasolini, Sodoma e il fascismo dei diritti

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LA SAGGISTICA - CINEMA
AUniversité Paris 1 Panthéon Sorbonne. "Omnibus Sapientia, Unicuique Excellentia"

Pasolini, Sodoma e il fascismo dei diritti
Luglio 1, 2013 Olivier Rey

«Meglio essere nemico del popolo che nemico della realtà».
Così PPP smascherò il conformismo sadico (e in fondo nichilista) dei “disobbedienti”
e dei “rivoluzionari”. Anticipiamo ampi brani di un saggio inedito su Pier Paolo Pasolini
scritto da Olivier Rey, filosofo, ricercatore al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) e
professore all’Università Paris 1 Pantheon-Sorbona. Il saggio apparirà in Francia
il prossimo novembre in Radicalité. 20 penseurs vraimente critiques, volume edito da L’Échappée, Parigi.
Ospiterà interventi di autori vari e sarà curato da Cédric Biagini, Guillaume Carnino e Patrick Marcolini.
Olivier Rey è stato invitato al Meeting di Rimini domenica 18 agosto 2013


Quasi quarant’anni dopo la sua scomparsa, è soprattutto come cineasta che Pier Paolo Pasolini è ancora conosciuto in Francia. Si sa anche che fu vittima, nel 1975, di un assassinio sordido su una spiaggia di Ostia. I suoi film più spesso citati sono quelli degli inizi – Accattone (1960), Mamma Roma (1961) – così come Teorema e il sempre “sulfureo” Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975), per lo scandalo provocato alla loro uscita. Di fatto, Pasolini si espresse, oltre al cinema, con altri mezzi: fu anche poeta di prim’ordine, romanziere, drammaturgo e saggista politico molto importante. È su quest’ultimo aspetto che intendiamo insistere – un aspetto che la figura di Pasolini cineasta permette in genere di minimizzare, o di ignorare completamente. Dopo la sua morte, lo si è imbalsamato come artista. Artista lo è incontestabilmente; ma tale etichetta non deve servire ad attenuare la portata politica del suo pensiero, che non viene trascurata perché superata, ma perché in grado di descrivere fin troppo bene quello che ci capita.
All’indomani della Seconda Guerra mondiale, il giovane Pasolini (nato nel 1922) aderisce al Partito comunista italiano. Vi resta solo due anni, ma non è una controversia ideologica che lo induce ad abbandonarlo. È infatti in seguito a uno scandalo sessuale (durante una festa di paese aveva avuto relazioni con adolescenti) che perde il posto di lavoro come professore di lettere e viene espulso dal partito. Pasolini attraversa allora un periodo estremamente duro, anche se alcune delle sofferenze che conosce in questo tempo sembrano risparmiargliene altre in seguito. Diventa infatti chiaro che il malinteso con il Partito comunista è destinato a scoppiare un giorno o l’altro. Il bersaglio principale del partito era infatti la detenzione privata del capitale, alla quale doveva essere sostituita la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Per Pasolini, tuttavia, la proprietà collettiva delle fabbriche poteva avere senso solo se avesse portato al loro smantellamento.


Lo iato della rivoluzione industriale

È quel che si evince da un testo del 1975, nel quale l’intellettuale si rivolge a Gennariello, un adolescente immaginario che ha scelto di far vivere a Napoli perché, scrive in Lettere Luterane, «preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana». Malgrado la vicinanza che sente con questo ragazzo, Pasolini è cosciente del baratro che meno di quattro decenni sono bastati a scavare tra loro, per il semplice avvento della rivoluzione industriale. «Nel parlarti, potrò forse avere la forza di dimenticare, o di voler dimenticare, ciò che mi è stato insegnato con le parole. Ma non potrò mai dimenticare ciò che mi è stato insegnato con le cose. Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide: ossia uno dei più profondi salti di generazione che la storia ricordi. Ciò che le cose col loro linguaggio hanno insegnato a me è assolutamente diverso da ciò che le cose col loro linguaggio hanno insegnato a te. (…) La qualità misteriosa (delle cose, ndr) era quella dell’artigianato. Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta è stato così. Le cose erano ancora fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. (…) Il salto tra il mondo consumistico e il mondo paleoindustriale è ancora più profondo e totale che il salto tra il mondo paleoindustriale e il mondo preindustriale». Questo capovolgimento Pasolini lo deplora, e pensa che non bisogna rassegnarsi alla ragione che sarebbe il senso della storia. «Non è vero – scrive ancora in Lettere Luterane– che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo che la società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua “accettazione realistica” è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti» (…)
Pasolini non ha smesso, all’inizio degli anni Settanta, di attirare l’attenzione sulla gravità del processo in corso, con la sensazione, che numerose volte ha dovuto sconcertarlo e atterrirlo, di essere uno dei pochi a prendere coscienza di ciò che peraltro andava saturando l’intero spazio. Da qui la veemenza dei suoi discorsi, come uno dei passaggi degli Scritti Corsari: «Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. 
Nico Naldini, Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia alla presentazione del film "Fascista" di Naldini, 1974

Nel film di Naldini [Fascista 1974, ndr]noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa… Con una differenza però. Allora i giovani nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi ed i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo. Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio, nel fondo dell’anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. (…) Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo».


Contro quell’antifascismo

L’utilizzo che Pasolini fa del termine “fascista” è contestabile. Una preoccupazione di igiene concettuale consiglierebbe di riservare la parola alla designazione di un complesso di idee abbastanza preciso, e ai regimi che lo hanno incarnato in Europa negli anni Trenta. Senza di che, diventa un’invettiva che gli avversari possono rivolgersi per squalificarsi reciprocamente, e che non ha più un gran senso (ai giorni nostri si è sempre il fascista di qualcuno). Le differenze tra il fascismo e la società dei consumi nella quale viviamo sono considerevoli, anche solo, come nota J. C. Michéa rifacendosi a Mona Chollet, perché «il capitalismo contemporaneo funziona ormai molto di più sulla seduzione che non sulla repressione». Del resto, Pasolini ne era un po’ più cosciente, perché è proprio in questo arruolamento attraverso la seduzione che identificava il carattere più temibile, sotto le sue arie bonarie, della società di consumo. Il ricorso al termine “fascismo” era innanzitutto, per lui, di ordine tattico. Esulcerato com’era nel vedere i suoi contemporanei sbagliare nemico, che persistevano nel credere che la più grave minaccia da scongiurare fosse un ritorno del fascismo precedente alla guerra, considerava questo atteggiamento di antifascismo archeologico come un eccellente pretesto per vedersi assegnare un brevetto di antifascismo reale. «Si tratta – scrive ancora negli Scritti Corsari– di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. (…) Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo o è stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È, insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo». Peggio: è un antifascismo che dispensa dall’affrontare il vero avversario, che permette anche di collaborare senza troppi sentimenti o anche ardentemente con esso. Se Pasolini ha qualificato come “fascista” la società dei consumi, è perché si confrontava con persone che non potevano concepire altro nemico che il fascista. E allora che almeno imparassero a intendere, con questa parola, quello che era divenuto il vero mostro col quale confrontarsi.


I bambini tiranni in salotto

D’altronde, per quanto differente sia la società dei consumi dal fascismo, essa ne condivide alcuni tratti. Una forma di oscenità, per esempio, o il voler confinare gli esseri nell’immaturità, nonché la mobilitazione dei più giovani a sedere nel suo regno. Nel suo libro La scuola dei barbari. L’educazione della gioventù nel terzo Reich, pubblicato nel 1938, Erika Mann riporta una scena agghiacciante, in cui un moccioso di quattordici anni, poiché detiene un certo grado nell’ambito della “Jungvolk”, è in grado di dettare legge a un padre di famiglia nella sua casa. Un parallelo si impone con la situazione presente, in cui la società dei consumi intende passare al di sopra della testa dei genitori, per rivolgersi direttamente ai bambini e far di loro, all’interno dei focolari, dei rappresentanti tirannici. Paragonando questa società a un penitenziario, Pasolini osservava, sempre nelle Lettere Luterane, che «i personaggi principali di questo penitenziario sono i giovani» – più prigionieri maltrattati, che guardiani feroci. È facile, infatti, come nota Claude Alzon «per un manipolatore abile far nascere nel bambino qualsiasi desiderio conforme ai suoi interessi. Un tempo erano i genitori che si incaricavano di questo gioco di prestigio. Adesso che anche loro sono stati ridotti allo stato infantile dal capitale, e quest’ultimo si incarica di manipolare direttamente tutti, i piccoli come i grandi» e «l’adolescenza, che una volta era un’entrata nell’esistenza, è divenuta semplicemente un’entrata nella voglia», già effettuata in larga parte sin dalla più tenera età. «Nei paesi occidentali – rincara Jean-Claude Michéa – quasi il 70 per cento degli acquisti operati per la famiglia avvengono ormai sotto la pressione morale e psicologica dei loro bambini. Se le parole hanno un senso, ciò significa che l’addestramento spettacolare e commerciante della giovinezza si è già rivelato così efficace che una gran parte di quest’ultima assume senza alcun sentimento il suo nuovo ruolo di occhio del sistema all’interno della sfera familiare» (…).
Pasolini ha visto costituirsi, prima e dopo il 1968, uno “spirito di ribellione” falsamente contro il sistema, in realtà parte integrante del sistema e agente della sua infinita estensione. «Per tutti questi giovani – nota Pasolini nelle Lettere Luterane– vale la figura o “modello” del “disobbediente”. Non c’è nessuno di essi che si consideri “obbediente”. In realtà, semanticamente, le parole hanno rovesciato il loro senso scambiandoselo; in quanto consenziente all’ideologia “distruttrice” del nuovo modo di produzione, chi si crede “disobbediente” (e come tale si esibisce) è in realtà “obbediente”, mentre chi dissente dalla suddetta ideologia distruttrice – e, in quanto crede nei valori che il nuovo capitalismo vuole distruggere, è “obbediente” – è dunque in realtà “disobbediente”». Nei fatti i contestatori spesso non hanno fatto altro che accelerare la dinamica dominante, hanno avuto l’impressione di strappare al sistema quel che in verità aveva bisogno che prendessero senza osare darglielo.


L’ambiguità delle liberazioni

Da qui la profonda ambiguità di innumerevoli “liberazioni”, che sono anche alienazioni rinforzate. Così, al fine di far abbassare i salari, per una concorrenza accresciuta tra gli iscritti alle liste di collocamento, il sistema economico aveva interesse a lanciare in massa le donne sul mercato del lavoro; per far aumentare la domanda, aveva tutto l’interesse a liberare il bambino dall’influenza degli adulti perché divenisse, sin dalla più giovane età, un consumatore di pieno diritto. Attraverso la legislazione del divorzio in Italia, Pasolini ha identificato da una parte «un progresso reale e cosciente, in cui i comunisti e la sinistra hanno avuto un grande ruolo; dall’altra un progresso falso, per cui l’italiano accetta il divorzio per le esigenze laicizzanti del potere borghese: perché chi accetta il divorzio è un buon consumatore» (Scritti Corsari). 
Più generalmente, lui, che mai si riuscirà a dipingere come pudibondo, sia per le sue opere che per le sue numerose e consapevoli relazioni con dei ragazzi, ha percepito quel che la “liberalizzazione” dei costumi poteva avere di falsamente emancipatore e di veramente distruttivo. «Rivoluzione sessuale piège à cons» diceva Maurice Clavel, e Pasolini condivideva questo giudizio nelle Lettere Luterane: «La società preconsumistica aveva bisogno di uomini forti, e dunque casti. La società consumistica ha invece bisogno di uomini deboli, e perciò lussuriosi». «Oggi – scrive anche negli Scritti Corsari –la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. (…) Il risultato di una libertà sessuale “regalata” dal potere è una vera e propria e generale nevrosi. La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità “indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza».
Perché Pasolini ha girato Salò o le 120 giornate di Sodoma? Per mostrare, a un’intellighentsia irresponsabile che credeva di aver trovato nella trasgressione alla Sade un modello di rivolta contro la morale borghese e l’ordine fascista, che, così facendo, contribuiva a rovesciare gli ultimi ostacoli che si opponevano ancora a una mercificazione integrale del mondo (…). Pasolini ha letto Sade. E quel che ha trovato non è l’uomo totale ma l’uomo ributtante, per il quale gli altri non sono e non possono essere che strumenti. Sì, Salò o le 120 giornate di Sodomaè un film atroce, inguardabile. Ma tale è la sua funzione. La sua concezione della sessualità Pasolini l’ha espressa nella sua Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte). Ha realizzato Salò come lavoro ingrato: per rispondere, in modo conseguente, ai “rivoluzionari” alla Vaneigem, e ai libertari che si immaginano di portare dei colpi di incredibile audacia alla società del loro tempo con le loro apologie della trasgressione, mentre in realtà non fanno che stimolare e confermare la sua dinamica. Condurla più in fretta e più efficacemente verso il nulla morale, in cui tra gli esseri rimangono solo rapporti di strumentalizzazione e di consumo (…).


L’equivoco su ciò che è moderno

Sin dall’indomani della Seconda Guerra mondiale, Dwight Macdonald proponeva di sostituire la distinzione classica tra “sinistra” e “destra” con una nuova distinzione tra “progressisti” e “radicali”, spiegando a quale tipo di confusione ci si condannava persistendo a interpretare gli avvenimenti a partire dalla griglia di lettura sinistra/destra. Di fatto, l’opposizione tra sinistra e destra è sempre più esclusivamente un’opposizione all’interno di uno stesso movimento, quello di una perpetua “modernizzazione” concepita come andante sempre “nel giusto senso”. 
Pasolini aveva compreso che la destra moderna non ha più nulla di conservatore e che l’intestardirsi a considerarla come guardiana dell’ordine antico è un errore patetico (o un comodo alibi), che conduce la sinistra (o l’autorizza) a un perpetuo rilancio sulle trasformazioni alle quali pretende di opporsi. 
Ha assistito costernato all’annientamento, in nome del progresso, delle culture popolari, annientamento tanto più catastrofico quanto vedeva giungere, sin dagli inizi degli anni Settanta, il momento in cui convulsioni economiche avrebbero riportato una gran parte della popolazione verso la povertà, in un mondo segnato – dopo questo intervallo – dalla degradazione di città e di paesaggi, dalle devastazioni di uno «sviluppo» mancato trasformatosi in disastro ecologico, e dall’affossamento dei valori che permettevano di vivere una vita autenticamente umana nella frugalità. Un mondo di lavoratori precari o senza lavoro, di consumatori frustrati, che la propaganda sulla felicità del consumare ha reso inadatti a sopportare il fallimento, il denudamento, la privazione. 
Cristopher Lasch non aveva paura ad affermarlo: «La convinzione che per certi aspetti il passato fosse un periodo più felice non si basa affatto su una illusione romantica; e non porta necessariamente a una visione reazionaria e astorica che paralizza la volontà politica». Ciò non vuol dire che occorra ritornare indietro, il che è comunque impossibile. Non vuol nemmeno dire che prima tutto andasse bene – i difetti degli antichi tempi non sono che troppo massicci. Ciò significa che il modo in cui ci si è impegnati per migliorare le cose era cattivo, o lo è divenuto. Al punto in cui siamo un rapporto critico, ma più positivo, rispetto al passato, è necessario per evitare un futuro disastroso. Pasolini non si lasciava intimidire da quel che chiamava lo «scandalo dei pedanti», pronti a tacciarlo di passatista, di reazionario, di nemico del popolo per perseverare nella loro menzogna o accecamento. Pensava – come scrisse nelle Lettere Luterane– che sia «meglio essere nemico del popolo che nemico della realtà».

Traduzione dall’originale francese a cura di Flora Crescini
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Matera 2019, Enrique Irazoqui (intervista) sostiene candidatura città dei Sassi a Barcellona, maggio 2013

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"Pagine corsare"
LE NOTIZIE
Enrique Irazoqui, Giacomo Morante e Pier Paolo Pasolini sul set del "Vangelo"

Matera 2019. Enrique Irazoqui sostiene
 la candidatura della città dei Sassi a Barcellona
e Kenny Riches con un viaggio da Londra a Matera in bicicletta.
Terza pagina 22 maggio 2013 - www.sassilive.it
CLICCA QUI SOTTO PER VEDERE E ASCOLTARE L'INTERVISTA A ENRIQUE IRAZOQUI
http://www.youtube.com/watch?v=-acSjsum49s

Diventa sempre più internazionale la candidatura di Matera a capitale europea della cultura 2019.
Sabato, 25 maggio 2013, nell’ambito della retrospettiva interamente dedicata a Pier Paolo Pasolini e organizzata dalla Filmoteca de Catalunya, è stato proiettato a Barcellona il cortometraggio “Diamante e carbone”, diretto dal regista materano Luca Acito e prodotto dal Comune di Matera e dal Comitato Matera 2019.
Il cortometraggio è stato realizzato nel 2011 in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Enrique Irazoqui voluto dal Consiglio comunale di Matera e racconta, secondo un originale punto di vista sulla bellezza, lo spirito che animò Pasolini nel girare a Matera il “Vangelo secondo Matteo”.
Il cortometraggio, che in apertura e chiusura contiene bene in evidenza il logo della candidatura di Matera a Capitale europea della cultura nel 2019, è stato proiettato subito prima del “Vangelo”. E’ seguita una tavola rotonda che ha avuto come protagonista proprio Enrique Irazoqui che ha parlato del film che lo vide protagonista e, ovviamente, della città di Matera.
Sempre sabato 25 maggio 2013, con il supporto di Matera 2019, è partita da Londra per raggiungere in bicicletta Matera, Kenny Riches.  Sulla due ruote, allestita con due visibili cartelli “I Support Matera 2019” attraverserà, oltre all’Inghilterra, Francia, Belgio, Lussemburgo, Germania, Liechtenstein, Svizzera e tutta la penisola italiana per raggiungere Matera. Con la sua bicicletta percorrerà, complessivamente, circa 2.500 chilometri, in circa tre settimane. Per la circostanza il comitato Matera 2019 sta organizzando una iniziativa per accogliere Kenny nel migliore dei modi.

Lungo il suo itinerario, Kenny promuoverà la candidatura non solo attraverso i cartelli allestiti sulla sua bici, ma anche proponendosi come originale interprete di questo viaggio che Matera ha deciso di affrontare verso il 2019.
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