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Perché ci è ancora necessario Pier Paolo, uno scrittore che, in un certo senso, ha perso vincendo, di Antonio Tricomi

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Una sfida "civile" alla morte
Perché ci è ancora necessario Pier Paolo, uno scrittore
che, in un certo senso, ha perso vincendo


L’opera di Pasolini è sì inequivocabilmente autobiografica; soffre sì di una condizione come di minorità rispetto al suo autore, che non se ne distacca, non le lascia autonomia alcuna, quasi la occulta, certamente la sovrasta, con il proprio corpo e la propria voce. È sì quella di un impenitente Narciso, di un uomo rimasto ragazzo, divenuto (o forse nato) nevrotico e comunque smanioso di rifugiarsi nel suo grembo, non metafora, ma reale sostituto, di quello materno. È però anche un’opera felicemente scissa al proprio interno, squarciata da due tendenze opposte che di continuo lottano per prevalere e sembrano volersela contendere. La tendenza dell’autore a giudicarla un proprio esclusivo possesso, il luogo nel quale ritirarsi e il diario quasi terapeutico da aggiornare costantemente: insomma, nulla più che un autoritratto contraddistinto da segni contraddittori e frequenti correzioni, e allora destinato a rimanere incompiuto, perché in continuo divenire sono le sue fattezze di uomo, il suo animo di eterno adolescente, le sue idee di intellettuale, il suo stile di poeta manierista. 
L’altra, ancora e sempre dell’autore, a viverla e a costruirla come un inesausto tentativo di fotografare l’esistente, la storia e i mutamenti sociali e culturali di volta in volta in atto nel paese, e allora a concepirla come un dovuto e necessario, addirittura profetico, ritratto generazionale, per raccontare le illusioni e gli errori, le scelte e le colpe di uomini e di scrittori nati sotto il fascismo e in seno alla modernità, chiamati a traghettare altrove l’Italia e l’arte, e infine costretti ad ammettere di aver consegnato la prima alla borghesia e di non aver saputo o voluto impedire il collasso della seconda.
L’opera insostenibile e spesso mancata di Pasolini, al pari del suo corpo atrocemente martoriato, appartiene dunque a un poeta civile che ha voluto sfidare la morte: quella dell’arte, provando ad opporle una summa interminabile e inclassificabile della tradizione letteraria e della cultura umanistica tutta; quella dell’autore, cercando di ripristinare l’aura di una figura ormai misconosciuta, e perciò facendosi profeta, opinion-maker corsaro e luterano, offrendosi infine quale martire, sempre per dimostrare che quella dell’artista è una presenza ancora necessaria alla società. 
E così egli ha perso forse due volte. Da un lato, perché non ci ha saputo dare il capolavoro né ha potuto impedire ciò che certo non poteva essere lui a impedire, ossia quel processo di delegittimazione della letteratura che appare adesso del tutto compiuto. Dall’altro perché, sottraendosi all’obbligo morale abitualmente avvertito dai grandi scrittori, quello cioè di impegnarsi ad offrire alla collettività dei libri che possano restare, appunto dei capolavori, ha contribuito ulteriormente non a difendere, ma piuttosto a dissolvere il mito dell’autore, rimpiazzandolo con quello dell’intellettuale inteso come “battitore libero”, nonché iniziando, tra i primi, a muoversi nella stessa direzione in cui frequentemente oggi si muove chi tende a ridurre quel mito alla triste realtà del facitore di testi e di merci che anzitutto è una vedette del mondo dello spettacolo, un prodotto dell’industria culturale.
Ma se Pasolini ha perso, in un certo qual modo ha perso vincendo. Voleva sfidare la morte e sopravviverle? Ebbene, è vero che pur avendolo eccessivamente celebrato erigendo alla sua opera un monumento – dieci Meridiani – senza precedenti nella letteratura italiana, facciamo forse molta più fatica oggi di ieri a reputarlo un classico, così come credo che addirittura maggiori saranno le resistenze dei suoi futuri lettori e giudici a concedergli il tributo generalmente concesso ai grandi autori. 
Ciononostante, chiunque voglia adesso e vorrà domani comprendere come sono cambiate e cosa sono diventate la letteratura e l’Italia dal dopoguerra agli anni Settanta, deve e dovrà obbligatoriamente fare i conti con i suoi testi assai più che con quelli di scrittori magari meno irrisolti di lui, nonché misurarsi con una morte scandalosa legata a quell’opera deforme non da una rapporto di causalità – come vorrebbero quanti in essa vedono l’esito di un complotto ordito dal Palazzo o, addirittura, un suicidio “per procura” –, ma da uno di semplice, e tragica, contiguità. Quello di Pasolini è cioè un delitto politico perché qualcuno, verosimilmente un branco di picchiatori neofascisti, ha voluto ridurre al silenzio un frocio che, nei suoi romanzi, nelle sue poesie, nelle sue pellicole cinematografiche, nei suoi saggi e interventi polemici, si era permesso di denunciare, con lucidità e forza sconosciute a molti altri scrittori e intellettuali dell’epoca, il degrado culturale, morale di una società, la nostra, oggi addirittura più corrotta, squallida di trent’anni fa.
Amarlo e insieme odiarlo; recuperarlo per poi volerlo superare; affrancarsi dal suo mito per riscoprire la reale sostanza della sua opera e del suo messaggio etico-civile; usarlo: come in passato, è ancora e sempre questo che con Pasolini siamo e saremo chiamati a fare.

(*) L’autore di questo intervento ha pubblicato i saggi critici
Sull’opera mancata di Pasolini (Carocci, 2005) e Pasolini: gesto e maniera (Rubbettino, 2005)
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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Trasumanar e comparar. Linguaggi di rivoluzione in Pier Paolo Pasolini

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LE NOTIZIE
Trasumanar e comparar
Linguaggi di rivoluzione in Pier Paolo Pasolini
di Irene Fantappiè
18 novembre 2010 - http://www.lerotte.net/


Nell’ambito del Progetto Europeo EST (Europa Spazio di Traduzione), che per l’Italia coinvolge l’Università di Napoli “L’Orientale”, il Festival della Traduzione che si è tenuto a Napoli dal 22 al 29 novembre 2010 costellato da numerose proposte e iniziative, ha presentato anche la mostra su Pier Paolo Pasolini “Trasumanar e comparar” presso la prestigiosa sede di Palazzo Bagnara della Fondazione Morra, che ha ospitato l’iniziativa. Realizzato anche grazie alla preziosa collaborazione del Gabinetto Scientifico Letterario G.V. Vieusseux e della Cineteca di Bologna, l’itinerario espositivo ha raccontato come Pasolini non abbia guardato alla propria epoca come semplice “scrittore”, ma abbia realizzato un confronto creativo e innovativo tra epoche e luoghi diversi. Comparatore di culture, di linguaggi, di codici espressivi, di arti, di epoche e contesti storico-geografici, Pasolini spiega la sua straordinaria visione del futuro, di cui è stato efficace anticipatore.
Originalissimo antropologo, Pasolini ha utilizzato il disegno, la grafica e la pittura per “fotografare”, nelle forme e nei codici del grande ‘900 figurativo italiano - di cui era acuto conoscitore - la società contadina e sottoproletaria italiana. Un contesto culturale che egli reputa come unico sostrato possibile da cui trarre quei valori estetici e artistici che reputava pericolosamente insidiati dalla “rivoluzione antropologica” originata dal boom economico.
Questo destino, che non si ferma alle sole sponde italiane, per Pasolini laico e marxista è lo stesso che minaccia il valore del sacro. Dagli anni ’60 e fino alla fine il Pasolini regista ha documentato instancabilmente questi processi economici e culturali come tendenze in atto.
La mostra, lungo il percorso espositivo, ha ricostruito il filo del discorso poetico - sempre unitario e coerente – dentro cui Pasolini ha portato avanti questa sua coraggiosa inchiesta sul proprio tempo: giornalismo, documentazione, polemica, regia non sono mai stati per lui cosa diversa dalla poesia.
L’esposizione comprendeva disegni e dipinti di Pier Paolo Pasolini provenienti dal Fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux, alcuni dei quali poco o mai esposti e, a sottolineare la maggiore suggestione evocativa possibile, materiali mano/dattiloscritti, ritagli di stampa, filmati e scatti suoi fotografici e di “paparazzi” celebri (Tazio Secchiaroli) dai set dei suoi film.
Vi è stata l’occasione inedita, inoltre, di ammirare, anche se in copia per motivi di conservazione, le 33 tavole del fumetto/sceneggiatura del mediometraggio “La terra vista dalla luna” del 1966, sotto la regia dell’artista. Qui il discorso sulla morte, strettamente legato alla fine del sacro, del bello del mondo contadino e sottoproletario, e quindi alla fine della possibilità di rivoluzione, si concretizzano in una sceneggiatura a forma di fumetto disegnato di propria mano dal regista che ha scelto i volti di Totò, Ninetto Davoli e Silvana Mangano.
L’impostazione, anche se adeguatamente documentata, non ha voluto essere semplicemente documentaria, ma capace di restituire il senso del discorso estetico dell’autore attraverso la suggestione degli accostamenti e degli allestimenti, lasciando al visitatore la facoltà di integrare con la propria intuizione i nessi del percorso espositivo.
La mostra seguiva una scansione espositiva in tre sezioni: 1) il Friuli, le culture contadine, la natura magica e arcaica delle loro popolazioni; 2) la maturità compositiva, il gramscismo, Roma e le metropoli del Sud, l’universalità del cinema; 3) la morte e la vita, il sacro come rivoluzione, il neocapitalismo consumista come antisacro e annientamento.

Il programma si è articolato come segue:


Mercoledì 24 Novembre2010
Tavola rotonda con prof. Giuseppe Morra (Presidente della Fondazione Morra), prof. Carlo Vecce (Università “l’Orientale” di Napoli); prof.ssa Johanna Borek (Università di Vienna); prof.ssa Graziella Chiarcossi
Ore 18.00: Trasumanar e compararLinguaggi di rivoluzione in Pier Paolo Pasolini, a cura di Marianna Rascente

Venerdì 26 Novembre 2010
Ore 15.00: L’Antico parla oggi, II Pasolini segreto: Eneide e Carmina Buranaa cura di Semicerchio. Introduce Massimo Fusillo. Intervengono: Paolo Lago, Francesco Stella e Federico Condello. Letture di Antonello Cossia
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Pasolini e il teatro, a cura di Stefano Casi, Angela Felice, Gerardo Guccini - Cividale del Friuli, 17 luglio 2013, ore 12.00

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LE NOTIZIE
Pasolini e il teatro
a cura di Stefano Casi, Angela Felice, Gerardo Guccini
PRESENTAZIONE DEL VOLUME - Marsilio 2012
Cividale del Friuli, 17 luglio 2013, ore 12.00
Centro Studi Pier Paolo Pasolini
via G. Pasolini, 4 - I-33072 Casarsa della Delizia (PN)
Casella postale n° 53 - Casarsa della Delizia
Tel.: 0434 87 05 93

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Pasolini fa il Dante, di Mauretta Capuano

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LA SAGGISTICA - NARRATIVA
Pasolini fa il Dante
di Mauretta Capuano

«La Divina Mimesis» di Pier Paolo Pasolini torna e si apre alla multimedialità. Il viaggio nell'oltreterra, considerato il testamento intellettuale dello scrittore, esce per la prima volta in versione ebook e in una nuova edizione cartacea per Transeuropa, con contenuti extra e un documentario online sul sito della collana www.inaudita.it
Nei contenuti extra c'è la “Prefazione in forma di dialogo” tra i critici letterari Carla Benedetti e Antonio Tricomi nella quale viene sottolineato: «"Il mondo non mi vuole più e non lo sa”: questa frase, con cui l'autore di “Petrolio” firma il suo unico disegno astratto, continua a sembrarmi l'ideale sinossi anche della “Divina Mimesis”». Il documentario per musica e immagini “Pasolini l'incontro” è di Pasqualino Suppa, con Davide Toffolo e la band Tre Allegri Ragazzi Morti.
Scritto fra il 1963-65 e uscito postumo nel 1975 per Einaudi, «La Divina Mimesis» è una rivisitazione della Commedia dantesca, una discesa nell'inferno del capitalismo e insieme la rivelazione di una marginalità civile che Pasolini sente di dover scontare in quanto scrittore. Dell'opera, incompleta, si hanno alcuni canti e appunti per altri canti che costituiscono alla fine un viaggio nell'Irrealtà in cui a far da guida a Pasolini è lui stesso. 
Come spiega l'editore Giulio Milani della Traseuropa: «"La Divina Mimesis” meritava di riguadagnare un posto di primaria importanza nella bibliografia di Pasolini, e crediamo che questa riedizione possa, grazie ai suoi aspetti multimediali (l'ebook e il documentario online) e grazie al contributo critico di Carla Benedetti e Antonio Tricomi, rimetterla al centro della contemporaneità. In quest'epoca di crisi, Pasolini non è più soltanto il profeta passato del nostro presente, ma un punto di riferimento culturale ed intellettuale per costruire un futuro diverso». 
Il lascito intellettuale di Pasolini per quanto doloroso non è però disperato: se il deserto è la terra del nostro tempo, non resta che armarsi di ostinazione e attraversarlo. 
«Perciò io non leggerei “La Divina Mimesis” come la messa in scena della perdita della funzione dell'intellettuale, ma al contrario come l'espressione dell'urgenza di attraversare quel deserto per connettersi con qualcosa di più forte, di più profondo, e di più umano. Per l'autore della “Divina Mimesis” il mandato è qui e ora, e si gioca in questa catastrofe, che è già avvenuta. Come dopo una fine del mondo, una voce si muove tra le macerie, prende su di sé la materia del tempo anche nei suoi aspetti più repellenti, per trasportarla in alto, per sfondare in un altro mondo», sottolinea Carla  Benedetti rispondendo a Tricomi secondo il quale Pasolini esprime «l'assoluta certezza che, tuttavia, la collettività abbia smesso già da qualche decennio di attribuire una vera funzione etico-civile al moderno intellettuale-legislatore». 
Quello che Pasolini sembra voler dire ne «La Divina Mimesis» è che il compito di redimere chi vive tra le pene del presente è affidato all'arte. 

«La Divina Mimesis», di Pier Paolo Pasolini, pp. 120, Transeuropa, 2011, Euro 10
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Un fantasma ridotto a «logo», di Franco Cordelli, Archivio storico "Corriere della Sera" 11 novembre 2005

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Pier Paolo Pasolini in una foto di Giovanni Giovannetti

Un fantasma ridotto a «logo»
di Franco Cordelli
Archivio storico "Corriere della Sera", 11 novembre 2005
Un fantasma sfuggente ridotto a merce. Ma siamo tutti figli, 
e nipoti, della sua opera, che non dà scampo per i suoi difetti


In verità, io credo, il meglio di Pasolini è questo: egli non dà scampo proprio a causa dei suoi difetti, proprio perché lo ammiriamo, o perché diciamo di ammirarlo essendo a lui così simili (siamo figli e nipoti suoi) e ne siamo in realtà così lontani, non abbiamo un centesimo dell'energia che egli aveva e ci vantiamo di impugnarne il vessillo, che senza pudore sventoliamo in faccia a chi non ne faccia uso, con discrezione, con modestia, allontanandosene, in punta di piedi. 
Nell'ultimo e forse più poderoso, più importante contributo, tra i mille, tra i troppi, su Pasolini si legge questa frase, ovvero questo giudizio: «Poeta senza la grazia quasi naturalmente incline al classicismo di un Sereni; narratore incapace della grandezza espressionistica di un Volponi e dell'abilità di costui nel governare e dare forma compiuta sulla pagina al tumulto della scrittura e al disordine del mondo; saggista istintivo e ossessivo, e dunque privo del nitore (tuttavia spesso algido) e della precisione (troppo spesso prossima a un'invisibilità o a un immiserimento del senso) di un Calvino; scrittore incompiuto, Pasolini è ciononostante, o forse proprio per questo, l'autore più emblematico della sua generazione.
Perché le sue scelte espressive e i suoi ripensamenti, i suoi stessi errori, sono quelli di chi nasce e si forma in una civiltà (l'Italia sotto il fascismo), si afferma come scrittore in un'altra (l'Italia di una modernizzazione improvvisa e imperfetta), muore in una terza (l'Italia postmoderna del neocapitalismo), e perché più di altri autori egli crede di dover adeguare la propria opera a questi passaggi epocali, così rendendola precaria e incapace di classicità in quanto pienamente comprensibile solo se messa in relazione a un preciso contesto storico e culturale». 
Mi si perdoni la lunga citazione, tratta da «Sull'opera mancata di Pasolini», un libro pubblicato da Carocci, e di cui è autore il trentenne Antonio Tricomi: egli stesso dichiara d' esser nato nell'anno della morte di Pasolini. La tesi di Tricomi mi pare chiara e indiscutibile. Ma è una tesi drammatica. Essa dice che tra breve l'opera di Pasolini sarà incomprensibile. È un miracolo che ancora oggi lo sia, la si legga, la si discuta. È cioè un miracolo che dal 1975 ad oggi l'Italia o il mondo siano cambiati così poco che si possa citare Pasolini come, in un qualche modo, esemplare. Ma è una tesi ancora più drammatica se si riflette su un punto: per Tricomi l'opera di Pasolini è la più «emblematica della sua generazione»: il che, in fondo, coinvolge un mondo espressivo più ampio di quello scaturito dall'opera di un solo autore. Ma nel merito di questa parte della tesi di Tricomi non voglio entrare.
Ciò che oggi ci interessa è: perché Pasolini, in modo tambureggiante, ossessivo? Perché continuiamo a discutere, o rievocare un autore la cui opera sappiamo «mancata» e forse, in parte o tutta, destinata all'oblio, all'incomprensibilità? O, detto in altri termini, che cosa davvero resta di Pasolini? Non già, dunque, che cosa resterà, questo non lo possiamo dire, se già supponiamo che non ne resterà l' essenziale; ma proprio che cosa resta in questo momento, se nei nostri anni non si fa altro che evocare il fantasma suo, e dico fantasma non a caso, dico fantasma poiché penso al suo nome, alla sua presenza-assenza, alla vita che fu, alle tenstimonianze che ne restano; dico fantasma in quanto entità contrapposta a ciò che di reale, di materiale, di non leggendario dovrebbe sussistere di un autore: la sua opera. Non l' opera di Pasolini viene evocata, chiamata in causa, letta e discussa (studiosi a parte); ma l' alone che la circonda: lì passò Pasolini, Pasolini disse, Pasolini fece, Laura Betti diceva, Moravia scriveva, Enzo Siciliano ha detto, i fratelli Citti ne sono testimoni ecc.
Ciò che davvero resta, così sembra, è che questo alone, appunto il suo fantasma, il fantasma di Pasolini. Esso appare sugli spalti di quel castello che è la nostra Danimarca, ci ammonisce con il suo esempio, buono o cattivo che lo si reputi. Ma poiché i figli e i nipoti di tanto ammonitore, per quanto di sé dubitosi, o addirittura amletici, Amleto non sono, essi non sembrano affatto disponibili al gesto risolutivo, ecco che questo già antico fantasma, benché sfuggente, intoccabile, inverificabile, inverificato, non più neppure sfiorato (con le mani, con gli occhi), o proprio per tutte queste ragioni, come ogni altra porzione di realtà, viene ridotto a merce. Altro non è Pasolini che una merce, vale a dire una marca, un logo. È l' indice di ciò che promette l' immortalità anche se la propria opera è imperfetta. È la garanzia che una buona (o cattiva) vita, purché vissuta non già al cinque per cento (come Montale, per citare un anti-Pasolini), è ben più che ogni opera classica e quindi duratura. È il marchio di fabbrica con cui tutti i filistei del mondo si proteggono laddove nello stesso Pasolini scoprono, o pensano sarebbe possibile scoprire, come attesta un analista al di sopra della parti, il nostro Tricomi, che un movente cruciale è la convinzione di «dover adeguare la propria opera» ai passaggi epocali del proprio tempo, della propria vita.
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Contributi dei visitatori L’artista e il sottoproletariato del Decameron, di Marco Marmeggi

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LA SAGGISTICA - CINEMA
CONTRIBUTI DEI VISITATORI
L’artista e il sottoproletariato del Decameron 
di Marco Marmeggi

Marco Marmeggi, specializzando Ssis (Scuola specializzazione per l'insegnamento secondario), si è laureato in Discipline dello spettacolo alla facoltà
di Lettere moderne dell'Università di Pisa con una tesi intitolata "Studio sulla cornice
del Decameron di Pier Paolo Pasolini" - relatori prof. Lorenzo Cuccu
e prof.ssa Carla Benedetti. Dal suo lavoro ha estratto un articolo sviluppato in tre paragrafi
che ha inviato a "Pagine corsare" e che viene qui presentato ai visitatori delle pagine dedicate a Pier Paolo Pasolini. Un ringraziamento a Marco Marmeggi


1. Dalla cornice al mercato

Con una formula un po’ radicale e netta potremmo dire che Il Decameron di Pasolini non è più il Decameron di Boccaccio, che il film, rovesciati i contenuti di fondo del novelliere, propone una lettura della realtà antitetica e opposta a quella dell’opera letteraria. Eppure, le novelle che Pasolini ha selezionato conservano un impianto narrativo nel complesso simile a quello originale. Eppure, i personaggi di Andreuccio da Perugina, di Ser Ciappelletto, di Caterina di Valbona e di tutti gli altri protagonisti che animano la celluloide del testo pasoliniano sembrerebbero avvicinarsi sorprendentemente ai famosi attori della commedia boccacciana. Allora perché i due testi sono così distanti? Per quale motivo la sensazione finale che abbiamo è quella di un film che tenta disperatamente di eguagliare in solarità e vitalità il testo di origine, ma che, una volta “calato il sipario”, si trova impossibilitato oggettivamente a celebrare qualsiasi forma di ottimismo? Qual è il mondo che Pasolini ha sostituito a quello epico dei mercanti celebrato nel Decameron di Boccaccio?
Le operazioni di riscrittura più importanti che hanno guidato il lavoro dell’adattamento pasoliniano sono due. La prima, a cui abbiamo già fatto riferimento, consiste nel mantenimento generale della struttura narrativa delle novelle, segno di fedeltà, e riconoscibilità, al testo di Boccaccio - ricordiamo che il Decameron fu un'opera destinata ad un pubblico di massa e che fu campione d’incassi. La seconda operazione, invece, permette a Pasolini di cancellare totalmente la “cornice” boccacciana dei dieci giovani novellatori in fuga dalla peste, e immettere le narrazioni scelte in una nuova “cornice antropologica” il cui vero e proprio ventre poetico è rappresentato dal mercato di Napoli. 
Muovendosi in queste due direzioni, Pasolini preserva la straordinaria e solare joie de vivre che anima le pagine di Boccaccio, e, nello stesso tempo, può trasporre il “sentimento giocoso” del testo letterario sul milieu partenopeo e sottoproletario del film. La trasformazione del testo dunque avviene qui. Nel passaggio dalla lettura boccacciana della Storia vista come possibilità di sviluppo di una futura classe egemonica, ovvero quella borghese, ad una pasoliniana che invece percepisce nel divenire storico un processo di disintegrazione e omologazione delle classi subalterne. 
Secondo Pasolini la vigorosa comicità del Decameron deriva dall’‹‹ottimismo storico›› del suo autore, dalla grandezza che il ceto dei mercanti possedeva nell’età comunale e ‹‹che avrebbe poi raggiunto solo in certi momenti e in certi stadi marginali della sua storia›› . Boccaccio vivendo ‹‹nell’esatto momento in cui esplode (…) la rivoluzione borghese››  non può che guardare l’affermarsi della nuova classe dirigente con entusiastica partecipazione e meraviglia, scegliendola ‹‹quale vera protagonista››. Nel film, quelle qualità borghesi sono trasferite, non più sulla ‹‹stagnante›› borghesia d’oggi, ma piuttosto sul popolo napoletano, lembo ancora vitale e spontaneo del mondo popolare. Ecco che tra il testo letterario e l’adattamento pasoliniano la frattura si fa profonda, e l’ampiezza di questa diversità andrà cercata nel modo diverso in cui ciascuna delle due opere si rapporta con la propria contemporaneità. 
Se Boccaccio celebra l’ascesa della paleoborghesia mercantile, agganciando fin dall’Introduzione, come rileva Vittore Branca, il novelliere alla realtà storica della Firenze trecentesca - l’opera si apre con il caos e l’anomia generati dalla peste che ammorbò la capitale toscana nel 1348 -, Pasolini rifiuta qualsiasi legame tra l’universo diegetico del film e la propria contemporaneità. Se il testo di Boccaccio è tutto teso verso un ‹‹processo di contemporaneizzazione storica›› - attraverso il coinvolgimento di personaggi ancora viventi o appena scomparsi, la ricercatezza di una toponomastica dettagliata e realistica conosciuta al mondo borghese e mercantesco, la scelta della nuova classe dirigente e dei suoi problemi politico-sociali -, il film di Pasolini è sospeso, per così dire, in un periodo storico non individuabile. È lontano dal ‹‹presente consumistico›› e dal suo ‹‹ordine orrendo›› quanto dalla ricostruzione filologica del medioevo di Boccaccio.
Lo scenografo Dante Ferretti ricorda che la medievalità del film è ripresa molto dalla pittura di Giotto e dalla sua scuola, ma che tuttavia ciò è fatto con ‹‹molta naturalezza (…) ed è tutto lasciato al caso››. L’universo diegetico dell’adattamento pasoliniano si configura dunque come ‹‹un mondo che è ai limiti della storia e, in un certo senso, fuori dalla storia››. Un medioevo pittorico di ispirazione bruegeliana e giottesca che, distorto e sproporzionato, trova il suo epicentro nel mercato di una Napoli arcaica ricostruita sotto le mura di Caserta Vecchia. Una babele partenopea lontana dagli arcaici mercati pre-capitalistici di Boccaccio, e molto più vicina, al contrario, alle forme del baratto di una società all’‹‹Età del pane››. Ebbene, dalla paradossale inattualità storica del film rispetto alla fonte letteraria emerge un lato in qualche modo inquietante: mentre Boccaccio esalta l’epifania di una classe sociale, Pasolini si congeda da un popolo di sopravvissuti che è destinato alla sparizione.
«A ben guardare, il film (…) fa spavento: è una storia di spettri, popolata dei fantasmi di un’umanità trapassata». 
Viene in mente un brano tra i più citati (e autocitati ) delle Poesie Mondane, poi incluse nella raccolta Poesie in forma di rosa:
«(…) Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti del Dopostoria cui io assisto per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più». 
Pasolini sceglie il popolo napoletano, “l’orlo estremo di qualche età sepolta”, perché esso rappresenta, nell’Italia degli anni ’70, il ‹‹popolo sopravvissuto››, quella ‹‹oggettiva sopravvivenza del passato››  che compensa il ‹‹presente degenerante››. 
Ed è proprio ai valori del passato che Pasolini attribuisce l’unica forza in grado di contestare il nuovo potere. ‹‹È una forma aberrante››, dice dalle pagine di “Filmcritica”, ‹‹ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono metter in crisi il presente›› . In questi anni - e nonostante l’Abiura dalla Trilogia della vita e il successivo Salò - la città di Napoli resta comunque l’unico “grande villaggio” italiano in cui Pasolini può cogliere la dimensione sacrale dei corpi da opporre all’irrealtà del potere consumistico. Nel “trattatelo pedagogico”, pubblicato assieme alle Lettere luterane, Pasolini si rivolge all’allievo Gennariello e gli dice:
«Io sto scrivendo nei primi mesi del 1975: e, in questo periodo, (…) i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono appunto, in concreto, e, per di più, ideologicamente, simpatici. Essi infatti in questi anni (…) non sono molto cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. (…) Cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani alle scenette della televisione della repubblica italiana». 
L’ambiente “in un certo senso arcaico” che si può trovare nel profondo dei vicoli di Napoli, questa sottocultura “che sta scomparendo ma che è ancora (…) vicina al mondo del Decameron, in cui il tempo “sembra essersi fermato”, in cui la povera gente con la “sua violenza e la sua gentilezza rappresenta un modo antico di essere”, è ripresa drammaticamente anche nel racconto dell’Appunto 41 di Petrolio. Qui Napoli, i suoi bambini e certi giardinetti pubblici da ultima metropoli plebea, che l’inglese Tristam Walzer visita durante il suo viaggio di ritorno da Khartoum, richiamano direttamente la cultura popolare della bambina sudanese (Giana) che il giornalista ha schiavizzato. 
«Tristam naturalmente sbarcò e si diede a esplorare la città […]. In certi giardinetti [irresistibilmente] sporchi, dove dei bambini, come un ventennio prima, facevano il bagno in mutande dentro una vasca, vide selvaticamente in disparte, una “scugnizza”, scura e lacera. Non c’era dubbio, essa assomigliava a Giana. Le era quasi sorella. Apparteneva a una “cultura” uguale. Quella che dava la stessa qualità fisica (malgrado le diversità puramente accidentali) a quei ragazzini plebei di Napoli che si tuffavano nella fontana e quelli di Khartoum […]. La pasta [della carne] era una pasta diversa da quella […] della cultura dominante […]: […] che poteva integrare la cultura popolare solo facendola sua, cioè costringendola a degenerare, a restare per secoli nei livelli bassi della coscienza così come era stata, per secoli, nei livelli bassi della società». 
Insomma, la Napoli primitiva del Decameron, “come la Cappadocia di Medea e la Roma di Accattone,” ma anche del Trattatello e di Petrolio, infittisce la topografia dei "luoghi arcaici” pasoliniani. Nell’adattamento del novelliere, il carosello dei personaggi delle novelle riesce a ritrovare il riso soltanto nella costruzione edenica di un tempo che non è più. Come abbiamo osservato però, questo è un ridere di fantasmi, di bocche sdentate e spettrali. Gli attori napoletani di questa “commedia umana” non possono trasmetterci la vitalità e solarità del testo di Boccaccio perché quei corpi, quei sessi e dentature ci parlano di qualcosa che, per Pasolini, stava ormai morendo. 


2. Pasolini e l’allievo di Giotto

Vero protagonista della novella dell’allievo di Giotto è lo sguardo che il pittore milanese getta sul mercato napoletano. Arrivato nel capoluogo campano per affrescare la chiesa di Santa Chiara, l’allievo di Giotto, durante le pause di lavoro, esce dall’ambiente sacro per immergersi, assorto e incantato, nel mondo popolare che brulica sotto le mura diroccate del castello di Caserta Vecchia. Poi, riempitosi gli occhi di “scene di vita”, egli si ritira nuovamente nella chiesa e torna a dipingere il suo affresco, ispirato e febbrile. 
Sebbene già a livello della sceneggiatura appaia chiaro che questo personaggio rimanda direttamente al modo di fare cinema dello stesso regista, con l’ingresso fisico di Pasolini che interpreta il pittore, questa metarappresentazione del gesto artistico si fa vera e propria meta-performance. 
L’allievo di Giotto, con le sue azioni, l’atto del guardare e con il suo dipingere, mette in scena il rapporto  che Pasolini-autore ha con l’opera Decameron. Il pittore milanese sta dentro la finzione, ma, nello stesso tempo, è spinto fuori dalla presenza sulla scena dello stesso Pasolini. Il suo sguardo rimanda a quello del regista, il suoi pennelli alla camera da presa, il suo affresco, infine, richiama direttamente il film che stiamo vedendo. Esagerando un po’, il pittore milanese di Pasolini, a differenza del suo maestro fiorentino, ha la capacità di riprodurre la realtà per mezzo non più del pennello, ma della macchina da presa.
«Cosa significa la mia presenza nel Decameron? Significa aver ideologizzato l’opera attraverso la coscienza di essa: coscienza non puramente estetica, ma, attraverso il veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale». 
L’analogia perfetta di cui parla Pasolini - il regista va a Napoli a fare un film realistico come il pittore scende nel capoluogo campano ad affrescare la chiesa -, non è soltanto puramente anagrafica, ma anche culturale. Entrambi sono due uomini settentrionali portatori di una diversità culturale alla quale non possono rinunciare e che li costringe ai confini dell’universo che stanno guardando. L’allievo di Giotto è l’unico dei personaggi di Pasolini a non parlare in dialetto, e il suo aggirarsi  nel mercato è quasi totalmente ignorato dalla gente di Napoli che sembra non accorgersi della sua presenza. 
Sia Pasolini-autore che l’allievo di Giotto sono due intellettuali il cui sguardo sul mondo marca la distanza che li separa dalle classi subalterne. Il loro guardare non rimane però nella sfera dell’inesprimibile, ma piuttosto produce senso. Lo sguardo di Pasolini, come quello di Giotto, interpretano e raccontano qualcosa tramite l’arte. 
Il pittore milanese tornato sulle impalcature adiacenti alla parete dell’affresco pittura grazie all’ispirazione che ha trovato nel mercato, e Pasolini fa altrettanto. Non solo ci ha mostrato i volti e i corpi della gente di Napoli tramite le soggettive dell’allievo di Giotto - soggettive in cui lo sguardo del personaggio e quello dell’autore sono la stessa cosa per l’identità tra le due figure di cui abbiamo parlato - ma, tornato nella chiesa insieme a lui, fa corrispondere alle pennellate sull’affresco del pittore la narrazione di un’altra novella. 
Dunque nella novella di Pasolini l’atto del guardare dell’allievo di Giotto rimanda non soltanto al problema dello sguardo, ma alle possibilità che ha questo sguardo di produrre senso, cioè di narrare. Gli elogi che, nel novelliere di Boccaccio, Pànfilo tesse alle doti pittoriche di Giotto posso aver rappresentato un ottimo spunto su cui costruire l’asse del vedere/raccontare alla base della lettura pasoliniana della novella. 
«Ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dà la natura (…) che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipingesse sì simile a quella, che (…) molte cose da lui fatte si trova che il visivo senso degli uomini vi prese errore quello credendo esser vero che era dipinto».
Questa considerazione sul carattere illusorio della pittura, della capacità di Giotto di riprodurre esattamente la realtà, è un punto di contatto tra testo letterario e film molto importante. C’è un parallelismo sorprendente tra l’errore di scambiare qualcosa per vero descritto da Pànfilo e l’“effetto di realtà” di un film. Ripreso da molti teorici del cinema, l’“effetto di realtà”, come è noto, viene estremizzato da Pasolini per farlo corrispondere a quello che è il nucleo della sua poetica: “un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà” .
In questa esaltazione feticista (…) della Realtà (con la maiuscola mistica), (…) c’è l’idea decadentista (pascoliana): la poesia è una sostanza che c’è già nel reale, prima di ogni espressione artistica. La novità pasoliniana è la convinzione che il cinema (…) possa ancor più della poesia giungere al mistero ontologico delle cose. 
L’allievo di Giotto, abbiamo detto, si immerge nel mercato guardando il mondo che lo circonda, non più come un pittore, ma come farebbe un regista, cioè Pasolini stesso. Mi pare utile, a questo punto, analizzare la prima scena, che chiamerò di mercato, in cui l’allievo di Giotto entra in contatto con il popolo napoletano. 
Siamo tra i barrocci, è giorno, una grassa barrocciaia, togliendo alcuni meloni appesi ad una trave del proprio banco, sorprende l’allievo di Giotto intento a guardare verso il fuori campo. Scoperto, egli si gira verso la camera da presa riproducendo, con il celebre gesto delle mani che formano il riquadro dell’inquadratura, la camera da presa stessa. Seguono, in una serie di campi e controcampi, i primi e primissimi piani di alcuni compratori. Sono i volti di una ragazzina coi capelli lunghi e mori, di un uomo maturo e un po’ stempiato, e di una donna in carne. Solamente quando l’allievo di Giotto sarà rientrato nella chiesa e avrà dato la sua prima pennellata sull’affresco, scopriremo, con un montaggio a stacco netto che introduce un giardino signorile, che quei personaggi erano i protagonisti della novella di Caterina di Valbona. 
Come fa notare Massimo Fusillo per il prologo contemporaneizzato  dell’Edipo Re, la situazione narrativa di un personaggio che spia è particolarmente amata da Pasolini. Dopo la scena del ballo guardato di soppiatto dal bambino Edipo, lo scoppio di fuochi d’artificio accresce la sua angoscia ed egli si chiude gli occhi con le mani, gesto che verrà reiterato dall’Edipo adulto. Qui l’autocostrizione a non voler vedere diviene la metafora della lettura pasoliniana dell’Edipo di Sofocle costruita tra la volontà di non sapere del protagonista e l’“obbligo di conoscere” a cui verrà piegato . 
Nell’episodio del Decameron lo sguardo dell’allievo di Giotto non viene affatto coperto, ma anzi rafforzato. Le mani non sono metafora della volontà di non conoscere, bensì dell’atto artistico per eccellenza a cui Pasolini attribuisce la capacità di svelare il mondo: il cinema come la lingua scritta della realtà. Le stesse mani che l’allievo di Giotto, tornato sull’impalcatura dell’affresco, userà per continuare a dipingere, cioè per raccontare. 
Procedendo sull’asse individuato del vedere/raccontare ci accorgiamo che il Decameron di Pasolini indice nuovamente un dialogo serrato con la cornice dei dieci novellatori dell’opera di Boccaccio. A loro il Certaldese aveva dato l’oneroso compito di rappresentare veramente l’umanità potendola in certo senso giudicare, perché ne avevano salvato i valori supremi. Come il pittore milanese anche i dieci giovani borghesi parlano del mondo attraverso l’arte. Esprimono il proprio giudizio raccontando la commedia umana con un altro linguaggio ma, cosa fondamentale, lo fanno lontano dalla caducità degli eventi. Per poter parlare del mondo devono starne fuori, isolati, in una realtà distaccata e altra.
Questi novellatori possono fissare in un'atmosfera ideale, al di là del tempo e dello spazio, le immagini e le forme del loro messaggio: proprio come Boccaccio può giungere alla contemplazione e alla trasfigurazione artistica della commedia di ognuno solo quando è uscito dal pelago dei disordini interiori e delle passioni scatenate, alla riva di una pacata maturità spirituale. 
Anche se il pittore del film non narra formalmente qualcosa a qualcuno, e quindi non è un narratore vero e proprio come i giovani del “buon ritiro”, il suo agire ambiguo nella diegèsi del film, quel suo rimandare costantemente al gesto di fare cinema ne fanno un “narratore speciale”. Il suo racconto però non può essere concepito che nella realtà di cui parla. Non è possibile starne fuori, non è possibile neanche esprimere un giudizio morale sulle azioni dei suoi protagonisti. Il ruolo testimoniale di cui Pasolini è portatore, il cinema cosiddetto “etnografico” che pervade la sua produzione, si realizza con l’intrusione del suo sguardo nel mondo. Così come accade a Pasolini in carne ed ossa, l’allievo di Giotto non potrà che tentare di sprofondare nelle cose e nella vita per poterne parlare. 
«Così gli oggetti e le persone sono quelli che io riproduco attraverso il mezzo audiovisivo. E qui arriviamo al punto: io amo il cinema perché con il cinema resto sempre a livello della realtà. È una specie di ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà. (…) Esprimendomi con il cinema non esco mai dalla realtà, sono sempre in mezzo alle cose, agli uomini, a ciò che mi interessa di più nella vita, cioè la vita stessa». 

3. Il dialetto e il cantimbanco

L’uso del dialetto napoletano nel film, adottato da tutti i personaggi come carta d’identità linguistica, è la principale componente della polarizzazione partenopea dell’ambientazione. La traduzione dal toscano implica un definitivo allontanamento dalla fonte letteraria in cui sono radicate alcune considerazioni pasoliniane di carattere sociolinguistico e antropologico. Che la scomparsa delle varianti dialettali fosse legata ai rapporti di egemonia che il centro, il nord Italia come laboratorio dell’italiano nazionale e tecnocratico, esercitava sulle periferie, ormai inglobandole ed omologandole, era per Pasolini un dato irrefutabile. La “tolleranza” dell’ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, aveva fatto si che il Centro in pochi anni distruggesse ogni autenticità e concretezza delle “periferie più povere e addirittura miserabili dell’intero paese” . 
Dunque questa contrapposizione dialettale partenopea all’omologazione linguistica nazionale del cosiddetto italiano neo standard rappresentava per Pasolini un corollario necessario da aggiungere ai corpi del Decameron per acuirne la “forza rivoluzionaria del passato” . Il novelliere boccacciano è nuovamente lontanissimo e il film di Pasolini rimarca nettamente la sua paradossale inattualità rispetto ad un testo letterario in cui, invece, l’“espressivismo linguistico” è parte integrante della sua “contemporaneizzazione storica”.
Egli (il Boccaccio) aveva desta la coscienza profonda e significativa di quella diversificazione sociale in senso linguistico non meno profonda e significativa di quelle geografiche o cronologiche o culturali. Ogni casta, ogni classe, ogni diverso ceto ha – egli ben lo avvertiva – un suo linguaggio tipico e connotante, che può agire nella complessa dialettica del plurilinguismo e che offre sorprendenti possibilità espressivistiche. 
La materia linguistica del Decameron di Pasolini al contrario sostituisce all’eterogeneità linguistica della fonte una rigorosa omogeneità di carattere dialettale. In pratica la scelta del napoletano si pone in contrasto non soltanto con il processo di “contemporaneizzazione” che fa il Boccaccio ma, prendendo il toscano come rappresentante distorto a livello simbolico dell’italiano, entra in netta polemica non “contro Firenze, ma contro tutta la stronza Italia neocapitalista e televisiva: niente Babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano” .
Probabilmente il momento più emblematico di questa “traduzione dal toscano” è rappresentato da una scena che si svolge immediatamente dopo la chiusura della novella di Andreuccio. Pasolini riprende a raccontare per “brevi immagini” il vizio sodomitico di Ser Ciappelletto. Ci troviamo in uno dei vicoli dei bassi napoletani dove poco prima lo stesso Andreuccio correva disperato e derubato dei sui denari in cerca di un luogo più sicuro. La viuzza è stracolma di gente, di “vecchie, bambine, uomini grassi, uomini magri magri, guaglioni, guappetti”, e tutti assistono chiassosi e sorridenti all’esibizione di un vecchio cantimbanco. 
In questa circostanza si esplicita e si realizza uno “spettacolo” in cui le caratteristiche dell’emittente, del messaggio e del modo di fruizione si caricano di contenuti e riflessioni sul dialetto, in evidente contrasto con lo spettacolo di tipo televisivo che Pasolini in quegli anni andava disperatamente condannando. 
Nella sceneggiatura originale questo tipo di esibizione ha tutta l’aria di un intrattenimento giullaresco, fatto per lo spettatore popolare nel ridotto spazio scenico dei vicoli del contesto urbano dei bassi napoletani, a metà strada tra un trovatore medievale e un menestrello. La ripresa dunque di alcune caratteristiche del teatro profano tra XIII e XIV secolo, l’indistinzione tra spazio scenico e spazio di fruizione, il favore accordato alla piazza del mercato e alle zone limitrofe in quanto centri autentici delle città medievali, la concordanza dell’estrazione sociale degli attori e degli spettatori, viene riproposta da Pasolini nel tentativo estremo di ritrovare “il rigoglio dell’esistenza” nella dimensione di uno spettacolo del passato. 
«Il “rigoglio dell’esistenza” appartiene al passato: nel presente potrà essere vissuto che come nostalgia o ritrovato nella dimensione dello spettacolo che reinveste – e vorrebbe per questa via rivilitalizzare – il passato».
La novella che viene narrata nel quadretto giocoso di questa esibizione medievale è la novella seconda della nona giornata del Decameron, la quale si accomuna, per analogia del tema trattato, ovvero l’amore sessuale in un convento di monache, a quella di Masetto che seguirà la fine del racconto del cantimbanco. È una novella breve che si aggiunge alle novelle selezionate e visualizzate da Pasolini, per cui le trascodificazioni cinematografiche non sono più nove ma dieci.
Recita la rubrica di Boccaccio:
«Levasi una badessa in fretta ed al buio per trovare una sua monaca a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali veggendo l’accusta, e fattanela accorgere, fu deliberata ed ebbe agio di stasata, fattanela accorgere, fu deliberata ed ebbe agio di starsi col suo mante».
L’ anziano narratore ha iniziato a leggere di fronte al suo uditorio la storiella oscena. Il libro che tiene aperto a terra è il testo di Boccaccio, è un libro vecchio e molto adoperato, le pagine sono ingiallite dall’usura.
«VECCHIO“Saper adunque dovete che in Lombardia, dove ce stanno quelli che parlano toscano, esserci un famosissimo monastero di castità e di religione, nel quale vi era una giovane di sangue nobile e di meravigliosa bellezza dotata… (interrompendo la lettura)». 
Il cantimbanco scandisce le parole alla bella e meglio, non senza qualche difficoltà; il periodo è quello classico della prosa decameroniana, costruito con ampie architetture di subordinate, ricco di procedimenti retorici, inversioni, costruito col verbo all’infinito. Questa parte iniziale corrisponde realmente all’intro narrativo della novella raccontata da Elissa. Ma se osserviamo da più vicino questa parte iniziale è possibile verificare che c’è stata una modifica rispetto alla fonte letteraria. L’importanza di questa variante pasoliniana, che ci viene presentata ambiguamente dal regista o come una storpiatura presente nel testo del cantimbanco o come una chiarificazione del complemento di luogo fornita agli ascoltatori, è data dall’aggiunta della prima subordinata: dove ce stanno quelli che parlano toscano
Nel Decameron di Boccaccio Elissa difatti novella:
«Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famossissimo monistero di santità e di religione, nel quale, tra le altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di meravigliosa bellezza dotata (…)».
Tutt’altro che trascurabile questa addizione apre un possibile spiraglio interpretativo che ci conduce direttamente a quelle riflessioni linguistiche di Pasolini sui rapporti di egemonia e influenza culturale tra il Nord industrializzato e Sud arretrato, o meglio tra il “centro” e l’omologazione della sua “periferia”. Perché se la novella di Boccaccio è ambientata in Lombardia nella recitazione orale che ne fa il cantimbanco si aggiunge la specificazione che in quella regione ce stanno quelli che parlano toscano? In che modo si risolve questa ambiguità?
Durante quel processo che Pasolini chiama “italianizzazione dell’Italia” sono accaduti due fenomeni di impari importanza. Il primo, paragonabile ad un “assestamento della società”, riguarda il processo di livellamento linguistico per mezzo di grossi fenomeni sociologici. Il secondo, “più profondo e violento”, è relativo alla sostituzione della “vecchia borghesia umanistica dominante” con  una “nuova borghesia tecnocratica” di origini settentrionali. L’enorme influenza che questi fenomeni hanno giocato sulle trasformazioni della varie koinè italiane hanno prodotto un loro livellamento e di conseguenza la scomparsa progressiva dei dialetti arcaici. Questa “rivoluzione” è imposta dall’eccezionalità della “nuova stratificazione tecnica – dovuta ad uno spirito tecnologico – che non ha equivalenti nel passato – e che si appresta a formare il nuovo tipo di uomo – modifica e omologa tutti i tipi di linguaggi della koinè italiana, nel senso della comunicazione, a discapito dell’espressività”. Da qui l’idea estrema e provocatoria che i nuovi centri creatori, elaboratori ed unificatori del linguaggio, non siano più le università, ma le aziende (TV, pubblicità, ecc.).
La modificazione appena percettibile dell’incipit decameroniano comincia a trovare una sua possibile spiegazione. La Lombardia, luogo dell’ambientazione della novella, rimanda dunque alla completa “industrializzazione dell’Italia del Nord” in cui la “borghesia paleoindustriale” si è fatta “neocapitalistica” identificandosi egemonicamente con l’intera nazione italiana (significato esteso di lombardo). E la specificazione che ce stanno quelli che parlano toscano va ricondotta non evidentemente all’italiano letterario di cui la “piccola e grande borghesia di tipo paleoindustriale e commerciale” si era impossessata facendone “la  propria lingua di classe e imponendolo dall’alto” senza successo, ma piuttosto a quel linguaggio tecnocratico del Nord industriale che ha sostituito quello letterario, “elaborando quindi un nuovo tipo di cultura e di lingua effettivamente nazionali”. L’apparente equivocità iniziale della novella si risolve dunque in una frecciata alla “stronza Italia” che per bocca del cantimbanco Pasolini introduce nel suo Decameron. Questo film tutto teso a riprodurre la gioia di vivere del testo di origine non può fare a meno di denunciare costantemente lo iato che lo separa dalla celebrazione di quella classe sociale in piena ascesa, protagonista del novelliere di Boccaccio. Il dialetto, come i corpi, le facce bruciate dal sole e le bocche sdentate, scelte per riprodurre una forma arcaica di “uomini” tutti pervasi di sesso e vita, legati al terreno polveroso del mercato o alla vegetazione mediterranea e solare della campagna, si staccano da una loro possibile proposizione di “modelli” da immettere nella società dei consumi. 
Col Decameron Pasolini pesca  continuamente dei residui di realtà che sono le cose e i corpi in alcuni luoghi che egli ritiene conservino ancora una componente di originalità. Il dialetto, cioè il linguaggio verbale umano di questi “continenti sommersi”, si costituisce anch’esso come tentativo di arcaicizzare e fissare nella sublimazione artistica qualcosa che tragicamente scompare o è già scomparso.
“Non scrivo in dialetto”, rispondeva Pasolini ad Enzo Golino nel dicembre del ’73, “ (…) e forse dovrò smettere anche nei film, non posso tornare infinitamente indietro nel tempo”. Un anno e mezzo dopo avrebbe difatti iniziato le riprese di Salò
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

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Un contatore di accessi era stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data
venivano visualizzate le visite a questo blog. Gli accessi pregressi (registrati da Google)
andavano quindi sommati a quelli esposti dal contatore di Shiny Stat.
Da un confronto fornito da Google (Blogspot) mi accorgo però che gli accessi
a queste pagine non corrispondono alle visite effettive che le pagine stesse ricevono.
L’attendibilità delle statistiche di Google è fuori discussione.
Per questo motivo, utilizzando le informazioni statistiche di Google, darò notizia,
manualmente, degli accessi reali, a partire sempre dalla data d’inizio del blog,
cioè dal 15 febbraio 2012. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

15 febbraio 2012 – 21 luglio 2013: ACCESSI TOTALI SEGNALATI DA GOOGLE  747.786

Racconti, anti-racconti, romanzi fallimentari. Riflessioni sulla forma breve nella narrativa di Pier Paolo Pasolini, di Giorgio Nisini

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - NARRATIVA
Racconti, anti-racconti, romanzi fallimentari.
Riflessioni sulla forma breve
nella narrativa di Pier Paolo Pasolini
di Giorgio Nisini
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature
http://www3.unibo.it/Giugno-dicembre 2005, n. 1-2

I. Premessa

Il risvolto di copertina dell'unica raccolta di racconti che Pier Paolo Pasolini pubblicò in vita, Alì dagli occhi azzurri (Milano, Garzanti, 1965), offre al lettore alcune indicazioni sullo statuto compositivo dell'opera, di cui mette in risalto i suoi aspetti non compiuti, oscillanti tra l'intenzione e la rinuncia:
«Se volessimo identificare in questa lunga e tormentata parabola un punto di partenza e un punto d'arrivo, potremmo dire che i racconti compresi in questo volume partono come racconti "da farsi" per arrivare, con gli ultimi, come racconti "non fatti"».
La particolare inclinazione al "non fatto", che coinvolge la stessa categoria del "da farsi", si interseca con la parallela storia di un fallimento romanzesco: in diverse occasioni, a partire da un altro risvolto di copertina - quello delle prime edizioni di Una vita violenta - l'autore annuncia la futura pubblicazione di un terzo romanzo romano, Il Rio della Grana, immaginato come ultimo capitolo di una trilogia inaugurata da Ragazzi di vita. Tra il 1958 e il 1963, anno in cui l'accenno al progetto viene eliminato dalle ristampe di Una vita violenta, Pasolini parla del Rio della Grana più volte e in più sedi, anticipandone anche un brano sul «Punto» del 14 novembre 1959. Nel giro di poco tempo, però, la vicenda redazionale del romanzo si mischia fino a confondersi con quella di Alì dagli occhi azzurri: abbandonato il proposito originario, lo scrittore trasforma il testo in una «raccolta di racconti» - come annuncia a Corrado Stajano in un'intervista su «Il Tempo» del 3 giugno 1965 -, e con un tratto di penna ne modifica il titolo nella cartella in cui sta raccogliendo il materiale preparatorio. [1] Così, quando Alì dagli occhi azzurri viene dato alle stampe, non solo si configura come un libro dallo statuto formale ibrido, dal momento che simultaneamente raccoglie poesie, racconti, rielaborazioni di sceneggiature, "ballate", esperimenti in prosimetron, ma anche e soprattutto come un romanzo mancato. Dunque come radiografia, solo apparente, di un insuccesso.
Letta secondo questo punto di vista la scelta della "forma racconto" potrebbe sembrare un'opzione di ripiego: un insieme di idee, abbozzi, situazioni, a partire dalle quali lo scrittore cerca di costruire, senza riuscirci, un progetto romanzesco più esteso, lasciando dietro di sé solo relitti e frammenti, segmenti di storie possibili che rimangono sospese sul nulla. Ad alimentare una sensazione simile intervengono almeno altri due casi di romanzi naufragati dai quali Pasolini tenta di "riciclare" brani indipendenti. Del primo di essi, un ambizioso Romanzo del Mare a cui lavora tra il 1947 e il 1951, restano solo uno strano testo cosmogonico dal titolo Coleo di Samo e un'Operetta marina, che egli invia come racconto a sé stante al premio Taranto del 1951 e dal quale, in seguito, trae altre due brevi narrazioni (tra cui Primavera sul Po apparso nel 1953 su «Galleria»). [2]
Dal secondo invece, Il disprezzo della provincia, che lo impegna tra il 1951 e il 1952, l'autore estrae, ma senza pubblicarli, due racconti singoli, di cui uno interrotto (Una notte in Friuli). Eppure, nonostante questa tecnica di recupero, le motivazioni che conducono Pasolini ad adottare la narrativa breve sono più complesse: dietro alle centinaia di pagine dattiloscritte, nella circolarità con cui personaggi e ambientazioni si ripropongono e attraversano le varie opere (anche poetiche, teatrali, cinematografiche), si nasconde una causa di secondo grado, che consente non solo di inquadrare i racconti da un'altra prospettiva, ma di comprendere, nel particolare, la ragione per cui venne pubblicato, diversamente dai precedenti, uno scritto così informe e provvisorio come Alì.
Ripartiamo dalle premesse. Ripercorrendo l'itinerario di ideazione della raccolta del '65 - itinerario che prende avvio, cronologicamente, almeno dal 1950, ovvero dall'anno di stesura di brani come Squarci di notti romane, Il Biondomoro, Gas ecc. - emerge un dato paratestuale significativo: originariamente il libro prevedeva, come si può desumere dall'analisi del materiale preparatorio conservato nell'Archivio Bonsanti di Firenze, [3] numerose introduzioni e premesse che dovevano integrare e accompagnare la lettura dei racconti, e di cui resta, nell'edizione a stampa garzantiana solo l'Avvertenza finale. Una di queste prefazioni espunte, che approfondisce i concetti già espressi nel citato risvolto di copertina, viene pubblicata da Pasolini su «Paese Sera» il 23 marzo 1966:
«Questi racconti, dal '50 al '65, finiscono, apparentemente, come sono cominciati. Racconti "da farsi" i primi, racconti "non fatti" gli ultimi. A differenza che nei racconti centrali, eseguiti nel cuore degli anni cinquanta, nei primi e negli ultimi, le tecniche del "da farsi" e del "non fatto" servono a mascherare la difficoltà della ricerca neonaturalistica. [...] Il "da farsi" come impossibilità di fare, nelle prime pagine del '50, '51, è dovuto a mancanza di massa d'esperienza; nella seconda fase ('64, '65) a sfiducia nella massa d'esperienza». [4]
Si torna alla conclusione di prima: il racconto si presenta come il paradigma di un'impasse narrativa, «maschera» di una difficoltà di «ricerca neonaturalistica». Ma ora c'è qualche indicazione in più: il Pasolini che manda alle stampe Alì dagli occhi azzurri, e dunque anche i racconti dell'insuccesso, quelli del '50-51, nati da una «mancanza d'esperienza», è il Pasolini del 1965, ovvero l'autore che ha ormai sfiducia nell'«esperienza» stessa, quella così duramente conquistata sul campo con i due romanzi romani e la revisione del Sogno di una cosa. È il Pasolini, insomma, che si sta proiettando verso lo sfaldamento definitivo della struttura romanzesca, lo scrittore che presto pubblicherà Teorema (1968) e che sta già immaginando un'opera decostruita, "infernale", provvisoria come La Divina Mimesis. La provvisorietà, però, diventa ora precisa scelta stilistica; o meglio unica possibilità compositiva: è la poetica dell'appunto, del commento paratestuale, del collasso; la poetica su cui si strutturerà Petrolio, la sola, cioè, in grado di avvicinare criticamente un mondo (neocapitalistico) su cui nessun naturalismo sembra avere più presa.
Vale la pena rileggere alcune considerazioni di Walter Siti presenti nella postfazione conclusiva ai dieci volumi pasoliniani della collana dei Meridiani Mondadori:
«Ma c'è una data che rappresenta una soglia di non-ritorno, un crinale oltre il quale niente è più come prima [...]. Questa data è il 1965, o forse meglio il periodo compreso tra il 1964 e il 1966. Fino a quel momento nel sistema pasoliniano (nonostante tutte le crisi, o magari grazie ad esse) il rapporto tra Poeta e mondo aveva mantenuto una buona differenza di potenziale: il Poeta esprimeva la realtà. Gli uomini la vivevano in purezza - c'era una complementarietà tra Poeta e umili che si reggeva sul riconoscimento delle rispettive identità e sull'identificazione di un comune nemico». [5]
La data chiave di cui parla Siti è il 1965, l'anno di Alì dagli occhi azzurri; da quel momento Pasolini «mette in gioco anche il proprio regno, cioè il tavolo di lavoro», [6] adotta «esplicitamente il non-finito», [7] trasforma l'esibizione del processo compositivo, ma soprattutto le sue imperfezioni, in una tecnica di sperimentazione letteraria. Lungo questa traiettoria, allora, si ha la tentazione di leggere il racconto pasoliniano come un modello di "anti-racconto", ovvero come una forma narrativa di cui volontariamente viene esposta la parzialità, l'inadeguatezza gnoseologica, la struttura inesorabilmente difettosa, e che, tuttavia, proprio in virtù di tale consapevolezza, riesce a recuperare una valenza conoscitiva di secondo grado. E così, ad esempio, se i testi del 1950-51 di Alì, all'altezza cronologica della loro stesura, venivano interpretati da Pasolini come esiti imperfetti - tanto che molti risultano nel 1965 ancora inediti -, successivamente l'autore riconsidera i loro deficit come una ragione di forza. Roma, ora, ovvero alla metà degli anni Sessanta, può essere vista solo per "squarci" notturni, per "studi", per "appunti", per "relitti"; non più tramite una storia architettonicamente organizzata e tipizzata come quella dedicata a Tommasino Puzzilli, e neanche tramite le tante storie - nella loro frammentarietà comunque riconoscibili - come quelle dei ragazzetti di vita del primo romanzo romano.


II. Tra romanzo e racconto

Alì dagli occhi azzurriè in realtà un'opera più complessa: non è solamente il risultato di un romanzo che non riesce a trovare un'identità, non è semplicemente un'antologia di racconti o di anti-racconti, ma è un insieme di testi distribuiti in un arco temporale lungo (quindici anni), un mosaico di forme e generi distinti, soprattutto un territorio letterario non chiuso, collegato a doppio nodo con altre opere e progetti. Ma anche limitandosi ad interpretare la raccolta come il paradigma di un romanzo fallito, di cui i suoi elementi rappresentano gruppi di scorie residue, schegge di un'unità non più possibile, subito dopo ci si accorge che proprio la scoria, anzi, solo la scoria, può avere ancora l'opportunità di esprimere il mondo e di penetrare con maggior acume nelle pieghe della vita metropolitana. È quanto aveva capito, in maniera estremamente diversa e altrettanto incisiva, un autore purtroppo dimenticato dalla storia letteraria italiana, quel Juan Rodolfo Wilcock che già nel 1961, con i Fatti inquietanti, aveva provato a raccontare, attraverso pezzi di cronaca paradossalmente rielaborati, una realtà altrettanto grottesca e sfuggente, costruita su notizie secondarie, improbabili, eterogenee, eppure capaci di scavare a fondo «lo sfacelo universale del nostro secolo». [8] Pasolini, che non a caso conosceva ed apprezzava l'opera di Wilcock - su cui però scrisse solo un paio di recensioni nel 1973, di cui una, dedicata a I due allegri indiani, piuttosto critica -, sentiva da sempre la congenialità della narrazione breve, al punto che il suo primo approccio alla narrativa, nel cuore degli anni Quaranta, avvenne non solo attraverso i romanzi della confessione (Amado mio ed Atti impuri), [9] ma anche per mezzo di una prolifica, almeno quantitativamente, produzione di racconti.
Eppure in Pasolini il racconto, come genere letterario, fin dalla produzione friulana tende sempre ad uscire da sé, a rimandare a qualcos'altro, a porsi, appunto, come segmento, scoria, stralcio di un tessuto narrativo più ampio. Difficilmente, cioè, esso si presenta come storia conclusa, autonoma, non interattiva con un progetto ulteriore, così come, d'altronde, tutta la sua produzione narrativa ha una continua e incessante circolarità e propensione all'osmosi. Molti dei testi contenuti in Alì, soprattutto quelli dei primi anni Cinquanta, mostrano chiaramente i contatti esistenti con il cantiere narrativo di Ragazzi di vita (si pensi a certi personaggi di Dal vero come il Palletta, oppure ad una figura come la prostituta Nadia di Squarci di notti romane, brano in cui, tra l'altro, ritorna l'espressione belliana posta in epigrafe all'ultimo capitolo del romanzo), così come, per inverso, un testo infernale come La Mortaccia già anticipa l'inclinazione dantesca poi sviluppata nella Divina Mimesis. Ma oltre a ciò, la presenza di sceneggiature e poesie apre l'antologia del '65 ad un orizzonte ancora più ampio, che da un lato proietta verso l'universo cinematografico, proponendo rielaborazioni di sceneggiature (da Accattone a La ricotta), dall'altro verso i territori della poesia (ad esempio Profezia faceva inizialmente parte di Poesia in forma di rosa e ha legami con Poesia in forma di polemica uscita su «Vie Nuove» il 14 gennaio 1965). [10]
Già nelle prose friulane, quelle raccolte nel 1993 da Nico Naldini in Un paese di temporali e di primule e poi riprese nel primo volume Romanzi e racconti dei Meridiani (1998) - prose che Pasolini aveva pubblicato, salvo qualche inedito, sulle pagine di riviste e quotidiani nel corso degli anni Quaranta - si registra un'apertura di tipo intertestuale. Molte di esse, infatti, rivelano dei palesi contatti con i romanzi maggiori, Atti impuri ed Amado mio, di cui rappresentano estratti o varianti o, quantomeno, per Atti impuri, una comune derivazione da una base diaristica. È il caso, ad esempio, di Quello lì è il mio padrone, apparso il 31 agosto del 1947 sulla rivista «La stretta di mano» della Società Operaia di Mutuo Soccorso Sanvitese, che ha relazioni, per il suo coincidere parzialmente con una delle pagine dei cosiddetti Quaderni rossi, con il passo del trasferimento a Versuta narrato nel primo capitolo del romanzo; oppure, benché si rimanga sul piano delle congetture, di un gruppo di prose uscite tra il 1946 e il 1948, le quali potrebbero trovare origine da pagine di diario perdute (Un mio sogno, Gli angeli distratti, I dispetti, Il coetaneo ideale e perfetto, Topografia sentimentale del Friuli). [11]
A parte le ipotesi, la rete di corrispondenze tra i vari scritti resta fortissima: un racconto dal titolo Amado mio, uscito sul «Mattino del Popolo» l'11 dicembre del 1947, è una variante dell'episodio del cinema di Caorle presente nel romanzo omonimo; Douce, racconto postumo recuperato solo nel 1998, è una trascrizione "quasi letterale" di uno dei Quaderni rossi che Pasolini aveva pensato di connettere ad Atti impuri; D'improvviso soffiò la Sarneghera («Il Quotidiano», 17 ottobre 1950) è un testo molto vicino ad un passo contenuto in una delle redazioni di Amado mio. Un discorso simile riguarda un altro insieme di racconti, usciti tra il 1947 e il 1948, che sono rapportabili ad un testo pubblicato nel 1951 su «Botteghe oscure» dal titolo I parlanti, il quale, a sua volta, è in stretta relazione con l'impianto narrativo del Sogno di una cosa (si tratta di Simili ad Arcangeli, Valvasone, Topografia sentimentale del Friuli, La lingua di San Floreano, Le soglie di Pordenone). Situazione a parte è quella della Rondinella del Pacher («Il Quotidiano», 3 settembre 1950), il cui episodio centrale, il salvataggio della rondine da parte di un ragazzino, ritorna, con modifiche, almeno in altre due occasioni, sia nel finale del primo capitolo di Ragazzi di vita, sia in un trattamento cinematografico del 1959 dal titolo I morti di Roma. [12]
Stessa tendenza, e in misura amplificata, si registra anche per i racconti della fase romana, quelli precedenti la pubblicazione di Ragazzi di vita e riuniti da Walter Siti nel libro postumo Storie della città di Dio (un titolo redazionale che però rimanda sia al progetto del Rio della Grana, che in altri momenti Pasolini indica come La città di Dio, sia ad uno dei paragrafi di Una vita violenta). [13] Anche in questo caso, operando un'attenta comparazione testuale, si scopre che difficilmente un racconto non possiede delle zone di contiguità con altri scritti narrativi, configurandosi ora come variante, ora come amplificazione, ora come ripresa (tematica, contenutistica, ecc.) già sperimentata o destinata ad essere sperimentata altrove. Walter Siti e Silvia De Laude, nella cura dei volumi dei Meridiani, hanno fatto a tal proposito un primo, attento, lavoro di perlustrazione, notando le forti correlazioni esistenti tra i racconti pubblicati a Roma con i romanzi friulani (è il caso di Avventura Adriatica e delle citate D'improvviso soffiò la Sarneghera e La Rondinella del Pacher) e con Ragazzi di vita. Su quest'ultimo versante si dovrebbero ricordare i molti testi individuabili nel flusso narrativo delle differenti redazioni del romanzo - dal cosiddetto Ur-Ragazzi di vita alle due stesure dattiloscritte conservate presso la Biblioteca Nazionale di Roma - che Pasolini, in più tempi e per numerose ragioni, tagliò dalla versione definitiva per pubblicare singolarmente (o, viceversa, che pubblicò singolarmente per poi "incollare" nella versione definitiva). È il caso, tra gli altri, de Il Palombo («La Libertà d'Italia», 20 settembre 1950), La passione del fusajaro («Il Popolo», 18 ottobre 1950), Rievocazioni del Riccetto («Orazio», 3 giugno 1955), Ai Cerchi («Il Caffè», n. 12, dicembre 1955), o ancora di Santino nel mare di Ostia («Il Quotidiano», 11 settembre del 1951), la cui vicenda editoriale-redazionale, con quella di Terracina, si intreccia alla lavorazione dell'Ur-Ragazzi di vita. [14] Mi limito, per il momento, a riportare un brano tratto da Domenica al Collina Volpi, uscito su «Il Popolo» del 14 gennaio 1951, che risulta funzionale a mostrare la forte continuità esistente tra i testi del biennio 1950-51 e il futuro romanzo. La scena - per certi versi topica nella narrativa d'ambientazione romana di Pasolini - è quella di una partita di calcio tra ragazzetti di periferia:
«[...] gli accompagnatori, un po' più anziani, dei ragazzi di Monteverde, stanchi di sfottere gli sconfitti che stavano rivestendosi, entrarono in un angolo del campo col pallone tra i piedi: formarono un piccolo quadrilatero, elastico come una gomma, e cominciarono a fare del palleggio. Colpivano la palla col collo del piede, in modo da farla scorrere raso terra, senza effetto, molto veloce. Dopo poco erano tutti zuppi di sudore, ma non volevano togliersi le giacche della festa - o le maglie di lana celeste con le strisce nere o gialle - a causa del carattere tutto casuale e scherzoso della loro esibizione. La massima preoccupazione loro era quella di non parer fanatici: e poiché - a dire il vero - un poco fanatici lo erano, giocando sotto quel sole, così vestiti, avevano sfoderato un'allegria rumorosa e minacciosa, da togliere qualsiasi voglia di trovar qualcosa da ridire nei loro riguardi. Tra i passaggi e gli stop, chiacchieravano tra loro. "Ammazzalo, quant'era moscio oggi Alvaro" disse un moro, tutto carico di brillantina. "Le donne" aggiunse poi, rovesciando. "Macché donne!" gli gridò un altro, con un espressione da incenerire l'eventuale contraddittore, "quello è suonato, quello". "A maschio!" gridò poi, a un ragazzino, perché questi rilanciasse loro il pallone rotolato al di là del recinto. Egli infatti, conversando, nel tentare uno sprezzante e audace colpo di tacco, aveva fatto un buco, il cui esito negativo, però, non fu preso in nessuna considerazione». [15]
Rileggiamo ora questo estratto del primo capitolo di Ragazzi di vita:
«[...] quando i ragazzini si erano ormai stufati di giocare, un sabato, alcuni giovanotti più anziani si misero sotto la porta col pallone tra i piedi. Formarono un cerchio e cominciarono a fare del palleggio, colpendo la palla col collo del piede, in modo da farla scorrere raso terra, senza effetto, con dei bei colpetti secchi. Dopo un po' erano tutti bagnati di sudore, ma non si volevano togliere le giacche della festa o i maglioni di lana azzurra con le strisce nere o gialle, a causa dell'aria tutta casuale e scherzosa con cui s'erano messi a giocare. Ma siccome i ragazzini che stavano lì intorno avrebbero forse potuto pensare che facevano i fanatici a giocare sotto quel sole, così vestiti, ridevano e si sfottevano, in modo però da togliere qualsiasi voglia di scherzare agli altri. Tra i passaggi e gli stop si facevano due chiacchiere. "Ammazzete quanto sei moscio oggi, Alvà!" gridò un moro, coi capelli infracicati di brillantina. "'E donne", disse poi, facendo una rovesciata. "Vaffanc...", gli rispose Alvaro, con la sua faccia piena d'ossa, che pareva tutta ammaccata, e un capoccione che se un pidocchio ci avesse voluto fare un giro intorno sarebbe morto di vecchiaia. Cercò di fare una finezza colpendo il pallone di tacco, ma fece un liscio, e il pallone rotolò lontano verso il Riccetto e gli altri che se ne stavano sbragati sull'erba zozza». [16]
A parte le modifiche linguistiche, che interessano soprattutto la resa lessicale (zuppi > bagnati; maglie > maglioni; quadrilatero > cerchio) o la coloritura di certe espressioni («carico di brillantina» > «coi capelli infracicati di brillantina»; «Macché donne» > «Vaffanc...»), e a parte la trasformazione del personaggio di Alvaro in uno dei giovanotti «più anziani», il confronto tra i due brani evidenzia chiaramente una ripresa diretta, seppur rielaborata, del racconto nel tessuto romanzesco; di più, il primo viene smembrato, tagliato e inglobato nel flusso narrativo del secondo perdendo, di conseguenza, la sua originaria autonomia. 
Ma le riprese non si limitano soltanto ad un elemento strettamente contenutistico: c'è un insieme di simboli, di atmosfere, di nomi, che si muovono in maniera circolare anche in altri testi. Basti pensare al motivo del «maglione di lana azzurra» (o delle «maglie di lana celeste») con strisce nere o gialle che compare sia nelle primitive redazioni di Ragazzi di vita, come indumento sognato e poi ottenuto dal giovane Marcello, sia ne La passione del fusajaro, dove, nella versione di un «maglione celeste» con delle strisce gialle, è l'oggetto del desiderio di un personaggio di nome Morbidone. Ma quello delle maglie è un tema ancora più antico: ad esso, infatti, va raccordato almeno l'incipit di Amado mio, nonché il suo primo abbozzo dattiloscritto presentato nei Meridiani col titolo apocrifo Le «maglie», dove una «maglia» apparsa «sopra un rullo di cemento», simbolo metonimico del giovane che la indossa, turba improvvisamente lo sguardo del protagonista Desiderio.
Il discorso si articola ulteriormente se si passa ad osservare i racconti pasoliniani dal punto di vista dei personaggi. Essi, come alcuni nuclei contenutistici e simbolici, sono degli elementi altrettanto mobili: sono individui ben caratterizzati, figure forti o appena accennate, comparse, macchiette, che percorrono gli spazi testuali in una sorta di circolare incoscienza. A volte appaiono sullo sfondo, altre volte sono solamente delle ombre di passaggio, per poi invece altrove, tornare ad essere protagonisti o attori centrali di una scena. E così, nel Domenica al Collina Volpi, vediamo correre sul campetto di pallone il piccolo Agnolo (nome che tra l'altro rinvia a quello di Angelo Dus di Douce o del ragazzo morto dei Colori della domenica), personaggio che riappare in Ragazzi di vita e diretto discendente dell'amico di Luciano nella versione del Ferrobedò uscita su «Paragone» nel 1951. A sua volta Luciano, da identificarsi con una sorta di proto-Riccetto, è il protagonista di Terracina, il racconto inviato da Pasolini al premio Taranto del 1950; ma è anche il protagonista della prima citata versione del Ferrobedò, dal momento che i due brani, insieme al racconto conservato al fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux col titolo Li belli pischelli, costituiscono il nucleo centrale dell'Ur-Ragazzi di vita. Un personaggio di nome Luciano affiora inoltre ne La passione del fusajaro, testo che verrà integrato e poi rimosso dalla trama del romanzo e ripresentato dieci anni dopo, con diverso titolo (Il Cartina), su «Galleria Colonna». [17]
Da questo rapido sondaggio risulta evidente la complessità delle relazioni esistenti tra i racconti pasoliniani, che per alcuni versi fanno pensare agli altrettanto complessi intrecci che si ritrovano nelle storie di un altro autore delle periferie (però milanesi) come Giovanni Testori; persino nel caso in cui personaggi, eventi e situazioni di un racconto non siano dichiaratamente in rapporto con altri scritti, le ricerche d'archivio, l'analisi dei molti indici stilati da Pasolini, la stessa tipologia delle cartelle che raccolgono il materiale, mostrano un loro primitivo, o successivo, inserimento in un progetto più ampio. Per cui, ad esempio, tre racconti tra loro direttamente non collegati come Ragazzo e Trastevere, La bibita e La passione del fusajaro, usciti indipendentemente sui quotidiani nel corso del 1950, nella cartella d'archivio Pezzi esclusi, incerti, doppi per «Il Rio della Grana» vengono rielaborati ed innestati, con differenti titoli, in un trittico denominato Pischelli (nome che richiama il testo dell'Ur); o ancora, in un indice conservato presso il Fondo Manoscritti dell'Università di Pavia, racconti friulani e romani, di cui molti poi confluiti in Alì, vengono accorpati in un unico progetto narrativo il cui titolo, Le notti calde, sarà lo stesso del quinto capitolo di Ragazzi di vita. D'altronde, quando Ragazzi di vita venne dato alle stampe, diversi osservatori - in primis Anna Banti, Emilio Cecchi e Franco Fortini - lo interpretarono, in virtù della relativa compattezza dei singoli capitoli e dell'assenza di un telaio connettivo forte, come un'antologia di racconti. L'osservazione, che nel caso di Banti acquistava una valenza critica, aveva una sua parziale ragione: in fin dei conti già due brani del romanzo - appunto Il Ferrobedò e Ragazzi de vita - erano usciti in forma autonoma sulle pagine di «Paragone», e ancora nel 1958 Giacinto Spagnoletti estraeva senza storture compositive il pezzo Amerigo per inserirlo nel secondo volume da lui curato della Nuova narrativa italiana (Parma, Guanda). Ma non è questo il punto: l'elemento rivelatore sta nel fatto che proprio la struttura frammentaria di Ragazzi di vita, la sua radice antiromanzesca, rappresenta la più autentica ragione di forza narrativa, che al contrario non troviamo in un'opera così attentamente organizzata come Una vita violenta, senza dubbio più organica, più coesa, ma allo stesso tempo inevitabilmente più rigida, anche dal punto di vista ideologico. Ragazzi di vita non è un lavoro chiuso: è piuttosto un pianeta narrativo attorno a cui ruotano decine di racconti satelliti, che a loro volta si completano e si comprendono fino in fondo solo se letti attraverso la rete delle loro interazioni. In tal senso la forma racconto diventa un metodo non solo di avvicinamento al romanzo, di precisazione del romanzo, ma di analisi del reale, mezzo attraverso il quale restituire il reale nella sua disorganicità.


III. Conclusioni

L'interazione tra romanzo e racconto, dunque, seppur sotto il sigillo della decostruzione formale, non è solamente costitutiva dell'iter redazionale di Alì dagli occhi azzurri, ma si qualifica come una marca specifica di tutta la produzione di Pasolini. [18] Ci sono però delle distinzioni da fare. In alcuni casi il processo d'interazione è etimologicamente decostruttivo, nel senso che il racconto si genera dalla scomposizione di un romanzo - per lo più di un romanzo lasciato in sospeso - di cui rappresenta una parte, un estratto, una variante dotata di autonomia. È quanto accade per i racconti nati dal Romanzo del mare, dal Disprezzo della provincia, o per un racconto come Amado mio
Nel caso di Alì, al contrario, il meccanismo di decostruzione acquista una valenza più apertamente letteraria, nel senso che la raccolta di racconti deriva sì da un romanzo non riuscito, ma nei termini di una volontaria esposizione dei dispositivi dell'insuccesso: i brani sono esplicitamente presentati come "non fatti" o "da farsi", i loro titoli insistono spesso sul valore provvisorio o parziale (squarci, relitti, studi, appunti), l'esibizione del laboratorio si fa scelta poetica. Non solo, ma il libro non riutilizza testi del romanzo fallito, che in realtà non era mai stato scritto (fatto salvo il pezzo omonimo Il Rio della grana), ma testi ibridi, antichi e recenti, protesi anche verso i territori del cinema. 
Con le prose legate al cantiere di Ragazzi di vita, invece, il discorso assume una diversa modulazione: qui la dinamica è inversa rispetto a quella registrata per Alì, poiché non si ha una raccolta di racconti da un romanzo abortito, ma un romanzo riuscito da una raccolta di racconti. L'andamento è in pratica costruttivo, assemblante, selettivo: Pasolini, all'inizio degli anni Cinquanta, comincia a scrivere brevi narrazioni, che in parte pubblica, in parte abbandona, in parte dilata e connette tra loro immaginandole come base per un proto-romanzo che poi diventerà Ragazzi di vita. Il romanzo deriva da questo percorso progressivo, cioè da un itinerario fatto di addizioni, eliminazioni, spostamenti, rimontaggi, che lasciano attorno a sé un pulviscolo di storie correlate e sovrapponibili, personaggi, trame intrecciate e spezzate e poi nuovamente ricongiunte.
Ecco, dunque: la forma racconto in Pasolini sembra un'entità fluttuante, di forte carica sperimentale, che lambisce i territori del romanzo e si integra ad esso, costituendone ad un tempo il segmento genetico della sua formazione o il residuo del suo affondamento, oppure scivola verso i territori del cinema, confondendosi con l'abbozzo di sceneggiatura, che altrove (in un pezzo uscito su «Nuovi Argomenti» e poi raccolto in Empirismo eretico, Garzanti, 1972) l'autore definisce come «tecnica autonoma», ovvero come «struttura che vuol essere altra struttura». Ma soprattutto il racconto, come propone la sua stessa definizione, racconta storie: e in Pasolini sono storie di ragazzi e di diseredati, di amori eretici e proibiti, di uomini che si muovono in un mondo - quello dell'Italia tra gli anni del dopoguerra e del boom - che la letteratura stenta a riconoscere, nonostante cerchi disperatamente di fotografare ed afferrare. Un mondo veloce, frantumato, a cui la misura rapida e spezzata della forma breve, con i suoi meccanismi spesso difettosi, riesce a dare, forse, delle risposte più adeguate. Seppur parziali.
Note:

1  Su tale cartella, infatti, ora conservata presso il Fondo Pasolini dell'Archivio Bonsanti di Firenze, il titolo Alì dagli occhi azzurri sostituisce, con una cassatura, il precedente Il Rio della Grana. Cfr. Nota ad Alì dagli occhi azzurri, in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. II, Milano, Mondadori, 1998.
2  In relazione allo stesso progetto marino si dovrebbe citare anche un romanzo incompiuto dal titolo Il Re dei Giapponesi, pubblicato postumo in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori, 1998.
3  Cfr. Nota ad Alì dagli occhi azzurri, cit.
4  Si legge ora sempre nella Nota ad Alì, cit., p. 1956.
5  W. Siti, L'opera rimasta sola, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. II, Milano, Mondadori, 2003, p. 1931.
6  Ivi, p. 1935.
7  Ivi, p. 1921.
8  J.R. Wilcock, Roma, in Fatti inquietanti, Milano, Adelphi, 1992, p. 247.
9 Tra l'altro Pasolini, in uno dei tanti indici da lui stilati, aveva ipotizzato di raccogliere Amado mio ed Atti impuri, insieme ad altri testi, sotto la comune denominazione di Racconti. Cfr. P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit., p. 1735.
10  Cfr. P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. II, cit., pp. 1970-71.
11  Cfr. Nota ai Quaderni rossi, in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit.
12  Per un approfondimento su tutte queste relazioni intertestuali cfr. note ai relativi testi in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit.
13  Cfr. Nota al testo, in P.P. Pasolini, Storie della città di Dio, Torino, Einaudi, 1995.
14  Vedi nota 12.
15  P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit., pp. 1414-15.
16  Ivi, pp. 528-29. Sul confronto tra questi due brani si veda anche Z.G. Baranski, Pasolini, Friuli, Rome (1950-1951): Philological and Historical Notes, in Id., Pasolini Old & New: Surveys and Studies, Dublin, Four Courts Press, 1999, pp. 259-263
17  Cfr. ivi, p. 1712. L'episodio narrato nel racconto è infatti presente nella prima redazione di Ragazzi di vita e poi cassato in quella definitiva.
18  Questa interazione coinvolge in realtà anche altre zone della produzione pasoliniana. In diversi racconti si registrano infatti contatti significativi sia con l'opera in versi (un solo esempio: Spiritual è la versione narrativa del Biel zuvinìn della Meglio Gioventù), sia con quella cinematografica e teatrale (si veda il casoTeorema, i soggetti presenti in Alì, ecc.).
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Contaminazione e trasgressione: il cinema di Pasolini, di Roberto Chiesi

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LA SAGGISTICA - TEATRO
Contaminazione e trasgressione:
il cinema di Pasolini
di Roberto Chiesi
n. due-tre, dicembre 1995 - 1996, n. 1
Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature 

Frontalità ossessiva delle inquadrature, fotografia in bianco e nero "sporca" e contrastata, adozione di un gergo aspro e greve, scelta di musiche sacre (Bach) a commentare drammatiche sequenze di degradazione, doppiaggio babelico, volti e corpi "sgradevoli", paesaggi di desolate periferie: il cinema di Pasolini, fin dal primo film, Accattone (1961), possiede già i connotati neoespressionistici di uno stile che trasgredisce violentemente i codici formali istituzionalizzati, come, analogamente, la sua poetica, ispirata all'ideologia marxista, privilegia soggetti imperniati sugli strati sociali più disprezzati, provocando ed aggredendo, così, i pregiudizi conformistici delle classi dominanti.
Fino a La ricotta (1963), Pasolini ha raccontato le vite tragiche dei diseredati e dei reietti del sottoproletariato romano rivelando il carattere religioso insito nei loro travagli e li ha elevati ad una sacralità che trova il suo corrispettivo formale nella composizione delle immagini, evocativa della grande pittura sacra quattrocentesca.
L'intera opera cinematografica pasoliniana è, quindi, dominata dall'ossimoro, dall'accostamento, contradditorio e provocatorio, di immagini e suoni.
Da Il Vangelo secondo Matteo (1964), il poeta-regista ricorre anche alla Contaminazione, ispirandosi a San Matteo, a Sofocle, ad Euripide, quindi ai racconti di Boccaccio, di Chaucer, alla favolistica araba ed, infine, a Sade, ma, con la parziale eccezione del Vangelo che riprende il testo alla lettera, dei classici Pasolini conserva soltanto la funzione di archetipi sul cui impianto crea arcaici e barbarici labirinti dalle implicazioni psicanalitiche e dalle estrose invenzioni figurative (Edipo Re, 1967, e Medea, 1969), o preziose evocazioni della sfrenata carnalità di un Passato mitizzato e favoloso (la Trilogia della vita), o una atroce, metaforica "visione medievale" sul Presente "omologato" (Salò, 1975).
Come era già accaduto con la poesia e la narrativa, anche il cinema divenne per Pasolini uno strumento di sperimentazioni diegetiche e linguistiche: in Uccellacci e uccellini (1966), egli, all'interno del racconto, ne innesta un altro più breve con funzione di apologo allegorico; nei cortometraggi La terra vista dalla luna (1967) e Che cosa sono le nuvole? (1967), l'uso vivacissimo del colore accentua la comicità burlesca e "chapliniana" del racconto che, nel caso del secondo film, è giocato sui due piani speculari del teatro (di marionette) e della realtà; se Edipo Re ha una struttura circolare con il prologo e l'epilogo ambientati in tempi e luoghi determinabili ed un nucleo centrale calato nel Mito, Teorema (1968) è una metafora, mimetizzata da dimostrazione geometrica, sull'avvento del Mito (Eros) e in Porcile (1969) si intersecano due diversi piani narrativi, uno dei quali, ancora, è collocato in un Passato mitico.
La rabbia (1963) e Comizi d'amore (1963) rappresentano i primi esempi pasoliniani di cinema in forma di analisi saggistica, forma alla quale egli, in seguito, conferirà un carattere apparentemente occasionale di "appunti cinematografici" per progetti di film (Appunti per un film sull'India, 1968, e Appunti per un'Orestiade africana, 1970).
A queste opere, più direttamente aderenti all'idea pasoliniana del cinema come "lingua scritta della realtà", e quindi ricche di annotazioni antropologiche, ideologiche e paesaggistiche, si affiancano alcuni cortometraggi che si possono considerare gli equivalenti filmici degli Scritti corsari (Le mura di Sana'a, 1971-74, e La forma della città, 1974).
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Il teatro di Pasolini, di Stefano Casi

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LA SAGGISTICA - TEATRO
Il Teatro Pasolini a Cervignano del Friuli

Il teatro di Pasolini
di Stefano Casi
n. due-tre, dicembre 1995 - 1996, n. 1
Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature 


Per Pasolini la necessità della scrittura teatrale si manifesta fin dalla giovinezza accanto a quella della pratica teatrale (di cui, però, non ci occupiamo in questa sede). La prima delle sue dodici opere teatrali è del 1944 (aveva ventidue anni) e risale al soggiorno in Friuli dove Pasolini aveva dato vita a un importante «laboratorio» centrato sul rapporto fra parola parlata e parola scritta. Centrale nel progetto di qualificazione del dialetto come lingua è il teatro, che Pasolini frequenta sia sul palcoscenico, sia sulla pagina. Il suo primo testo teatrale si basa sulla storia di un'antica invasione turca in Friuli vista come metafora dell'attuale invasione tedesca nel nord-est italiano: I Turcs tal Friùl, un atto unico in cui l'autore riprende segni e motivazioni della tragedia greca nell'obiettivo di fondare una tradizione mitopoietica nel paesino di Casarsa «promosso» a vera e propria polis tragica.

Dopo altre due opere scritte nel 1945 ma andate perdute (ci rimangono solo i titoli e qualche abbozzo di trama: I fanciulli e gli Elfi e La Morteana), Pasolini trasferisce sul teatro nuove riflessioni dedicate a un'auto-analisi profondamente legata a mutamenti esistenziali che l'autore stesso interpreta nel quadro della metamorfosi storico-politica italiana: fine del fascismo, della guerra e della monarchia, e nascita della Repubblica democratica e costituzionale. La nuova opera in quattro atti Il cappellano sarà elaborata da Pasolini in un lungo ventennio (a riprova del valore centrale di questo scritto nel corpus pasoliniano) dal 1946 al 1965, fino alla sua messa in scena con il titolo definitivo di Nel '46!È la storia di un insegnante innamorato di un ragazzo, che attraversa in diversi sogni la propria storia interiore e la storia italiana, fino all'esaltazione della Costituzione repubblicana.

Dopo il trasferimento a Roma, Pasolini stenta a ritrovare una ispirazione teatrale: solo nel 1957 scrive un monologo per attrice dal titolo Un pesciolino. Ma la vera occasione per riaffrontare, anche teoricamente, il teatro è la traduzione dell'Orestiade di Eschilo, che gli viene chiesta da Vittorio Gassman nel 1960. Una traduzione esemplare, modernissima, in cui Pasolini sperimenta nella dimensione orale tutte le sfumature della lingua da lui usata in Le ceneri di Gramsci. Dopo un'altra traduzione (il Miles gloriosus di Plauto con il titolo Il vantone) Pasolini affronta direttamente la prova del palcoscenico con l'atto unico Italie magique, scritto nel 1964 per Laura Betti, beffardo atto di accusa del teatro tradizionale e di quello brechtiano.

Con questo lavoro inizia una nuova riflessione sulla necessità teatrale che - per consapevolezza - riprende la meditazione interrotta dall'epoca del progetto linguistico friulano. Una riflessione sul ruolo del teatro nella società attuale da una parte e, dall'altra, sul rigore tecnico-etico dell'attore. Da tutto ciò nasce nel 1966 il progetto della tragedia borghese in versi che si concretizza nella scrittura di sei opere teatrali intese come strumento più adatto per una fenomenologia della borghesia in crisi: Orgia, Affabulazione, Pilade, Porcile, Calderon, Bestia da stile. La coraggiosa scelta del verso rappresenta la più forte volontà sperimentale in anni in cui la drammaturgia veniva compressa tra la «chiacchiera» intesa come stanco epigonismo del teatro pirandelliano e il «gesto» e l'«urlo» intesi come strumenti principali della neoavanguardia.

La maggior parte della scrittura delle sei tragedie borghesi è concentrata tra il 1966 e il 1968, anni in cui l'impegno teatrale di Pasolini traspare anche altrove, soprattutto nel cinema (si pensi a Edipo re, Che cosa sono le nuvole? e Teorema, quest'ultimo concepito originariamente come opera teatrale). Non solo: nel 1968 Pasolini lancia su «Nuovi Argomenti» un clamoroso attacco all'establishment dello spettacolo con il suo Manifesto per un nuovo teatro, volutamente provocatorio fin dal titolo futurista; e nello stesso anno firma la regia di Orgia per il Teatro Stabile di Torino. Ma c'è una tragedia che supera in maniera significativa il fatidico 1968 dopo il quale Pasolini abbandona, apparentemente, il teatro: è Bestia da stile (1966-1975) che, di fatto, prende il posto - sia per gli argomenti, sia per il travaglio creativo - di Il cappellano-Nel '46! nella elezione del teatro a «scena segreta» dell'auto-analisi pasoliniana.
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Lingua e cinema: Pasolini: idea di cinema e piano-sequenza. La libertà stilistica, di Franco Cocco

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LA SAGGISTICA
Montale, Moravia e Pasolini

Lingua e cinema: Pasolini:
idea di cinema e piano-sequenza.
La libertà stilistica
di Franco Cocco

Franco Cocco è poeta di lingua taliana e sarda è professore in Ozieri (Sardegna).
Ha fatto parecchi studi sull’opera è l’estetica di Pasolini. 


La libertà stilistica
"Poiché, nell'incosciente erede di istituti sociali, filosofici o stilistici, il mondo si era ridotto a oggetto di poesia, e quindi di un’apparentemente sconfinata libertà linguistica, è chiaro che in seguito alla crisi e alla rinuncia di quel mondo pieno e concluso - avanzante, all'infinito, solo sul fronte interiore - la lingua che era stata portata tutta al livello della poesia tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico, con l’implicazione di una ricerca stilistica esattamente opposta a quella precedente ".
Così argomenta Pasolini nel saggio " La libertà stilistica ", lo scritto compreso nel libro Passione e ideologia in cui sono raccolte le analisi critiche di un decennio (1948-1958).
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere.
E' l'ormai famosa terzina de "Le ceneri di Gramsci", versi chiaramente emblematici che mettono in evidenza la lingua 'regressiva' lavorata con puntiglioso spirito di ambizioso neòfita che ambisce ad essere poeta pre e antinovecentesco: è il Pasolini degli Anni Sessanta che irrobustisce - sfidando i persistenti lasciti del linguaggio ermetico e/o ermetizzante - presso le lontane e fertili tematiche trecentesche, la sua lingua " a livello di prosa " operando l'innesto sul secolare tronco di Dante, per salire poi più su per gli antichi rami, intricati, ora foscoliani, ora carducciani; innesto operato con sottili tecniche stilistiche raffinate alla scuola del Contini. Lingua pasoliniana questa, però, che lascia trapelare un indistinto tremolio di foglie pascoliane alternato da un segreto brivido dell'analogismo ermetico. Lingua complessa, dunque, che attraverso una assidua lettura della scrittura del Gramsci che propende nei suoi scritti al ’parlato’, mira alla definizione di una teoria linguistica 'inclusiva', una lingua, in sostanza, che gioca per 'accumulazione', una volta che sconfina nel terreno della prosa. Appare particolarmente chiara, qui, la forza polemica, dirompente del poeta friulano che nel libro La religione del mio tempo mette in versi - e dunque in atto - la sua quasi eversiva "reazione stilistica",
La lingua è oscuranon limpida - e la Ragione è limpida,non oscura! Il vostro Stato, la Vostra Chiesa,vogliono il contrario, con la vostra intesa -Sono infiniti i dialetti, i gerghi,le pronuncie, perché è infinitala forma della vita:non bisogna tacerli, bisogna possederli:ma voi non li voleteperché non volete la storia
Pasolini vuole l'infinita forma della vita. Fra gli "infiniti dialetti" sceglierà quello del cuore: la lingua materna della friulana Casarsa, e con quella lingua antica scriverà La meglio gioventù. Nascerà allora in lui il desiderio di scavare la parola verginale del parlato, la pura oralità che lo porterà all'ardita analisi di laboratorio in cui la genesi della lingua orale (che colloca come ipotesi di terzo possibile termine desaussuriano tra "langue" e "parole") lo convince a stigmatizzare che, visto che ogni lingua è un insieme di tante lingue che hanno in comune delle astrazioni (quali il lessico e la grammatica), ne consegue che le distinzioni sono - a voler essere forzatamente schematici, in questi termini:
a) per il marxismo c'è lingua della "struttura" e lingua della "sovrastruttura";b) per lo strutturalismo e la linguistica sociologica c'è "langue" e "parole" ;c) per Pasolini c'è "lingua orale" e "lingua orale-grafica"
Pertanto egli propone:
"Ai linguisti che si sono interessati a questo problema una suggestione, un'ipotesi poetica: il terzo termine tra " langue " e " parole " (la cui radicale dicotomia sembra insostenibile) potrebbe essere il momento puramente orale della lingua. Ossia: la lingua nel momento in cui essendo formata da segni individuali di tipo interiettivo e misteriosamente analogico con sentimenti reali suscitati da cose e da fatti - riflessi condizionati - non era e non è un'astrazione arbitraria, ma un insieme solidale, fisico di segni necessari".
Alla ricerca della "lingua del cinema"
Ti jos, Dili, ta li cassisa plòuf. I cians si scunìssinpal plàn verdùt.
Ti jos, nini, tai nustris cuàrps,la fres-cia rosadadal timp pierdùt.
(Vedi, Dilio, sulle acacie/piove. I cani si sfiatano/ per il piano verdino.Vedi, fanciullo, sui nostri corpi/la fresca rugiada/del tempo perduto.),
E’ la poesia, in lingua friulana "Dili", in cui viene stampata la parola "rosada" (che - come del resto per le altre di "Tetavelata" e del davoliano "Hè-eh, heeeeeh" - è stata sempre, secondo Pasolini, parola solo parlata e mai scritta). "Rosada": rugiada. In mezzo a tanta passione per la lingua materna, è possibile rintracciare le lontane radici di una nuova passione pasoliniana: risalgono, infatti, al tempo degli anni friuliani i primi vagheggiamenti cinematografici. Confesserà: "Ho sempre pensato di fare del cinema. Prima della guerra pensavo che sarei venuto a Roma a fare il Centro Sperimentale, se avessi potuto. Questa idea di fare del cinema, vecchissima, si è arenata, si è sperduta".
Invece noi sappiamo che ci fu la grande amicizia con Federico Fellini al tempo di "Le notti di Cabiria" e de "La dolce vita". Pasolini ottenne la collaborazione per "Le notti di Cabiria". Il critico letterario Cesare Garboli, del resto, recensendo "Le ceneri di Gramsci" profetizzò, facilmente, dicendo: "Non mi meraviglierei se egli dovesse, a un tratto, cambiare assolutamente strada, e nel modo più impensato".
Come è noto, Pasolini cambiò strada girando film, imponendosi come originale regista. Siamo negli Anni Sessanta. Intanto, proprio in quegli anni, Pasolini ha pronta una nuova sceneggiatura, quella di Accattone, ed ha pronto anche un soggetto nuovo, "La commare secca".
Comunque, dopo la rottura con Federico Fellini, inventore di una casa cinematografica denominata "Federiz", il poeta delle "Ceneri di Gramsci" è il suggeritore de "Il bell'Antonio" di Mauro Bolognini di cui sarà un prezioso collaboratore. In seguito, per Pasolini sarà importantissimo l'incontro e la reciproca stima con il produttore Alfredo Bini che sarà colui che finanzierà tutti i film fino ad "Edipo re" (e cioè fino al 1967).
Ma proprio nel 1966 il poeta si chiede, da curioso e ambizioso intellettuale-regista le ragioni della "diacronia" tra lingua scritta e lingua parlata convinto che essa (diacronia) può servire a mascherare la lingua scritta, mistificandola, magari, anche, presentandola per quello che non è (ed a riprova di quanto detto egli ricorda la "recita"di Umberto Saba nel momento della lettura delle sue poesie; ricorda persino la "notevole" lingua orale di Mussolini, nel quale, a suo dire, c'è l'evidente presenza di due lingue in diacronia).
In virtù di queste convinzioni, Pasolini è davvero persuaso che anche Antonio Gramsci, "parlando, usava contemporaneamente due lingue o due tradizioni linguistiche in diacronia"; e dunque ecco una sorta di enunciato suo teorema: "In Italia viviamo radicalmente questo dramma - che tra lingua orale e lingua grafica ci sia l'urto che c'è tra due strutture diverse e in opposizione. Certi fenomeni non solo linguistici si attuano e si comprendono solo considerando la lingua orale come una lingua a sé, che solo casualmente e episodicamente diviene 'anche' scritta".
Per sottolineare l'importanza di questi concetti circa lingua orale/scritta, ritengo sia opportuno rifarsi al Pasolini poeta in lingua materna, specificatamente, in "lenga furlana", ossia ripensare a quella lingua che - come tutte le lingue materne - ha la sua misteriosa genesi nella oralità.
(Quando nella raccolta La meglio gioventù apparirà la poesia "Dili", il cantore di una splendida epopea di Casarsa darà la dimostrazione della originalità, non solo e non tanto della lingua materna friulana, ma proprio, di quella specifica sua originalità: ne mostrerà la innegabile verginità, riproponendo una parola- 'rosada' -che, egli dice, "certamente, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono".
Ecco: la splendida lirica "Dili" (appena citata in questo scritto, che voi tutti certamente ricorderete). Riprendendo, intanto, il discorso circa la questione ‘orale/scrittto’ è indispensabile puntualizzare il pensiero pasoliniano a proposito della caratteristica forse più importante della lingua orale; caratteristica che per il Pasolini saggista è quella della "conservazione" di una sua capacità unificante, metastorica, conservata anche attraverso le numerose (possibili) continue stratificazioni e scampoli (sopravvissuti) di altre-lingue.
Ma, attenzione, Pasolini avverte che mentre "la stratificazione dei substrati orali delle società", nel corso della storia, è inevitabilmente assicurato dal ritmo della continuità, la stratificazione dei substrati orali-grafici non può non lasciare impronte durevoli quali, appunto, rivoluzioni e/o restaurazioni, avanzate e/o regressi e/o fermate.
Ovviamente, si dà per scontato che la lingua 'istituzionale'o 'langue' sia capace di operare un rapporto così certo da risultare, nei molteplici e vari momenti storici, "una lingua sola". A questo punto credo sia importante riportare l'opinione di Pasolini in merito ad una specifica lingua orale della Francia che, secondo lui, è "Una, parlata dai francesi viventi, e che è un 'continuo' storico formato dal 'continuare' in essa, senza soluzione di continuità, a) di strutture precedenti (il protofrancese, il latino, il franco-appena romanizzato, il franco preromano ecc. ecc, in giù verso la preistoria dei Franchi); b) di sovrastrutture orali-grafiche depositate e discese di livello (la civiltà della borghesia comunale, la civiltà carolingia, la civiltà medioevale, la civiltà romama, la civiltà franca preromana ecc, ecc. ). Questo 'continuo' di lingua vocale o 'contenente le necessità', puramente strumentale, è inanalizzabile come tutto ciò di cui non si può stabilire un principio, una fine o un momento di immobilità".
Per 'restare' in Francia (pensando contemporaneamente ad altre società o nazioni capitalistiche coinvolte dalla 'rivoluzione interna'), Pasolini si chiede quale può essere, sotto specie linguistica, il dato più interessante, ovvio e insieme clamoroso se non "la sostituzione, come modello linguistico, delle lingue delle infrastrutture alle lingue delle sovrastrutture"?
In sostanza, secondo Pasolini, negli Anni Sessanta era possibile rilevare una 'evoluzione' socio-linguistica nel contesto del mondo neocapitalistico, evoluzione vista come contrapposizione o, più realisticamente, come alternativa ad una innegabile 'rivoluzione' socio-linguistica in fermento nel mondo marxista degli Anni Sessanta, e post marxista ai giorni nostri.
Questo argomentare è indispensabile quando si tratta di impostare il discorso sulla "vocalità" pasoliniana vista, questa, come terzo termine tra 'langue' e 'parole'.


La non arbitrarietà del 'segno' del cinema

Il fatto che ancora non si sia scritta una organica ‘grammatica’ del cinema e che, pertanto, è evidente che nessuno, allo stato attuale, è in grado di stabilire, con certezza linguisticamente scientifica, quale sarebbe, o quale è il "segno" dell'ancora ipotetica "langue" cinematografica, risalta in modo evidente la natura ed essenza "verginale" del segno cinematografico.
Ora, considerato che più di una volta il poeta-regista-saggista Pasolini ha dichiarato di "non essere uno stutturalista" (ricordo la ormai famosa sua affermazione: "il fatto di essere italiano mi 'costringe' a non essere strutturalista, a non avere la 'testa' dello strutturalismo"), in quanto egli è convinto della 'instabilità' sia delle strutture foniche, sia di quelle grammaticali della sua lingua. Egli, inoltre, ritiene che 'parlando' - nel puro, semplice, quotidiano parlare - è consapevole di 'vivere' "una struttura che si sta strutturando".
Ancora: la non arbitrarietà del "segno" cinematografico è che esso si propone alla nostra esperienza come 'segno stilistico' di una originale 'parole' che pur essendo espressione di una "ipotetica 'langue' potenziale' non può non essere recepita come espressione diretta del 'significato'. E dunque: tra 'segno' o figura-immagine 'cinematografica significante', e 'significato’ esiste un organico legame di necessità.


Scenografia e concetto di 'cinèma'

Date queste premesse, a Pasolini appare opportuno stabilire un confronto tra cinema e letteratura individuando il dato concreto del rapporto nella sceneggiatura, che, a suo dire, è inevitabilmente concepita "come struttura che vuole diventare 'altra' struttura".
E qui, ovviamente, il regista-teorico va alla ricerca di una 'tecnica' nuova quanto libera ed autonoma impegnata nella confezione del linguaggio della sceneggiatura la quale deve risultare - a fine lavoro e chiavi in mano - opera d'arte compiuta, nonostante (qui gioca un'apparente contraddizione in termini) l'autore, pur consapevole di dover accettare, durante il lavoro l'allusione, o pura ipotesi formale, alla confezione di un’opera 'da farsi' studiata sul modello della tradizionale scrittura letteraria-ipotesi di lavoro, questa, che comporta un grande rischio - egli non sarà in grado di compiere quell'originale e ardito salto di qualità che, chiaramente, consiste solo nell'elaborazione di una creazione di "opera in forma di sceneggiatura" di struttura cinematografica-visualizzatrice secondo il canone "da farsi" ; mediante una nuova (anzi 'altra' tecnica).
Ora può risultare più chiaro il significato che informa la fondamentale e principale caratteristica del "segno", della tecnica della sceneggiatura che è:
a) allusione al significato attraverso due itinerari diversi, ora coincidenti, ora aderenti appena e/o riconfluenti;b) allusione della figura segnica della sceneggiatura mediante i percorsi espressivi tipici di tutte le lingue scritte e, anche, dei gerghi della scrittura letteraria; al significato;c) allusione a quello stesso significato (di cui alle lettere a) e b) appena indicate) rimandando e invogliando criticamente il destinatario (lettore-spettatore) ad un altro 'segno', ovvero, a quello del film 'da farsi';d) invito implicito, da parte dell'autore della sceneggiatura, al suo destinatario-spettatore perché si impegni in una particolare partecipazione - una sorta di rinnovata "corrispondenza d'amorosi sensi" di memoria foscoliana - quella di voler prestare al suo testo una compiutezza di valenza "visiva" a cui l'autore allude.
Non potrà, dunque stupire se il regista invoca la complicità del lettore impegnandosi nella decifrazione della "scrittura" cinematografica che stimolando l'immaginazione lo inoltra in una impervia quanto suggestiva strada che, per Pasolini, è più impegnativa di quella che conduce alla decodificazione del romanzo.

A questo punto credo sia utile, al fine di chiarire meglio il tema della "scrittura" cinematografica, allargare l'indagine sul significato di sceneggiatura proponendo l'analisi di un geniale semiologo qual è Umberto Eco, il quale, nel saggio noto Apocalittici e integrati, a proposito della presa diretta che influenza fortemente il film, ricordando il debito che, a suo dire, il nuovo cinema deve alla TV, afferma che: "Il cinema, almeno nelle sue forme tradizionali, aveva abituato lo spettatore a una sorta di racconto concatenato e costruito secondo passaggi necessari, secondo la poetica aristotelica: serie di avvenimenti terribili e pietosi che accadono a un personaggio capace di determinare una identificazione simpatetica da parte dello spettatore (...).  In altri termini, come il romanzo ottocentesco e come la tragedia classica, il film si strutturava secondo un inizio, uno svolgimento e una fine (...). Ora con la ripresa diretta televisiva si è andato invece affermando un modo di "raccontare" gli eventi del tutto diverso: la ripresa diretta manda in onda le immagini di un avvenimento nello stesso momento in cui esso avviene, e il regista si trova da un lato a dover organizzare un "racconto" il cui ritmo, il cui dosaggio tra essenziale e inessenziale sia profondamente diverso da quanto avviene nel cinema, abituando così il pubblico, a un nuovo "tipo di tessuto narrativo (...), per cui non sarebbe accidentale che solo dopo alcuni anni di abitudine al racconto televisivo anche il cinema abbia preso le mosse per un diverso tipo di racconto, di cui un esempio insigne potrebbero essere le opere di Antonioni: dove l'azione principale, se pure esiste, appare continuamente diluita nello sfondo degli eventi apparentemente insignificanti".
Il saggio di Umberto Eco (che, per la precisione, e del 1965) concorda con le ricerche di Pasolini regista (che risalgono agli anni 1965-1966) su una questione fondamentale: e cioè sul fatto che non si debba parlare, circa la 'scrittura' cinematografica, di "letterarietà" del cinema, dato che, avendo il cinema trovato con 'mezzi propri' certe strade percorse dalla letteratura, dimostrerebbe, in sostanza, l'esistenza di forti e profonde esigenze che si agitano nel contesto della cultura contemporanea, dove il cinema s'impone come nuova arte. Dunque: per chiarire meglio certi punti di concordanza tra le teorie di Eco e quelle di Pasolini, basti ribadire il pensiero di quest'ultimo, secondo il quale il "dato concreto del rapporto tra cinema e letteratura è la sceneggiatura", naturalmente insistendo sul concetto che il teorema sulla "unicità" e autonomia del sistema della " letteratura " è "altro" da quello della "letteratura del cinema".
Affrontando ora la caratteristica essenziale del "segno" della tecnica della sceneggiatura è indispensabile connotare lo specifico del "segno", che esemplificando al massimo, per Pasolini si presenta sotto diversi aspetti, esso è una sorta di trinitario dogma linguistico in quanto si manifesta in un insieme triadico e inscindibile in questi termini: il "segno" è :
a) orale (fonema);b) scritto (grafema);c) visivo (cinèma).
Per lui i "cinemi" sono un'altra lingua: essi sono delle "immagini primordiali, delle monadi visive inesistenti, o quasi, in realtà". E, occorre ribadirlo ancora, la coordinazione ed elaborazione dei "cinemi" non rimandano ad una analoga tecnica letteraria: essi sono i fenomeni di un'altra lingua che ha il fondamento su un (nuovo) sistema di, appunto, "cinemi" o, magari, "im-segni" su cui cresce l’edificio del metalinguaggio cinematografico.
Ma, quasi con ossessiva premura, Pasolini si chiede che cosa mai può essere 'fisicamente' questo "im-segno"?
"Proprio perché mancano i dati precisi indispensabili per scrivere una grammatica del cinema, egli non è in grado di stabilire se nello "sceno-testo" il da lui definito "im-segno" sia un fotogramma, o una sequenza di fotogrammi; oppure un insieme pluricellulare di fotogrammi; o magari una complessa sequenza di fotogrammi dotati di durata.
Ed ecco che Pasolini, nel poemetto "Una disperata vitalità", in quella nota "Stesura, in 'cursus' di linguaggio 'gergale' corrente, dell'antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte", nel libro di versi Poesia in forma di rosa, azzarda (negli anni 1961-1964) una scrittura poetica con intenti di scrittura cinematografica:
Come in un film di Godard: soloin una macchina che corre per le autostradedel Neo-capitalismo latino - di ritorno dall'areoporto -(là è rimasto Moravia, puro fra le sue valige)solo, 'pilotando la sua Alfa Romeo'in un sole irriferibile in rimenon elegiache, perché celestiale- il più bel sole dell'anno -come in un film di Godard:sotto quel sole che si svenava immobileunico(...)
Qui è chiaramente implicita quella nota ansia, .o rabbia pasoliniana che aspira a convertirsi in stile di scrittura cinematografica : ancora è la sempre accarezzata carrellata "contro natura" che consiglia a Tonino Delli Colli (il direttore della fotografia di "Accattone" e di quasi tutti i suoi film);
Metta, metta, Toninoil cinquanta, non abbia paurache la luce sfondi - facciamoquesto carrello contro natura!
Ma la sua è anche spesso angoscia che sfocia in forma originale di pittura. Ascoltiamo quanto dice in Mamma Roma (1962):
"Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto - che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l'uomo come centro di ogni prospettiva Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po' come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e, per questo, lo aggredisco sempre frontalmente".
Ecco perché mi viene voglia di definire la sua scrittura cinematografica come risultato raggiunto mediante l'uso di una lingua quasi al limite del gestuale, e che appare, più che bloccata o fermata, direi eternata in quella irnmobilità di stampa pittorica.
Del resto, nella poesia "La ricchezza", egli insiste ancora nel dichiarare la sua passione per la scrittura in forma di colore-immagine-contorno-pittura, quando in versi ci dice come desidererebbe la sua
camera da letto (un semplicelettuccio, con coperte infioratetessute da donne calabresi o sarde)appenderei la mia collezionedi quadri che amo ancora accantoal mio Zigaina, vorrei un bel Morandi,un Mafai, del quaranta, un De Pisis,un piccolo Rosai, un gran Guttuso.
Ancora, nella parte 2 de "La ricchezza" ribadisce:
.....  c'eradentro la mia anima nata alle passionigià, intero, San Francesco, in lucentiriproduzioni, e l'affresco di San Sepolcro,e quello di Monterchi: tutto Piero,quasi simbolo dell'ideale possesso,se oggetto dell'amore di maestri,Longhi o Contini, privilegiod'uno scolaro ingenuo, e, quindisquisito...
E' proprio negli Anni Sessanta che il poeta sente così prepotente il ‘cambio’ del circolo vitale del suo linguaggio: egli, pur rimanendo inevitabilmente legato all'idea di una linguistica e di una morfologia letterarie - alla quale per un'intera, essenziale educazione d'artista della parola scritta (in senso, ovviamente, tradizionale) si era dedicato, sente il bisogno irrefrenabile di dare forma estetica, e, quindi, vita, all’immediatezza dell'esistere che, intuisce finalmente, solo attraverso il cinema è possibile rappresentare, rendendola arte.
Sia Alberto Moravia, sia Elsa Morante - due scrittori illuminati e ossessionati spesso dal senso quasi monastico e teologico della sacralità della letteratura - con una certa dolorosa consapevolezza intuiranno per primi della imminente abiura pasoliniana In particolare, Moravia, recensendo il film "Accattone" acutamente quanto profeticamente, scriverà che:
"Trasferendo sullo schermo il mondo dei suoi romanzi" allo scrittore friulano detto "trasferimento è riuscito alla perfezione; tanto da ingenerare che i romanzi di Pasolini fossero un'inconsapevole preparazione al cinema; cioè che l'accanita ricerca del corposo e dell'autentico per mezzo del dialetto dovesse per forza sfociare nell'abbandono della parola, sempre metaforica, per l'immagine la quale non può non essere diretta e immediata".
In sostanza, per dirlo con più rapido passaggio logico, Moravia era convinto che Pasolini, ormai, mirasse con il cinema, ad abbattere, più che eludere il sottile ma sempre palpabile diaframma fra natura e linguaggio: che è, esattemente, ciò che, dal film "Teorema" in poi, tenterà di realizzare Pasolini con la sua idea di "cinema di poesia", di cui assumerà, fino all'ultimo lavoro da regista, anche il ruolo di operatore: volendo essere, così, più fedele interprete dell'idea di "cinema d’autore".
In una vibrante lettera al produttore Alfredo Bini, il regista, a proposito del suo film "Il Vangelo secondo Matteo", mette in tavola le carte segrete del suo irrazionalismo in seguito alla crisi palpabile già nella raccolta di versi di Poesia in forma di rosa, crisi, però, che coincide con l'urgenza di testimoniare con un'opera cinematografica la sua poetica di originale autore di cinema di poesia.
Ecco un passo signifìcativo di quella lettera:
"Quanto al mio rapporto col Vangelo, esso è abbastanza curioso: tu forse sai che, come scrittore nato idealmente dalla Resistenza, come marxista ecc., per tutti gli Anni Cinquanta il mio lavoro ideologico è stato verso la razionalità, in polemica coll'irrazionalismo della letteratura decadente (su cui mi ero formato e che tanto amavo). L'idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, è invece, devo confessarlo, frutto di una furiosa ondata irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia, rischiando magari i pericoli dell'esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale; Piero della Francesca e in parte Duccio per l'ispirazione figurativa; la realtà, in fondo preistorica ed esotica del mondo arabo, come fondo e ambiente). Tutto questo mette pericolosamente in ballo tutta la mia carriera di scrittore, lo so. Ma sarebbe bella che, amando così svisceratamente il Cristo di Matteo, temessi poi di rimettere in ballo qualcosa".
Poetica, questa, chiaramente di "cinema di poesia", lavorato con una lingua cinematografica dentro l'impasto della corposità figurativa della manualità di Piero della Francesca e di Duccio legato tutto dall'universale musicalità di Bach e di Mozart, dentro il suggestivo sfondo di un'esotica preistoria retrocessa ai lontani confini del misterioso mondo arabo: Vangelo secondo Pasolini, dunque, assecondato dalla poetica di Bibbia dei poveri, sempre secondo quel ‘blasfemo’ apostolo che lo firma.


Il Piano-sequenza pasoliniano:
il cinema come un infinito piano-sequenza

Su un qualsiasi fenomeno - poniamo, seguendo l'esempio di Pasolini - su un fatto realmente accaduto come il (possibile, anzi, riscontrato) filmino in sedici millimetri girato su detto fatto, che per la precisione sarebbe quello relativo alla tragica morte di Kennedy, è possibile parlare di "soggettiva" di piano-sequenza elementare, come può essere, appunto, una ripresa da parte dell'ipotizzato spettatore-operatore improvvisato che, di fronte a quel drammatico e insperato avvenimento dell'attentato al Presidente degli Stati Uniti d'America, ha ripreso senza aver scelto un particolare angolo visuale, la tragica scena. Ma, seguendo sempre il ragionamento del teorico-regista-semiologo del cinema di poesia, supponendo l'esistenza di diversi piccoli film girati da diversi angoli visuali sui quali si intenderebbe fare una sorta di operazione di "cucitura", noi siamo certi - sentenzia Pasolini - di trovarci di fronte ad una "moltiplicazione di presenti": ovvero noi assisteremmo allo svolgimento dell'azione tragica più volte davanti ai nostri occhi, anziché vederla scorrere una sola volta. Questo perché l'operazione di cucitura o elementare montaggio metterebbe la realtà (dell'attentato, appunto) in grado di esprimersi con tutte le sue molteplici facce. Essa realtà, infatti, si è espressa, ha comunicato un suo codice a chi era presente al suo manifestarsi. E lo ha comunicato col suo segreto linguaggio che è quello dell'azione: "un colpo di fucile, diversi colpi di fucile, un corpo che si accascia, una macchina che si ferma, una donna che si china sul corpo agonizzante, la folla spaventata, ecc. ecc. Dunque, in termini scopertamente apodittici, Pasolini ritiene che la realtà, non solo ha un suo linguaggio, ma essa è un linguaggio il quale (linguaggio segreto) per essere descritto necessita di una "Semiologia Generale"; semiologia che, a suo dire ora manca, anche come nozione (i semiologi osservano sempre oggetti ben distinti e definiti, cioè i vari linguaggi, segnici o no, esistenti; non hanno ancora scoperto che la semiologia è la scienza descrittiva della realtà").
Pertanto, è solo attraverso un geniale montaggio che deve consistere quella scelta e selezione dei momenti più significativi dei diversi piani-sequenza soggettivi: solo così i vari angoli visuali si raccoglierebbero in una creativa sintesi di oggettività perché esisterebbe la personalità del narratore, il quale solo può infondere l'alito vitale dell'opera d'arte compiuta. Questo piano-sequenza articolato, per il regista friulano non è, in sostanza, altro che la "riproduzione del linguaggio dell'azione: in altre parole è la riproduzione del presente".
Ma a questo punto, proprio nel tempo in cui opera il volano del montaggio, ovvero:quando si verifica il passaggio-cambiamento dal cinema al film (che per Pasolini "sono due cose molto diverse, come la 'langue' è diversa dalla ‘parole’), succede che il presente si trasforma in passato, una sorta di 'passato', però, che ha "sempre i modi del presente": e cioè un presente storico.
Questo avviene, secondo Pasolini, proprio perché il narratore-regista è capace, egli solo, di convertire, attraverso la sua tecnica scritturale del cinema di poesia, il presente in passato. Da quanto detto si deduce che il cinema non può che essere un infinito piano-sequenza, che, imitando la realtà, mima la vita. Queste intuizioni del semiologo del cinema portano, inevitabilmente a pensare il messaggio del film come un linguaggio sorretto da "parola senza lingua", in quanto , per la fruizione e, soprattutto, comprensione del film, questo non rimanda al cinema, a alla realtà stessa (visto che, appunto, Pasolini sostiene la tesi impostandola sul teorema che pretende dimostrare, non solo l'identificazione del cinema con la realtà, ma postula la validità della "semiologia del cinema"come fondamentale e indispensabile capitolo della " semiologia generale della realtà ".
A questo punto, ovviamente, l'economia del mio discorso mi obbliga a ridurre e semplificare in forma espositiva schematica il più possibile quel pasoliniano "Codice della Realtà", codice con il quale ci è possibile decifrare la realtà e, quindi, anche il film.
Dunque, chiedendo venia della ventilata esposizione schematica, il detto 'codice della realtà' deve tener conto che (dato che un soggetto o personaggio cinematografico, al cinema, come, ovviamente, in ogni momento della realtà, parla e vive e si identifica con se stesso attraverso i ‘segni’ o "sintagmi viventi" presenti della sua azione) sarà bene suddividere questi sintagmi in provvisori e personali capitoli della immaginata "Semiologia Generale della Realtà":
I -   il linguaggio della presenza fisica; .II -  il linguaggio del comportamento;III - il linguaggio della lingua scritto-parlata
Ma data la complessità della materia, per Pasolini, ad ogni capitolo principale dovrebbe seguire un non precisato numero di paragrafi, di note e di esemplificazioni. Ad esempio: il "linguaggio del comportamento", per lui il più interessante e complesso, andrebbe diviso in sottoparagrafi, quali: "il linguaggio del comportamento generale", e "il linguaggio del comportamento specifico".
Questi pensieri pasoliniani, rintracciabili in vari saggi con pretesa, però, di provvisori appunti utili per la realizzazione di quel suo disegno di "Semiologia Generale", lo portarono a immaginare seriamente come detta "Semiologia Generale" sarebbe "insieme, la Semiologia del Linguaggio della Realtà, e la semiologia del Linguaggio del Cinema".
Questo grande disegno Pasolini lo ha tracciato (spesso ricalcandolo) sotto la grande lente del Naturalismo che ha, come è a tutti noto, condizionato diversi autori del romanzo del dopoguerra. Nel regista friulano era radicata la convinzione di poter instaurare un dialogo con la realtà: una sorta di presa diretta confortata da un dialogo " attorno al Massimo sistema del Reale", che, inevitabilmente, desidera entrare "a tu per tu" con esso al fine di carpirne il segreto da esibire poi in forma d'opera d'arte.
Consapevolmente appagato, il Pasolini regista dei film "Uccellacci e uccellini", "Edipo Re", " Teorema", "Porcile", "Medea", "Decameron", "I racconti di Canterbury", "Il fiore delle Mille e una notte", "Salò o le 120 giornate di Sodoma" - come degli altri ricordati in questo scritto - ha realizzato la sua lingua di cinema memore del realismo oggettivo caro all'estetica dell'ortodosso Lukács, e dell'irrigidimento marxiano che suggeriva agli artisti un ferreo prospettivismo ideologico. In più, di suo, il regista friulano lavora alla riuscita dell'opera cinematografica con febbrile impeto tipico di ogni meditato sperimentalismo rafforzato da solida cultura letteraria e linguistica: per questo la sua ricerca affronta a viso aperto il consapevole rischio della novità e particolarità della lingua del cinema, che - secondo lui - non può non essere "rozza", priva di dizionario, grammatica e sintassi (forme collaudate e certe della lingua tradizionalmente intesa in senso letterario), ma è, ancora: "lingua irrazionalista, onirica, elementare, barbarica". Ma è, pur sempre, "la realtà". In una pagina illuminante di Empirismo eretico, dirà che se è vero che la letteratura cresce su fondamenta lessicali ben stabilizzate, il cinema no, deve rischiare: e infatti egli si sente autorizzato a sentenziare che: "mentre l'operazione dello scrittore è un'invenzione estetica, quella dell'autore cinematografico è prima linguistica poi estetica".
Come è noto, questa appassionata e, spesso teoricamente azzardata voglia innovativa affilò l'ira epigrammatica del poeta di "Satura", Eugenio Montale che di "Malvolio" - Pasolini dirà nella famosa "Lettera a Malvolio":
Fu la tua ora e non è finita.Con quale agilità rimescolavimaterialismo storico e pauperismo evangelicopornografia e riscatto, nausea per l’odoredi trifola, il denaro che ti giungeva
Versi furenti, feroci.
A questi versi Pasolini rispose con altri epigrammi a Montale : e sono versi venati di solitudine, più che di rabbia o rancore.
Nella poesia " L’impuro al puro ", un Pasolini attraversato dalla solitudine di uomo più che di poeta-regista, dirà a Montale:
Non ho banda, Montale, sono solo.Non ti rimprovero di aver avutopaura, ti rimprovero di averla giustificata.Male forse ne voglio; ma il mio.Ti ha ottenebrato la tua un po' troppo italianaMusa OscuraAstuto poi non non lo sono:di solito è astuto chi ha paura
Questa polemica in versi Montale/Pasolini (aldilà del livore epigrammatico dell'autore degli Ossi di seppia, e a parte la cupa malinconia che cerchia la solitudine del poeta de Le ceneri di Gramsci non è soltanto l'inevitabile, quasi, reazione scaturita da una recensione pasoliniana al libro di versi montaliano ("Satura", nel 1971), raccolta che veniva giudicata dal regista-saggista-ideologo molto drasticamente come l'espressione di un mondo borghese che "compie una specie di identificazione tra potere e natura", visto che l'autore, in "quanto poeta satirico non si libera del potere"; anche perché, versi alla mano, Pasolini accusa che "Tutta Satura" è in fondo un pamphlet antimarxista". Non è solo polemica fine a se stessa. E per dirla fino in fondo, questa polemica non mette in luce soltanto "materialismo storico e pauperismo evangelico,/pornografia e riscatto", che Montale giudica come "un'ultima impostura" pasoliniana "che si abbatte su noi" quasi fosse un'inesorabile profezia di vate tanto demoniaco quanto innocente. No: "questa violenta raffica di carità" viene negata da Montale a Pasolini perché la ‘carità’ - come la verità, ogni verità (e dunque, Montale pare voglia insinuare: anche la ‘realtà’ pasoliniana) non è feudo esclusivo di nessuno in assoluto, tanto che, Montale sentenzia "non appartiene a nessuno la carità". Ma per dirla, finalmente chiudendo questo discorso, detta polemica ha, anche, l'innegabile merito di fare affiorare-seppure larvatamente- tutto il discredito, non solo montaliano, sorto nei confronti di ogni realismo e naturalismo; che comporta inevitabilmente anche fare irrompere l'affermazione del soggetto umano svincolato dall'oggetto: criterio, questo, che favorisce la messa in gioco di una dialettica della "visione del mondo", la quale sarà in grado di esercitare una libera facoltà di intervento agendo su ogni campo senza essere impastoiata dai procedimenti che si rifanno a ‘esiti’ tecnico-strutturali di un solo ambito. Proprio negli Anni Sessanta, il critico letterario (ma anche critico d'arte, oltre che esperto nel campo dell'estetica), nel suo saggio La barriera del naturalismo.
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Cividale del Friuli: Mittelfest 12-20 luglio2013

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LE NOTIZIE
Cividale del Friuli:
Mittelfest 12-20 luglio2013


Il Mittelfest - di scena tra il 12 e il 20 luglio a Cividale del Friuli e in altre località del Friuli Venezia Giulia sotto la direzione artistica di Antonio Devetag - si è mosso quest’anno sulla metafora Microcosmi, che dà il titolo all’intera edizione 2013: i Microcosmi culturali che compongono questo straordinario mosaico della civiltà mitteleuropea sono infatti l’essenza stessa del festival articolato tra prosa, musica e danza, con interessanti incursioni nel cinema, suddiviso in sei percorsi tematici. I grandi debutti nel percorso Prèmiere (dai Microcosmi di Magris che divengono uno spettacolo itinerante firmato da Giorgio Pressburger, alla prima assoluta del nuovo lavoro di Tomaž Pandur Michelangelo e l’omaggio alla grande danzatrice Elisabetta Terabust); nuovi e incisivi punti di vista su Pier Paolo Pasolini in Pasolini Vivo (con la prima assoluta di Vivo e Coscienza, unica sua opera in forma coreografica prodotto con la Scuola Paolo Grassi di Milano e il debutto del nuovo spettacolo di Antonio Calenda Una giovinezza enormemente giovane, con Roberto Herlitza su testo di Gianni Borgna); lo sguardo curioso sull’Europa Centrale in Obiettivo Mitteleuropa, dove spicca l’omaggio all’ingresso della Croazia nell’UE e il ricco focus sull’Ungheria; i Miti antichi e contemporanei sui quali si fonda la cultura europea in Inquieti Miti, che ci fa scoprire il teatro di una regina della commedia cinematografica come Lina Wertmüller e incontrare una grande protagonista delle scene internazionali quale Adriana Asti; le nozze tra grande cinema e nuova musica in Ritorno al Futuro e la sfida dei giovani allievi dei Conservatori regionali nel percorso Innovatori Conservatori.
«Sono quattro le direttrici principali sulle quali ho puntato per la composizione del programma -di questo Mittelfest» - spiega il Direttore generale Antonio Devetag - «prima di tutto la valorizzazione delle risorse artistico-culturali della nostra regione, con produzioni e collaborazioni di grande rilievo. La sinergia tra istituzioni si è anche concretizzata con il fattivo e gradito contributo di Enti tradizionalmente legati alla cultura regionale, come nel caso della Fondazione CRUP, che ha scelto di sostenere il festival e la sua progettualità culturale, e la preziosa collaborazione con Terra dei Patriarchi, progetto della Provincia di Udine, e ARLeF». 
«Ulteriore elemento è la creazione di sinergie forti e concrete con istituzioni culturali di assoluto prestigio in Italia e in Europa in un momento in cui la crisi economica morde particolarmente il mondo culturale». «Ancora, l’obiettivo di rinnovare e rinforzare la funzione di Mittelfest, quale ponte culturale con l’Europa Centro orientale. Mittelfest, che si riconferma come vero traino della cultura del Friuli Venezia Giulia, ha avuto quest’anno un “parterre” diplomatico autorevolissimo che lo ha riavvicinato ai fasti della prima edizione. Hanno, infatti, preso parte alla giornata inaugurale assieme alle più alte cariche istituzionali della Regione Friuli Venezia Giulia - che ci ha coadiuvati in questo importante lavoro di relazioni - il Presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor, l’Ambasciatore Sloveno a Roma Iztok Mirosic, l’Ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia Damir Grubiša, l’Ambasciatore Italiano a Zagabria Emanuela D’Alessandro, l’Ambasciatore Italiano a Lubiana Rossella Franchini, il Direttore del settore Cultura del Ministero degli Affari Esteri di Ungheria, Andrea Komáromy, il Console Generale di Ungheria a Milano István Manno e il Direttore Generale per la Valorizzazione del MiBAC dott.ssa Anna Maria Buzzi». «Ultimo traguardo, infine, quello di valorizzare al massimo Cividale del Friuli, con oltre quaranta spettacoli, alcuni assolutamente coinvolgenti, come Microcosmi, ma anche una bella proiezione esterna del festival, a sottolinearne l’importanza regionale: si rinnova la sinergia con Udine ma il festival è sbarcato anche a Trieste, Gorizia, Cervignano, Palmanova, Cormons, Aquileia e Comeglians. »
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Pasolini e il «Living». Judith Malina ha introdotto la proiezione di «Edipo Re» con il grande Julian Beck nei panni di Tiresia, 7 luglio 2013, Bologna

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LA SAGGISTICA
Judith Malina e Julian Beck

Pasolini e il «Living».
Judith Malina ha introdotto
la proiezione di «Edipo Re»
Con il grande Julian Beck nei panni di Tiresia
Corriere della sera - Bologna, 7 luglio 2013


Gli occhi stanchi e stropicciati dopo l'indigestione di film del Cinema Ritrovato, ci si ritrova subito in Piazza Maggiore per il prosieguo di Sotto le Stelle del Cinema, che fino a tutto luglio programma ogni sera alle 22 un film sul crescentone (salvo spostarsi al cinema Arlecchino in caso di pioggia). Come avevamo annunciato, Il cartellone prevedeva lunedì sera 8 luglio di Pier Paolo Pasolini alla presenza di Judith Malina, fondatrice del Living Theatre assieme al marito Julian Beck, scomparso nel 1985 e scelto nel 1967 da Pasolini per interpretare il ruolo di Tiresia. 
Judith Malina è ospite dell'Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, che promuove la rassegna Dei Teatri Della Memoria - tanto è vero che è stata protagonista mercoledì 10 luglio, alle ore 21.30 al Giardino della Memoria, dello spettacolo dei Motus The Plot Is the Revolution. Edipo Reè il primo dei film di Pasolini sul Mito classico, spogliato di tutti gli effetti cinematografici del kolossal in costume per farne invece racconti folclorici in terra barbarica, dove i paesaggi desertici del Marocco si contrappongono al prologo friulano e all'epilogo girato a Bologna (proprio in Piazza Maggiore, oltre che al Portico dei Servi) e a Milano. Non è un caso che la Cineteca di Bologna abbia presentato il capolavoro pasoliniano come «una tragedia di Sofocle reinventata alla luce di Freud», visto che la Grecia del regista e poeta è già filtrata dagli studi sulla tragedia e dalla filosofia novecentesca. La prima proiezione del film avvenne alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre del 1967, accolta, al solito, da molti distinguo. Di Edipo Re Pasolini, proprio a Venezia, confermò l'ambizione a farne un film sulla modernità: «Se Il Vangelo secondo Matteo confrontava la religione cristiana con le teorie di Marx, Edipo nella mia idea deve fare lo stesso con la psicanalisi di Freud. Penso che su Marx e Freud poggi l'intera nostra cultura». Da alcuni commentatori la cecità di Edipo (e quella del Tiresia di Beck) fu interpretata come «l'incapacità dell'uomo contemporaneo di vedere - e di sforzarsi di comprendere - le situazioni in cui si trova, situazioni per molti versi drammatiche e terribili» (Serafino Murri), mentre a noi oggi sembra che i simboli dell'opera vadano al di là di letture così trasparenti, con maggior enfasi sull'atto di castrazione e di automutilazione della società contemporanea, atti rimossi, barbarici ma sempre più presenti. 
E oggi ci paiono più azzeccate le belle parole di Alberto Moravia: «Questo dramma è una specie di match tra Tiresia, il cieco che vede, e Edipo, il veggente che è cieco. In questo match verbale, Edipo non è un violento, un brutale, bensì un intellettuale come Amleto, strenuo, eroico, avido di verità». A sua volta, il rapporto tra Pasolini e Judith Malina (e Julian Beck) andava al di là del famoso apprezzamento («Il Living Theatre può essere fatto solo dal Living Theatre», asseriva il regista nato a Bologna), per ampliarsi invece a una curiosità reciproca e a una progettualità comune, magari non sempre chiara né di lunga durata, ma sincera. Il cast di interpreti quanto mai eterogeneo - Franco Citti, Silvana Mangano, Carmelo Bene, Julian Beck, Alida Valli - è sorprendente solo in apparenza e anzi conferma la passione di Pasolini per gli accostamenti imprevedibili e la ricerca di volti senza tempo, quelli segnati dalla povertà di ieri e di oggi, ma anche quelli del teatro di ricerca e della neo-avanguardia. Quello di Pasolini e Citti è un Edipo pellegrino, un fascio di nervi, un uomo quasi primitivo, che reca con sé la colpa ancora prima di compierla.
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Altofest, se il teatro dà forma alla città - NapoliMonitor

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LE NOTIZIE

AltoFest, se il teatro dà forma alla città
7 luglio, 2013 - http://napolimonitor.it/


Si è svolta quest’anno tra Napoli, Caserta e Benevento la terza edizione di AltoFest – Festival internazionale di arti performative e interventi trasversali, sotto la direzione artistica di TeatrInGestAzione. Filo conduttore degli spettacoli – andati in scena tra il 28 giugno e il 7 luglio in “spazi privati donati dalla cittadinanza” (appartamenti, terrazzi, cortili, cantine…) –  le domande Dove sei? e Cosa vedi?
Si comincia con Pasoliniana #2 a scoprire luoghi che credevi di conoscere. Lo spettacolo si tiene in un ex monastero, sito in salita San Raffaele, da poco restituito alla comunità grazie al lavoro del Comitato abitanti di Materdei. Gli attori, rievocando poesie e frammenti dei film di Pasolini, ci guidano all’interno della struttura e nel suggestivo giardino, sotto una pioggia malaugurata quanto selvaggia, quindi antiborghese e perfetta per l’occasione. Indispensabile anche il secondo elemento spontaneo della performance: gli abitanti del quartiere, che hanno preso parte allo spettacolo. Grazie a loro è stata raggiunta, per qualche momento, una vera atmosfera pasoliniana, come negli stessi film i cui attori venivano presi dalla strada. La loro partecipazione, autoironica, amatoriale e onirica sotto la pioggia, dietro una tavola imbandita, ha dato senso a Pasoliniana e l’ha unito con quello dell’AltoFest: integrare spettacolo e luogo della performance in un unico elemento, vivo e dinamico, stavolta includendo nel luogo la gente che lo abita.
Si continua a piedi fino alla salita Pedamentina San Martino, assieme a due performer appena conosciute, andate in scena il giorno prima. Un peccato, ma assieme a loro scopro l’esistenza di un ascensore su quella strada che ho percorso tante volte, salutando gli abitanti che non avevo mai visto neanche affacciati, vivendola in un altro modo. L’obiettivo del festival, “una riqualificazione umana/urbana” non viene raggiunto nella singola scena, ma in quell’unicum che è l’entrare e uscire da stanze d’appartamento, cortili, balconi, attraversando le strade della città come se fosse tutto un unico grande teatro disseminato di piccole performance di mezz’ora. La costante delle rappresentazioni è rendere partecipi l’ambiente e le persone che ne fanno parte, rendendoli corresponsabili della creazione di un qualcosa di volta in volta diverso. E allora entriamo nella cucina di un appartamento, dove Aljouder e Mansour registrano i rumori dell’ambiente, le suonerie dei cellulari degli spettatori, li uniscono alle loro voci e mixandoli e arricchendoli di delay creano una performance-concerto intitolata Party Digitale. Nello stesso appartamento, in terrazza, si svolge Crios, di Squillaciotti e Vella, che esplora la tensione del corpo e dell’anima tirati da una parte dal desiderio di restare con la persona amata e dall’altra dal bisogno di sfuggire all’ossessività dell’amore.
Assistiamo su un balcone all’ultimo piano di via Mezzocannone 19 alla performance del collettivo coreografico Anagrama: Due ballerine danno vita a Nismat, progetto di simbiosi tra architettura del corpo e quella dello spazio, una esibizione di puro movimento, imprigionato e allo stesso tempo intensificato dall’ambiente circostante: una fitta rete di fili che funge da gabbia ma anche da traiettoria per la coreografia delle due performer romane. E poi giù, passando per una piazza San Domenico Maggiore ignara di tutto, arrivando in un laboratorio artigianale che si snoda nei sottosuoli dell’omonima via. Chiara Orefice dà vita alla più intensa delle esibizioni dell’AltoFest. In una stanza piccola e fredda, nel silenzio che può trovarsi solo nei luoghi sotterranei, esaspera i movimenti fisici provocati dalle sensazioni, creando la danza di un corpo impossessato da se stesso. Chiara spegne e riaccende la luce ma è come se la lampadina non dipendesse da lei: si sta fulminando. Allo stesso modo muove il suo corpo, controllato da esigenze che sfuggono al nostro controllo, da una elettricità che non possiamo comandare.
Un festival dissolto nella città, che dà forma agli spazi ma che ne è a sua volta deformato. L’intento di “dare luogo ai luoghi” è stato raggiunto, per quanto possa essere limitato il pubblico di esibizioni che richiedono intimità. Gli spazi non sono stati trasformati, tutto è rimasto com’era, solo che della vita ci è passata attraverso. (Umberto Piscopo)
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Pier Paolo Pasolini, Edipo Re - Recensione di rael82

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Silvana Mangano nel ruolo di Giocasta
Pier Paolo Pasolini, Edipo Re
Recensione di rael82

Questo è un film da guardare in religioso silenzio. Uno di quei film che hanno la poesia e l'arte al massimo dell'espressione in ogni fotogramma; la storia classica di Edipo viene ricostruita e rimaneggiata, tanto da presentarci un finale a sorpresa nel quale Edipo (Citti) ormai cieco, vagabonda per le strade moderne assieme ad un fido compare (Anghelos, interpretato da Davoli)...
Ciò che più colpisce del film è lo straordinario equilibrio della regìa di Pasolini: ciò che gli è sempre stato accusato dai giornalisti e dai critici (cioè il suo gusto sconfinato per le storie crude di gente popolana e sgangherata) qua è straordinariamente messo in secondo piano. Qualsiasi regista avrebbe puntato sul lato più "boccaccesco" del rapporto madre/figlio-amante e magari avrebbe occupato gran parte delle scene con immagini forti e scandalizzanti dedicate alla passione incestuosa; Pasolini invece lascia solo immaginare la passione fisica e si concentra elegantemente sui contenuti e sui risvolti tragici sulla psiche di Edipo. Il fatto stesso che ad impersonare Giocasta abbia scelto la Mangano (qui affascinante al limite dell'irreale) e l'abbia fatta truccare in modo pallido quasi angelico è una scelta ben precisa: lei non è vista come simbolo dell'incesto, della passione, del peccato, ma viene resa come un'esca, un'icona che serve a far sciogliere il plot e renderlo più fluido. La sua scelta iniziale di abbandonare su una collina il piccolo Edipo in seguito ad una profezia malefica e crudele non viene sottolineata pesantemente per il resto della storia ma viene messa in secondo piano facendo emergere la sua incredibile eleganza e superiorità quasi divina; da notare anche la scelta del trucco per Citti (abbronzato e quindi scuro, in confronto alla bianca glacialità quasi elettrica della Mangano) che suggerisce una sorta di personificazione reale del personaggio originale della tragedia. Il comportamento e la reazione di Edipo che sceglie di accecarsi per autopunirsi sono in realtà da intendere come un'auto-castrazione, visto che il danno era stato compiuto a livello sessuale e non tramite gli occhi...
Insomma un film stra-consigliato, a giovani e ad adulti, una storia antica resa moderna da un genio dell'arte come Pasolini.
Julian Beck nel ruolo di Tiresia


N.B. Il film non è girato in Grecia bensì in Marocco, e vede anche fra gli attori Carmelo Bene in una delle sue rare apparizioni cinematografiche.


DeBaser (www.debaser.it);
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"Alaluna", quell'omaggio a Pasolini che divide la gente, di Fabrizio Sergi

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LE NOTIZIE
"Alaluna", quell'omaggio a Pasolini
che divide la gente
La travagliata storia della scultura
del maestro Ucchino
di Fabrizio Sergi
http://www.sikilynews.it/-24 giugno 2013


L’attuale presidente dell’Ars Giovanni Ardizzone settimane addietro si è voluto recare personalmente, insieme al maestro Nino Ucchino ed al sindaco di Sant'Alessio Siculo Rosanna Fichera, a visionare lo stato di salute dell'opera "Alaluna" dedicata a Pier Paolo Pasolini e realizzata nel 1994. Attualmente si trova depositata in una zona periferica della città, in attesa, da parecchi anni ormai, di essere ricollocata.
Il presidente Ardizzone, venuto a conoscenza del fatto, ha ritenuto di intervenire direttamente e fornire tramite l’Ars un piccolo finanziamento all’Amministrazione comunale per il restauro e la nuova messa in opera della scultura che si spera avverrà per i primi di agosto 2013. 
Come qualcuno ricorderà, circa venti anni fa, “Alaluna” era stata commissionata dal Comune di Zafferana Etnea su iniziativa dello scrittore Vanni Ronsisvalle per commemorare nella cittadina etnea i dieci anni della scomparsa di Pasolini, visto che lo stesso fu tra gli altri membro della giuria per il “Premio Brancati” consegnato nella città di Zafferana. Allora l'opera fu inaugurata proprio in occasione della ricorrenza dello stesso premio, alla presenza di Vittorio Sgarbi, Francesco Gallo e vari intellettuali presenti alla cerimonia.
L’omaggio a Pier Paolo Pasolini suscitò subito delle grandi proteste, scaturite all'epoca dalla diocesi di Zafferana, tali da mettere in crisi l'Amministrazione stessa. Per placare ogni malcontento, il maestro Ucchino - così ci racconta - decise nottetempo con una gru di portare via l'opera da Zafferana, rinunciando tra l’altro al pagamento della stessa. Le polemiche non mancarono nemmeno in questa occasione…
Qualche settimana dopo, dal momento che l'opera era difatti ormai destinata ad un luogo pubblico, Ucchino decise di lanciare, attraverso la stampa, un annuncio destinato ad enti pubblici che avrebbero voluto farsi carico dell’imponente scultura. “Il tutto a prezzo di costo”, come ci dice il maestro.
Molti furono i comuni interessati, giunsero telefonate dalla costa siciliana e da quella calabra. Alla fine, com'è noto, l’ex sindaco di Sant’Alessio Siculo Tino Gussio insistette più di altri (per la somma di circa 10.000 euro attuali) per averla nel proprio Comune.
Ci fu una grande inaugurazione sul lungomare, dove l’opera venne installata, con centinaia di persone e nemmeno qui mancarono accesi dibattiti, sia a livello politico che da parte della cittadinanza. Discussioni che tutt'oggi non tardano ad arrivare nel momento in cui si parla del recupero e della ricollocazione dell'opera, rimossa dal lungomare qualche anno fa in seguito ad una violenta mareggiata.
Sembra però che finalmente si sia arrivati alla svolta definitiva: il finanziamento da parte dell’Ars dovrebbe arrivare e coprirà piccole spese di restauro e di installazione. Quasi a voler concludere una vicenda ormai aperta da più di vent’anni e che siamo certi continuerà a far discutere parecchio.

VEDI ANCHE IN PASOLINI.NET
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Pasolini e Bertolucci alla Cinémathèque Française

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Pasolini e Bertolucci alla Cinémathèque Française
www.cinecitta.com - 28 giugno 2013

VEDI ANCHE LA PRIMA DI SEI PAGINE DEDICATE IN QUESTO BLOG ALLA MOSTRA DI MADRID
E LO SPLENDIDO VIDEO INSERITO PROPRIO IN QUESTI GIORNI IN QUELLA PAGINA

Un'esposizione dedicata a Pier Paolo Pasolini oltre a una rassegna di tutti i suoi film e una retrospettiva dell'opera di Bernardo Bertolucci: sono italiani i grandi appuntamenti dell'autunno alla Cinémathèque française di Parigi. Dal 16 ottobre al 26 gennaio prossimi, si apre la mostra-evento 'Pasolini Roma', sui rapporti tra il regista, sceneggiatore, poeta e scrittore bolognese, considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX/o secolo, e la capitale (dove si è trasferito dal 1950 fino alla morte nel 1975). 

Organizzata in partenariato con il Centro de cultura contemporanea di Barcellona (dove è in cartellone attualmente fino al 15 settembre), il Palazzo delle esposizioni di Roma e del Martin-Gropius-Bau di Berlino, l'esposizione farà tappa anche a Roma dal 3 marzo all'8 giugno 2014. Grazie agli archivi di Bologna e Firenze, e all'aiuto della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, custode dell'eredità letteraria del maestro, saranno disponibili lettere autografe, sceneggiature, foto, film, documenti inediti, locandine, e oggetti personali e intimi. "La proposta dell'esposizione è arrivata con mia sorpresa dalla Spagna e non dall'Italia - spiega all'ANSA il direttore della Cinémathèque  Serge Toubiana -. Ho subito accettato. Pasolini è per noi una figura importante della cultura e del cinema italiano, ma anche della letteratura, del giornalismo, della poesia. C'è anche il suo impegno politico". 

Bertolucci è l'altro protagonista della nuova stagione e sarà presente all'inaugurazione della retrospettiva dei suoi film che si tiene dall'11 al 29 settembre. "Prima di venire a Parigi, Bertulucci sarà il presidente della giuria della Mostra del cinema di Venezia - dice Toubiana -. L'occasione è anche la promozione del suo ultimo film, 'Io e te', che esce nelle sale francesi". E conclude. "Bertolucci è uno dei grandi protagonisti del cinema moderno per il quale ho avuto da sempre una relazione di ammirazione e di dialogo. Inoltre la Francia ha un ruolo molto importante per lui, con la nouvelle vague e Jean-Luc Godard".


La Cinémathèque Française
Présentation de la saison 2013-2014

Durant la Saison 2013-2014, le cinéma se conjuguera sur tous les temps et tous les supports, à la Cinémathèque française. Non pas une visite guidée de l’histoire du cinéma sous différents angles d’approche, mais une visite poétique parmi quelques fantômes illustres, éclairée sous le regard des vivants. Pari ambitieux.

Une exposition consacrée à Pier Paolo Pasolini, la célébration du centenaire d’Henri Langlois (1914- 2014) - l’homme qui fonda la Cinémathèque française en 1936 -, une exposition consacrée à Amos Gitai à partir des archives que le cinéaste israélien a confiées à la Cinémathèque, l’hommage à Jean Cocteau, des rétrospectives nombreuses dédiées à des artistes contemporains : Michel Piccoli, Bernardo Bertolucci, Ethan et Joel Coen, la directrice de la photographie Caroline Champetier, Raymond Depardon, et à des cinéastes disparus : Yasujiro Ozu, Henry Hathaway, René Allio, Guy Gilles, Jean Epstein, Phil Karlson, João César Monteiro… Sans oublier Charlot, le personnage inventé par Chaplin en 1914, dont on fêtera le Centenaire.

La Cinémathèque française vous réserve quelques belles surprises...

Serge Toubiana

Pasolini Roma, l'exposition
Barcelone/Paris/Rome/Berlin
16 octobre 2013 - 26 janvier 2014

Une coproduction du Centre de Cultura Contemporània, Barcelone, de La Cinémathèque française, Paris, du Palazzo delle Esposizioni, Rome, et du Martin-Gropius-Bau, Berlin.
Cinéaste de premier ordre, Pier Paolo Pasolini fut aussi poète, linguiste, romancier, dramaturge, peintre intimiste et homme engagé. Il fut l’un des intellectuels les plus actifs et l’un des personnages les plus controversés de la société italienne d’après-guerre. Approcher Pasolini dans ses rapports avec la ville de Rome, c’est entrer de plain-pied dans tout ce qui le constitue et le définit : la poésie, la politique, le sexe, l’amitié, le cinéma.

Rétrospective Bernardo Bertolucci (en sa présence), 11 septembre - 29 septembre 2013

Bernardo Bertolucci a été un des plus importants représentants d’une génération de jeunes gens en colère qui débute au cinéma dans les années 1960 en Italie. Tentation théorique (confronter Marx et Freud) et tentation esthétique (une fascination pour l’opéra) s’affrontent au coeur d’une oeuvre qui adapte Borges ou Moravia. Les rapports entre le sexe et la société sont au coeur de son énorme succès, Le Dernier Tango à Paris (1972). Il poursuit son travail avec d’ambitieuses fresques qui s’éloignent de l’Europe, où il reviendra dans les années 2000, retrouvant ses obsessions premières.
La Cinémathèque présentera à l'occasion de cet hommage le dernier film de Bernardo Bertolucci, Moi&Toi (Io e te) en avant-première.


Rétrospective intégrale Pier Paolo Pasolini,
16 octobre - 1er décembre 2013
À l’occasion de l’exposition "Pasolini Roma"

 Pier Paolo Pasolini fut l’un des plus grands artistes du cinéma moderne. Son travail, nourri de ses expériences de poète, romancier, dramaturge, chroniqueur, jette un regard à la fois lucide et sensualiste sur un monde en pleine mutation, ravagé par la modernité mais confronté au pouvoir des mythologies. Pasolini a construit une oeuvre incandescente et radicale, témoignant d’une quête exigeante et scandaleuse, dévoilant les illusions des utopies mortifères et des fausses critiques de la société contemporaine.
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Un poeta e la nostra mancanza di poesia, di Gianni D'Elia

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LA SAGGISTICA - POESIA
Il poeta Gianni D'Elia

Un poeta e la nostra mancanza di poesia
di Gianni D'Elia
L'Unità, edizione Nazionale sezione "Commenti", archivio storico, 17 giugno 2003

Che cosa avrebbe pensato Pasolini dell'ultima discussione, sviluppata anche sulle pagine de l'Unità, su Pasolini? Su Carla Benedetti, che stronca il curatore dell'opera omnia nei Meridiani Mondadori, Walter Siti, su Walter Siti, che risponde alla Benedetti, dandole dell'ignorante in filologia, su Filippo La Porta, che replica a una recensione di Massimo Raffaeli su Nuovi Argomenti (che sta festeggiando i suoi cinquant'anni con bellissimi numeri)? È la solita piccola zuffa all'italiana, come ci ammonisce da sempre Roversi? Nella replica di Raffaeli a La Porta (uscita sabato 24 maggio) si punta sull'anticapitalismo della contraddizione istinti-storia, e si rivendica giustamente il comunismo anarchico del corvo pasoliniano, e anche il diritto a una lettura critica, arcaica e umanistica, marxista e «primitiva», pari all'ideologia mutante dell'autore, definito da La Porta «uno gnostico innamorato della realtà», nel suo Pasolini (Le Lettere). Raffaeli ha ragione a criticare la definizione di La Porta («Saggista per obbligo, poeta mancato») e a confessare il ritardo della nostra generazione nell'ascolto del Pasolini poeta. 
La nostra generazione non è stata formata dalla poesia, che ha anzi del tutto ignorato, tranne certa vulgata beat e movimentesca. Saggismo ideologico, cinema, romanzi, molti giornali e riviste politiche. La sensibilità di Pasolini è stata scoperta dopo la sua morte, e in fondo così abbiamo scoperto la nostra mancanza di poesia. L'accusa che Carla Benedetti rivolge a Siti (gelosia generazionale e regolamento di conti autoriale) non tiene, se non allarghiamo lo sguardo dalla letteratura alla storia e alla realtà. Qui potrebbe cessare la piccola zuffa, e iniziare lo scavo teorico, che sarà scavo sulle autobiografie reciproche: un poeta e la nostra mancanza di poesia. È queste minimo moto d'umiltà, che potrebbe forse correggere anche la brutalità di Siti: l'opera di Pasolini non può essere infatti solo il «residuo di una frustrazione, o di una ambizione franata». Siti risponde alla domanda che pone, però, quando parla del rapporto tra coscienza della mutazione storica complessiva e autodistruzione dell'opera, che Pasolini agisce invece di subire. 
Questo già basta per discutere, al di là di certe cattiverie che ci sono: Pasolini davvero citava senza leggere, o apriva e sottolineava a caso e poco i libri, non li leggeva? Comunque, grazie a Siti, questo sterminato cantiere in dieci volumi ora è a disposizione, allineando edito e inedito, di fila, scelta filologica nuova giustamente rivendicata. Quel che ne esce è un grande ampliamento del concetto di lingua e di scrittore, di poesia. Solo Leopardi ha puntato così tanto su un simile ampliamento antropologico, ed è per questo che Pasolini è l'erede eretico diretto dello scandalo leopardiano. Grazie a loro il poetico diventa per sempre noetico, e cioè esperienza filosofica, di conoscenza integrale: fino all'esito di Petrolio, uno dei più grandi romanzi d'avanguardia del Novecento. Dunque, ci vorrà tempo, come ci è voluto tempo per acquisire del tutto il messaggio della Ginestra e dello Zibaldone
Naturalmente, come per Leopardi, la poesia è il fuoco di tutto. Dal simbolismo alla prima conversione civile (1949, La scoperta di Marx), fino alla seconda conversione incivile (1959, dalle Poesie incivili agli Scritti corsari). La poesia civile di chi è fuori della città e contro la città del potere, diventa difesa intransigente di una diversità politica, che denuncia la non cittadinanza di tutte le minoranze. Il controllo intellettuale del potere diventa così il compito dello scrittore, che è prima di tutto uno che vive dentro la realtà di questa storia. Forse a Pasolini non sarebbe piaciuto questo dibattito continuo sul valore letterario della sua opera, perché egli attribuiva ad essa un valore soprattutto politico, soprattutto a partire dalla fine degli anni 60. 
Vivere in Italia, come scrittori, significava prima di tutto riconoscere la condizione sociale e storica dello scrittore stesso, e dunque, per uno scrittore di sinistra, opporsi ad essa, trovando altro dall'evasione e dalla consolazione accademica o mercantile. Riconoscendo in Dante l'avanguardia della tradizione, sia nei saggi che nell'opera mimetica, Pasolini inizia la sua nuova commedia con Le ceneri di Gramsci, dando voce al suo personaggio fisico e ideologico, parlando con un morto, di cui ama la ragione politica, ma dichiarando la propria diversità viscerale. Insomma, il suo Virgilio è morto, non parla, «la nostra storia è finita», l'umanesimo e la resistenza antifascista sono stati traditi. 
La ripresa della terzina narrativa riunisce le due funzioni dell'ossimoro permanente pasoliniano: storia e natura, la funzione Dante e la funzione Pascoli, l'ideologia e l'estetica. Il suo tipo particolare di verità, nella sua scrittura socratica, è insieme poetico e politico, dove il rapporto con la città è nutrito dal profondo rapporto con se stessi, col mistero della morte, della nascita e del sesso. Nelle lettere giovanili di Pasolini, c'è quel fuoco orfico e mistico (parola che lui spiega con il misterioso), che troverà traduzione ideologica mutante, per fasi: cristiana, marxista, anarchica. Quel qualcosa di irriducibile, appunto, di poetico e personalissimo, identificato con la scoperta del corpo e dell'Altro (preferito alla definizione di Dio) giungerà a dirci ciò che noi non sappiamo ancora e che in passato ignoravamo del tutto: che la poesia non è solo linguaggio, messaggio, ma azione, che ritorna tale nel lettore, che dopo il cinema non è più possibile continuare con l'assetto teorico letterario tradizionale, che nei saggi di Empirismo eretico (1972) si proclama un'eresia semiotica che assegna al cinema lo statuto di lingua, e non solo di linguaggio, allestendo una teoria dei segni nuova: come le parole (o monemi) sono fatte di fonemi (o lettere), così le inquadrature (i monemi del cinema) sono costituite di cinèmi (oggetti e cose dentro l'inquadratura). Dunque, come la lingua verbale, la lingua del cinema possiede la doppia articolazione: l'agire orale della realtà ha trovato la sua lingua scritta della realtà. 
Nella mancanza di approfondimento teorico del nesso cinema-poesia, c'è l'ombra di quella mancanza esistenziale della poesia vissuta che ci impedisce di comprendere davvero l'oggetto poetico di Pasolini: la poesia della tradizione, con cui ci invitava alla vera avanguardia, capace di unire, gramscianamente, conservazione e rivoluzione, facendo della poesia una profezia per la sinistra nuova, pretendendo di uscire da ogni accademia, e stando accanto a noi come un compagno di strada tanto più grande e luminoso.


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Centro Studi Pasolini, Casarsa della Delizia, 6 maggio 2013 : "Intervista a padre Fantuzzi su PPP e il 'Vangelo'. "

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LA SAGGISTICA - INTERVISTE
PPP e il Vangelo. Intervista a padre Fantuzzi
Centro Studi Pasolini, Casarsa della Delizia
6 maggio 2013


Enrique Irazoqui, oggi
Esattamente cinquant’anni fa, ai primi di aprile del 1963, ebbero inizio le riprese del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Nell’imminenza del cinquantesimo anniversario dell’uscita della pellicola nelle sale (l’anno successivo, 1964), Angela Felice, direttrice del Centro studi Pasolini di Casarsa della Delizia (Pordenone), ha invitato in Friuli Enrique Irazoqui, che nel film di Pasolini ricoprì il ruolo più importante, quello di Cristo. L’occasione è stata la presentazione a Casarsa il 5 aprile di un documentario di Valeria Patané, dal titolo Album, girato l’anno scorso a Cadaqués, il piccolo centro sulla Costa Brava dove ora Irazoqui abita con la moglie. La regista ha filmato l’incontro, mezzo secolo dopo, tra Enrique, che all’epoca del film aveva 19 anni, e Giacomo Morante (nipote della scrittrice Elsa), che nel 1963, all’età di 15 anni, ebbe nel film la parte dell’apostolo Giovanni. Alla sera, presso CinemaZero di Pordenone, è stato poi proiettato Il Vangelo secondo Matteo.
Tra gli esperti che hanno preso parte all’evento, il gesuita padre Virgilio Fantuzzi, mantovano, classe 1937, critico cinematografico di “Civiltà Cattolica”, già docente di Analisi del linguaggio cinematografico presso la Pontificia Università Gregoriana, il quale è stato molto vicino a Pasolini. Parliamo con lui dell’autore friulano e del suo Vangelo secondo Matteo, un film dedicato “alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”, che rimane a giudizio di molti il più bel film mai girato sulla vita di Cristo, ma che all’epoca destò più di una polemica. Pur in una fase storica, quella del centro-sinistra, che vedeva l’avvicinamento di comunisti e cattolici, la scelta pasoliniana di affrontare la narrazione della vita di Cristo suscitò sospetti e malumori sia presso l’intellighenzia del Pci (che accusò Pasolini di ambiguità ideologica e di misticismo) sia nell’ambito del cattolicesimo più conservatore (che non apprezzava il trattamento del soggetto sacro da parte di un autore lontano dalla Chiesa). Mentre – va ricordato – l’Ocic (Office Catholique International du Cinéma) gli assegnerà il proprio riconoscimento alla Mostra del Cinema di Venezia.

Padre Fantuzzi, in quali aspetti, in particolare, risiedono le ragioni della bellezza del Vangelo secondo Matteo di Pasolini? 
“Si tratta di un film unico nel suo genere per più di un motivo. Innanzitutto la fedeltà filologica al testo biblico. Nella miriade di film girati su Gesù, spesso troviamo opere che scadono facilmente in un certo manierismo, nell’oleografia e nell’agiografia. Invece Pasolini ha puntato tutto sull’essenzialità, un’asciuttezza stilistica che si pone nella scia delle sacre rappresentazioni popolari, in cui l’altro protagonista, accanto a Cristo, è il popolo cristiano, la coralità dei fedeli. Pasolini instaura, inoltre, un rapporto fecondo con la tradizione iconografica dell’arte religiosa, un rapporto sottolineato e amplificato dalla scelta delle musiche, Bach soprattutto, per la colonna sonora”.

Come si è posto personalmente Pasolini di fronte al soggetto sacro?
“Pasolini ripeteva di essere ateo, ma il livello raggiunto dal suo film non si spiega senza una profonda partecipazione emotiva al tema. A me sembra che è come se Pasolini si fosse identificato, a un certo grado, con il testo stesso del Vangelo di Matteo, che egli ha tradotto in immagini, in quello che chiamava ‘cinema di poesia’”.

Che effetto le fa rivederlo oggi, cinquant’anni dopo?
“Quando lo vidi la prima volta, nel 1964, da seminarista, fu per me una sorpresa. Nel corso degli anni ogni volta che l’ho rivisto, questa sorpresa non è diminuita”.

Lei ha frequentato a lungo Pasolini. Come l’ha incontrato?
“L’ho incontrato per la prima volta nel 1965. Allora ero un giovane studente di teologia, ero entrato nella Compagnia di Gesù 10 anni prima e incominciavo a interessarmi di cinema. Avendo visto Il Vangelo secondo Matteo, c’era qualcosa che non mi tornava: Pasolini infatti si definiva ateo e materialista, mentre io da quella pellicola avevo ricevuto una forte impressione a livello non solo artistico ma anche spirituale. Così mi feci presentare a Pasolini e iniziò una serie di incontri in cui parlavamo di letteratura, di cinema, ma anche di religione”.

Che tipo di religiosità era la sua?
“La prima cosa che devo riconoscere è il fatto che egli dimostrò sempre una grande solidarietà nei confronti della mia vocazione religiosa. Quelli erano gli anni del post Concilio, in cui si verificò un vertiginoso calo delle vocazioni, oltre alla fuoriuscita di seminaristi e anche sacerdoti. Il ’68 fece il resto. Presso noi religiosi si sentiva parlare spesso di ‘crisi di identità’. Ebbene, su questi argomenti Pasolini con me non ebbe mai una parola meno che delicata. Anzi, potrei dire che alla mia vocazione religiosa ha giovato più la frequentazione di Pasolini che certe lezioni accademiche alla Gregoriana. Nei confronti di papa Paolo VI nutriva sentimenti di rispetto e simpatia. Nella sua opera, del resto, non mancano i segni di un forte senso del sacro, di un umanesimo cristiano che era stato una componente fondamentale nella sua educazione. La sua religiosità si esprimeva anche nella vita. Era una persona estremamente generosa, che senz’altro ha donato più di quanto abbia ricevuto”.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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1. Enrique Irazoqui: un ragazzo che non voleva essere Gesù di Virgilio Fantuzzi S.I. (15 giugno 2013)

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - CINEMA
Enrique Irazoqui, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante
Enrique Irazoqui:
un ragazzo che non voleva essere Gesù
di Virgilio Fantuzzi S.I.
© La Civiltà Cattolica 2013 II 581-595 | 3912 (15 giugno 2013)

UN SENTITO RINGRAZIAMENTO A VIRGILIO FANTUZZI E A ENRIQUE IRAZOQUI
 
PARTE PRIMA

Ho sempre considerato Matera un luogo dello spirito. Sono tor­nato tante volte con la mente e con il cuore nella città dei Sassi ve­dendo e rivedendo II Vangelo secondo Matteo, il film che Pier Paolo Pasolini vi ha girato nel 1964. Soltanto oggi mi trovo qui per la prima volta, in una splendida mattinata di sole, per fare una cam­minata tra Sasso Barisano e Sasso Caveoso in compagnia di Enrique Irazoqui, protagonista di quella memorabile pellicola. 
Parto subito con le domande: «Enrico, tu avevi 19 anni quando Pasolini ti ha scelto per interpretare il ruolo di Gesù nel film sul Vangelo. Cosa eri stato fino a quel momento? Cosa sei diventato dopo di allora?».
Matera. Parcheggio Porta Pistola

Duro e puro

La risposta è pronta: «Ho studiato con i gesuiti di Sarrià a Bar­cellona. Poi, mi sono iscritto alla facoltà di Economia. Nel frattem­po ero diventato marxista e Marx dice che l'economia è il motore della storia. Volevo capire come funziona il meccanismo che regge il mondo. Per questo mi sono messo a studiare economia, anche se non ero portato per quella materia. Ero a questo punto quan­do ho incontrato Pasolini e insieme abbiamo fatto il Vangelo. Sono passato poi alla facoltà di Economia di Parigi. Ho lavorato come economista per cinque mesi. Di notte leggevo Kafka e mi appas­sionavo ai surrealisti. Poi mi accorgo che l'economia mi interessa sempre di meno e passo alla letteratura. Studio letteratura spagnola a Minneapolis negli Usa e nel 1976 divento professore. Rientro in Spagna nel 1988. Ho lasciato la carriera accademica per tornare a vivere sulle rive del Mediterraneo. Dopo di allora mi sono occupato di traduzioni e della ricerca nel campo della intelligenza artificiale applicata agli scacchi. Ho lasciato la mia attività professionale nel 2005, quando mi sono sposato per la terza e ultima volta. Ho tre figli e cinque nipoti, tutti maschi, attualmente tutti negli Usa.
«Vivo a Cadaqués, ridente cittadina che si affaccia sul mare del­la Catalogna. Vado a spasso. Mi fermo ai caffè sul lungomare per fare quattro chiacchiere con gli amici, se ci sono, altrimenti leggo il giornale. Scatto fotografie. Cerco di capire che cosa succede nel mondo o anche, più semplicemente, che cosa sta succedendo a me. Comunico spesso via e-mail con figli e nipoti. A volte prendo la macchina e con mia moglie Ans andiamo a Barcellona o in qual­che altra località della zona. Qualche viaggio più lungo lo faccio quando mi invitano per il Vangelo (come in questi giorni qui a Matera) o per gli scacchi. Ogni volta che ci penso, mi sembra sempre più chiaro che morirò senza avere veramente capito niente...».

Mentre Enrique parla, osservo l'ambiente circostante. Case e ca­supole che si arrampicano come pecorelle lungo il costone della Gra­vina, sospeso a precipizio sulla valle dove scorre il torrente omonimo. Tra le case addossate le une alle altre, per sfruttare ogni anfratto del terreno, si insinuano stradine erte e sassose. Matera fa pensare a una città di caverne abitata da cavernicoli.
Enrique osserva assieme a me lo spettacolo che ci circonda, che lui conosce meglio di me, anche lui stupito non meno di me. Non posso non rivolgergli una domanda che mi viene spontanea: «Come hai conosciuto Pasolini?».
«Nel febbraio del 1964 - risponde - sono venuto in Italia come responsabile del sindacato democratico clandestino dell'Università di Barcellona. Ero stato mandato in Italia dai compagni di lotta politica con l'intento di coinvolgere alcune personalità di rilievo nell'ambiente della cultura, che avrebbero potuto tenere nelle uni­versità spagnole conferenze contro la dittatura franchista, protette dalla fama internazionale di cui godevano. Mia madre era italiana (proveniva da Salò). Avevo imparato la sua lingua. Per questo i miei compagni di lotta hanno mandato me.
«Sono stato a Firenze e a Roma. Ho incontrato Giorgio La Pira, Pietro Nenni, Giorgio Bassani, Vasco Pratolini e altri. Il penultimo giorno della mia permanenza a Roma, il giovane del Pci che mi procurava gli appuntamenti con le persone con le quali avrei dovuto parlare mi disse che, siccome avevamo qualche ora libera, avremmo potuto andare a trovare un poeta, che si chiamava Pier Paolo Paso­lini, del quale non avevo mai sentito parlare. Giungemmo nella sua casa all'Eur. Pasolini venne ad aprirci. Alcune settimane dopo mi disse che, appena mi vide, pensò immediatamente: "E lui!".
«Ci siamo seduti nella sala di soggiorno ampia e luminosa. Ri­cordo che c'erano due sofà, rivestiti di velluto rosso, uno di fronte all'altro. Ho incominciato a spiegargli quale era la situazione della lotta antifranchista e che cosa ci aspettavamo da lui. Invece di in­terrompermi con domande, come avevano fatto coloro ai quali mi ero rivolto in precedenza, si alzò in piedi e, mentre continuavo a parlare, cominciò a girarmi intorno fermandosi ora qua e ora là, guardandomi con insistenza... Quando ebbi finito di parlare, si sedette davanti a me e mi disse che senza dubbio avrebbe fatto tutto il possibile per aiutare me e i miei compagni di lotta. Venne effettivamente a Barcellona nel novembre di quello stesso anno. Ma aggiunse subito che anche io avrei potuto fare qualcosa per lui.
«Mi disse che da due anni pensava di fare un film sul Vangelo di Matteo, ma che non aveva ancora trovato un attore che fosse in grado di sostenere il ruolo di Cristo. Si era rivolto a Yevgeny Yevtushenko e a qualche altro poeta di fama internazionale, ma non lo convincevano. Pensava invece che avrei potuto essere io il suo Cristo. Mi chiese se la cosa mi interessava. Risposi immediata­mente di no. Avevo cose molto più importanti da fare: la resistenza antifranchista, la rivoluzione... Non avevo nessuna intenzione di apparire come Cristo sullo schermo in un film che mi sembrava al servizio di una Chiesa che detestavo, perché, secondo me, era la base su cui si appoggiava il potere contro il quale stavo lottando.
«Incominciò allora a dirmi che il suo film non aveva nulla da vedere con il Cristo dagli occhi azzurri, i capelli biondi e la bar­ba rada dei film hollywoodiani. Al contrario, sarebbe stato un ele­mento di opposizione antifascista e avrebbe assunto una posizione netta nei confronti della lotta di classe. Il film si sarebbe collocato in quella dimensione che Gramsci (che allora conoscevo soltanto di nome) definiva "epico-lirica, in chiave nazional-popolare". 
Con il film avrebbe voluto restituire al popolo il Cristo combattivo che era stato occultato dalla iconografia borghese asservita al potere. Le sue parole non mi convinsero assolutamente. Pasolini si alzò e andò al telefono. Dopo un po' di tempo, venne a sedersi accanto a me una signora molto strana. Si chiamava Elsa Morante. Nel giro di pochi mesi quella signora sarebbe diventata per me una grande amica, il mio Pigmalione, la mia guida, il mio criterio di verità.
«Successivamente, arrivò anche il produttore Alfredo Bini. Disse che, accettando, avrei potuto guadagnare milioni su milioni. Le cifre che mi proponeva erano tali da farmi venire il capogiro. Ero abituato a vivere con le 25 pesetas che mio padre mi passava ogni settimana. Ma in quel momento i soldi non mi interessavano, come non mi interessavano i discorsi di Pier Paolo sul film. Mi rendevo conto che quella pellicola non sarebbe stata uno strumento ridicolo nelle mani del potere. Avrebbe forse potuto esercitare un certo influsso sociale, ma non era cosa per me. Io avevo il mio partito, il mio sindacato, il mio dovere rivoluzionario... Ero un militante duro e puro.
«A un certo punto intervenne il giovane del Pci che mi aveva procurato quell'incontro e che fino a quel momento era rimasto si­lenzioso in disparte. Mi disse che avrei potuto dare tutti quei soldi alla causa. In quel momento ho cominciato a cambiare atteggia­mento. Ho pensato che avrei potuto rendermi più utile alla causa fa­cendo il film che non rientrando a Barcellona. Pasolini rimase molto colpito dal fatto che questo fosse il motivo per il quale alla fine avevo deciso di accettare la sua proposta. Espresse la sua meraviglia in una lettera a Nenni, traendone buoni auspici per la riuscita del film».


Sotto i riflettori

Camminando tra il rione Vetere e il rione Casalnuovo, arri­viamo in una viuzza che, per mancanza di spazio, coincide con i tetti delle case sottostanti. Badando a dove metto i piedi, per non inciampare nei comignoli, non cesso di incalzare Enrique con le mie domande: «E così, ti sei trovato, di punto in bianco, vestito da Gesù, davanti a una macchina da presa. Credo che le prime inqua­drature del film siano state girate in un uliveto nei pressi di Tivoli, che rappresentava il Getsemani. Quali sono state le tue prime rea­zioni di fronte a una situazione per te del tutto inaspettata?».
«È ovvio che lì per lì mi sono sentito un po' spaesato. Ricordo che il primo giorno non mi veniva la voce. La luce dei riflettori mi accecava. Ma queste difficoltà iniziali sono state di breve durata. Pier Paolo aveva un metodo che gli consentiva di mettere a suo agio un non-attore come ero io. Seguendo fedelmente le sue indicazio­ni, tutto diventava facile. Non mi obbligava a confrontarmi con una realtà lontana da me, ma faceva in modo che quella realtà mi risultasse vicina, mi coinvolgesse sul piano personale. Per esempio: quando dovevo scagliarmi con veemenza contro gli scribi e i fari­sei, mi diceva che quelli non erano personaggi vissuti in Palestina duemila anni fa, ma erano esponenti di quella borghesia franchista contro la quale avevo ingaggiato la mia lotta clandestina, i soldati romani erano la polizia politica che mi aveva già arrestato nel mio Paese. Non ripetevamo mai una scena più di due volte. Giusto per avere una inquadratura di riserva. Solo una volta ricordo che abbia­mo dovuto ripetere una scena più di due volte: quando mi vennero incontro alcuni bambini e io dovevo sorridere. I bambini mi face­vano ridere, mentre io avrei dovuto limitarmi a sorridere.
«I momenti più difficili li ho incontrati stranamente non quan­do ero davanti alla macchina da presa, ma durante le pause. Ricor­do che una volta, mentre ci trovavamo sulla riva del mare e io ero vestito da Cristo, una lunga fila di donne venne verso di me. Mi si inginocchiarono davanti per chiedermi un miracolo. "Cristu, fammi un miraculu!". Cercavo di spiegare che io non ero il vero Cristo, ma un attore che interpretava il suo ruolo. Non c'era ver­so di farmi capire. Non erano capaci di distinguere tra persona e personaggio».
Matera. Il Duomo

Ci troviamo in un dedalo inestricabile di terrazze, stradine, passaggi angusti, scalette che si inerpicano tra le case appoggiate le une sulle altre. Mentre osservo l'ambiente in cui mi trovo, che ha dell'incredibile, cerco di ottenere da Enrique qualche indica­zione, per me preziosa, su ciò che riguarda lo stile del film. Pa­solini diceva di aver cominciato a girare il Vangelo con uno stile simile a quello che aveva adottato nel realizzare Accattone, il suo primo film, e di aver dovuto cambiare il modo di girare dopo essersi accorto di aver sbagliato strada. Pensavo che a Irazoqui non fossero sfuggiti i ripensamenti «stilistici» di Pasolini, tanto  più che ai ripensamenti erano seguiti rifacimenti, almeno parziali, per effettuare i quali il regista era dovuto tornare con il suo Gesù nel luogo del «misfatto» precedentemente perpetrato (l'uliveto di Tivoli, dove si erano svolte le prime riprese). Ma mi ero sbaglia­to. Enrique non sa nulla né dei ripensamenti, né dei rifacimenti. «Non solo non mi sono accorto che ci fossero cambiamenti di stile - egli dice -, ma non mi rendevo nemmeno conto che ci fosse uno stile».
Ricordo che quando vidi per la prima volta il Vangelo di Pasoli­ni (ero studente di Teologia), mi sembrò di scoprire, come una no­vità per me sensazionale, la forza del testo evangelico. Fin dall'in­fanzia avevo sentito leggere e commentare il Vangelo nella messa domenicale. A scuola i professori di esegesi biblica ne smontavano e rimontavano i meccanismi strutturali: la teoria delle forme ecc. Ma solo vedendo quel film mi è sembrato di cogliere, con un so­prassalto, la forza intrinseca del testo, la sua coinvolgente dinamica. «Il Cristo che amo - dice Irazoqui - è quello del discorso della montagna. Credo che questo sia anche il centro del film».


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3. Enrique Irazoqui: un ragazzo che non voleva essere Gesù di Virgilio Fantuzzi S.I. (15 giugno 2013)

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Enrique Irazoqui, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante
Enrique Irazoqui:
un ragazzo che non voleva essere Gesù
di Virgilio Fantuzzi S.I.

© La Civiltà Cattolica 2013 II 581-595 | 3912 (15 giugno 2013)

PARTE TERZA

UN SENTITO RINGRAZIAMENTO A VIRGILIO FANTUZZI E A ENRIQUE IRAZOQUI



Cortocircuito tra segno e senso

Enrique si allontana di due o trecento metri per andare a vedere la Madonna delle Tre Porte, una chiesa rupestre dove Pasolini ha ambientato la casa di Lazzaro, Marta e Maria a Betania. Non lo seguo, perché in questo punto il terreno è troppo sdrucciolevole per me. Resto in silenzio per una mezz'oretta e rifletto sulle ultime cose che Irazoqui mi ha detto. 
Murgia Materana. Affreschi all'interno della chiesa rupestre della Madonna delle Tre Porte

Mi pare che nel caso del Vangelo di Pasolini si siano verificate diverse forme di identificazione. Totale quella di Susanna che interpreta il ruolo della Madonna. Mi viene in mente a questo proposito quello che Sergio Citti diceva di suo fratello Franco come interprete di Accattone: «Franco non è un at­tore, ma il personaggio». Allo stesso modo si può dire di Susanna che non «fa», ma «è» la Madonna, tautologicamente, per effetto di una sorta di cortocircuito che in certi casi si stabilisce, all'interno di una realizzazione artistica pienamente riuscita, tra significante e significato.
Diverso è il caso di Pasolini che, in quanto autore, identifican­dosi un po' con tutti i personaggi, come dice Enrique, di fatto si identifica con il testo del Vangelo e lo fa, mentre lo trasferisce dalla lingua scritta al linguaggio audiovisivo, adottando un punto di vi­sta non esterno, ma interno al testo medesimo. Dopo aver assimila­to il testo di Matteo, da lui considerato come un modello di bellez­za assoluta, il regista lo elabora e ne restituisce il senso, producendo immagini visive e sonore dotate di una bellezza equivalente.
Quanto a lui, il protagonista del film, risulta chiaro dalle sue parole che non è né dentro il personaggio del Cristo, né fuori di esso. Si potrebbe dire forse che Enrique è mezzo dentro e mez­zo fuori dal film. Ciò dipende in primo luogo dal fatto che lui è uno strumento nelle mani del regista. Uno strumento, ovviamente, pensante. Cosa che gli consente di distinguersi dagli apostoli «in­tellettuali», non perché essi non lo siano, ma perché lui è in grado di pensare «bene», anche quando gli altri pensano «male». Inoltre, in quanto marxista «duro e puro», lui ha le sue idee che gli impedi­scono di identificarsi pienamente con Cristo. E probabile che questa resistenza, da parte di Irazoqui, nei confronti di una identificazione di tipo religioso, nel senso devozionale del termine, con la figura di Gesù abbia prodotto nel personaggio quell'effetto di ambiguità di cui Pasolini parlava a proposito del modo nel quale, al di là delle sue intenzioni, era risultata la rappresentazione di Gesù nel film.
Palazzo in rovina nella Murgia Materana. © Foto Giovanna Gammarota

Torna Enrique e riprendo la conversazione interrotta: «Credo che non si possa negare che il Vangelo sia un film che ti ha cambiato la vita».
«Se lo facessi, negherei l'evidenza. Il Vangelo mi ha fatto cono­scere persone straordinarie che prima non conoscevo; mi ha offer­to opportunità che prima non avevo; inoltre, per quanto riguarda l'esperienza che ho vissuto durante le riprese, posso dire di aver trovato qui un senso di libertà che in Spagna allora non esisteva».
«Questi sono cambiamenti esterni. Si può dire che ci siano stati in te anche cambiamenti interni?».
Fëdor Dostoevskij (1821-1881)
Ritratto di Vassilij Petrov (Galleria Tret'jakov, Mosca)
«Vedo che insisti battendo sullo stesso chiodo... Ebbene, a costo di deluderti definitivamente, caro Virgilio, devo dirti che il Vange­lo, in quanto film, non ha prodotto "dentro" di me nessun cambia­mento. Sono uscito dall'esperienza del film nello stesso modo in cui c'ero entrato. Con le stesse idee nella testa, lo stesso atteggiamento nei confronti della vita. Se per caso è successo qualcosa "dentro" di me in quel periodo, ti assicuro che non me ne sono accorto. Ma siccome vedo che su questo punto non sei disposto a darmi tregua, per tranquillizzarti posso aggiungere che qualcosa è successo, nel senso che dici tu, dopo la realizzazione del Vangelo. Mentre facevo il servizio militare (erano passati due anni dalle riprese del film), mi è capitato tra le mani L'idiota di Dostoevskij, libro che ho letto con avidità, identificandomi totalmente con il principe Myshkin, eroe nel quale lo scrittore concentra il suo ideale di bontà cristiana e di amore universale. Posso dirti di non aver sofferto i dolori di Gesù quando ero sulla croce, mentre invece ho sofferto i dolori di Myshkin leggendo quel libro».
«Nulla accade per caso nella vita, Enrico. Se sei arrivato nella casa di Pasolini quando lui cercava il protagonista del Vangelo non è un caso. Se durante il servizio militare ti è capitato tra le mani L'idiota non è un caso. Considero questi due eventi come tappe fon­damentali della tua evoluzione personale. Nel dirti questo, non sto cercando di indovinare cose che non so, ma sto semplicemente ti­rando le somme di questa nostra giornata di chiacchiere. Può darsi che anche questa sia una tappa che si aggiunge alle altre, e spero che non sia l'ultima...».
«Come darti torto, Virgilio? Pensa a quello che mi è capitato quando, pochi mesi dopo il mio rientro in Spagna, ho lasciato il partito comunista, perché sentivo che la sua linea politica non era la mia, non mi riconoscevo più nel programma che fino allora avevo condiviso con i compagni di lotta e non credevo nella possibilità di fare la rivoluzione».
Pier Paolo Pasolini con il poeta spagnolo José Augustín Goytisolo
Chiedo a Enrique se ha rivisto Pasolini dopo le riprese del Van­gelo e la presentazione del film al festival di Venezia. «Come ti ho già detto - risponde -, Pier Paolo venne a Barcellona nell'autunno di quello stesso anno. Tenne una conferenza all'Università parlando di libertà e fascismo. Trovò che Barcellona era bellissima, mentre invece, secondo me, era una città grigia, monotona, piena di poli­ziotti, convenzionale, soffocante. Ma in un giorno solo tutto questo non si vedeva».
«Come hai saputo della sua morte?».
«Ho sentito la notizia alla radio mentre ero a Minneapolis. Nel­lo stesso modo, sempre per radio, dieci anni più tardi ho saputo della morte di Elsa. Mi ha fatto male. Era infinitamente ingiusto e crudele. Era anche una parte importante della mia vita che se ne andava. A volte parlo ancora con Pier Paolo. Elsa ha scritto dopo la morte di Pasolini una poesia che comincia con le parole: "E così...", e prosegue dicendo: "Tu - come si dice - hai tagliato la corda. / In realtà tu eri - come si dice - un disadattato / e alla fine te ne sei persuaso / anche se da sempre lo eri stato: un disadattato..."».
Il cielo è invaso da un tramonto fosco che tinge di bagliori vio­lacei le nuvole arruffate. «È tremendo - mormora Enrique - non poter dare la corda all'orologio con la molla a rovescio e andare all'indietro nel tempo per poter dire a Pier Paolo e a Elsa tutto quel­lo che non ho detto allora e potrei dire adesso...».
Il pensiero torna a Susanna, morta a 90 anni in una casa di ri­poso per anziani a Udine. «Se Pasolini non fosse morto prima di sua madre - dice Enrique con una piega amara nella bocca -, non credo che avrebbe consentito che Susanna finisse i suoi giorni in una casa per anziani». Poi, il sorriso torna ad affiorare sulle sue labbra e gli occhi si illuminano nel ricordo. «Una sera, quando mia madre venne a trovarmi a Roma durante le riprese del film, Pier Paolo, Susanna, mia madre e io camminavamo insieme verso un ristorante di Trastevere. All'improvviso Pier Paolo si mise a correre e sparì. Pensavo tra me meravigliato: "Ma cosa sta facendo?". Dopo un paio di minuti venne con una rosa per sua madre. Avresti do­vuto vedere la tenerezza dipinta sul volto di Susanna. Una dolcezza che non potrò mai dimenticare».
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