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La poesia dell’impoetico “Trasumanar”

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - POESIA
La poesia dell’impoetico “Trasumanar”
di Pierpaolo Pasolini
Nota di Lucio Marini


Tra i libri di poesie “civile” del ‘900, Trasumanar e organizzarè, a mio avviso, il più significativo, non tanto per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la straordinaria carica innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in questa raccolta.
Un luogo comune della critica è che le ultime poesie di Pasolini, e dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi, quasi di identità e di ruolo, del poeta.  E si indica in questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota  a firma R.G. dell’edizione Garzanti del 1976), una delle caratteristiche principali, dal punto di vista stilistico, dell’intera opera.  Tanto da vederla come un anticipo dei “modi e dello spirito provocatorio dei successivi interventi polemici” (si riferisce, credo, ai successivi saggi Lettere luterane e Scritti corsari) e quasi a latere di più importanti lavori in altri settori (il cinema ad esempio).  Peraltro, anche nella nota sopra citata, si conviene oltre, in verità senza molto entusiasmo, che il libro è indiscutibilmente un libro di poesia, nonostante la sua tentazione, per così dire, verso la prosa.  Ma non ci viene però spiegato perché e come, questo libro sia - e senza mezzi termini - un grande libro di poesia.
Se è vero che la poesia di Trasumanar segna una rottura, sia con le avanguardie, sia con l’iniziale terzina pasoliniana, è perché tale frattura è il risvolto di una frattura interiore fra il poeta e il suo tempo storico, che viene da lui avvertita e puntualmente tradotta in un verso adatto ad esprimerla.  Ne Le ceneri di Gramsci o L’usignolo della Chiesa Cattolica siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la tradizione (sia stilistica che culturale e concettuale) e benché in forte dialettica con essa, cerca una nuova poesia capace di esprimere un sogno civile.  Il verso dunque, pur lontano dal formalismo tradizionale, sta dentro la tradizione anche nella forma, perché evidentemente il poeta la ritiene adatta ad esprimere un rinnovamento sia artistico che civile.
In Trasumanar le cose sono diverse.  Ed è vero che la cocente delusione politica e civile di Pasolini (espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in volume – Il caos, 1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non abbandona la tradizione e che, anzi, Trasumanarè forse il suo libro più vicino alla tradizione.  E per far questo egli abbandona, nella poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che si esprimono nel verso fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua sostanza, l’afflato, le sue ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di disincrostamento da tutte quelle ragioni che poco hanno a che fare con essa.  Che cos’è il verso, infatti, se non convenzione?  qualcosa che si è sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili trasformismi, si è imposta essa stessa come essenza della poesia?  E se il verso è convenzione, cosa impedisce al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con c’entra nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla a un ruolo mimetico della realtà).  La poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di libertà che si impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e pertanto non può essere costretta dentro un canone.  La poesia è, per l’uomo, il respiro del suo profondo, il luogo della sua verità che rifiuta qualsiasi collocazione o convenzione.  Ed è in questo luogo soltanto che è possibile riscattarsi dalla massificazione.  
Siamo quindi di fronte, civilmente, alla rivolta individuale del poeta contro il sistema – in questo caso letteraria , pur senza abbandonare – come in un certo senso fecero le avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema stesso.  Anche qui, dunque, siamo dentro una tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo massificante.  Ed è qui che viene messa a nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e nello stesso tempo si tenta il recupero delle sue radici autentiche.  
Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le mistificazione dell’umano troppo umano.  E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci?  quel gusto di sondare i nodi più profondi e più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica?  Pasolini non fa altro che riscrivere quelle tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte.  Se infatti lo spirito della grecità e quello di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale, unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante, sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo.  
Mentre la poesia greca costruisce la tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione anti-poetica. L’impoetico, se mai, sta nel  voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo). E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa (ma quale poesia?). Egli stesso infatti dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto, come respirare). L’utilità ne sancirebbe dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.
Trasumanar e organizzar non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini esprime la sua crisi poetica.  E’ invece un libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual “grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non poteva essere scritto in altro modo che in quello.  Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere, senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che “poesia” e “identità” sono la stessa cosa.  Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere poesia come la scrisse in precedenza.  Troverei infatti singolare che l’autore de Il caos o degli Scritti corsari, avesse potuto scrivere L’enigma di Pio XII in terzine, magari a rima alternata e con metro dantesco (e, non dimentichiamolo, quello stile fu la rivoluzione ai tempi di Dante): ne sarebbe uscito un impaccio, una masturbazione intellettuale, una farsesca prostituzione di ogni suo convincimento umano e artistico.
*  *  *

Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le molte questioni, una riflessione sul rapporto fra poesia e ideologia, forse non più così evidente oggi (non che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie, sono diventate più sfuggenti, più striscianti e per questo più insidiose).  Le poesie della raccolta infatti sono scritte, all’incirca, negli anni che corrono dal 1965 al 1971.  In quella temperie culturale, tutto veniva ideologizzato, e l’arte non fu risparmiata a questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene, anche se eravamo allora molto giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un cucchiaio di minestra assumeva un aspetto ideologico e doveva essere “spiegato” in riferimento a qualche massimo sistema).  Persino Pasolini stesso, anche se raramente, è stato tentato dall’ideologia (ho in mente alcune interviste rilasciate alla televisione) ma si vedeva che questo suo cedere all’ideologia era l’espediente di parlare a nuora perché suocera intenda, cioè di usare il linguaggio dell’ideologia per poter prendere a cornate coloro che così ragionavano (non ultimi i “big” del Pci): usava quindi il solo codice ad essi comprensibile, appunto per farsi capire.  Pasolini si difende dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come pochi intellettuali del suo tempo, la facoltà della critica, che è uno strumento del filosofo più che del poeta, anche se egli la esercitò ovviamente come artista (che non cerca i fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a pelle”, a differenza del filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale appoggiarsi).  Ed in questo ruolo di artista-critico o artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la coesione della sua identità. Non dunque l’artista che sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre o che piange, ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non passivo.  Non è soltanto, il suo, un ribellarsi a parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non violento (i mass media infatti ci hanno indotto a temere questa parola, associandola tout court a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo valore ideologicamente attribuito – il contrario dell’eversione è infatti, è la conservazione, ma di quale “ordine”?).
Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto questo criticismo, che lo sente da poeta.  La poesia di Transumanar infatti, è un raro esempio di come il pensiero possa diventare poesia, quando la passione lo infiamma o quando l’ironia cambia il segno di ciò che, detto in altro modo, esprimerebbe solo enfasi, retorica, assolo di trombone.  Trasumanar  è prima di tutto un libro appassionato, che in questa passione tutto consuma, che in lei risucchia anche le sottigliezze del ragionamento, le riprese degli avvenimenti civili e politici, i commenti, ecc.  Per questo riesce ad essere un libro di poesia, laddove si rasenta (secondo una visione formalmente tradizionale della poesia) la prosa.  In questa passione che tutto risucchia e ritempra come il crogiolo di un altoforno, la fa da padrona la poesia, ossia la visione immediata del mondo che l’artista ci propone. 
E non è vero che Pasolini, come è stato scritto, abbandona anche il “tono” della poesia.  C’è invece un tono, ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa prospettiva, di leggere con passione ciò che un linguaggio apparentemente prosastico grida con passione.  Ho scritto sopra che egli non poteva scrivere in altro modo che in quello: ed è proprio nel diverso “tono” di queste liriche che si giustifica l’affermazione.  Pasolini evita il tono nasale della lirica tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli sono congeniali, o non sono adatti al suo sentire.  Ma soprattutto non sono congeniali a una lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle ragioni, convincere, toccare nel segno. Ecco allora il senso questo tono pacato, quasi dimesso e quotidiano, accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore in un dialogo che lo vuole parte attiva.  Per scrivere la sua poesia civile (o meglio: per salvare la sua poesia dall’insignificanza), l’artista ha inventato un nuovo artificio retorico, che è quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici. Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua di accenti pacati e colloquianti che si insinua e scava una sua breccia nella sensibilità del lettore. Possiamo dire che sia questa un’operazione anti-letteraria?  Dipende da cosa si intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i paradossi stanno nel termine stesso.  Dipende se per “letteratura” intendiamo solo quella canonica dei “professori” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e dunque anche non classificabile.  A me pare che Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della seconda metà del secolo; ma non certo un “professore”.
E qui bisogna stare attenti anche a non dare troppo credito alle dichiarazioni di Pasolini stesso che, da gran narciso qual era, scriveva sornione: “e se qualche verso mi riesce passabilmente / è per semplice abitudine” (e ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a mio avviso essere collocate nella giusta prospettiva, di come si intende l’inutilità della poesia e che cosa davvero significhi “verso”).  Ecco dunque che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che “ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più profonde.  Il tradimento della poesia è infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in versi (gli zdanovisti) una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole “spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza dell’artista.
Trasumanar e organizzarè dunque un libro più che mai vivo e attuale, un libro che non cessa di insegnare e che può essere un buon punto di partenza, anche contro le ideologie (anche in poesia, anche in poesia...), ora più di allora nascoste e difficili da smascherare.  E per la poesia, in qualunque forma si manifesti.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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L'alterità come replica dell'identità. La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini

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LA SAGGISTICA - NARRATIVA
Neil Novello
L'alterità come replica dell'identità. 
La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini


È chiaro fino dal principio degli anni '60 che tra le terzine dantesche di Progetto di opere future, sezione penultima di Poesia in forma di rosa (1964), annunciando una «buriana» sull'Inferno, Pier Paolo Pasolini pensa alla prima cantica di Dante come a un archetipo per la riscrittura in prosa. È inscrive nel «progetto» il termine dell'alterità. Letterario, a leggere nel disegno la forma attualizzata di un libro parallelo, e non finito, dell'Inferno. Autobiografico, a pensare di inscriversi nel testo in forma di doppio personaggio. Storiografico, perseguendo l'alterità nella figura dell'analogia ravvisata tra il Medioevo e il neocapitalismo, quest'ultimo interpretato quale replica revisionata del tempo dantesco. Pertanto il Medioevo di Dante reagisce con lo sfondo storico del testo rigenerandosi in catastrofe epocale. O meglio, l'alterità storica funziona nella Divina Mimesis come un vero e proprio rovesciamento: il neocapitalismo è un Medioevo moderno o nuovo Medioevo. Nello stile della collazione storiografica, a cercare l'esempio, un'indicazione ideale potrebbe trovarsi nelle «civiltà a paragone» descritte da Arnold J. Toynbee, sebbene le pasolianiane appaiano mediate dall'esperienza letteraria.
A una prefazione al veleno («do alle stampe oggi queste pagine come un 'documento', ma anche per fare dispetto ai miei 'nemici': infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all'Inferno») seguono un Canto I e un II, appunti e frammenti per la scrittura di un Canto III, appunti e frammenti per un IV diviso in otto brevi paragrafi, quindi appunti e frammenti per un Canto VII diviso in cinque paragrafi, e infine, quasi in funzione di appendice critica paratestuale, una Nota N. 1, una Nota N. 2, e una finale Nota dell'Editore.
Prima dell'Iconografia ingiallita, composta da un repertorio di venticinque fotografie da leggersi alla maniera di un «poema fotografico» seguite da un «Piccolo allegato stravagante», «excerptum» critico sull'antologia Letteratura italiana: Otto-Novecento di Gianfranco Contini, c'è un altro frammento di appunti per il Canto VIII.
Al «poema fotografico» è da attribuire un'altra variante dell'alterità: è termine d'analisi nella dialettica ermeneutica tra il testo scritto e il testo per immagini, e configura «l'altro modo» di leggere la prosa. A partire dalle immagini, e tornando verso il testo scritto, secondo una dialettica di lettura incrociata. Pasolini-Virgilio a Pasolini-Dante: «Guarda le loro fotografie ormai ingiallite». E rinvia a un «gruppo di partigiani» in cammino per una via di montagna, a simbolo degli anni della Resistenza.
Il doppio Pasolini-Dante e Pasolini-Virgilio sembra non sottomettersi al senso letterale del principio d'alterità. O meglio, la «dissociazione dell'io» appare da subito quale esito di uno scorporo formale, cosicché il momento dialogico del «parlato» identifica più che un dialogo reale tra «diversità», la soluzione rappresentativa di un monologo tenuto dinanzi allo specchio. È una «fictio», questa fondata sulla mistificazione dell'elemento dialogico precedente quella costruita sulla postumità dell'opera. Pasolini-editore finge d'ereditare la Divina Mimesis: rispettando l'autore, limita il suo compito alla cura di una edizione diplomatica. Si vedrà, avanti nella lettura, un altro e diverso esempio di mistificazione dell'alterità. 
Dinanzi a Pasolini-Virgilio, Pasolini-Dante parla di sé a sé: e parla degli anni '40 friulani (il paradiso), degli anni '50 e la morte delle ideologie (il purgatorio), degli anni '60 e del neocapitalismo (l'inferno). Nondimeno, e in coincidenza con il Canto I, di qua dello sdoppiamento del personaggio autoriale inscritto nel testo, il narratore autobiografico incontra la Lonza, il Leone e la Lupa. O meglio, s'incontra in triplice forma felina, e tratteggia l'autoritratto nell'immagine delle fiere infernali. La Lonza: «eccola lì, uscita dai ripostigli comuni della mia anima (che accanitamente continuava a pensare, per difendersi, per sopravvivere - per tornare indietro!), eccola lì, la bestia agile e senza scrupoli […]. Così, la 'Lonza' (in cui non ebbi, subito, difficoltà a riconoscermi)». Il Leone: «Dal suo essere sonno e ferocia, egoismo e fame rabbiosa, il 'Leone' traeva un'ispirazione a vivere che lo distingueva, con violenza addirittura brutale, dal mondo esterno. Che lo ospitava quasi tremando. L'idea di sé non ha ragione: e quando si esprime distrugge la realtà, perché la divora. […] Sia pure parzialmente, anche in quel 'Leone', come in uno sproporzionato segno premonitore, io mi riconobbi». La Lupa: «Ma dovevo riconoscermi ancora in qualcosa di ben peggio. […] venne fuori una 'Lupa', che si affiancò alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza, la bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati tra loro; lo zigomo in alto, contro l'occhio, la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo». 
Una terna di duplicazioni per tre forme d'alterità: dell'anima (la Lonza), dell'azione (il Leone), del corpo (la Lupa). E tre forme di proiezione e di riflesso: della Lonza, l'anima si rappresenta nell'«altezza morale» e nell'«onestà intellettuale»; del Leone, l'azione è «ispirazione a vivere» e a «saper divorare»; della Lupa, il corpo s'identifica nella «bocca assottigliata dai baci», nello «zigomo e la mascella allontanati tra loro».
All'incontro dell'alterità felina, Pasolini-Dante disegna un autoritratto mimetico: dalla natura della propria anima, alle strategie dello stare al mondo, fino alla descrizione mimetica del proprio corpo 
Di fronte alle fiere è al cospetto di sé: nel riconoscersi, al contempo, quale triplice proiezione, Pasolini-Dante afferma il valore «naturale» dell'identità, attribuendo alle proiezioni qualcosa in cui rivedersi e qualcosa da cui fuggire. D'altra parte è transizione necessaria: il doppio autentico, la figura in cui realmente potrà riconoscersi è alle sue spalle, non davanti ai suoi occhi: non è il futuro (in cui non si riconosce), è il passato. E dal passato, nella forma dell'apparizione vissuta come salvezza, ecco Pasolini-Virgilio, personaggio-altro-e-uguale-a-sé farglisi dinanzi: «Sono settentrionale: in Friuli è nata mia madre, in Romagna mio padre; vissi a lungo a Bologna, e in altre città e paesi della pianura padana - come è scritto nel risvolto di quei libri degli Anni Cinquanta, che ingialliscono con me…». Dopo l'autoritratto, ecco scritta l'autobiografia per interposto personaggio-altro-e-uguale-a-sé. Alterità felina come autoritratto allo specchio, autobiografia come risarcimento dell'autoritratto: dalla ricostruzione dell'identità generale (Lonza, Leone, Lupa) alla ricostruzione dell'identità intellettuale (Virgilio).
Alterità come transizione dall'autoritratto all'autobiografia: con l'attacco della Divina Mimesis, Pasolini sembra adeguare un tale transito trascorrendo dall'elemento felino a quello umano-poetico. Che se implica un'indiretta considerazione nel passaggio dallo stadio animale alla natura umana, associa all'operazione il termine del darwinismo per non dire del niccianesimo. Alterità di Pasolini-Virgilio come termine d'evoluzione. E così identifica nella terna bestiale una specie di stadio complessivo dell'Es (e del Vizio), e nell'elemento poetico (Pasolini-Virgilio) l'incontro definitivo con l'Ego (e con la Virtù).
Una dissociazione tuttavia apparente. 
Pasolini-Virgilio appare a Pasolini-Dante, e porta la salvezza, confermando una sua esistenza aprioristica nel mondo. È il padre sempre vissuto, non già l'esito di una scissione alla maniera di Petrolio. Nel romanzo Carlo di Polis assiste alla nascita di Carlo di Tetis dalle viscere del proprio corpo. Nasce un figlio (corpo da corpo) ma vive come fratello (corpo gemello), in quanto «concreta rappresentazione», reale porzione di sé raddoppiata. 
La Divina Mimesis adatta il tema del doppio alla variante dell'alterità: in essa, la differenza tra le parti è forma possibile di analogia. Ed è analogia.
Prima che tale figura giunga a consistere nel riconoscimento dell'altro come simile, Pasolini-Dante sconta il debito dell'acquisizione. La fuga dall'alterità felina è l'inconscia rivelazione della parte immorale di sé, la raffigurazione del Vizio identifica invece l'immagine impaurita dell'autore che torna indietro sui propri passi. E riconosce la causa dell'ostruzione simbolica nell'immoralità (simbolica) delle fiere, di sé. Nel retrocedere, fuggendo dalla «Lonza», cerca già una via morale di salvezza. E trova un altro sé pronto ad accoglierlo: un altro che fa unità al maggiore grado, non già di potenza, ma di umiliazione:
«Ah, […] hai ragione, sono un'ombra, una sopravvivenza… Sto ingiallendo pian piano negli Anni Cinquanta del mondo, o, per meglio dire, d'Italia…». 
È nel riconoscersi (Pasolini-Dante al cospetto di Pasolini-Virgilio), attraverso il primato della poesia, Pasolini-Dante crea le condizioni di partenza per l'esistenza di nuove forme d'alterità.
Le proiezioni fittizie in Gramsci, Rimbaud e Charlot, e poi in Thomas, sembrano ascriversi ai temi dell'elogio e dell'ironia. Ma anzitutto, Gramsci, Rimbaud, Charlot e Thomas sono ipotesi d'alterità: alterità immaginate come possibili, eventuali forme della propria forma, estranee, e solo spettri in potenza riguardo alla figura di Virgilio. 
Pasolini-Charlot. Nel tono canzonatorio, accogliendo la forma della messa in parodia di se stesso mediante la postulata proiezione nel celebre autore di Luci della città , Pasolini-Dante identifica l'alternativa «extravagante», il nucleo di una drammatizzazione come momento dell'autoparodia. D'altra parte, la venatura tragica della Divina Mimesis (nella voce di Pasolini-Dante) è innervata all'elemento ironico e autoironico (nella voce di Pasolini-Virgilio). E coesistono sotto forma di mutua interrelazione: l'estensione a regola esemplare dell'ironia di Pasolini-Virgilio è Pasolini-Charlot. 
Eppure, tale solitaria variabile è visibilmente sostenuta da un dittico, quello costituito dalla coppia Gramsci-Rimbaud, l'intellettuale marxista e il poeta «maudit» della Saison, che con immagine felice rappresentano non solo i modelli, ma anche i termini di un riconoscimento proiettivo d'ordine affettivo.
D'altro canto, l'intento autoparodico di Pasolini-Charlot è dissimulazione della logica oppositiva con cui sono accostati l'intellettuale e il poeta all'autore e attore di cinema. Nel genere scherzoso del «poteva essere», l'alterità di un Pasolini-Charlot controbilancia la più concreta e reale eventualità di un Pasolini-Gramsci e di un Pasolini-Rimbaud. Il primo è versione puramente «apollinea», i secondi, «dionisiaci» simboli dell'«essor» intellettuale.

Nelle iniziali fasi del cammino in compagnia di Pasolini-Virgilio, Pasolini-Dante, di là della stupenda ed elettiva rievocazione del decennio casarsese (gli anni '40), subisce l'afflizione della nostalgia. Specie quando anche il divario tra l'essere e il mondo, anziché sublimarsi nel modello aureo della «unio mystica» si acuisce in una distanza incolmabile. Al confronto delle rispettive parti, l'Eden friulano, o della «unio mystica», si scontra con l'era neocapitalista, termine di una rivelazione dolorosa. Qual è infine l'esperienza di colui che soffre l'alterità propria e del mondo come l'esperienza percettiva di un «non-luogo», come topica dell'altrove: «Solo io, segnato da un confine: sproporzione, incredibile, tra questo piccolo me e tutto il resto del mondo, così grande, inesauribile anche nella nostalgia!».
Nella filigrana dello sfondo storico, in quanto momento di un percorso lineare e cronologico condotto a partire dal paradiso friulano per giungere all'inferno neocapitalista, Pasolini compie una revisione di struttura. Interpreta il calco della Commedia dantesca, non già per riscrittura «mimetica» (dei canti, non della struttura), ma in quanto rovesciamento dell'ordine strutturale. Non più dall'inferno al paradiso ma dal paradiso all'inferno. In questo, il disegno della Divina Mimesis non è l'esito di una duplicazione (forma di doppio letterario di matrice strutturale), quanto il suo rovesciamento (quindi, momento di creazione di un'alterità). 
Nondimeno, l'elemento autobiografico è lettura dello stato del mondo e lettura retrospettiva del mondo perduto. Un mondo vissuto tuttavia sul filo di un proustismo cercato ma irrecuperabile. A confronto, i decenni Quaranta e Sessanta rovesciano storicamente il destino della poesia: l'età del «mythos» friulano (o l'esistenza della poesia) contro l'età del «logos» neocapitalistico (o della morte della poesia).
Alterità della forma poetica come nuova e definitiva forma della poesia, come esito degenerativo della lingua. Altra alterità correlata: dalla lingua dell'espressione alla lingua della comunicazione come dalla poesia alla morte della poesia.
A voler riassumere, c'è un autore reale, c'è un autore implicito sdoppiato nell'alterità, e c'è infine un autore in forma di editore che pubblica le carte avute in dono dall'autore reale. In questo, l'alterità è triplice, a partire dalla natura polisensa dell'autore: reale, implicito e editore postumo di se stesso. Pasolini l'annuncia nella menzionata «fictio» della «Nota dell'editore», quando confessa - in prima persona - che «io mi limito a pubblicare tutto quello che l'autore ha lasciato. Il mio unico sforzo critico, molto modesto, d'altra parte, è quello di ricostruire il seguito cronologico, il più possibile esatto, di questi appunti». È La Divina Mimesis postuma pensata come edizione diplomatica.
La strategia finzionale consiste nell'inventare un'alterità dell'autore in forma di editore di natura non-altra: a raccogliere le carte dell'autore è l'autore travestito da editore. L'altro è lo stesso. L'alterità riveste il valore della ripetizione. E più, alterità di natura macabra. L'autore travestito da editore raccoglie le carte dell'autore «morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l'anno scorso». 
E cioè: nella «fictio» mistificante, l'autore reale (Pasolini) scrive di un editore travestito (Pasolini bis), il quale eredita «il corpo dattiloscritto dell'opera» dall'autore defunto (Pasolini ter), limitandosi a pubblicare secondo un ordine cronologico falsamente considerato l'unico intervento di mano estranea. In realtà è esigenza dell'autore in carne e ossa, filtrata dall'ordinamento stesso voluto dall'editore incaricato della pubblicazione. 
Un libro, questa Divina Mimesis, concepito come un «misto di cose fatte e di cose da farsi», alla maniera delle pagine più programmatiche di Alì dagli occhi azzurri, racconti in parte «da farsi» e racconti in parte «non fatti». (Alterità della forma letteraria: non finito e estetica postmoderna). E l'editore che eredita il «pacchetto di fogli di carta da macchina da scrivere» per la pubblicazione informa sullo stato generale del documento, notando che accanto a un libro doppiamente intitolato «MEMORIE BARBARICHE» e «FRAMMENTI INFERNALI», e altri titoli sparsi nel corpo del fascio di fogli, compare un terzo titolo sulla penultima pagina, quasi che l'autore abbia concepito la scrittura di un capitolo rimasto tra le cose «da farsi». Il titolo impresso sulla pagina bianca è «PARADISO».
Rimane un mistero sapere se l'altra parte della Divina Mimesis (quella non scritta nella finzione), dovesse realmente continuare in un paradiso (un neo-paradiso rispetto agli anni '40 friulani?). E mistero rimane sapere inoltre se tale stagione assumesse già la forma dell'alterità ultima assoluta: la ricerca di una nuova (e possibile) bellezza nell'utopia.
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Pasolini, teatri di narrazione, Saviano: passaggi di testimone

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - TEATRO
Gerardo Guccini
Pasolini, teatri di narrazione,
Saviano: passaggi di testimone


1 - Una voce che parla ancora
Se anche non avesse scritto il Manifesto per un nuovo teatro e alcuni fra i drammi più rappresentati e significativi del secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini sarebbe comunque presente nelle opere e nella cultura dell'innovazione teatrale. Le ragioni del suo radicamento risaltano con particolare evidenza dalla sofferta iniziazione alla testimonianza che Roberto Saviano descrive nel penultimo capitolo di Gomorra, spiegando la scelta che lo ha portato a scrivere il libro.
Il brano fa comprendere perché la voce di Pasolini continui a parlare nitida ed esigente agli scrittori, agli intellettuali e ai teatranti che trasmettono conoscenze del reale acquisite per via d'esperienza, e consegnano quindi ai propri lettori o spettatori opere/sonda che li introducono all'esplorazione delle cose e di se stessi in quanto membri consapevoli della collettività umana.
La parola di Pasolini restituisce chi la pronuncia, vale a dire l'identità dell'autore, che, rapportandosi da persona a persona con gli interlocutori venuti dopo, si rigenera attraverso dialoghi interiori fatti di concordanze, di rispecchiamenti, di pensieri completati o intuiti nel passaggio dall'una all'altra mente. Il rituale riportato dalle pagine di Gomorra mostra una faccia di questo rapporto. Qui, la voce dell'interlocutore presente e quella dell'interlocutore assente si sovrappongono dicendo parole, che non solo procedono le une dalle altre e sono in parte uguali, ma attestano la stessa tensione etica, la stessa volontà di intervenire e non permettere che le cose, una volta conosciute, restino uguali a prima. Saviano dunque si immedesima nelle idee di Pasolini, o meglio nel loro procedere da un'esistenza che ne viene a sua volta segnata. Quest'iniziazione alla testimonianza, pur non facendo menzione al teatro pasoliniano, ne realizza l'essenza di «rito culturale». A Casarsa, ripetendo di fronte alle tombe di Pasolini e della madre il celebre articolo di denuncia civile apparso sul «Corriera della Sera» il 14 novembre 1974 («Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…»), Saviano avverte nelle idee dell'autore intrecci di parole ed esistenza, che trasformano in interlocutore chi sente d'esserne il destinatario e dialoga con loro.

2 - L'io narrante di "Gomorra"
Gomorra compenetra le forme del romanzo e quelle dell'inchiesta secondo tecniche di composizione che passano al lettore conoscenze del reale, evitando, però, svolgimenti lineari e pienamente esplicati. In altri termini, Saviano innesta la vocazione originaria della scrittura, che lancia nella realtà la forza delle parole, ad una personalità assolutamente contemporanea, abituata, cioè, a pensare per immagini, a congetturare attraverso montaggi, a recepire per frammenti, a considerare la discontinuità, l'assenza, l'interruzione delle presenza e l'omissione del senso, qualità proprie alle fenomenologie dell'esistente.
L'unità che Saviano infrange per trovare una forma duttile e trasformabile, che veicoli le strutture, la storia, i singoli profili e il mondo psichico del «sistema» camorristico, è proprio quella dell'io narrante.
Scelta in qualche modo obbligata. Narrando un'antropologia vissuta, Saviano non sceglie infatti, a differenza dell'antropologo o del reporter, determinate realtà da avvicinare, indagare e descrivere, ma decide di affrontare e conoscere attraverso le sue molteplici articolazioni la realtà in cui si trova di già immerso. La sua denuncia d'una economia fondata sull'orrore, che non solo viola le disposizioni del vivere civile, ma, quel che è peggio, tende a sostituirle, si intreccia a imbarazzanti dichiarazioni di vicinanza. Parte di una società segnata dalla connivenza e dall'omertà, l'autore non si dichiara immune dai mali che indaga e che, proprio perciò, può testimoniare al lettore. Questa posizione di osservatore incardinato all'argomento, di antropologo iscritto nella comunità indagata, colloca a monte di Gomorra e, invisibile a lato delle sue narrazioni, un fluido 'romanzo di formazione' dove si svolgono transizioni fra letteratura e realtà, scoperte, assunzioni di responsabilità, incontri, indagini documentarie e inchieste accanite, elementi tutti che Saviano, con scrupoloso senso della forma, rifiuta di narrare distesamente per non fare di se stesso un protagonista contrapposto al mondo antropologico del «sistema». Vale a dire, l'eroe del romanzo. Piuttosto, la sua preoccupazione è quella di spiegare la propria posizione rispetto agli eventi narrati, mostrando dove e come li vede, e dichiarando l'impatto emozionale ed etico di tali osservazioni. Gli undici capitoli di Gomorra esplorano ognuno una diversa diramazione del "sistema" camorristico. Collocandosi all'interno dei traffici con la Cina e l'alta moda, della sociologia del mondo criminale o dello smaltimento dei rifiuti, l'io narrante si presenta, di volta in volta, come infiltrato in veste di manovale, come reporter senza testate di riferimento, come parente di affiliati; lo vediamo trasportare casse inseguendo i rapporti fra criminalità e industria, mettere il registratore su tavole di pizzeria dove mangiano giovani affiliati, giungere in moto sui luoghi del delitto. Nessuno di questi accenni si sviluppa però in una narrazione sulle attività giornalistiche, sulla rete degli informatori (che non era d'altronde possibile indicare), sui mestieri svolti, sicché l'io narrante risulta talmente poco descritto e connotato in senso diegetico da poter essere, nota Wu Ming 1, addirittura sostituito:

l'io narrante di Gomorraè l'autore, ma non soltanto e non sempre. L'autore […] ha esercitato la libertà di "dare dell'io a qualcun altro", di collocarsi dietro gli occhi di diversi "io" che raccontano storie di camorra. Non "io è un altro" ("je est un autre", come scrisse Rimbaud), bensì "anche un altro è io" ("un autre aussi est je"). L'io che racconta dell'economia cinese in Campania non è lo stesso che racconta delle pecore spaccate a metà dai colpi di prova del "tubo" (il fucile fai-da-te usato dal "Sistema"), e così via. È sempre "Roberto Saviano" a raccontare, ma "Roberto Saviano" è una sintesi, flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all'altro […] [1].

Gomorra connette queste espressionistiche peripezie dello sguardo a serrati racconti cronologicamente ordinati, che documentano le saghe delle famiglie camorristiche, l'evolversi dei sistemi economici e i rapporti con le istituzioni. Quando, però, l'io narrante riferisce quello che ha visto e di cui è stato personalmente testimone, le sue relazioni, proprio perché l'io non è sempre lo stesso, individuano eventi che non è possibile disporre all'interno d'un tempo unitario. Da un capo all'altro del libro, quello che viene descritto in un capitolo potrebbe essere avvenuto, in molti casi, prima o dopo o contemporaneamente a quello che viene descritto nel capitolo successivo. I due criteri della conseguenzialità temporale – e cioè la continuità biografica dell'io narrante e quella diegetica della vicenda – saltano infatti entrambi a fronte di un'antropologia vissuta che non si struttura per episodi, ma per argomenti. Svolgendoli, Saviano alterna dimensioni temporali di ampiezza storica e vertiginose focalizzazioni, cogliendo, ad esempio, l'attimo in cui una pallottola vagante distrugge i pensieri e le percezioni d'una bellissima quattordicenne che ha la sventura di trovarsi, per strada, nelle ore del passeggio, nelle vicinanze d'un attentato.

3 - Ritorno a Pasolini
Vi è però un momento in cui l'io narrante racconta l'episodio da cui procede Gomorra, segnando un nitido post quem oltre il quale il lettore viene invitato a collocare la stesura del libro e l'impegno dello scrittore a misurarsi con la realtà attraverso la parola. Ed è qui – in questo snodo nevralgico – che incontriamo il nome di Pasolini. Ricordandolo e quasi sovrapponendosi a lui, Saviano occupa il centro della scena senza per questo fare di sé un protagonista delle vicende narrate. Il ritorno a Pasolini, alle sue parole e al suo esempio, non s'inquadra infatti in una successione di fatti biografici. E cioè, non descrive la storia personale dell'io narrante, ma l'impulso da cui nasce del libro.
Parlando di Casarsa e Pasolini, Saviano racconta la scelta di vivere la letteratura facendone uno strumento d'azione civile. L'episodio cade, verso la metà del libro, nel capitolo Cemento armato, che affronta la speculazione edilizia, il monopolio dei Casalesi, le morti sul lavoro. Saviano ricorda, qui, la fine di Francesco Iacomino: quando questi cade dall'impalcatura tutti si allontanano; chi resta non lo soccorre, ma lo trascina a morire lontano per evitare che l'inchiesta risalga al cantiere. Questa penetrazione del male nelle tenere fibre dei rapporti quotidiani, scuote l'io narrante, che parla di sé al lettore:

la morte di Iacomino mi innestò una rabbia di quelle che assomigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa. Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un'esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra [2].

A questo punto interviene il ricordo di Pasolini:

appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchio l'Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva fino all'assillo [3].

Lo scritto a cui si fa riferimento è il famoso articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974 («Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe...») [4].
Erano gli anni di piombo in cui le cosiddette "stragi di stato" trascinavano la storia del paese in spirali di sanguinosa violenza. Pasolini reagì alle mancate individuazioni dei responsabili, che impedivano alla memoria collettiva di elaborare il lutto, concependo lo straordinario gesto d'una testimonianza senza dati, senza nomi, senza contenuti specifici; d'una testimonianza, insomma, che introduceva nel dibattito pubblico la sua figura del testimone. La posta in gioco era altissima. Il fatto che i responsabili d'una fase oscura della storia civile potessero venire riconosciuti, pensati e testimoniati, non bastava certamente a fare giustizia, ma forniva comunque l'esempio d'un atteggiamento di consapevolezza e attesa, che non rinunciava né al diritto a conoscere né alla speranza nella giustizia.
Pasolini indicava ad una opinione pubblica frastornata e divisa che manifestare il senso degli eventi è un atto necessario e storicamente efficace.

4 - L' "io" testimoniale da Pasolini a Saviano
A Casarsa, Saviano, con ancora in testa il martellante Io so pasoliniano, dispone le potenzialità della propria scrittura in un'analoga prospettiva d'intervento:

Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. […] mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulle possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se […] era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura [5].

Pasolini, quindi, come antidoto allo svuotamento postmoderno della parola (della quale gli autori hanno imparato a vergognarsi), come ricerca d'una scrittura che trasmetta la sostanza del reale, come esempio d'un ripristinato equilibrio fra la forza conoscitiva della mente e quella della violenza. La visita a Casarsa si risolve con un passaggio di testimone:

Mi sembrò d'essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai ad articolare il mio io so, l'io so del mio tempo [6].

È la genesi mitica di Gomorra. L'io so di Saviano, che integra la testimonianza pasoliniana con l'essenziale elemento delle «prove». Mentre Pasolini, non avendo prove, dice di sapere nomi che non pronuncia, Saviano «h[a] le prove» e fa i nomi. L'io so del primo si diffonde per contagio e trova rifugio nelle coscienze individuali. Quello del secondo s'intreccia a procedimenti giudiziari che sviluppano le vicende narrate al di là del libro:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove [7].

Il «rito civile» di Casarsa traduce in termini mitopoietici un evento reale. Nel 2005, «Nuovi argomenti», la rivista che fu di Pasolini, aveva deciso di ricordare il trentennale della morte dello scrittore, pubblicando una sezione di giovani autori chiamata Io so. Rispondendo alla richiesta, Roberto Saviano, Helena Janeczeck, Alessandro Leogrande, Marco di Porto, Osvaldo Capraro e Babsi Jones affrontano sette diversi problemi con piglio «corsaro»: la criminalità organizzata e l'uso dei minori, i nuovi avventurieri dell'economia italiana, il multiculturalismo ai tempi del terrorismo, l'antisemitismo di sinistra, la pedofilia nella Chiesa, lo stragismo vent'anni dopo, la percezione della guerra nei Balcani.
Solo Saviano include il titolo del dossier in quello del proprio contributo (Io so e ho le prove), che riprende lo schema del testo pasoliniano. Scrive Saviano nel 2005: 

Io so e ho le prove.
Io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria.
Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente.
Io so e ho le prove [8].

Questo inizio, come s'è visto, verrà poi incluso all'interno del capitolo Cemento armato dove vengono trattati gli stessi contenuti del testo scritto per «Nuovi Argomenti». Anche qui come in Gomorra si parla infatti di speculazione edilizia, del monopolio dei casalesi, del lavoro nero e delle sue stragi. Immediatamente, seguono i nomi: Io so ed ho le prove. E le prove hanno un nome. Sono Ciro Leonardo morto a 17 anni mentre stava riparando un solaio cascando dal settimo piano. Le prove si chiamano Francesco Iacomino, aveva 33 anni quando l'hanno trovato con la tuta da lavoro sul selciato all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D'Annunzio ad Ercolano [9].

L'ordito narrativo di Gomorra e la concatenazione di fatti reali che si conclude con l'articolo Io so e ho le prove dispongono in senso contrario gli stessi elementi. Il primo fa discendere dallo sdegno per le morti sul lavoro il viaggio a Casarsa e il ritorno a Pasolini. La seconda, invece, parte dal trentennale della morte di Pasolini per risolversi in uno scritto che affronta anche le morti sul lavoro. Alla luce del confronto testuale con l'articolo, il «rito civile» di Casarsa sembrerebbe ispirarsi a un incontro di voci e intenzioni effettivamente avvenuto, non di fronte alla tomba dello scrittore, bensì, con tutt'altre modalità, sulle pagine di «Nuovi Argomenti». Ascendenza che renderebbe l'episodio al contempo falso e più vero d'un fatto reale. Proiettato in un luogo emblematico della narrazione di Gomorra, l'Io so di Saviano sembra infatti esprimere, all'interno di queste concatenazioni intrecciate, il rapporto dell'autore con la scrittura di Pasolini. Le cose, però, sono più complesse di così.

5 - Ossa sotto la carne
Nel 2006, fresco vincitore della 77esima edizione del Premio Viareggio Repaci con il libro-rivelazione Gomorra, Roberto Saviano viene intervistato per «Il mattino» da Maria Vittoria Messori, che, mostrando di essersi preparata all'incontro, gli chiede del viaggio a Casarsa. Saviano conferma:

Quando sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini, ero particolarmente arrabbiato. I pugni serrati non si volevano aprire nemmeno per scrivere. Sono andato lì in una sorta di empatia, per capire se era ancora possibile credere in una parola capace di aggredire la realtà. Ci ho riflettuto a lungo e mi sono convinto che la parola letteraria proprio perché svincolata da obiettivi, da sentenze di tribunale, può mostrare le budella del potere, può raggiungere un nucleo di significato molto semplice, che è poi quello dei tragici greci: verità e potere non coincidono mai [10].

L'intervistatrice, a questo punto, riconduce l'autore all'esito dell'episodio romanzesco: «È da lì, dalla tomba di Pasolini che hai iniziato ad articolare "Io so"». Risponde Saviano:

L' "Io so" del mio tempo: so e ho le prove. In questo libro non mi interessava mostrare un mondo altro di violenti e di crudeli diviso dal nostro, non mi interessava dare una lezione di morale. Ho voluto sussurrare all'orecchio del lettore "questo ti riguarda" [11].

Chiedersi se il «rito civile» di Casarsa venga dal dossier di «Nuovi Argomenti» o dal vissuto dell'autore, oppure se l'episodio reale stia a monte dell'articolo o del romanzo, non porta a conoscenze sostanziali. Quando i letterati e i teatranti prendono posizione nei riguardi del reale si trovano, infatti, nella condizione di dover coniugare l'autenticità dei dati con narrazioni la cui verità non dipende dalle corrispondenze con quanto è effettivamente accaduto, ma dal loro trasparire sul senso dei fatti reali. E cioè dalla loro capacità di mostrare, come suggerisce Celestini con efficace immagine, le ossa sotto la carne [12].

6 - Il "dramma sociale" dei nostri anni
All'epoca di Pasolini, Sciascia, e dopo Pasolini, i narratori teatrali degli anni Novanta e, poi, gli scrittori che mescolano romanzo e inchiesta, fiction e non-fiction [13], come Lucarelli, Saviano, Genna, De Cataldo o Carlotto, hanno diversamente reagito al perdurare d'una Storia dove niente sembra risolversi e concludersi eppure tutto muta sotto la spinta di forze ostili all'organizzazione etica del reale. Le loro opere, pur non essendo «aperte», trattano infatti fratture non ricomposte, verità non appurate, contrapposizioni non appianate, traumi non risolti. In altri termini, i narratori compensano con comunicazioni di realtà e gesti di testimonianza l'accadere di «drammi sociali» incompiuti, spesso privi di protagonisti esplicitati e non suggellati da una conclusione.
La forma tipica del «dramma sociale», secondo la classica descrizione dell'antropologo Richard Turner, riproduce nella realtà le fasi della narrazione, presentando infrazioni delle regole, situazioni di crisi crescente, meccanismi di compensazione e reintegrazioni dei gruppi sociali turbati oppure esodi che sanciscono l'irrimediabilità della frattura [14]. Diversamente, il «dramma sociale» odierno si arena nell'infinito interagire fra la seconda e la terza fase, improntando dinamiche mnemoniche che non sedimentano all'interno della collettività cicli conclusi – modalità esemplificata dal crollo del muro di Berlino: "fine" del «secolo breve» – ma riflettono, in modo fazioso e partecipe oppure critico e dialettico, il riacutizzarsi di conflittualità permanenti che trasmettono continui impulsi a schierarsi, a scegliere contesti di appartenenza e fattori di riconoscimento.
La realtà, dunque, non produce oggi «drammi sociali» che strutturino la memoria della collettività. Piuttosto, manifesta con vicende sospese alle fasi del conflitto e della compensazione le faglie tettoniche su cui poggia (sconnessioni fra legalità e illegalità, ideologie laiciste e religiose, manifesto e occulto). Le differenti postazioni storiche dalle quali le hanno osservate, dapprima Pasolini, e poi, a partire dagli anni Novanta, gli esponenti della nuova narrativa italiana, fanno meglio comprendere l'attuale profilo di maestro e anticipatore dello scrittore/cineasta. Mentre Pasolini immagina il futuro a partire dalla sparizione delle culture popolari e dalla crisi di rappresentatività del sistema politico, i nuovi narratori si confrontano con una fase successiva e tipicamente italiana, che, nata dal dissolvimento dei vecchi partiti, si risolve anch'essa, a somiglianza della prima, in contraddittorietà permanenti e refrattarie alla sintesi.
Pasolini, indagando fra gli anni Cinquanta e Settanta i prodromi della fine, ha dunque individuato mentalità e strategie di potere, che, nel tempo, si sono ulteriormente affermate fino a costituire il mondo reale dei nuovi narratori e nostro. Le condizioni che hanno accompagnato la fine d'una fase storica coincidono con le potenzialità espansive di quella successiva.

7 - L'esempio di "Ultimo volo"
In Italia, «paese delle mezze verità», si sente che qualcosa sta per finire mentre «non finisce mai niente» [15]. Sicché appare emblematico che il compositore Pippo Pollina concluda con un movimento in levare il trascinante bolero al termine del suo Ultimo volo. Orazione civile per Ustica. Le parole del testo (scritto dallo stesso Pollina), quanto più invocano la ricomposizione d'un atto di giustizia, tanto più dichiarano l'insolvenza narrativa dei fatti. La risoluzione della vicenda viene infatti delegata all'inevitabile morte.
Anche il narratore de Le mille e una notte conclude le storie riferendosi, con formula ricorrente, «a quella che distrugge l'edificio dei piaceri e disperde le riunioni». Per lui, però, evocarla significa toccare il limite d'ogni possibile continuazione d'una storia già conclusa con nozze, premi o punizioni. Per Pollina, invece, la morte dei responsabili non si situa al di là della storia, ma, in assenza di colpevoli riconosciuti e puniti, costituisce la sua sola possibilità di finire: 

E mi sembra di vederle le iene nella stanza dei bottoni
con uniformi di cartapesta a decidere i vivi e i buoni
stravaccati in poltrone di pelle, che non si rischia niente
son l'arroganza del potere e l'indifferenza di certa gente.

Eppure la storia va avanti non conosce padroni,
anche a quelli che muovono i fili un giorno tremeranno le mani,
perché esiste un passaggio comune, un comune destino
che fa più vita la vita e non fa sconti per nessuno [16]

Il paradosso dell'età contemporanea è che, in essa, niente sembra esaurirsi e terminare al punto di poter risorgere (o «espatriare» come diceva Luckács) nelle forme tradizionali del romanzo, dove

il lettore cerca appunto uomini in cui leggere il "senso della vita". E deve quindi, in un modo o nell'altro, essere certo in anticipo di assistere alla loro morte. Almeno in senso traslato: alla fine del romanzo. Ma meglio ancora se alla morte vera [17].

Le drammaturgie narrative hanno dunque appreso a dialogare con le dinamiche aperte della Storia e il continuo perdurare dei «drammi sociali», eleggendo la realtà quale contesto del proprio rapporto con il reale.

8 - La narrazione e il reale
La rinascita del racconto, la rivalutazione della parola, la responsabilità del relatore nei riguardi delle cose significate e la conservazione del reale nell'opera composta [18], contrastano le derive d'una civiltà che ha smesso di raccontarsi, che ha cancellato gli spazi del confronto collettivo, che vede il prevalere delle immagini sui segni verbali, che coltiva comportamenti alienati e induce linguaggi autoreferenziali. Per questo, tanto in Pasolini che nei narratori scenici e in Saviano, le dinamiche narrative coesistono con la loro messa in crisi, che viene evidenziata oppure trattenuta a seconda che prevalga l'assunzione delle dinamiche stesse del reale (irrisolte, frattali, sospese) oppure la loro compensazione rituale, per cui, come nel Vajont di Marco Paolini, la costruzione del racconto e i suoi effetti sullo spettatore risarciscono emozionalmente la mancata soluzione dei conflitti. È lo stesso sentire che presiede alla «trilogia della vita» di Pasolini (Decameron; I racconti di Canterbury; Il fiore delle Mille e una notte). Mai i racconti scaturiti dalla dialettica fra il reale e l'identità del narratore sono così immediati e popolari, come quando celebrano – fra ricordo, festa ed elaborazione del lutto – l'assenza del mondo narrato. Dice Pasolini discutendo con Sergio Arecco:

nel "Decameron" che sto finendo il narrare è ontologico: si narra per il gusto di narrare o si rappresenta per il gusto di rappresentare. Cosa si narra o si rappresenta? Qualcosa che non c'è più: uomini, sentimenti, cose. Non c'è, dico, storicamente; esistenzialmente sopravvive (il popolo di Napoli) [19].

Il riferimento a uomini, sentimenti e cose che non ci sono più, in parte, richiama la condizione fondamentale del racconto, che «si autoproduce […] sulla soglia di quella fine che attira e genera la narrazione stessa» [20], in parte, segnala un'emergenza operativa senza precedenti nell'opera dell'autore. Pasolini, narratore di antropologie contrapposte come lo sono quella popolare e quella borghese, aveva infatti prevalentemente trattato tipologie umane presenti e vive. Negli anni Settanta, però, a seguito della massificazione culturale del decennio precedente, deve fare i conti con l'omologazione degli strati sociali, con gli effetti della televisione, con la sparizione delle diversità e la crisi dei linguaggi.
Per lui, trarre dal passato non tanto miti da innestare dialetticamente alla comprensione del presente (come aveva fatto con Edipo o Medea), ma gli immediati precursori di quello stesso popolo che vedeva ormai limitarsi alla pura e semplice 'sopravvivenza' significava, sì, aderire all'ontologia del narrare, ma compiendo un atto ideologico implicito e tutt'altro che scontato. Nel suo programma d'intervento, la morte storica delle vite narrate, e cioè la loro appartenenza al passato, evidenziava infatti la frattura fra i «valori» alla base della nostra civiltà e la società uscita dalla «rivoluzione» tecnologica degli anni Sessanta. In sintesi, Pasolini attribuiva alla risoluzione filmica del passato il compito di «contestare» al presente:

Non ho scelto i personaggi del Decameron per caso ma per offrire esempi di realtà. Un personaggio del Decameronè esattamente il contrario di un personaggio che si vede nei programmi televisivi o nei cd. [cosiddetti] film consolatori. […] Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l'unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente. E allora amo questa ricostruzione del passato, di psicologie che, al presente, non sono più reali, perché i personaggi del Decameron esistono ancora, ma sono rari, sopravvissuti [21].

Vi sono narrazioni che rigenerano vicende accadute modellandosi sulle forme tipiche del «dramma sociale» i cui paradigmi esistenziali, dice Turner, infiltrano «gli atteggiamenti vitali irriducibili degli individui» [22]. Accanto a questa tipologia, vi sono però narrazioni che guardano in faccia la realtà e trattano accadimenti in atto e conflittualità irrisolte, coniugando la vitalità dei personaggi a un disegno ideologico che, come vediamo in Uccellacci e uccellini, muta l'opera, da oggetto di fruizioni solamente o principalmente edonistiche, in organismo dialettico.

9 - La realtà e il nuovo teatro di narrazione
Si tratta d'una distinzione fertile di indicazioni. Applicata al 'teatro di narrazione' distingue gli spettacoli fondati su eventi trascorsi – come Kohlhaas (1990) di Marco Baliani, Il racconto del Vajont (1994) di Paolini e Radio Clandestina (2001) di Ascanio Celestini – da una zona più sperimentale e, nel complesso, recente che dissolve l'involucro narrativo preferendo interagire dal vivo con l'immaginario e le coordinate di realtà dello spettatore.
Con Corpo di stato (1998) Marco Baliani rinuncia al progetto di narrare il rapimento Moro in base agli atti processuali, e spiega sul filo dell'autobiografia le reazioni dell'estrema sinistra a quegli avvenimenti. Così, lo spettacolo, testimonia attraverso il narratore una cultura e una forma mentis oggi censurate e che, pure, continuano a indirizzare scelte ideali e orientamenti etici.
Miserabili. Io e Margareth Thatcher (2006) di Marco Paolini affronta nei modi di un work in progress ragionato ad alta voce le metamorfosi della società italiana a partire dagli anni Ottanta. Fra un intervento musicale e l'altro, vengono toccati macro-eventi (la liberalizzazione economica della Thatcher, quella reaganiana, il ritorno di Komeini in Iran) e micro-personaggi. Pasoliniana, la definizione che Paolini dà di questo lavoro: «Miserabili è anche uno spettacolo di pensiero».
Appunti per un film sulla lotta di classe (2006) nasce da interviste fatte da Ascanio Celestini ai lavoratori precari di un call center alla periferia di Roma, ma è anche ciò che dice il titolo: un insieme di appunti per una storia sulla lotta di classe oggi. Non c'è lieto fine, anzi, non c'è proprio una fine. Le lotte sindacali possono poco o nulla, e le richieste di miglioramenti vengono svuotate dal timore di perdere il posto di lavoro. Anche qui, come in Miserabili, gli interventi musicali strutturano la distribuzione dei segmenti narrativi, che può cambiare di sera in sera. A cantare, con voce penetrante e modulata dagli intenti, è lo stesso Celestini. Il primo pezzo tocca una problematica centrale della Storia e, transitivamente, della narrazione. I «disgraziati», quelli che hanno perso il lavoro, la casa oppure la ragione, si riuniscono e incominciano «ad aggirarsi/ come si aggirò quel famoso/ spettro per l'Europa». Il riferimento al celebre incipit del Manifesto di Carl Marx («Uno spettro si aggira per l'Europa») evidenza la differenza fra le masse proletarie dell'Ottocento e del Novecento e la folla dei «disgraziati», che, a differenza delle prime, sa di non avere obiettivi predestinati e di non rivestire alcun ruolo simbolico. Tant'è che proprio l'atto della rivoluzione, che struttura le rivolte in forma di «dramma sociale», affiora al suo interno come proposta insensata e raptus bizzoso, acida parodia del divenire della Storia attraverso una dialettica di tesi e antitesi incarnate da contrapposte classi sociali.
Ancora più radicale la scelta fatta da Pietro Floridia e Gianluigi Gherzi con La strada di Pacha (2009) dove non c'è nemmeno una narrazione, ma un repertorio di storie assimilate dal relatore scenico – Gianluigi Gherzi – a seguito di ore di colloqui con Pacha, straordinaria operatrice culturale di Managua. Queste costituiscono un orizzonte dell'immaginario, che Gherzi ripercorre e connette con improvvisati passaggi per rispondere alle domande e alle impressioni del pubblico. Sicché lo spettatore è destinatario, non già d'una narrazione su Pacha (e di cui Pacha sarebbe un contenuto), ma della memoria che il relatore ha della Pacha vera, che parla, si racconta, agisce e non è mai personaggio, ma vita riferita, e cioè realtà conservata all'interno dello spettacolo, che, rispettandone l'identità irrimediabilmente esterna alla scena, evita di narrarla o rappresentarla in forma drammatica.
Quando il reale si rivela liquido, soggetto a continue conflittualità e trasformazioni, la nozione di "realismo" cessa di implicare processi imitativi e naturalistiche tranches de vie, per indicare piuttosto una volontà d'intervento sul reale. Quello che viene ora praticato non è, quindi, un realismo di stile bensì di sostanza, che irretisce il presente in svolgimenti discorsivi che, da un lato, ne snidano gli archetipi, le forze e le presenze umane, e, dall'altro, gli contrappongono criteri informati dall'umanità del relatore.

10 - Pasolini testimone del proprio tempo
Pasolini, nella storia del rapporto fra il mondo reale e gli artefici di realtà altre, costituisce un modello importante poiché aggancia alle trasformazioni della realtà la funzione testimoniale dell'autore, che, attraverso le opere e gli interventi pubblici, rilancia nel sociale il contraddittorio conflitto fra la propria identità e l'esistente:

Io (nel mio corpo mortale) vivo i problemi della storia ambiguamente. La storia è la storia della lotta di classe: ma mentre io vivo la lotta contro la borghesia (contro me stesso) nel tempo stesso sono consumato dalla borghesia, ed è la borghesia che mi offre i modi e i mezzi della produzione. Questa contraddizione è insanabile: non ammette di essere vissuta altrimenti che come è vissuta. Cioè ambiguamente: e questo produce un elemento di mistero (che si vorrebbe e non si vorrebbe spiegare) [23].

In questa prospettiva, la realtà non ricorre all'interno delle opere solo perché imitata, conservata e trasmessa, ma perché somatizzata da chi ne parla o scrive, e resa, quindi, persona. Il che equipara l'atto di scrivere a quello di narrare dal vivo. Entrambi, infatti, procedono dal corpo dell'autore/emittente risolvendosi, all'altro capo del processo, in percezioni di presenze traboccanti senso.
I riferimenti di Saviano alle crisi di asma, alla rabbia, alle unghie conficcate nella carne non sono pennellate descrittive, ma riguardano la condizione primaria della sua scrittura, che rilancia l'introiezione dei mali umani e sociali con atti comunicativi e di testimonianza. Sullo sfondo di questa affinità elettiva con Pasolini: il viaggio a Casarsa, la ricerca della tomba, il ripetere io so, il passaggio del testimone. Ciò che Saviano raccoglie da Pasolini non è una tecnica artistica, ma la possibilità di riscattarsi dall'inferno che ha scelto di conoscere, facendolo conoscere.
La capacità di comunicare le trasformazioni dell'uomo e della Storia attraverso l'esperienza che se ne è acquisita, e quella di coniugare lo svolgimento discorsivo al corpo del relatore suscitandovi contenuti altrimenti indicibili, trattengono Pier Paolo Pasolini fra i contemporanei, facendone un maestro postumo dei rapporti fra il mondo e l'io.
Stefano Agosti, in un importante approfondimento critico, osserva come il Pasolini poeta rifiuti di dare per inconoscibile il mondo al di là del linguaggio, ma lo cali nel dire, tendendo il discorso fino a fargli superare, in un tragico ritorno alla creaturalità delle cose, i limiti del commento, dell'esercizio logico, dell'astrazione verbale:

se la poesia novecentesca appare tesa allo sforzo di trasformare il "discorso" in "linguaggio", puntando al raggiungimento di una posizione pre-discorsiva, […] nel caso di Pasolini siamo invece di fronte a un'intenzione e un'operazione esattamente inverse. […] Pasolini dà il via a un esperimento che porta tutta la situazione espressiva oltre il discorso, dopo il discorso […]; nel [suo] caso, […] l'operatore, mantenendo intatta l'istanza del discorso ma sovradeterminandola criticamente, sembra accennare alla possibilità di una sua dimensione postuma […] [24].

Per comprendere la funzionalità retorica e il potere attrattivo del discorso pasoliniano, conviene considerare che la sua dialettica fra segno e referente non sviluppa forme esclusivamente letterarie, ma anche orali e visive. Il discorrere di Pasolini sull'introiezione del mondo nel vivere del relatore si è storicamente svolto in versi, in forma di racconto, in dialoghi con i lettori, in trattazioni teoriche e manifesti, in articoli, in drammi, in sceneggiature, in film.
In ogni articolazione della sua opera, Pasolini esercita la possibilità di conoscere e di conoscersi, che però affronta, di volta in volta, con obiettivi e strumentazioni corrispondenti al medium utilizzato.

11 - La presenza dell'autore nel teatro di narrazione
La poesia e il «teatro di Parola» restituiscono la presenza dell'autore, che, declinando verbalmente le tensioni fra il corpo e l'esistere, espone allo sguardo mentale del lettore un flusso monologante, che, da un lato, prevede dizioni straniate che lo concilino all'ipotesi di emittenti altre (i personaggi e gli attori), mentre, dall'altro, apre impressionanti finestre sulla corporeità pulsante di vita psichica da cui procede.
Il romanzo e il cinema mutuano invece dall'originaria passione per la pittura (Pasolini, non avesse smarrita la tesi, si sarebbe laureato con Roberto Longhi) il fondamentale principio della rappresentatività dell'arte, per cui l'identità dell'autore, pur affiorando continuamente, media le realtà riflesse dal suo sguardo: soggettivo nella misura in cui declina e ricompone l'oggettività delle cose. Il cinema, per Pasolini, è l'arte di «esprimere la realtà con la realtà» [25]. Concezione che anticipa il più tardo innesto di attori sociali o attori non ancora attori alle dinamiche dell'innovazione teatrale, avvicinando i film di Pasolini con attori sottoproletari [26] ai teatri di Armando Punzo, Pippo Delbono e Marco Martinelli.
Gli scritti teorici, liberamente sistematici, indagano i criteri e le strumentazioni logico/formali che conservano le qualità del reale nelle sue trasposizioni in opera, consentendo all'autore di comporre – sulla pagina – una realtà di segni, e – sullo schermo – una realtà di realtà che, pur formalizzate, restano continuamente leggibili e presenti come stratificazioni geologiche in un terreno esploso.
Il discorso pasoliniano prosegue anche in assenza di scrittura e voce, perché sorretto dalla coscienza che i segni sono molteplici e tutto è segno: 

In realtà non c'è "significato": perché anche il significato è un segno. […] Sì, questa quercia che ho davanti a me, non è il significato del segno scritto-parlato "quercia": no, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi, è essa stessa un segno: non certo scritto-parlato ma iconico-vivente o come altro si voglia definirlo.
Sicché in sostanza i "segni" delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i "segni" delle lingue non verbali […]. La sede dove questa traduzione si svolge è l'interiorità.
Attraverso la traduzione del segno scritto-parlato, il segno non verbale, ossia l'Oggetto della Realtà, si ripresenta, evocato nella sua fisica, nell'immaginazione.
Il non verbale dunque, altro non è che un'altra verbalità: quella del Linguaggio della Realtà.
Che io usi la scrittura o che io usi il cinema altro non faccio che evocare nella sua fisicità, traducendola, la Lingua della Realtà [27].

Pasolini, dunque, 'parla' il reale traducendone la lingua. Sistema che consegna all'attenzione dei teatranti svolgimenti disposti a tradursi in insegnamenti intorno alle esigenze essenziali del teatrale, che, come fa l'opera pasoliniana nel complesso, coniuga presenza, realtà e linguaggio.
Per questo, in prospettiva, è consigliabile ricostruire l'influenza di Pasolini sui teatranti, non solo analizzando le rappresentazioni delle opere drammatiche come ha splendidamente fatto Stefano Casi [28], ma anche seguendo le traiettorie delle differenti articolazioni della sua opera: i pensieri, le narrazioni filmiche e il Manifesto per un nuovo teatro che Baliani suole citare riconoscendo nel brano che qui segue «una bella anticipazione del teatro di narrazione» [29]:

Venite ad assistere alle rappresentazioni del «teatro di parola» con l'idea più di ascoltare che di vedere (restrizione necessaria per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro) [30]

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Note
[1] Wu Ming 1, recensione di Gomorra apparsa in «Nandropausa», n. 10, 21 giugno 2006, anche in Wu Ming, New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009, pp. 29-30. Col titolo Wu Ming 1 su Gomorra nel sito http://robertosaviano.it/documenti/8889/125/0
[2] Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2008, 1a ed. 2006, p. 232.
[3] Ibidem.
[4] Pier Paolo Pasolini, Che cos'è questo golpe, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, col titolo Il romanzo delle stragi in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, 1999, p. 362.
[5] Ivi, p. 233.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 234.
[8] Roberto Saviano, Io so e ho le prove, «Nuovi Argomenti», novembre-dicembre 2005, anche nel sito http://www.pasolini.net/saggistica_trulli_inedito.htm 
[9] Ivi.
[10] Maria Vittoria Messori, Saviano: «io, nel segno di Pasolini», «Il mattino», 2 luglio 2006, anche nel sito http://www.pasolini.net/narrativa_robertosaviano.htm 
[11] Ivi.
[12] «Non fotografo l'avvenimento, ma cerco di attraversarlo per cercare quello che gli strumenti che possiedo mi permettono di trovare. È un procedimento più simile alla radiografia che alla fotografia». (Ascanio Celestini, L'estinzione del ginocchio. Storie di tre operai e di un attore che li va a registrare, in Gerardo Guccini, a cura di, La bottega dei narratori. Storie, laboratori, metodi di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis, Roma, Dino Audino, 2005, p. 186).
[13] Per Wu Ming 1 la «sintesti di fiction e non-fiction» descrive «un modo di procedere […] "distintamente italiano", e che genera "oggetti narrativi non identificati"». (New Italian Epic cit., p. 109).
[14] Cfr. Richard Turner, Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1999, p. 131 (ed. orig. From ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publications, 1982).
[15] È il lamento dell'arciprete Antonio Lepanto nell'ultimo capitolo del Candido (1977) di Leonardo Sciascia.
[16] Pippo Pollina, Ultimo volo. Orazione civile per Ustica, in Cristina Valenti (a cura di), Ustica e le arti. Percorsi tra impegno, creatività e memoria, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2007, p. 125.
[17] Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 265 (titolo orig. Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955).
[18] Pasolini, anche perciò maestro, diceva: «la caratteristica principale dei film che io faccio è quella di far passare dinanzi allo schermo qualcosa di "reale"» (Ideologia e poetica, «Filmcritica», n. 232, marzo 1973, ora in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, II, Milano, Mondadori, 2001, p. 2994).
[19] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà (a cura di Sergio Arecco, «Filmcritica», n. 214, marzo 1971), in Valerio Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, «Quaderni di filmcritica», Roma, Bulzoni, 1977, p. 100.
[20] Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997.
[21] Pier Paolo Pasolini, Ideologia e poetica cit., p. 2995.
[22] Cfr. Richard Turner, op. cit., p. 135.
[23] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 91.
[24] Stefano Agosti, La parola fuori di sé, in Cinque analisi, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 154.
[25] Pier Paolo Pasolini, Razionalità e metafora (a cura di Paolo Castaldini, «Filmcritica», n. 174, gennaio-febbraio 1967), ora in Id., Tutte le opere. Per il cinema cit., II, p. 2914.
[26] «Mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura (mentre quella del borghese è volgare), perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita) […]». (Pier Paolo Pasolini, Questo è il mio testamento, «Gente», 17 novembre 1975, ora col titolo Quasi un testamento in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società cit., p. 868) Alla creaturalità degli attori sottoproletari di Pasolini, scelti per essere se stessi, corrispondono alcuni significativi sviluppi del teatro degli anni Novanta, «torna[to] a confrontarsi col mondo, non più riflettendolo, come avveniva nel sistema mimetico, ma assumendone direttamente le realtà». (Gerardo Guccini, Presentazione di Verso un teatro degli esseri. Documenti e voci dall'incontro di Lerici– 2 luglio 2000, «Prove di Drammaturgia», n. 1/2001, p. 24)
[27] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 97, una limitata sezione dell'articolo, contenente il brano qui riportato, è stata edita col titolo Il non verbale come altra verbalità in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, II, Milano, Mondadori, 1999, p. 1594.
[28] Cfr. Stefano Casi, I teatri di Pasolini. Introduzione di Luca Ronconi, Milano, Ubulibri, 2005, e in particolare il cap. Pasolini in scena, pp. 284-305, e, per un esaustivo repertorio di dati, la Teatrografia, pp. 207-218.
[29] Marco Baliani, Esperienza – tempo – verità: un seminario sulla narrazione (CIMES, Bologna, febbraio 2000), in Gerardo Guccini (a cura di), La bottega dei narratori cit., p. 63.
[30] Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro (1968), in Id., Teatro, Milano, Garzanti, 1992, p. 711, ora in Id., Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull'arte cit., II, p. 2484.
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Gennariello, scugnizzo di Pasolini -Archivio Storico del "Corriere della Sera"

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LA SAGGISTICA
Erri De Luca

Gennariello, scugnizzo di Pasolini
Archivio Storico Corriere della Sera, 16 ottobre 1994
Terza pagina. Napoli con la manifestazione
"Pier Paolo Pasolini: ... con le armi della poesia ..."
dedica un omaggio all'intellettuale friulano, che Erri De Luca
ricorda in questa intervista,
di Enzo d'Errico

Pier Paolo indirizzò a un ipotetico ragazzo partenopeo un trattatello poi raccolto
nelle "Lettere luterane" . "Con la città vesuviana aveva un legame fisico, a differenza di altri intellettuali ne conosceva il corpo. Basterebbe citare la galleria di volti nel "Decameron"
e la maschera di Totò in "Uccellacci e uccellini"

Roma, primi anni Settanta: un uomo solo dentro una piazza deserta. E intorno un ronzio di voci, un crepitio di slogan... Quell' uomo, con lo sguardo celato dietro un paio d'occhiali scuri, è Pier Paolo Pasolini: ha le spalle poggiate contro un muro e le braccia annodate sul petto. Se ne sta li, in silenzio, mentre il ronzio diventa tuono e il fiume di ragazzi comincia a tracimare nella piazza, fino a sommergerla. Ci sono immagini che il tempo non consuma. Erri De Luca, Pasolini lo rammenta così. "Lo incontrai quella volta e mai più. Era una manifestazione organizzata da Lotta Continua ed io stavo nelle prime file del corteo, quelle che servivano a scoraggiare le confidenze del nemico" racconta. "Nella piazza destinata al comizio finale non si scorgeva anima viva: c'era soltanto quell'uomo fermo in un angolo. All'epoca, non eravamo teneri col vicinato: avremmo scacciato con la forza chiunque altro, ma non Pasolini. Ci colpiva il suo coraggio fisico: venire a osservarci e a giudicarci lì dove nessun altro estraneo avrebbe mai messo piede... E poi chissà, forse già allora ci inseguiva, come un'ombra, il dubbio che avesse ragione su di noi". Sarà col filo di questo ricordo che, sabato 22 ottobre 1994, De Luca cucirà la sua lettura delle pagine dedicate dal poeta friulano, nei primi mesi del '75, a Napoli e a Gennariello, destinatario ipotetico di un "trattatello pedagogico" raccolto poi nelle "Lettere Luterane". L'incontro con lo scrittore partenopeo, autore di "In alto a sinistra" (Feltrinelli), è certamente uno degli appuntamenti più' interessanti proposti dal ricco calendario di "Pier Paolo Pasolini: ... con le armi della poesia...", la manifestazione che si svolgerà a Napoli da domani al 20 novembre. Sarà l'occasione per mettere a fuoco il rapporto che il regista di "Accattone", soprattutto nell'ultimo scorcio di vita, intrecciò con la città vesuviana. "Pasolini strinse con Napoli un legame fisico violento, quasi marchettaro. E non poteva essere altrimenti per uno che conosceva il prezzo dei corpi in ogni angolo del mondo. Per lui anche l'imbroglio era "scambio di sapere", al punto che perfino un tentativo di borseggio, subito durante una effusione, si trasformava in occasione per rinsaldare un affetto. Qui non sarebbe mai stato ucciso in una strada abbandonata: poteva accadere soltanto a Roma. Quel che non immaginava, però, è che anche questa città, dopo il terremoto, l'avrebbe tradito. La morte gli ha risparmiato almeno una delusione". E' in "Gennariello" che Pasolini descrive Napoli come "l'ultima metropoli plebea, l' ultimo grande villaggio". Si tratta dell' ennesimo stereotipo modellato sull'idea di una città immune dal contagio della storia? "Napoli sfugge ai predicati assoluti, alle definizioni che mirano ad ingabbiarla. Chi prova a colpire il centro, manca il bersaglio. E' capitato anche a Pasolini. Lui, però, aveva una botola segreta che, in genere, gli intellettuali non posseggono: conosceva il corpo. E questa, forse, rimane l' unica città dove la fisiognomica sopravvive all'erosione dei lineamenti. Qui le persone hanno ancora una faccia. Ecco, credo che Pasolini amasse soprattutto quest' aspetto di Napoli: basterebbe ricordare la lunga galleria di volti che scandisce il "Decameron", la maschera di Totò in "Uccellacci e Uccellini". Anche di "Gennariello", lo scrittore disegna in primo luogo i tratti del viso, la sagoma del corpo "stretto di fianchi e solido di gamba". Il ritratto, insomma, di uno scugnizzo da oleografia. "Certo, ma tutto il rapporto fra Pasolini e Gennariello sa di falso. Se ti metti dalla parte del quindicenne, non capisci una parola di quel che ti viene detto. Quel personaggio è un pretesto, al punto che perfino il suo nome e' sbagliato: il diminutivo di Gennaro, in dialetto, è Gennarino o Gennariniello. Lui invece se ne inventa un altro e modella il suo interlocutore plasmando la creta di un desiderio personale. Queste pagine segnano il culmine di una tensione che mira a correggere il mondo, ma rappresentano pure il fallimento di tale ambizione". Di luterano, allora, c' e' poco in queste lettere? "Direi quasi nulla. Non c'è la rifondazione di un nuovo cristianesimo e di una nuova lingua. E poi Lutero costruiva con i mattoni che aveva, mica se li inventava. Ci sono brani, però, che ancora oggi ti prendono alla gola. Come quello che parla dei "destinati a essere morti", vite salvate dal progresso della medicina. Pasolini constata che le nascite non sono più una benedizione in un mondo dominato dalla crescita demografica. Il suo è un atto di accusa contro una quota della gioventù che alla sua eccedenza numerica fa corrispondere un comportamento conformista. E' una invettiva totale, biologicamente fondata. E sarà poi uno di quei "destinati ad essere morti" che gliela farà pagare. Anch'io ho fatto parte di questa quota eccedente e adesso che sono vecchio mi rigiro fra i denti quelle parole senza sapere se avesse torto o ragione". Riaffiora l'ombra del dubbio? "La verità è che si tratta di un autore troppo vario per le mie forze: merita più cuore e intelligenza di quanto io gli possa prestare. Mi è caro soprattutto come poeta, perché sentiva l' obbligo di governare in modo più sereno le sue risorse. C'è una poesia, "Gerarchia", che amo molto. Venne pubblicata nel ' 70 su "Nuovi Argomenti", in un numero dove comparivano anche i miei primi scritti. Un verso dice: "Accuso i vecchi di avere fatto la volontà della vita". Pasolini non voleva che Gennariello finisse come quei vecchi. Ma Gennariello non esisteva, non esiste. Ed è per questo che quell'accusa si vena della pietà carnale di una madre". Sono trascorsi vent'anni da quell'incontro in una piazza deserta: chi aveva ragione? "Non lo so. Noi abbiamo dimostrato di essere peggio di quel che sembrava a Pasolini. Ma eravamo pure l'unica possibilità e lui non voleva concedercelo. Oggi sento la sua mancanza, come tutti quelli che hanno imparato qualcosa prendendosela con lui o prendendosela da lui. Ma avverto soprattutto la sua presenza e l'onore che ci ha fatto ad essere nostro contemporaneo. Uno come lui non c'era prima e non c'è stato dopo. Avremmo dovuto fare qualcosa in più per meritarci la sua vita".
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Il film è ancora un’opera d’arte?, di Pasquale Rotunno

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LA SAGGISTICA
Orson Welles e PIuer Paolo Pasolini sul set della "Ricotta" (1963)

Il film è ancora un’opera d’arte?
di Pasquale Rotunno
www.rinascita.eu, 19 giugno 2013


“Ho tratto spesso un insegnamento importante da un film stupido”, dichiarò una volta Ludwig Wittgenstein. Dobbiamo allora restare indifferenti di fronte all’invadenza di film senza qualità? E magari anche violenti o sconci?
Il rapporto dei filosofi con le immagini è duplice. Da un lato, c’è una sfiducia profonda in qualcosa che appare allo sguardo come una lusinga. Dall’altro, c’è una fiducia illimitata in qualcosa, l’immagine appunto, che appare come una forma di liberazione dagli schemi del reale. In effetti, l’immagine può dar luogo a usi benefici e fecondi; oppure malefici e sterili. Il vero problema, evidenzia lo studioso francese Jean-Jacques Wunenburger, è quello di determinare, per ogni tipo d’immagine, “la linea di demarcazione tra verità e illusioni, libertà e alienazione”. Ogni rappresentazione per immagini può essere alienante. O, al contrario, può liberare creatività.
La denuncia della funzione corruttrice delle immagini, dei loro effetti nocivi, è un atteggiamento assai ricorrente. Già Platone denuncia l’illusione di verità insita nelle immagini: perché simulano una realtà fittizia. Le immagini fingono il vero. Anziché predisporre l’anima a ricercare essa stessa la verità. Inoltre, esse agitano le passioni e spengono la coscienza critica. Le immagini finiscono dunque per rafforzare false credenze e pregiudizi.
La proliferazione delle immagini nella società dei media falsa il nostro rapporto con la realtà stessa. Perché tutto il reale diventa immagine. Avverte Wunenburger: “La relazione con l’immagine si riduce sempre più a un’attività di consumo, che annichila la partecipazione soggettiva dello spettatore, al quale vengono a mancare tanto il tempo della critica quanto il tempo del sogno”. Lo sguardo bombardato dalle immagini rischia di diventare cieco. Un’etica delle immagini è dunque urgente. In particolare per le immagini in movimento che realizzano la “settima arte”, il cinema. Non si tratta di fare del moralismo. Né di porre estrinseci paletti all’espressione artistica. Le vie della censura sono tramontate. Non fosse altro perché sono cambiate le modalità di fruizione dei film. Il pubblico/spettatore non è una massa indistinta. È assai differenziata al suo interno; per età e per varietà di approcci al mondo. La sala cinematografica non è più il luogo privilegiato dell’esperienza di visione. È sparito il rito della fruizione cinematografica; che prevedeva accese discussioni con gli amici di scelte, valori, giudizi; un confronto serrato tra gusti e predisposizioni alla visione di generi specifici. La sala ha perso la sua aurea: quella soglia verso il mondo dei sogni si è dissolta. Il cinema è oggi fruito in altri luoghi, in rete soprattutto e in forme nuove. Talvolta frammentarie.
Da questa constatazione muove l’analisi del semiologo Dario Edoardo Viganò, docente alla Pontificia Università Lateranense e direttore del Centro Televisivo Vaticano, nel libro “Etica del cinema” (La Scuola editrice). L’autore, in maniera originale, focalizza l’attenzione sulla “relazione tra l’istanza narrante e lo spettatore, sulla possibilità di cooperazione nel testo e la previsione di uno spazio vuoto, lo spazio della libera responsabilità dello spettatore”. È quest’attenzione verso la coscienza del pubblico a distinguere il buon cinema da quello cattivo. La forma del film etico è quella interrogativa: “È la domanda a garantire la libertà dello spettatore di produrre autonomamente risposte, di costruire la propria responsabilità spettatoriale (umana) sulla base degli input che il testo offre alla sua coscienza”. Non c’è etica senza libertà, e non c’è libertà se ci sono solo risposte.
Il primo capitolo tratta la censura. Viganò evidenzia i limiti di un approccio puramente giuridico. È difficile definire il concetto di “buon costume”. Lo dimostrano due casi emblematici: “La ricotta” (1963) di Pier Paolo Pasolini e “Ultimo tango a Parigi” (1972)di Bernardo Bertolucci. Vilipendio e oscenità, sono le accuse rivolte ai due autori. Né le cose vanno diversamente in altri Paesi. Negli Stati Uniti il film di Roberto Rossellini “Il miracolo” fu vietato perché giudicato blasfemo dalla commissione statale di censura di New York. Nel 1952 la Corte suprema dichiarò che i film erano protetti dalla libertà di espressione sancita dal Primo emendamento. Successive sentenze chiarirono che i film potevano essere censurati solo se accusati di oscenità, definita tuttavia in modo vago e restrittivo. Nel sistema cinematografico hollywoodiano l’impegno per una regolamentazione e una revisione trova il maggior contributo non tanto nello Stato quanto nell’industria stessa. Il riferimento era il Codice Hays: un sistema di auto-censura cinematografica composto di una serie di principi etici e di specifiche indicazioni che regolano ciò che si può far vedere, dire e raccontare nel cinema americano. La televisione l’ha fatto proprio ed è diventato un modello per altri Paesi. La proliferazione dell’industria del porno dimostra quanto inefficace siano le vie della censura.
Il secondo capitolo delinea una possibile “etica del cinema”. Definita, utilizzando suggestioni di Hans-Georg Gadamer e Paul Ricoeur, come “la modalità attraverso la quale il dispositivo filmico costruisce un sapere attraverso il vedere”. Un film è un’opera d’arte quando, nel dirci qualcosa, ci mette “a confronto con noi stessi”. E ci fa scoprire qualcosa che è nascosto. Il cinema è uno sguardo profondamente rivelatore. In questo, etica ed estetica convergono. Perché lo sguardo non soltanto è forma propria del vedere dell’uomo. Bensì anche luogo di ascolto libero e responsabile, esercizio di relazioni: “laboratorio del giudizio morale”. Per realizzare, direbbe Ricoeur, “la prospettiva della vita buona, con e per l’altro, all’interno di istituzioni giuste”.
Con questa prospettiva, il terzo capitolo indaga esempi di cinema in grado di aprire domande su questioni vitali. Come quelle bioetiche: dalla giustificazione morale dell’aborto, alla fecondazione assistita; dalle biotecnologie all’eutanasia e al trapianto d’organi.
Il cinema ha saputo mettere in scena le grandi sfide della vita e della morte. Per lo storico Francesco Casetti, lo sguardo del cinema “ha avuto sia una valenza esplicativa sia una valenza regolativa; esso è riuscito a proporre e insieme un poco a imporre”. Lo spettatore fa esistere il testo nel momento stesso in cui inizia a interagire con esso nei modi più diversi. È in questa relazione multiforme che emerge la questione etica. Lo spettatore deve lasciar agire la propria libertà responsabile e consapevole in relazione al discorso che il film sviluppa. Deve articolare la propria azione interpretativa senza che il testo ne prefabbrichi una per lui.
Film sull’eutanasia, come “Mare dentro” (2004) di Alejandro Amenàbar, o sull’aborto, come “Il segreto di Vera Drake” (2004) di Mike Leigh, dissimulano il proprio punto di vista. Coinvolgono emotivamente lo spettatore “al punto da spingerli a una forzata adesione alle scelte dei protagonisti, alle visioni etico-antropologiche degli autori”. Altri film invece, come “Million dollar baby” di Clint Eastwood e “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” di Cristian Mungiu, suggeriscono ipotesi, contraddizioni, incertezze. Mai chiuse in un punto di vista univoco o predeterminato.
È con ricchezza di sfaccettature che il cinema dovrebbe guardare e mostrare le grandi questioni dell’esistenza. Racconti, proposte di relazione tra testo, contesto e spettatore, rimarca Viganò, “aprono al gioco della libertà responsabile dello sguardo, nella consapevolezza che una scelta, di adesione o meno, è sempre esercizio di crisi, di taglio, di presa di posizione”. Esercizio di libertà e per questo pedagogia del faticoso mestiere di essere uomo.
Il cinema è capace, insomma, di offrire anche sguardi diversi, rispettosi dinanzi a questioni problematiche. Dinanzi a tali opere, lo spettatore ha differenti suggestioni, da esplorare, da esaminare; ma esse non lo costringono a un’adesione forzata. “Non esiste questione – conclude Viganò – che non abbia diritto di essere raccontata e messa in scena purché ciò non avvenga attraverso l’insincerità, la superficialità o, peggio ancora, con finalità surrettizie che portano alla manipolazione ideologica”. Cioè all’inautenticità dell’arte.
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Rompere le barriere dei generi per capire Pasolini, di Paolo Lago

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Rompere le barriere dei generi per capire Pasolini
di Paolo Lago
“il manifesto”, 9 giugno 2013

UN RINGRAZIAMENTO A GIORGIO DI COSTANZO

La letteratura su Pier Paolo Pasolini, soprattutto in tempi recenti, si è notevolmente accresciuta: basta scorrere la «Bibliografia pasoliniana internazionale (1996-2006)», in calce alla rivista «Studi pasoliniani» (1, 2007) e curata da Roberto Chiesi, Loris Lepri e Luigi Virgolin, per farsene un'idea: tantissimi sono gli studi fioriti negli ultimi anni sia in ambito europeo che extraeuropeo (Stati Uniti, Brasile, Giappone, Cina e altre nazioni). Si tratta di studi e saggi perlopiù mirati a sondare particolari aspetti della poesia, della narrativa, del cinema e del teatro di Pasolini, oppure indirizzati a singole opere o a singoli 'settori'. Inoltre, è proseguita fino a oggi la fortunata linea critica che presta attenzione soprattutto alla vita, le biografie di Nico Naldini, Enzo Siciliano e Barth David Schwartz, e anche gli studi che tendono a mescolare, talvolta in modo improprio (per Giuseppe Zigaina Pasolini avrebbe predisposta e «messa in scena» la propria morte), esistenza e opere. 
Sono sempre più rari, d'altra parte, i contributi che offrono una visione a trecentosessanta gradi dell'intera opera (compresa la produzione saggistica), sondando in modo competente e rigoroso ogni singolo testo e rompendo la tradizionale barriera che separa l'italianista o lo studioso di letteratura dal critico cinematografico o teatrale. Uno di questi è sicuramente Pier Paolo Pasolini L'opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica (Carocci, pp. 591, € 55,00) di Guido Santato, docente di Letteratura italiana all'Università di Padova nonché fondatore e direttore di «Studi pasoliniani». Con questo saggio Santato si riallaccia a un suo precedente volume, Pier Paolo Pasolini. L'opera, uscito nel 1980, laddove la specificazione posta nel titolo «intendeva esprimere in modo esplicito la presa di distanza dal biografismo dominante e insieme l'intento di offrire un profilo completo e accuratamente incentrato sui testi dell'intera opera di Pasolini, analizzata iuxta propria principia». 
Se in quel primo lavoro egli intendeva reagire al biografismo che, a soli cinque anni dalla morte, ancora imperversava nei media e nella critica, adesso, con questo nuovo studio, Santato si propone di illuminare, da una prospettiva inevitabilmente ampliata e attraverso una pluralità di approcci critici, «i diversi momenti e i vari settori dell'opera di Pasolini in funzione di un nuovo inquadramento complessivo». Del resto, un sapiente uso di varie prospettive e diversi approcci critici è proprio ciò che è necessario per analizzare in toto un'opera poliedrica e connotata dalla contaminazione stilistica e dal pastiche come quella di Pasolini, autore  'biologicamente' portato a esprimersi nei campi artistici più disparati.
Il volume parte quindi dagli esordi bolognesi di Pasolini per abbracciare, successivamente, il periodo friulano sul quale l'autore si sofferma minuziosamente, dalle Poesie a Casarsa fino a L'Usignolo della Chiesa Cattolica. 
Delle poesie in friulano Santato offre un'accurata analisi, dalle possibili fonti fino a un minuzioso studio delle loro caratteristiche linguistiche e fonosimboliche; un'ampia sezione è dedicata anche alle raccolte di poesie 'italiane', da Le ceneri di Gramsci fino a Trasumanar e organizzar, che vengono, ancora una volta, sapientemente analizzate nello stile e nella lingua. 
Per quanto riguarda la narrativa, passano sotto la lente dello studioso i romanzi 'friulani' (Atti impuri, Amado mio, II sogno di una cosa)per giungere poi al periodo romano con Ragazzi di vita, Una vita violenta (nei quali vengono analizzate la disperazione e la violenza legate al mondo sottoproletario) e i racconti e le sceneggiature di Alì dagli occhi azzurri. 
Si trascorre poi al cinema, analizzato dallo studioso in un capitolo articolato in sei paragrafi: ancora un approccio critico multiforme che mira a scandagliare la produzione pasoliniana sotto diversi aspetti. Il capitolo parte da un'analisi delle sceneggiature e da un confronto fra le sceneggiature stesse e i rispettivi film per approdare - passando attraverso altre acute disamine, come  quella dedicata all'interrelazione fra cinema e pittura o alla presenza della poesia nel cinema (cioè le poesie lette o recitate nei film) e della musica nel cinema - a un quadro critico dei film, da Accattone a Salò o le 120 giornate di Sodoma. 
Dopo un altrettanto competente sguardo critico al teatro, la lente di Santato si focalizza sul postumo Petrolio, monumentale «Satyricon moderno», romanzo incompiuto e allo stato «magmatico» (l'ultimo capitolo si intitola, non a caso, «Nel magma di Petrolio»,dove viene utilizzata una parola molto cara a Pasolini). Di nuovo, l'occhio di Santato si muove con piglio sicuro all'interno del «magma», cercando di racchiudere i diversi «appunti» in un ordo filologico e interpretativo. 
La pluralità di approcci critici rigorosamente utilizzati permette, alla fine, di scoprire in tutta la sua interezza la poliedricità di un'opera come quella pasoliniana, l'opera di un autore, come ha osservato Tullio De Mauro, «multimediale nel mondo di oggi» (assai presente, nella contemporaneità, anche nel mondo di internet: si pensi, in ambito italiano, alle belle «Pagine Corsare» curate da Angela Molteni). Un autore («forza del passato» ma potentemente innamorato del presente) che, come conclude Guido Santato, «può essere quindi un buon compagno di strada nel nostro insicuro procedere tra presente e futuro del villaggio globale».
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Omaggio a Pier Paolo Pasolini - Cineteca e Centro Studi Pasolini di Bologna

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IL CINEMA
Lunedì 8 luglio 2013, ore 22
Piazza Maggiore (Bologna)

Omaggio a Pier Paolo Pasolini

Proiezione di
Edipo Re (1967)
interviene Judith Malina

Ingresso gratuito
  

Nell'ambito della rassegna cinematografica “Sotto le stelle del cinema”, la Fondazione Cineteca di Bologna e il Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna presentano lunedì 8 luglio 2013 un omaggio a Pier Paolo Pasolini con la proiezione del film che il poeta-regista realizzò nel 1967, Edipo Re, preceduto da un intervento di Judith Malina, regista e attrice teatrale, fondatrice con Julian Beck del Living Theatre, e da un'introduzione di Gian Luca Farinelli (direttore della Cineteca di Bologna) e Roberto Chiesi (responsabile del Centro Studi – Archivio Pasolini).

“Avevo due obiettivi nel fare il film: il primo, realizzare una sorta di autobiografia assolutamente metaforica, quindi mitizzata; il secondo, affrontare tanto il problema della psicoanalisi quanto quello del mito. Ma invece di proiettare il mito sulla psicoanalisi, ho riproiettato la psicoanalisi sul mito. Eppure mi sono tenuto molto libero, ho seguito tutte le mie aspirazioni e i miei impulsi. Non me ne sono negato nemmeno uno. Questa è stata l'operazione fondamentale di Edipo Re. Il risentimento del padre nei confronti del figlio è qualcosa che ho avvertito più distintamente della relazione tra madre e figlio, che non è un rapporto storico, ma puramente interiore, privato, fuori della storia, anzi metastorico, quindi ideologicamente improduttivo. Mentre ciò che determina la storia è il rapporto di amore e odio tra padre e figlio.
Io ho sentito l'amore per mia madre molto, molto più profondamente, e tutto il mio lavoro ne è stato influenzato”.
Pier Paolo Pasolini
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Morricone all'Arena di Verona, dai western a Pasolini

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Ennio Morricone
Morricone in Arena, dai western a Pasolini
di Daniela Bruna Adami
Il 22 agosto 2013 dirige l'Orchestra sinfonica della Rai e il Coro di Verona in un concerto
che ripercorre la sua carriera con le colonne sonore dei film e due inediti.
In prima assoluta «Meditazione orale» su testo del 1970 del regista scrittore.
Il compositore: «Sono un lavoratore della musica, scrivo per la gente»

22 agosto. Tiene aperta la porta di Palazzo Barbieri facendo entrare i giornalisti accorsi alla presentazione del suo concerto in Arena, come un cordiale padrone di casa con i suoi ospiti. Perché Ennio Morricone a Verona è come a casa, dove torna «sempre volentieri». Il 22 agosto viene a proporre per la sesta volta il suo repertorio nell'anfiteatro, con un programma ancora diverso tanto vasta è la sua produzione. Il compositore premio Oscar iniziò proprio all'Arena i concerti in grandi spazi, nel 2002, non solo come autore ma anche come direttore d'orchestra. Quest'anno dirigerà l'Orchestra sinfonica nazionale della Rai di Torino e il Coro lirico sinfonico di Verona, con le voci della cantautrice portoghese Dulce Pontes (nella parte del «Cinema dell'impegno») e il soprano Susanna Rigacci, al pianoforte Gilda Buttà. «Anche se ho a che fare con un'orchestra di primissimo piano e un coro che l'anno scorso ha offerto una ottima prova, dei concerti io ho sempre una certa preoccupazione», ammette il grande compositore. «Ci sono talvolta delle piccole imperfezioni del singolo esecutore, che mi inquietano, anche se il pubblico magari neppure se ne accorge». Discorsi da perfezionista, da quel grande professionista che è Morricone, 84 anni ben portati e con alle spalle una carriera da oltre 70 milioni di dischi venduti e oltre 500 colonne sonore cinematografiche, oltre che musiche per il teatro, sinfoniche e da camera. 
Eppure, quando lo si chiama «maestro», lui corregge e si definisce piuttosto «un lavoratore della musica», cui piace «fare musica per la gente, musica che piaccia e che si possa capire». Con questo principio ha contribuito non poco al successo dei western di Sergio Leone (Il buono, il brutto, il cattivoè diventato un cult), ma anche ai film di Giuseppe Tornatore, Nuovo cinema Paradiso e Baarìa, come anche di Mission di Roland Joffè e di quel filone del «cinema dell'impegno», da Sacco e Vanzetti (di Giuliano Mondaldo) a La classe operaia va in Paradiso e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (di Elio Petri) a Vittime di guerra di Brian de Palma. 
Di tutti questi e altri pezzi da novanta della storia del cinema, Morricone proporrà le sue musiche nel concerto del 22 agosto, insieme a due particolari composizioni, Varianti su un segnale di polizia, mai eseguito in Arena, e Meditazione orale in prima assoluta dal vivo. Quest'ultima è la vera «chicca» del concerto, come l'ha definita il produttore Enrico Porreca, che ha letto il testo musicato da Morricone senza svelare il nome dell'autore. Comunque riconoscibile: si tratta infatti di un testo commissionato a Pier Paolo Pasolini per le celebrazioni di Roma Capitale nel 1970, inconfondibile lo stile del regista-scrittore nel pennellare luci e ombre di Roma, «città coloniale dove andare in vacanza», luogo di poesia e di potere. Sarà proposto in una registrazione d'epoca dello stesso Pasolini. 
Dell'altra composizione inedita, le Varianti su un segnale di polizia, Morricone spiega che «inizia come una vera sirena della polizia, che si avvicina e si allontana, per diventare tema di una fuga classica, su cui si innestano tocchi espressivi». La colonna sonora di Baarìa, del 2009, è la più recente che proporrà al concerto. Non ci sarà l'ultimo suo successo, La migliore offerta (sempre di Tornatore), premiato ai David di Donatello 2013. E Morricone spiega perché: «Non è possibile ora come ora proporre quella colonna sonora in un concerto, perché, a parte il tema d'amore, non c'è una partitura. Per questo film ho sperimentato, ho concepito dei piccoli nuclei sonori a struttura libera». Il concerto è organizzato da Eventi (045.8039156 www.eventiverona.it), i biglietti vanno da 40 a 100 euro (più diritti di prevendita) e sono disponibili nel circuito Ticketone e nelle consuete prevendite.
Meditazione orale, di Pasolini-Morricone


Ennio Morricone doveva scrivere un pezzo da inserire nel disco commemorativo
per le celebrazioni di Roma Capitale, era il 1970 e se ne festeggiava il Centenario.
Morricone, dopo aver inciso la musica, chiese a Pasolini di scriverne il testo
per poi inciderlo con la sua  voce. Il testo, dal carattere dichiaratamente poetico, è affidato, nella registrazione,
alla voce di Pasolini stesso che recita i suoi versi su uno sfondo sonoro
che alterna musica atonale, rumori e squarci improvvisi di di silenzio.
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"Armonie d'Arte" - A Montefalco protagonista Pasolini

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LE NOTIZIE
Il costume di Giocasta (Silvana Mangano) in Edipo re
"Armonie d'Arte". A Montefalco 
protagonista Pasolini

La terza edizione di Armonie d’Arte continua ancora a trascinare il pubblico in un percorso fatto di tessuti, note, immagini, parole, suggestioni artistiche e sapori. Sono proseguite pertanto gli appuntamenti del ricco programma della rassegna, che fino al 31 agosto 2013 animerà ancora Montefalco con una fitta serie di iniziative.
L’Associazione MontefalcoinArte, organizzatrice dell’evento, punta su mostre dedicate a costumi di scena e ad abiti-scultura. Fino al 14 luglio 2013 le sale del Museo Civico San Francesco ospitano infatti la mostra “Il Sacro e il Profano, storie di costume e di cinema” con i costumi di scena realizzati dal premio oscar Danilo Donati per i film di Pier Paolo Pasolini, a cura di Alessia Vergari e con la collaborazione della Sartoria Farani di Roma.
Fino al 6 luglio le sale del Chiostro di Sant’Agostino ospitano invece “Vestiti d’Arte”, una  rilettura contemporanea dell’abito delle artiste di fiber art e art wear Valeria Scuteri, Silvia Beccaria, Alessandra Pierelli ed Elisa Leclè, insieme all’opera scultorea di Marco Pietrosanti. La mostra è curata da Claudia Bottini.
Montefalco, particolare di un affresco di Benozzo Gozzoli

L'itinerario di visita con partenza dal Chiostro di Sant'Agostino percorre le vie e le piazze della città fino ad arrivare al Museo di San Francesco.
Presso la chiesa del Museo Civico di San Francesco, ad accompagnare il percorso tematico della mostra “Il sacro e il profano” c'è anche la musica con il concerto, a ingresso gratuito, per voce ed archi "Tra la carne e il cielo, le note di Pasolini" diretto da Mauro Presazzi e a cura del Conservatorio di Perugia. Attraverso lo spettacolo musicale viene proposto un riadattamento di noti brani di Mozart e Bach presenti nei film di Pier Paolo Pasolini, per terminare con un coinvolgente spiritual.
Il ruolo centrale che ricopre la musica nei film di Pasolini è testimoniato da numerosi interventi e scritti dell’autore, ma anche dal sapiente utilizzo che ne fa nei suoi film. Nonostante alcuni suoi lungometraggi come “Il fiore delle Mille e una notte” siano stati musicati da Ennio Morricone, Pasolini resta quasi sempre fedele alla sua idea che “è più efficace una buona musica già collaudata piuttosto che una mediocre partitura che, il più delle volte, è un cattivo rifacimento di temi e motivi già noti” perché “la musica di un film può anche essere pensata prima che il film venga girato, ma è solo nel momento in cui viene materialmente applicata sulla pellicola, che essa nasce in quanto musica del film. Perché? Perché l’incontro e l’eventuale amalgama tra musica e immagine ha caratteri essenzialmente poetici”. Pasolini non utilizza la musica come un accompagnamento, ma attraverso i suoi contrasti, i suoi insoliti accostamenti tra generi diversi, crea configurazioni sonore e visive completamente nuove e sorprendenti.
I brani eseguiti da talentuosi studenti del Conservatorio di Perugia sono intervallati da reading intorno a Pasolini. L’organico è composto da: Giulia Gizzi, Luca Maiolo, Giorgio Valerio Galli, Alberta Giannini, Michele Tremamunno, Elena Inei, Lucrezia Nappini (violini), Maria Laura Belli, Euan Williamson (viole), Filippo Di Domenico (violoncello), Federico Passaro (contrabbasso), Chiara Mogini (soprano), Rachele Raggiotti (mezzo soprano), Giacomo Mollaioli (lettore).

Ricordiamo infine che la terza mostra che caratterizza l’edizione 2013 di Armonie d’Arte sarà invece inaugurata sabato 27 luglio 2013 presso le sale espositive del Museo: “Dalla grazia alla bellezza inquieta” a cura di Paola Bortolotti, Andrea Grisanti e Alessia Vergari, andrà poi avanti fino al 31 agosto con protagonisti i costumi e gli accessori di scena dei film curati dalle sartorie Casa d’Arte Cerratelli e Gelsi Costumi d’Arte, come “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli e “La figlia di Elisa, ritorno a Rivombrosa” di Stefano Alleva.
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"Teorema e la classe borghese", di Gherardo Fabretti e "Teorema", la recensione del film, di Andrea Ferrario

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LA SAGGISTICA - NARRATIVA / CINEMA
Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti 1968 - Emilia

"Teorema" e la classe borghese 
di Gherardo Fabretti

Teorema delinea la radiografia singolare e impietosa di una classe borghese incapace di reggere lo scontro con le rivoluzionarie e trasgressive tematiche dell’erotismo, visto in chiave contestataria, ed elevato a segno distintivo del cambiamento sociale. 

Milano, primavera del ‘68. Una famiglia borghese riceve un ospite inatteso. Il suo arrivo condizionerà progressivamente la vita dei cinque componenti – marito, moglie, un figlio maschio, una figlia femmina e la serva – avvolti dal grigiore esistenziale del loro sopravvivere. Angelo avrà rapporti sessuali con ognuno di loro e un giorno se ne andrà, lasciando un vuoto non più colmabile che sfocerà in un progressivo atto d’auto-annientamento degli stessi.  

Per Teorema, presentato alla Mostra di Venezia nel 1968, piovvero su Pasolini critiche feroci sia da parte della sinistra, che sostenne che si trattava di un film reazionario, oltre ad accusare Pasolini di misticismo, sia dalla destra, che proclamò il suo disgusto per il modo in cui nel film si affrontava il tema della sessualità.  La verità era che né la destra né la sinistra compresero allora, neppure marginalmente, gli intenti dell’autore: rappresentare la totale e irrimediabile perdita di identità della borghesia nel momento in cui essa si avvia – dopo essere entrata in contatto con un "Altro", del tutto estraneo alle certezze prefabbricate, indelebili e indistruttibili dalla "ragione dominante" – a una presa di coscienza che non può che svelare drammaticamente il "vuoto", l’impotenza, la "non esistenza" che costituiscono l’essenza stessa della borghesia. 

Una perdita d’identità, d’altronde, che non offre alla borghesia alcun motivo di riscatto, ma che le crea intorno soltanto il "deserto", il nulla. "Lo sforzo espressivo di Pasolini è tutt’altro che irrazionalista, tutt’altro che reazionario o mistico", scrive il Serafino Murri. "Infatti, va a toccare le basi concettuali di una cultura che del proprio mezzo, la ragione illuministica, aveva fatto la gabbia in cui imbalsamare definitivamente, con tutto il carico di ingiustizia presente, la società nei suoi schemi irremovibili, nei suoi antagonismi tutti interni ad essa."  

Teorema era nato come tragedia in versi, si era trasformato poi in un libro (romanzo / racconto) molto frammentario che mantiene alcuni capitoli, o meglio "frammenti" in versi, per raggiungere infine la forma della sceneggiatura cinematografica nella quale Pasolini riduce drasticamente la presenza del "parlato", cioè dei dialoghi o della narrazione per mezzo di una voce fuori campo, riservando principalmente alle immagini, e secondariamente alla musica – qui incentrata su citazioni dal Requiem di Mozart – la narrazione degli eventi e delle mutazioni dei propri personaggi. 

L’Ospite che giunge nella villa della famiglia borghese, e che determina in ciascuno dei componenti di quella famiglia una crisi profonda, una totale perdita di identità, appunto, non ha qualità sovrumane, tanto meno rappresenta un’allegoria divina come qualche commentatore ha voluto intravvedere. È semplicemente il suo essere "Altro" rispetto alla logica borghese su cui si fonda il teorema dell’autoperpetuazione della borghesia stessa, che conduce alla perdita di identità tutti i membri della suddetta famiglia, e all’irrecuperabile "deserto" che ne consegue. 

Secondo lo stesso Pasolini, è proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia (o la totale assenza di ideologia) della società borghese capitalistica che consiste l’unica possibilità di una rivoluzione. Pasolini presentò Teorema sulla rivista francese “Quinzaine littéraire” dicendo del suo film tra l'altro: “Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”.  

Teorema (il libro) è stato per me il 'primo incontro' con Pasolini scrittore e poeta: un incontro che ha rappresentato una vera e propria 'scossa' spirituale; un messaggio che ancora oggi considero prezioso, se non fondante, per prendere coscienza dei problemi e degli squilibri sociali e politici, che può fortemente aiutare a scoprire regioni e ragioni inesplorate dell’animo e del pensiero umano. 

"Teorema" di P.P. Pasolini 
Recensione di Andrea Ferrario 
"Milano Internazionale"

Oltre a essere uno dei film simbolo del 1968, Teorema di Pasolini è anche una dissacrante parabola sulla borghesia e un film lucidamente milanese. Il film prende avvio dalla situazione paradossale di un padrone che regala la sua megafabbrica agli operai e si svolge poi con un lungo flash back con cui si ripercorrono gli eventi che lo hanno portato a questa decisione. 

Nella lussuosa villa del padrone Paolo (Massimo Girotti) giunge un ospite bello e taciturno (Terence Stamp), che i protagonisti del film evidentemente conoscono, ma di cui lo spettatore non saprà nulla dall’inizio alla fine del film. La sua irruzione nella famiglia tipicamente borghese del padrone porta allo sconvolgimento dei singoli membri. Il misterioso ospite fa l’amore prima con la domestica Emilia, poi con il figlio Pietro, la moglie Lucia (Silvana Mangano), la figlia Odetta e, infine, con lo stesso Paolo. La gabbia borghese che racchiudeva la famiglia si infrange: Emilia diventa una santa che levita nell’aria, Pietro si dà alla pittura d’avanguardia, Odetta diventa pazza, Lucia si dà al sesso con giovani ragazzi e Paolo si incammina nudo verso l’ignoto con un grido di terrore.

La Milano che compare nella prima parte del film è quella canonicamente borghese: dal Liceo Parini di via Goito, ai dintorni di via XX Settembre e ai giardini della Guastalla, fino alla lussuosa villa di San Siro, recintata e chiusa da un imponente cancello. Quest’ultima è il luogo principale dell’azione di Teorema e Pasolini la descrive molto efficacemente con alcune semplici inquadrature: il giardino con un verde e un silenzio che a Milano solo i grandi borghesi si possono comprare, gli interni padronali lussuosi ma rigidamente sobri, la cucina enorme e gelidamente azzurrina in cui è confinata la domestica Emilia, la deserta strada antistante. 

Con l’arrivo del misterioso ospite nel film irrompe però un’altra Milano. Prima la campagna piatta a sud della città, con i suoi canali, i suoi filari di pioppi e i campi coltivati. Poi la cascina tipicamente lombarda in cui torna Emilia già in odore di santità, e di seguito l’attico da artisti in una casa di ringhiera in cui si rifugia Pietro, i borghi popolari e i caseggiati anonimi delle peregrinazioni ninfomani di Lucia (significativo in particolare lo sguardo esterrefatto e incredulo di Silvana Mangano all’uscita dalla casa di un suo amante su alcuni scorci di una Milano popolare e informe che probabilmente non aveva mai visto prima). 

L’ultima scena milanese è quella notissima di Paolo che nei grandi spazi interni della Stazione Centrale (il grande nodo del sistema di trasporti da cui transitano l’uno accanto all’altro tutti, dai borghesi ai proletari immigrati) si spoglia completamente nudo per dirigersi verso il proprio urlo disperato che chiuderà il film. La metropoli lombarda è quindi a tutti gli effetti una protagonista di Teorema, alla pari del misterioso ospite e dei membri della rigida famiglia borghese.

Un’ultima annotazione, che è d’obbligo in era di barbarie culturale leghista: Pasolini, che oltre a scrittore e regista, di professione era anche immigrato, prima in Friuli e poi a Roma, e che di quella che i leghisti chiamano volgarmente “Roma ladrona” è stato uno dei più profondi conoscitori e più partecipi abitanti, è riuscito a dipingere come nessun altro alcuni dei lati più intimi di Milano. Teorema dimostra quindi tra le altre cose che la milanesità autentica è un patrimonio aperto a tutti, e che vive anche del contributo di chi viene da fuori.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni

Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

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L’attendibilità delle statistiche di Google è fuori discussione.
Per questo motivo, utilizzando le informazioni statistiche di Google, darò notizia,
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Il "Satyricon" e "Petrolio": due falsi realismi a confronto, di Chiara Portesine, luglio 2013

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Il Satyricon e Petrolio: due falsi realismi a confronto
di Chiara PortesineGenova, luglio 2013

Premessa

Il confronto tra due autori all’apparenza incolmabilmente distanti (dal punto di vista anagrafico e ideologico) non è sorto da un capriccio stravagante o dalla necessità scolastica di un temerario collegamento interdisciplinare; il punto di partenza è paradossalmente imputabile agli studi umanistici di questi cinque anni. Non perché Petronio venga studiato compulsivamente dalla quarta ginnasio o perché Pasolini sia l’unico referente testuale dell’antologia di italiano (addirittura Petrolio non viene neppure citato nella nutrita bibliografia dei due testi in uso, come se fosse un romanzucolo minore, con le sue esigue 583 pagine…); il liceo classico mi ha insegnato piuttosto un approccio dinamico e polemico con i testi presi in analisi, educandomi ad un rifiuto dell’accettazione passiva e cattedratica nei confronti degli Autori-Autorità,  e ad instaurare con la cultura e con il passato un dialogo di interscambio e di confronto piuttosto che di incondizionata sudditanza. In sintesi, l’eredità più preziosa degli studi umanistici per me è stata la curiositas.
Proprio grazie ad essa, dopo aver letto la prima pagina di Petrolio, in cui Pasolini dichiara il suo intento programmatico di scrivere “un Satyricon moderno” , ho cominciato ad investigare le cause, le somiglianze, i punti di contatto e di antitesi tra i due testi, a considerarli come due insiemi tra i quali instaurare una corrispondenza biunivoca. Sono stata archeologa e psicologa, filosofa e critica in miniatura, e ad ogni scoperta di complementarietà mi sentivo orgogliosa; non della mia (modesta) analisi, ma del bagaglio culturale, della vivacità intellettuale, della spontaneità di collegamenti che, dopo tante versioni, analisi del testo, parafrasi e esegesi degli antichi, erano entrati a far parte della mia identità. I classici mi avevano insegnato ad aver qualcosa da dire e a non accontentarmi del già detto.
La trattazione che segue è un parziale e circoscritto tentativo di risposta ad uno dei perché? che due testi intramontabili (anche se differentemente accolti nei canoni moderni, in quanto soltanto i posteri potranno dare un giudizio definitivo sulla portata letteraria di Pasolini) non finiranno mai di presentare a chi si addentrerà nella selva oscura delle loro pagine. E questo è proprio ciò che trasforma il libro in un classico: l’impossibilità di pervenire a un’analisi risolutiva. Questo è l’abisso (e il paradiso) della cultura classica.
"Petrolio" (Einaudi) p. 555


Pasolini e Petronio: i narratori egoisti

"Questo romanzo non comincia[1].

L'inizio di Petrolioè un atto di cannibalismo letterario: Pasolini nega i canoni costitutivi della forma-romanzo a partire dal rito iniziatico dell'incipit, luogo della narrazione deputato alla "seduzione adescatoria" dell'autore: la filiazione magico-rituale delle prime righe è determinante per collezionare proseliti, per eccitare l'interesse del frequentatore medio di biblioteche, inzuppato di fretta cronica, che chiede ai libri soltanto una cosa: essere convinto in modo categorico e istantaneo. Sì o no. Nell’Appunto102, “L’Epochè: storia di due padri e di due figli”, l’autore di Petrolio anatomizza con programmatico sarcasmo la sacralità di questo tabù di indolenza letteraria:

Lasciatemi fare qualche preambolo - disse il terzo narratore - qualche preambolo cautelativo, magari un po’ brillante. Esso in realtà serve a nascondere, come sapete, il momento tragico dell’inizio, che è sempre, come dire, un’autotomia. Inoltre il raccontare mette a repentaglio, e quindi a soqquadro, l’essere. Il soggetto narrante, di fronte alla propria frase fondatrice, entra in stato di crisi. E si tratta della vera e propria crisi tipica del rapporto col sacro. Il racconto è nel recinto sacro. E l’approccio a tale recinto richiede sempre un lungo cerimoniale, abbastanza coatto. E anche buffo.”

Pasolini rifiuta l'ammiccamento malioso dell'ouverture borghese; il silenzio del primo Appunto ha il dinamismo anarchico di uno schiaffo al pubblico, una denuncia alla complicità omertosa dei lettori rispetto alle convenzionalità monocordi della letteratura di consumo. L'intero romanzo è giocato su questo intento programmatico di "rottura della quarta parete cartacea", con l'intromissione perforativa e performativa dell'autore all'interno dell'andamento narrativo; l'io pasoliniano, in qualità di avvocato difensore e giudice del proprio operato, nonché di filologo, redattore di glosse, copista e aiuto-narratore ludicamente onnisciente, svela programmaticamente lo scheletro dei suoi espedienti (piro)tecnici, come un prestigiatore che riveli i trucchi del mestiere in medias res.

"mi sono rivolto al lettore direttamente e non convenzionalmente. Ciò vuol dire che non ho fatto del mio romanzo un "oggetto", una "forma", obbedendo quindi alle leggi di un linguaggio  che ne assicurasse la necessaria distanza da me, quasi addirittura abolendomi, o attraverso cui io generosamente negassi me stesso assumendo umilmente le vesti di un narratore uguale a tutti gli altri narratori. No: io ho parlato al lettore in quanto io stesso, in carne e ossa (...). Ho reso il romanzo oggetto non solo per il lettore ma anche per me: ho messo tale oggetto tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme (come si può fare scrivendo da soli)" [2]

L'autore non è disposto quindi ad immolarsi in nome della sua opera, a rendersi un dato implicito del romanzo, un "anonimo edificatore che ha avuto la modestia di cancellarsi davanti alle sue  cattedrali, l'innumerevole autore delle canzoni popolari" [3]. L'io pasoliniano è orwellianamente ubiquo, non come personaggio tra i personaggi, ma con la corporeità biologica di un globo oculare che sorveglia, sottopone ad esame, convoglia le pulsioni centrifughe dei lettori. Ogni pagina di Petrolioè il risultato di un processo di vivificazione dell'oggetto-libro (e di oggettivazione del soggetto-autore).  "Io vivo la genesi del mio libro" scrive Pasolini nell'Appunto 6 sexies (pag. 53); questa gestazione organicistica, tuttavia, non sfocia nel magma caotico di una fusione tra scrittore e scritto, ma trapassa simmetricamente nel suo opposto, ossia in un processo di demolizione e mortificazione dell'ego:

"Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos'altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso e la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. Impadronirmene (...) in sostanza brutalmente e violentemente, come accade per ogni possesso, per ogni conquista. Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell'atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire. Morire nella mia creazione: morire come in effetti si muore, di parto: morire, come in effetti si muore, eiaculando nel ventre materno[4].

Petrolio viene così ad assumere la dualistica forma di romanzo di formazione e di deformazione (“mi presi e mi smembrai. Quello che avevo fatto con il Dio di Saulo lo feci con Saulo. Dopo essermi ricostruito, mi smembrai. Dovevo essere tutti.” [5]), in una costante scoperta e castrazione dell’io. Lo stesso protagonista, Carlo, è uno strumento di collaudo per questo esperimento di frantumazione letteraria; Pasolini cuce e scuce il suo corpo come un demiurgo-macellaio, a partire dalle prime paginedel romanzo, in cui, dopo la visione autoindotta del proprio cadavere supino sul cemento,  avviene la scissione della sua carne di piccolo borghese intellettuale e imbelle in due entità inconciliabilmente simmetriche: Carlo di Polis ("il corpo di un buono, di un obbediente (...) il corpo di un uomo che ha amato nei giusti limiti la madre, e contro i padre ha lottato , sì, ma come doveva, sapendo ben distinguere le proprie colpe dalle sue" [6]) e Carlo di Tetis, la componente mefistofelica e maniaca, l'animalità della libido svincolata dalle remore del benpensantismo sociale. I due dèmoni coscienziali si spartiscono la paternità del corpo; l'arcangelo cherubino ha diritto di prelazione sulla larva di pelle morta ("oggetto di pietà un po' ripugnante, e basta"), il suo deuteragonista satanico estrae dal ventre il feto di un nuovo anticristo dell'eros. La frattura allegorica messa in atto da Pasolini (il parto cesareo della componente animale dal grembo addomesticato del borghese) non è altro che la presa di coscienza della problematicità scismatica della personalità moderna, in bilico tra la spettacolarizzazione e la negazione del corpo.
Pasolini annuncia a più riprese l'avvento/epifania di narratori secondari, di cui sistematicamente vanifica l'attesa svelandosi come unico e ultimo referente. A questo proposito risulta chiarificatore l'esempio dell'Appunto 6 bis dal titolo "I personaggi che vedono" nel quale, disquisendo dei presunti pedinatori di Carlo, incaricati da un umbratile potere politico di sorvegliarne e piantonarne ogni spostamento, Pasolini prima dichiara la sua totale inesperienza di ogni ambiente che si collochi nello spazio del potere che gli impedisce addirittura di immaginare la strada, l'edificio, l'appartamento in cui le riunioni si svolgono e i tipi fisici dei personaggi che si radunano, attestando e subito confutando la propria attendibilità di narratore ("Non lo faccio per civetteria - ma il lettore non si fidi di me -"); al termine dell'appunto sembra consequenzialmente esautorarsi e passare il testimone a un personaggio intradiegetico, annunciando che "Tutto ciò che Carlo farà sarà come visto da un sicario che non giudica. Ciò che io dirò in proposito altro non è che il succo della relazione orale - e perciò parzialmente dialettale - che ne farà in proposito". La manomissione linguistica è soltanto la prima e più epidermica delle sue finzioni letterarie: il verbale riportato nell'Appunto successivo non è una grossolana e burocratica cronistoria intrisa di inserti encomiastici, quale potremmo aspettarci da un io narrante descritto come un giovane catecumeno ai suoi primi lavori, un mero e solerte picciotto, ma un pedinamento lirico-filosofico-esistenziale, pasoliniano fino al midollo, mentre l'autore aveva poco prima garantito un remissivo eclissarsi. Nonostante le sue goliardiche e vanificate uscite di scena, Pasolini rimane l'unico narratore (e oserei dire personaggio) dell'intero libro, senza per questo ridursi a biografo e agiografo di se stesso; l'autore piuttosto è oppresso da un complesso edipico nei confrontidel narratore tradizionale, rispetto al quale è consapevole di non avere il moralismo necessario ad apparire agli occhi dei lettori come la risposta definitiva all'interrogativo dell'esistenza.

"Ogni autore è un dittatore, si sa. Ma è un dittatore mite. E' un dittatore pronto sempre a pentirsi, a fare marcia indietro, magari a lasciarsi uccidere. E' un dittatore che non perde occasione di prostrarsi davanti all'ultimo dei suoi presunti sudditi. E' un dittatore che va mendicando l'attenzione della sua corte." [7]

Petronio possiede invece una consapevolezza del mezzo narrativo e dell'uso così prepotentemente soggettivo da lui coniato da potersi permettere il ruolo blasonato di narratore onnipresente e al contempo implicito. La sua identificazione con un personaggio garante della morale e dell'ordine costituito è impossibile se non addirittura un crimine di gretta incompetenza. Ad una superficiale e cutanea lettura antologica, si potrebbe commettere l'abominio di confondere il narratore interno, Encolpio, ossia il personaggio che racconta in prima persona le sue peripezie, con l'autore effettivo, sornionamente non pervenuto. Il primo è lo stereotipo di un antico "chierico vagante", uno spiantato avventuriero immerso nei miasmi di un'imprecisata Greca Urbs [8], un personaggio (e di conseguenzaun narratore) de-sublimato e mitomane [9]in quanto portato ad immedesimarsi con zelo adolescenziale negli eroi della letteratura antica (il referente d'elezione è il larga parte Omero). Umorale e incline a una passionalità turbolenta, ex scolaro diligente che ha attinto dalla cultura il minimo sindacale di retorica dottrinale da erogare ai banchetti, Encolpio non cerca il riconoscimento mimetico del lettore colto cui l'elitarissimo Petronio vincolava il Satyricon,quanto piuttosto il sorriso d'intesa e di complicità fruibile in un microcosmo marcatamente intellettuale. Come scrive Gian Biagio Conte:

"Il modo ironico (molto più del modo didattico e del modo fantastico) è particolarmente elitario, in quanto l'ironia esiste solo virtualmente in testi che l'autore vuole così programmati, e di fatto si attualizza soltanto grazie alla collaborazione di un lettore capace di soddisfare certe esigenze: di perspicacia, di formazione letteraria adeguata. Il che implica nel lettore una competenza specialistica, non generica. Una competenza ideologica, valutativa".[10]

Il gioco parodistico architettato da Petronio nei confronti delle trame stereotipe del romanzo greco, reso sterile dal marketing di una reiterazione di consumo, risultava un ammiccamento erudito che soltanto una platea di aristocratici intenditori era in grado di degustare. Il romanzo ellenistico aveva eletto a suo canonico "protagonista a due piazze" una coppia di innamorati, separati da un variegato groviglio di macchinazioni della sorte, che in nome della fides nei confronti del partner si sottomettevano a rischiosi azzardi, torture e sevizie per evitare di violare l'impegno morale (e moralistico) alla dea fedeltà. Il lieto fine (ossia la tanto sospirata unione coniugale) è il coronamento del perbenismo popolaresco e borghese della Trivialliteratur (di allora non meno che di oggi). Petronio ribalta questo stucchevole sottoprodotto dell'industria letteraria presentando una coppia di fedifraghi omosessuali, che non esitano ad allacciare rapporti di trasgressiva perversione con amanti di ambo i sessi, in una dinamica erotico-priapea agli antipodi rispetto alla castità preconcetta dei modelli.

Encolpio non è l'unico io narrante del Satyricon; in alcuni segmenti narrativi Petronio ricorre a narratori di secondo grado, integrati e deformati dall'ambiente sociale di cui sono chiamati a rendere conto. L'autore si serve dei loro corpi come di fantocci illustrativi, forzandone fino al parossismocoloristico le impurità linguistiche, i vizi culturali retaggio di un nozionismo libresco e la lordura fisica come immagine di una decadenza interiore e storica.
Così ad esempio nella celebre Cena di Trimalcione, il ritratto del padrone di casa è preceduto e preparato dalle caricature carnevalesche e "felliniane" dei convitati, la cui caratterizzazione evoca i personaggi dell'Atellana, del mimo drammatico e della commedia menandrea, depurati dalla schematicità statica della tradizione popolare e fotografati nella loro più pura e grottesca fattura di parvenu. Saturi di superstizione e credulità magico-esoterica, digiuni di galateo simposiale e affetti da una cronica misoginia aprioristica, descrivendo se stessi, caratterizzano simmetricamente il loro vicino di triclinio, in un incastro analogico di rimandi autoreferenziali. Nel suo magistrale capitolo dedicato al realismo petroniano, Erich Auerbach condensa il gioco ottico di diffrazioni e rifrazioni sovrapposte nella Cena in una pagina di invidiabile (ed invidiata) sintesi letteraria:

"(...)Quella che ci viene presentata non è la cerchia di Trimalcione come realtà obiettiva, ma invece un'immagine soggettiva, quale si forma nel capo di quel vicino di tavola, che però di quella cerchia fa parte. Petronio non dice: - E' così -; lascia invece che un soggetto, il quale non coincide né con lui né col finto narratore Encolpio, proietti il suo sguardo sulla tavolata, un procedimento assai artificioso, un esperimento di prospettiva, una specie di specchio doppio che nell'antica letteratura conservataci costituisce non oserei dire un unicum, ma tuttavia un caso rarissimo. (...) Si tratta del soggettivismopiù spinto, che viene maggiormente accentuato dal linguaggio individuale da una parte, e per intenzione di obiettività dall'altra, dato che l'intenzione mira, per mezzo del procedimento soggettivo, alla descrizione obiettiva dei commensali, compreso colui che parla. Il procedimento conduce ad un'illusione di vita più sensibile e concreta in quanto, descrivendo il vicino di tavola, il punto di vista viene portato dentro all'immagine, e questa ne guadagna in profondità così da sembrare che da  uno dei suoi luoghi esca la luce da cui è illuminata" [11].

A questo punto sorge un inestricabile quesito: lo sguardo occulto ma dissacratorio di Petronio può essere tacciato di moralismo [12]e di snobistica condanna etica del suo microcosmo di personaggi? Conservatore per indole e missione estetica, vagheggiatore di mitiche età dell'oro culturali, Petronio a mio parere non può tuttavia essere accusato di ricoprire il ruolo di giudice e delatore dei suoi personaggi. La sua denuncia è rivolta al progresso regressivo della storia, ad una decadenza epocale imputabile a cause di recessione umana. Petronio si limita a immatricolare le nuove classi in ascesa con un paternalismo distaccato e neutrale; non prova ripugnanza nei confronti della trivialità canagliesca dei liberti né indulge ad uno sguardo di pietistica simpatia. Il sistema di valori culturali e morali di cui è orgoglioso portatore è stato surclassato e annichilito dal riflusso delle gerarchie sociali; la piramide si è capovolta, e all'aristocrazia in declino non resta che prendere atto della nuova forza egemonica (seppur con qualche riserva intellettuale, come risulta evidente dall'esasperazione iperbolica dell'ignoranza di Trimalchione, che rasenta picchi di analfabetismo quando stravolge l'episodio del Ciclope chestorse ad Ulisse il dito pollice con un tronchesino [13]o quando, facendo rivoltare nella tomba il povero Omero, ricorda che ai tempi in cui Ilio fu presa, Annibale [14](improbabile contemporaneo) fu l'inventore della lega corinzia, facendo fondere su un rogo improvvisato statue d'oro e d'argento. Clamoroso e parodistico stravolgimento è anche la sostituzione di Castore e Polluce con Diomede e Ganimede, o di Agamennone come rapitore di Elena in sostituzione di Paride [15]); la mancanza assoluta di un contraddittorio contribuisce a sottolineare l'ottuso clima di grettezza intellettuale del grottesco simposio.

Egli contempla quel sotto mondo che sta ormai diventando il mondo [16]con l'imperturbabile indifferenza delle divinità epicuree, albergate nella noncuranza dei propri intermundia.Quellopetroniano è un disincanto partecipe, che deforma lo spazio per scandagliarne al meglio il gioco cromatico di prospettive.

Tanto Pasolini quanto Petronio, con le debite distinzioni di epoca, stile, retroterra culturale e storico, intridono del proprio travolgente soggettivismo ogni pagina dei loro romanzi, senza lasciare spazio né all''obiettività equanime del verismo né al protagonismo di maliosi narratori secondari. La loro identificazione con il romanzo trascende in una forma di panteismo letterario, in cui ogni parola e sintagma vive inderogabilmente a causa e attraverso l'autore. Entrambi rifiutano per indole e missione estetica di subordinarsi al sistema dei loro personaggi, imponendosi come insopprimibili e univoci catalizzatori dell'attenzione del lettore. Le storie da essi narrate non esistono se scremate e nettate dal loro ingombrante ed egotico io. Non sono disposti neppure per un istante a perseguire l'annichilimento programmatico del narratore prospettato da Verga, secondo il quale l'opera d'artedoveva sembrare essersi fatta da sé, aver maturato ed essere sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore e il cui autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale. [17]
Per questo ritengo che si possa parlare di narratori egoisti, non altrettanto umili ma sicuramente intramontabili al pari degli stoici patrocinatori dell'oggettivismo ottocentesco.


La favola come allegoria e come
forma di identificazione sociale

A partire dalle remote ed embrionali forme comunicative del linguaggio umano, la favola ha avuto la funzione pregnante di catalizzare istanze ed esperienze del singolo e della collettività e di trasporle sul piano simbolico (e quindi sublimato) del camuffamento allegorico. All'apparenza più innocua e prosaica del mito (baule etico d'elezione di un'intera civiltà) , relegata a sotto genere di consumo infantile e pedagogico, confusa con la parabola o ridotta a mera  amplificazione di proverbi popolari, in realtà è uno dei larvali prerequisiti antropologici di ogni cultura (insieme al ritmo musicale, l'articolazione verbale e la religione). Anche il processo di scrematura del repertorio favolistico messo in atto da una società (con la selezione naturale di determinati intrecci giudicati - o meglio "percepiti", essendo un processo a-logico - rappresentativi di una collettività) rivela la maturazione autogena di veri e propri canoni narrativi violentemente caratterizzanti. Basti pensare all'attestata consuetudine, da parte della letteratura fiabesca e dell'oralità popolare, di semplificare la personalità di un individuo attraverso il paragone simbolico con un animale e alle siderali differenze, nell'attribuzione morale di vizi e virtù al mondo ferino, che sussistono tra un popolo ed un altro (ad esempio il maiale, animale negletto, metafora di lordura e di trivialità per la cultura occidentale, nel calendario cinese è uno dei segni più nobili, simbolo di generosità ed operosità lavorativa).
Se dal piano del vivere associato ci rivolgiamo a quello della narrazione individuale, la scelta di inventare o riportare una specifica favola si traduce nel programmatico (anche se inconscio) statuto di contrassegnare un personaggio, una situazione, un'etnia, una classe sociale. (Aforisticamente si potrebbe riassumere il concetto asserendo che "Noi siamo le favole che raccontiamo").

Petronio si avvale copiosamente dell'espediente della favola soprattutto durante la Cena di Trimalchione, a metà della quale al lettore pare di assistere ad un vero e proprio agone novellistico tra gli sconci convitati. Dopo la parata gastronomica e la spettacolarizzazione quasi nauseante di cacciagione grondante di sangue e vino, la digestione dei gozzovigliatori è marcatamente letteraria (d'altronde, non stupisce il fatto che un manipolo di rozzi liberti arricchiti fruiscano della cultura al pari di una prassi nobilitante per smaltire la sbornia). Dal momento che l'auditorio è imbevuto di esorcismi superstiziosi e rituali apotropaici (l'inizio e la fine della Cena sono circolarmente contraddistinti da due episodi paralleli di scongiuri popolareschi, il primo è l'ingiunzione, da parte di uno dei servitori, di entrare nella casa di Trimalchione con il piede destro, segno di buon auspicio [18], il secondo è l'aspersione di vino sotto la tavola e sulla lucerna per esorcizzare il canto del gallo udito dai convitati e simbolo di morte [19]), la novella proemiale raccontata dal convitato Nicerote non può che essere un racconto di magia. Luca Canali, nel suo saggio-traduzione dal titolo L'erotico e il grottesco nel Satyricon, così introduce la favola che ci accingiamo ad analizzare:

"In questo sottomondo emergente, con tutta la sua potenza torbida e vitale, non poteva mancare come unica sublimazione e "metapsichica", fra così straripante fisicità senza orizzonti e quasi senza cielo, l'elemento magico. Ma la magia ha i toni foschi della tregenda, la cupezza della cronaca nera, la maledizione della violenza, della lubricità, della follia" [20]

E' la celebre novella "del lupo mannaro", preconizzatrice della poesia sepolcrale e del romanzo gotico/noir; il narratore riporta la propria esperienza asserendo di aver assistito in un cimitero alla metamorfosi di un suo conoscente in lupo (pienamente convinto della veridicità del suo racconto e senza essere messo in dubbio dalla credulità dei compagni ditavola [21]). Trimalchione si inserisce nel grembo del soggetto macabro-magico e, pienamente imbevuto dell'agonismo sfrenato dei parvenu, dichiara di essere stato testimone oculare di una storia ancor più raccapricciante: durante una veglia funebre per un giovane morto prematuramente, le streghe circondarono la casa latrando come il cane che insegue la lepre [22]ed arrogandosi il diritto di prelazione sul corpo. Uno dei partecipanti, un nerboruto e ardimentoso Cappadoce, sguaina la spada e si slancia all'inseguimento delle chiassose fattucchiere, ma torna con le membra sfregiate e ricoperte di lividi. Medicato il ferito, la litania della veglia riprende, ma quando la madre prova ad stringere il corpo del figlio, si accorge di abbracciare un fantoccio di paglia. Le streghe avevano razziato gli intestini, gli organi, il cuore del fanciullo lasciando al suo posto un manichino di pelle vuota.

Lo sgomento instillato dal racconto nella combriccola di arrampicatori sociali risulta anch'esso superficiale e approssimativo, quasi un rituale della digestione collettiva; al termine di queste novelle macabre, infatti, l'auditorio è istantaneamente [23]disposto alla ricezione di sketchescomici, caratteristici degli intermezzi circensi (come l'imitazione labiale dei trombettieri da parte di Trimalchione, l'ostensione di un'opulenta cagnetta nera indecentemente grassa e avvolta in una sciarpa verde, copiosamente imboccata di pane bianco come una divinità del grottesco, e la presentazione quasi epica del presidium domus familiaeque [24], uno spropositato cane  che viene incitato alla zuffa con la profumata e matronale cagnetta, in una sorta di volgare e casereccia ripresa dei modelli gladiatori del Colosseo).

Le prime due fabulae hanno dunque una funzione descrittiva dell'ambiente, e contribuiscono a quel processo di focalizzazione interna del retroterra sociale che ci permette di inquadrare i personaggi e le rispettive classi di appartenenza dagli indizi (sebbene deformati) che gli individui presi a campione danno di sé. Come chiosa Gian Battista Conte:

"Petronio è maestro nell'arte di evocare gli stereotipi sfruttando la loro banalità stessa o di comunicare alle sue descrizioni un'aria di inautenticità sufficiente per provocare una lettura sdoppiata (e quindi umoristica)[25].

Il declamatore licenzioso della terza novella (nota come Il fanciullo di Pergamo) è Eumolpo, che racconta in prima persona - espediente tipico della fabulaMilesia e del mimo - la sua esperienza di amore pederotico per il figlio dell'uomo che gli aveva dato ospitalità nella città asiatica. Ingraziatosi la fiducia dei genitori, con moralistiche requisitorie contro l'amore efebico, Eumolpo riesce a diventare precettore esclusivo del delicato puer, al fine di evitare che avesse accesso alla casa qualcuno che attentasse al suo pudore [26]. Un pomeriggio, in un momento di torpore postprandiale, rimasto solo con il fanciullo a causa di una riduzione dell'orario scolastico e accorgendosi del suo sonno soltanto simulato, gli sussurra all'orecchio: "Venere signora, se io potrò baciare questo ragazzo in modo che non se ne accorga, domani gli regalerò una coppia di colombe".Il giovane, allettato dal gustoso compenso, inscena un rumoroso russare, offrendosi al piacere di Eumolpo, e il giorno successivo riceve le pattuite colombe. Il gioco perverso si ripete, con crescenti ricompense da un lato (due galli da combattimento e un cavallo) e con più esplicite profferte sessuali dall'altro (carezze lascive e un rapporto completo); il secondo indennizzo però, il destriero promesso, non viene elargito dallo scaltro Eumolpo, preoccupato di non rendere sospetta la propria ingiustificabile generosità agli occhi dei genitori del ragazzo. Offeso dal commercio impari, ai tentativi lussuriosi dell'insaziabile narratore, il puer risponde "O dormi, o lo dico subito a mio padre"; assuefatto però al vizio, il giorno dopo è il fanciullo ad accennare con noncuranza ad una ripresa dell'intesa pederastica, diventando un patologico e morboso schiavo delle sevizie di Eumolpo, che all'ennesima richiesta di amplesso risponde estenuato: "O dormi o lo dico subito a tuo padre", in un beffardo parallelismo di vendetta.
La novella viene ad inserirsi al momento dell'incontro tra Eumolpo ed Encolpio, in una pinacoteca di quadri preziosi, e ha l'effetto catartico di rincuorare l'io narrante, vessato dal dolore per l'abbandono dell'amante, e soprattutto di stabilire le fondamenta di empatia sostanziali per la futura amicizia.  Riconoscendosi nei preziosismi verbali e nel lirismo libresco di Eumolpo, ma anche nel suo sano culto per la religione del corpo, Encolpio subodora la loro reciproca affinità, che li renderà compagni di peripezie avventurose e pervertimenti erotici. La favola acquista in questo caso una valenza riconoscitiva, uno strumento di identificazione segnaletica.
La quarta storia è narrata sempre per bocca di Eumolpo sul ponte della nave di Lica in forma di exemplum per la sua requisitoria misogina contro la volubilità e la libidine delle donne. Si tratta della rinomata Novella della Matrona di Efeso, un antologico esempio di fabula milesia, un licenzioso schema letterario tracciato da Aristide di Mileto nel II secolo a.C. nei suoi Mιλησιακά, reperibile anche in una favola del corpus di Fedro e nell'esopica "Υυνήκαί γεωργός". E' del tutto probabile che esistesse, per le edizioni in lingua latina, una fonte comune, verosimilmente riconducibile allo storico di età sillana Cornelio Sisenna, traduttore e rifacitore di Aristide. Caratteristica peculiare del genere era l'erotismo salace, ai limiti dell'oscenità, che Petronio, attraverso una complessa strategia narrativa, ha reso funzionale alla traslitterazione del rapporto triangolare dei suoi personaggi Encolpio-Gitone-Lica-Trifena, variamente assortito nel corso delle peripezie dell'intreccio. Lo statuto di licenziosità programmatica risulta a partire dalla scelta dell'ambientazione, Efeso, la città ionica della Microasia tradizionalmente ritenuta corrotta e lubrica. [...] 

La salacità sensuale e misogina della narrazione incontra il plauso sguaiato dei marinai (meno ricchi ma parimenti rozzi rispetto ai parvenu di Trimalchione), mentre desta nei personaggi petroniani moti controversi e fortemente legati alla soggettività dei riceventi: Trifena, traslitterazione corporea e realistica della Matrona di Efeso, arrossisce, punta sul vivo dalla sublimazione allegorica di una voluttà che riconosce come propria, ma, quasi a suggello e conferma di essa, appoggia il viso sul collo di Gitone. La sua carnalità orgiastica e avulsa dai condizionamenti sociali, che la accomuna a tutti i personaggi femminili presenti nel Satyricon, di qualunque età e classe sociale, è anche e soprattutto un'accusa politica al benpensantismo borghese dell'età neroniana: dal testo petroniano sono bandite le virtù ipocrite della tradizione funeraria, che certificava la fedeltà, la castità, la pudicizia e la temperanza delle mogli, mondate e disinfettate dalla statuaria e dai carmi luttuosi di tutti quei vizi e quelle perversioni attestate invece dagli storiografi, dagli autori di satire e dai prosatori come inclinazioni peculiari proprio della fosca corte di Nerone. Rispetto alle figure di avvelenatrici, concubine ed insaziabili manovratrici del princeps,le matrone venivano rappresentate come castigate custodi del focolare domestico, ricoperte dai severi panneggi della stola, comparsa in età protoimperiale come visiva "protezione dalle offese" perpetrate dalla voracità oculare dei passanti, sostituendo la nudità classica della cultura greca [27].

Petronio denuncia questa castrazione della sfera dionisiaca ed impulsiva, con un prepotente ritorno ad una corporeità non mediata e incanalata nella sfera matrimoniale (nessuna delle donne da lui descritte accenna a pretese o sogni nuziali).

Al contrario della reazione di Trifena, Lica è punto nel vivo laddove la sua virilità è più fragile: la novella gli ricorda l'onta dell'abbandono e dell'adulterio della moglie Edile, portandolo ad identificarsi con il marito frodato e ridicolizzato dalle macchinazioni di una serva e di una femmina infoiata. "Se il governatore fosse stato giusto" asserisce con un moralismo di comodo "avrebbe dovuto far riportare nella tomba il corpo del padre di famiglia e farci inchiodare la donna sulla croce". [28]

L'intreccio favolistico acquista, sulla nave di Lica, una valenza mimetica, di immedesimazione forzata dei personaggi, costretti ad uno smascheramento pubblico della loro corruzione e alla contaminazione del loro passato, e parallelamente ha la funzione di chiarificare agli occhi del lettore le dinamiche endogene dei personaggi.

In Pasolini l'intreccio favolistico acquista un'esplicita valenza di allegoria politica; la Prima fiaba sul potere (dal "Progetto")dell'Appunto 34 bis [29]è quasi una parabola dell'ascesi al paradiso/inferno della potestà egemonica.
L'affabulatore avverte che sarà linguisticamente povero, universale e dunque generico, ma sappiamo già di non dovergli dar credito. Il protagonista della storia è un intellettuale sui trentacinque anni, non obeso ma tondo e gonfio di una carne insana, giallastra, di una sfericità disarmonica e molle che genera nell'osservatore lo stesso senso di ripugnanza che si ha per le cose viscide. Una notte appare ai piedi del suo letto una Forza Oscura, che gli domanda quale sia lo scopo ultimo della sua vita. L'intellettuale, uomo efficientemente mediocre, borghese anche nei sogni, risponde: "Farmi come tutti una posizione nella società in cui vivo".La presenza demonica, la cui abiezioneera come una crosta, gli concede di raggiungere il potere a patto che sia lui a determinare le modalità della sua scalata sociale. Non il prestigio letterario e l'untuoso plauso delle sette accademiche, non una rapida carriera aziendale, non il semplice successo in seno al grande partito di potere (presumibilmente la Dc) in cui sarebbe stato per il Diavolo facilissimo guidare gli scambi di favori;l'intellettuale vuole raggiungere il Potere attraverso la Santità. Da quel giorno hanno inizio le sue pratiche di ascetismo pubblico, in un convento al centro della città natale, molto frequentato, e lì l'odore di Santità si diffonde come un'esalazione segnaletica; i fedeli annusano e riconoscono il padrone, attendono soltanto stigmate e piaghe davanti a cui prostrare le schiene. Ma all'apogeo della divinizzazione popolare, l'intellettuale si accorge di essere diventato veramente un santo (Era la santità che il Diavolo gli aveva fatto raggiungere: la Santità, non la finzione della Santità. La Poesia, non la Letteratura). In preda alle convulsioni di un raptus, riceve sui palmi delle mani le cicatrici di due lunghe stigmate lorde di sangue (la santificazione d'altronde è opera del Diavolo, in una sorta di deificazione del peccato). La folgorazione si trasforma in estasi mistica; la contemplazione dell'Assoluto non ha la pregnanza profetica di un Paradiso dantesco, anzi Dio aveva un viso anonimo e si rivela all'intellettuale come unico mandante della sua - non richiesta - Santità; il Diavolo non esiste, il Male non è che un'esperienza transitoria. Bisogna passarci in mezzo, ecco tutto. Il Padre Eterno ha scelto il suo pervertimento di provinciale ambizioso per redimere il genere umano, e incarica l'intellettuale-martire di diffondere il messaggio celeste tra gli uomini. L'unica clausola (in Pasolini anche Dio, d'altronde, è un burocrate) è quella di non voltarsi a guardarne la Luce, in una rievocazione e traslitterazione biblica del mito di Orfeo. Ma una forza che alla cervice lo obbligava a torcersi indietro,scaturita non da un'insopprimibile ed ellenica curiositas ma da un rigurgito di bassi sentimenti, una piaga di ammorbante umano che macchia la tunica immacolata della Santità, lo costringe a voltarsi; all'intellettuale non resta che il tempo di vedere il sorriso da mendicantedel Diavolo deformare la bocca di Dio prima di sentire il proprio corpo farsi pietra. Quell'amalgama di impurità mineralogiche dai carnosi riflessi fulvi in cui si sono trasformati i suoi tessuti biologici è destinato a diventare un enigma insolubile per i geologi (e per gli uomini) di tutti i tempi; le ricerche, conclude amaramente Pasolini, danno sempre dei buoni risultati parziali.

Questa favola, che, nella scaletta programmatica di Pasolini avrebbe dovuto essere seguita da altre storie (Il popolo e il potere prima del '68 e un delitto onirico di Carlo, che avrebbe disinnescato una "bomba visionaria" nella stazione di Torino), è inserita nel contesto salottiero di un ricevimento intellettuale di Sinistra (nel quale il narratore di è divertito a schizzare un'epigrafica galleria di ritratti, tra cui spiccano quelli di Alberto Moravia, Antonello Trombadori, Giulio Andreotti e Pasolini stesso). Il senso del grottesco dei convitati, antifascisti per moda o per convenienza d'immaginepubblica, è all'apparenza meno esplicito di quello dei debordanti convitati trimalchioneschi, ma non meno dissacratorio. I volti degli anziani intellettuali vengono descritti come visi tanto terribilmente e mostruosamente marchiati, bruttati, scavati, gonfiati dal tempo quanto ben tenuti, curati, spiranti agio, benessere e fraternità nella verità [30]. Ogni sottogruppo in cui si articola il ricevimento reca nei vestiti, nelle acconciature, nei rituali di ammiccamento reciproco, il contrassegno gerarchico del proprio potere, la dose di autorità certificata dal contesto. Quelle maschere di decadenza non sperimentano i dubbi generazionali del cambiamento storico, perché i loro figli sono il rassicurante prodotto della loro stessa sottoideologia.

Tutti i convitati, dal letterato connivente con il macropartito del momento al politico ipocrita che gode della patina di eroismo post-resistenziale, sono i protagonisti della favola del Potere; senza nome come l'intellettuale-santo, costituiscono un esercito di zelanti funzionari che sognano l'eccitazione di una promozione, in una scalata nominalistica di ruoli da far incidere a caratteri gotici sulla porta dell'ufficio. Ma Pasolini ricorda, con i toni di un'Apocalisse figurata, che l'ascesi è soltanto una discesa al contrario.

Una sezione successiva al viaggio iniziatico degli Argonauti [31](ossia la mitizzazione delle ricerche petrolifere ultimate da Carlo in Medio Oriente per conto dell'Eni) è intitolata Racconti colti; riportare la sintesi puntuale di tutte le novelle risulterebbe verboso e richiederebbe una contestualizzazione articolata. Per una schematizzazione illustrativa rimando alla nota a piè di pagina [32], limitandomi a commentare soltanto la prima, riportata nell'Appunto 41 sotto il nome di Acquisto di uno schiavo. Il protagonista, l'anglosassone Tristam [33], è un biondo, adolescenziale, stupido, spiritoso giornalista del "Guardian" che, venuto a conoscenza dell'esistenza di un mercato di schiavi neri alla periferia di Khartoum, decide di mettersi in viaggio con l'intento di acquistare una schiava (deponendo il retroterra professionale di anticolonialismo e terzomondismo filantropico). Scartando l'assortimento mercantile di donne nere (per il loro modo irriverente e paritario di offrire il proprio corpo al compratore, vicine alla prostituzione occidentale più che al rapporto di insubordinazione schiavistico vagheggiato dal giornalista europeo) e la rassegna suppletiva di maschi bruni (troppo seri e in preda ad un drammatico senso di pudore offeso legato a chissà quali tabù), Tristam fa cadere la scelta su una bambina, Giana, sottomessa e orgogliosa come un soldatino. Avvolta in un fagotto a fiorellini sudicio, quella schiavetta era inzuppata, agli occhi di Tristam, dell'odorestesso della povertà; avrebbe educato il suo corpo alla sottomissione storica, insegnando e apprendendo il neocapitalismo con l'esercizio della sua violenza frettolosa di padrone geografico, ereditaria e culturale.

Tristam, presto sazio delle sevizie erotiche (anche perché la bambina accettava con laconica naturalezza ogni forma di supplizio, de-sublimando l'eccitante idea dello stupro e della lotta per la sottomissione), escogita un perverso gioco di sanzioni; la bambina viene punita con il digiuno o le vergate per una serie di colpe progressivamente brevettate e inserite in un manuale (simile ad un registro dei conti burocratico). Ma anche questo allettante espediente incontra soltanto la bovina passività della schiava, avulsa (per indole geografica) dai meccanismi di dipendenza reciproca del rapporto servo-padrone. L'ultimo tentativo di fomentare un seppur positivo atto di subordinazione è quello di una paternalistica affrancazione; il giornalista biondo affida la sua insoddisfacente e malfunzionante bestiolina esotica ad una missione cattolica (dove i piccoli ospiti, se non fosse stato per la profonda pace e per una certa proprietà dei loro poveri vestitini bianchi, sarebbero sembrati dei fucilati). Quando sta per varcare la porta, ebbro del suo stesso atto morale, guarda la schiava, pregustandone la definitiva (anche se posticipata) attestazione di egemonia etnica, di originaria superiorità culturale: la gratitudine. Invece Giana gli rivolge le spalle, senza voltarsi, indifferente alla libertà quanto alla schiavitù.

All'implicita domanda inerente ad una possibilità di interrelazione etnica tra le due culture che sia differente dalla reiterazione di meccaniche neocolonialiste, Pasolini risponde nell'amara anti-morale riportata in calce : "L'alterità del mondo di Giana, che non si era voltata, comprendeva anche il mondo magico (per lui, progressista, il mondo magico altro non era che superstizione, di cui, per la verità, non conosceva che i quattro dati banali che conoscono tutti), ma non era in questo che si esprimeva; anzi, Tristam istintivamente attribuiva a Giana, almeno in modo estremamente rozzo e solo potenziale, il suo stesso sentimento di condanna verso di esso. Il suo giudizio negativo di uomo avanzato che interpretava il Terzo Mondo di Giana era una frustrazione totale, senza alcuno spiraglio di ragionevole speranza: e infatti nel momento inevitabile in cui si erano lasciati, andando ognuno per la sua strada, non si poteva dire né che Tristam avesse integrato la propria cultura con quella di Giana, né che Giana avesse integrato la propria cultura con quella di Tristam".

A parlare è il Pasolini antropologo ed etnografo che negli ultimi anni della sua vita, deluso dalla borghesizzazione del suo amato (e idolatrato) sottoproletariato romano, è alla disperata ricerca di una cultura primigenia, non defraudata dalla contaminazione civilizzatrice dell'Occidente; ma anche quest'immersione nel mondo tribale dell'Africa si converte in una deludente constatazione: l'impossibilità di venire a contatto con un'etnia primitiva senza contaminarla, senza infettarla attraverso le proprie sovrastrutture intellettuali, storiche, coscienziali. Il mito (e l'etnos) sono morti.

La favola acquista quindi il sapore di una dichiarazione di sconfitta esistenziale, all'io Pasolini prima ancora che alla generica umanità dei contemporanei. E' una caustica e intima confessione di impotenza al lettore, e allo stesso tempo di delucidazione testamentaria di un cammino alla ricerca di un'autenticità primitiva che il narratore ha fino all'ultimo rincorso e idealizzato, con una brama morbosa di trovare una purezza inviolata, una traccia di vitalismo genuino nell'ombra corrotta della modernità. Nel secondo appunto alla favola-parabola sopra citata Pasolini traccia un ultimo, epigrammatico segno del proprio disinganno di uomo e di antropologo,  dichiarando che "Ciò che è diverso non esiste". E forse l'Alterità primordiale vagheggiata da Pasolini non è mai realmente esistita, configurandosi piuttosto come una mitologia privata, a cui l'autore si è consacrato accorgendosi (troppo tardi) di aver creato nulla più di una moderna Arcadia.


Due tipi di falso realismo: il realismo
della deformazione e della mitizzazione

Nessuno dei due romanzi presi in analisi può essere definito a pieno titolo espressione di istanze realistiche, sebbene trasversalmente implichi un'analisi della realtà oggettiva e delle forze in essa agenti e reagenti. Tanto Petronio quanto Pasolini sembrano fotografare la dimensione dei loro personaggi in una chiave di registrazione se non oggettiva quantomeno plausibile, indubitabilmente filtrata dal setaccio della letteratura ma apparentemente verosimile. Sono ragionevoli gli sproloqui illetterati di Trimalchione, le ostensioni di sgargianti monili (inevitabilmente kitsch [34]) da parte della moglie Fortunata, la superstizione e la grettezza dei convitati; è esattamente quello che un lettore si aspetterebbe da una catalogazione rigorosa e aderente al vero della classe in ascesa dei parvenu, rozzi popolani che soltanto la tracimante ricchezza ha trasformato in classe egemone. Allo stesso modo appartengono all'immaginario comune le descrizioni dei torbidi abboccamenti mafiosi di cui è testimone Carlo, la seriale miseria degli alloggi della periferia romana, l'ingenuità primitiva del mondo sottoproletario rapportato all'immoralità che alberga nelle stanze del potere politico; tutto questo è passibile di discussioni e capovolgimenti, contestabile o condivisibile, tuttavia rimane essenzialmente credibile. Se avete seguito il ragionamento con un moto di assenso, approvando ciecamente la mia argomentazione, siete stati ingannati: siete caduti nella trappola dei falsi realismi. All'apparenza innocui cronisti dell'oggettività, Petronio e Pasolini simulano il verosimile, innestando su una matrice di attendibilità le personali istanze di narratori e uomini.


Non crucciatevi, siete in squisita compagnia: Huysmans, nella celebrazione del testo petroniano operata dal suo personaggio Des Esseintes, considera la storia del  Satyricon come "une tranche decoupée dans la vif de la vie romaine" [35], aggiungendo addirittura che: “Pétrone ètait un observateur perspicace, un delicat analyste, un merveilleux peintre: tranquillement sans parti pris, sans haine, il décrivait la vie journalière de Rome, racontait dans les alertes petits chapitres du Satyricon, le moeurs de son epoqueLa realtà petroniana, al contrario, sebbene conservi una parvenza di adesione al dato concreto, è manipolata, deformata, trascesa, sconfinando in una proiezione letteraria di idee autoriali. Gli oggetti del quotidiano (i gioielli, gli abiti, le sontuose pietanze della Cena) non hanno un valore descrittivo o informativo, ma piuttosto simbolico e metonimico. I monili ad esempio non sono descritti qualitativamente, ma quantitativamente (i gioielli di Fortunata vengono valutati a peso -sei libbre e mezzo - ma non è dato sapere al lettore la natura mineralogica o l'aspetto estetico dei massicci bracciali). Lo spettatore assiste ad un progressivo ispessimento espressionistico dei contorni, anche attraverso il gioco del continuo cambiamento di focalizzazione e di prospettiva narrativa, che provoca una distorsione e rifrazione innaturale dell'immagine. Lo scopo di Petronio - esplicito soprattutto nello sconcio simposio trimalchionesco - è quello di forzare fino alla deformazione la caratterizzazione dei suoi personaggi, in modo da instillare nel lettore una sensazione di "denigrazione del reale[36]. Questo meccanismo di alienazione (a tratti snobistica) inoculata nel lettore ne guida il giudizio e l'analisi, ed è strettamente connesso al tipo di destinatario ideale cui Petronio si rivolge: l'uomo comune, incapace di cogliere quest'ardita impalcatura di rimandi allusivi, avrebbe potuto fraintenderne il messaggio (come spesso ancora avviene), giudicandolo un divertissement della letteratura di consumo, piacevole ma superficiale. L'autore del Satyricon presuppone invece un pubblico aristocratico, dotato di un'intelligenza brillante e di vasta (anche se non necessariamente spropositata) cultura, ma soprattutto un auditorio consapevole del proprio inevitabile declino storico, che abbia già espresso preventivamente un giudizio su quel mondo di colorati ma effimeri parvenu, senza avere dunque il bisogno di chiarificazioni propedeutiche da parte dell'autore.

oncludendo con Erich Auerbach:

"Petronio ci mostra il limite estremo a cui sia arrivato il realismo antico. (...) Si può dalla sua opera anche conoscere quello che tale realismo non poteva o non voleva dare. La Cena è un'opera di carattere puramente comico. I Personaggi che vi compaiono sono, sia singolarmente che nei legami con l'insieme, mantenuti coscientemente e secondo un criterio unitario nel gradino stilistico più basso, tanto per la lingua quanto per il modo in cui sono visti; a ciò si collega necessariamente il fatto che tutto quello che, psicologicamente o sociologicamente, accenna a sviluppi seri o addirittura tragici, deve essere tenuto lontano, ché altrimenti distruggerebbe lo stile sotto un peso eccessivo. (...) Il vecchio Grandet o Fedor Karamazov non sono caricature come Trimalchione, bensì realtà da prendere sul serio, avvolte in tragici intrichi, tragici perfino essi stessi, benché anche grotteschi.[37]

Il motivo di questa inattuabilità di fondo? La risposta risiede sempre nell'insuperabile argomentazione di Mimesis:

"Per la letteratura realistica antica, la società non esiste come problema storico, ma tutt'al più come problema moralistico, e inoltre il moralismo si rivolge più all'individuo che alla società. (...) Se la letteratura antica non poteva rappresentare la vita quotidiana né seriamente né problematicamente e nemmeno nel suo sfondo storico, ma solamente nello stile umile, comico o tutt'al più idilliaco, senza storia e statico, si ha dunque non soltanto un limite al suo realismo, bensì anche, e soprattutto, un limite alla sua coscienza storica[38].

Anche la ricerca di un approccio (apparentemente) documentaristico di Pasolini sfocia in un realismo fittizio: l'universo dei Ragazzi di vita, dei sottoproletari delle borgate romane cantati nelle Ceneri di Gramsci non è riconducibile ad una mera catalogazione fotografica, ad istantanee di una miseria periferica e suburbana. Pasolini attribuisce a questo microcosmo di povertà un'aura mitica; i sudici e verminosi abitanti della periferia, prodotti dal caotico processo di accumulazione urbanistica, diventano eroi incorrotti dell'immaginario pasoliniano, in una sorta di romanticismo proletario alla ricerca di un primitivismo originario. In Petroliola differenza tra borghesi e sottoproletari è, prima di tutto, un'antitesi fisica, che si realizza nel corpo e nella gestione del corpo. I primi portano le stigmatedella loro ripugnante volgarità di classe nell'amalgama disarmonico di quei nasi, quei grassi, quelle rughe, quelle collottole, quelle bocche, quei rossori, quei pallori, quei sudori [39]. La cifra della rispondenza tra fisico e ceto è una costante reiterata nella trama del romanzo; ne riporto alcuni esempi per  scrupolo divulgativo:

"Gli Dei-Padroni appartengono visibilmente alla razza borghese, magari con origini nobiliari ecc. ecc. Hanno i nasi duri, i menti melensi, le occhiaie colpevoli dei burocrati, dei professionisti, dei commercianti o degli industriali; la loro aggressività tutta sociale (perché fisicamente, anche se atletici, sono dei deboli) si mescola con il senso di colpa che l'ha generata[40].

"Alle origini di ogni figura della borghesia italiana c'è qualcosa di vignettistico, lo si sa bene. Ebbene, questo ingegner Giovanni xxx era effettivamente come voi lo immaginate: milanese di residenza, varesotto di nascita, ligure di abbronzatura, con un che di romano negli occhi e dei capelli neri un po' brizzolati (brizzolatura che, chissà perché, aveva qualcosa di empio, di imperdonabile, tanto era inconsapevolmente volgare).[41]

"(...)quell'offerta del corpo di piccolo borghese intellettuale, incapace di offendere e destinato a essere imbelle, a venire punito. Tutto ciò di cui si glorificava come di un privilegio non ostentato - la sua pelle bianca, la stoffa del vestito - quei calzini che si intravedevano sotto i pantaloni tirati su nel polpaccio - era adesso oggetto di pietà un po' ripugnante, e basta. Neanche l'assenza di vita bastava a cancellare le stimmate della nascita: anzi, le esponeva in modo ancor più brutale.[42]

I corpi dei poveri, dei sottomessi, dei lavoratori possiedono invece una bellezza grezza, nonostante (e forse a causa) delle irregolarità ed impurità del volto, anti-classico e per lo più spiccatamente meridionale. Anche a questo proposito gli esempi riscontrabili nel testo sarebbero sconfinati; mi limiterò a qualche citazione rappresentativa:

"(Salvatore Dulcimascolo) aveva la fronte stretta, i lineamenti irregolari, un po' animali, quasi sgradevoli e nello stesso tempo pieni della bellezza della salute e della sessualità ereditate come un bene; il naso un po' adunco, la bocca troppo carnosa, le guance tirate sugli zigomi; il corpo abbastanza lungo per un meridionale; la sua forza era quella felina e quadrata del ragazzo bruno, che sarà divorato, da vecchio, dalla magrezza, o deturpato, più probabilmente, dalla pinguedine dei poveri[43].

"I suoi due occhi neri che parevano bistrati tanto il loro obliquo disegno era inciso nell'orbita e tanto folte erano le sopracciglia, splendevano di un'allegria senza ragione, come quella degli animali.[44]

"Nella madre uguale che nelle figlie, tutte pronte ad accettare i sacrifici imposti dalla natura e dal potere., confusi tra loro non per errore ideologico, bensì per realismo. Un realismo non pensato, bensì vissuto nei corpi, nei dolci occhi, nei sorrisi di gente povera, nei capelli meravigliosi ma umili come vegetazione o pelame di bestia, nei lineamenti appena dirozzati, un po' camusi, ma uguali a tutti quelli coloro che assomigliano ai padri e alle madri belli e senza difetti[45].

Il corpo diventa un contenitore simbolico di istanze proprie della casta di appartenenza, in cui Pasolini comprime e riassume le sue ideologie e mitologie personali (d'altronde l'autore ci aveva avvertito all'inizio del romanzo che la psicologia sarebbe stata sostituita di peso dall'ideologia). I suoi personaggi vivono un'esistenza leggendaria, in una programmatica trasfigurazione della periferia degradata in uno scenario epico; la creazione dell'intellettualissimo Pasolini deve essere contemplata come un presepe arcaico, in quanto ogni aiuto e sprone alla civilizzazione sarebbe un atto di contaminazione e di violazione di un luogo sacro.
Lo sguardo mistificatore di Pasolini nega il realismo non soltanto ai lettori ma anche a se stesso; la realtà subisce un processo di sublimazione e di forzatura delle dinamiche esistenti di segno contrario rispetto a Petronio, ma il cui risultato di copertura e scomposizione faziosa del reale è il medesimo: una trappola in cui i lettori (e i critici) sprovveduti non hanno ancora smesso di cadere.


Una somiglianza solo apparente: il tema erotico

Ad una prima lettura dei due romanzi, la somiglianza più vistosamente esplicita tra il Satyricon e Petrolio sembrerebbe risiedere nel copioso serbatoio di pagine erotiche. Approssimazione del tutto erronea e gratuita, retaggio di una lettura sommaria e (a voler essere generosi) frettolosa; la trattazione dell'eros costituisce, a mio parere, l'antitesi più spiccata tra i due romanzi. In Petronio l'oscenità è una delle varianti strumentali del medesimo sentimento di decadenza epocale su cui è intessuto l'intero romanzo; una delle tante sfrenate corse al profitto (in questo caso corporeo) che caratterizzano la torbida età Neroniana. Inoltre, come ricorda Luca Canali, nella sua Introduzione a Petronio:

"Di quanti autori latini trattano le cose del sesso, anche nelle sue manifestazioni più scabrose e trasgressive, Petronio è linguisticamente il più casto: egli non ama il turpiloquio, anzi ne rifugge programmaticamente. Non ho fatto una statistica, ma sono certo di non sbagliarmi affermando che mai posizione dell'eros o semplice dettaglio fisiologico sono mai nominati con il nome corrente, sempre volgare. Tutto ciò Petronio indica con ingegnose metafore: non certo per ipocrisia né tanto meno per reticenza (...) bensì per una vera e propria ripugnanza per il raggelante luogo comune triviale. Sia Catullo, sia Persio, sia Giovenale e sia Marziale non solo fanno largo uso, ma forse esibiscono con qualche compiacimento un turpiloquio erotico alquanto stereotipato. L'erotismo nel Satyriconè spesso puro gioco: non è mai compiacimento o desiderio di denuncia o di scandalo. Senza scandalo, ma senza partecipazione, Petronio registra in perfetta castità di stile la disfatta di ogni legge morale[46].

Petronio dunque, a differenza di quanto i riassunti antologici potrebbero far supporre, è un autore morigerato, perennemente controllato e casto nell'espressione di contenuti amatori. L'erosè da lui vissuto e descritto come una forza propulsiva e vivificatrice, avulsa dalle sovrastrutture civili del matrimonio, della fedeltà incondizionata e dal maschilistico galateo romano (propugnatore di un'ideale femminile di aggraziata passività). E' un'entità ctonia, imbevuta di una violenta carica dionisiaca che precede la collettività e le norme di connivenza sociale. Un genuino culto per il corpo, ancora privo di una sublimazione intellettuale o artistica, estraneo alle categorie di moralità e di utilità; l'amore, in Petronio, non è bello o positivo, non ha ancora subito il processo di zuccherificazione romantica o di fobica negazione religiosa. E' semplicemente, e incondizionatamente, natura.

Parallelamente, nei passi di più marcata licenziosità contenutistica (mi riferisco in modo particolare al penultimo capitolo del Satyricon, quando viene introdotta al lettore l’heredipeta Filomela [47], che addirittura arriva a prostituire i due figli), Petronio utilizza il corpo (e il suo stato deteriore) come sintomo di una più universale decadenza storica ed epocale. Il pervertimento delle pulsioni individuali è lo specchio di un periodo storico torbido quale fu l’età neroniana; la degradazione della provincia è spia della corruzione ammorbante della capitale, in un “mal di decadenza” che appartiene alla corte imperiale, al nuovo amalgama di forze sociali emergenti e, in un pessimismo più radicale (e moderno) all’intera umanità.

In Pasolini invece il linguaggio erotico si carica di un'aggressività e di una trivialità che in alcune pagine sfidano i limiti di sopportazione e auto-censura borghesi (contrassegno che lo accomuna all'ultima produzione cinematografica pasoliniana, da I racconti di Canterbury a Il fiore delle Mille e una notte, dal Decameron a (soprattutto) Salò o le 120 giornate di Sodoma).Al di là dell'intento (di ascendenza avanguardistica) di épater les bourgeois, per Pasolini il corpo diventa veicolo di denuncia sociale. Riporto parte dell'intervista che seguì la contestata uscita di Salò:

"Nel mio film c’è molto sesso, ma (...) ha una funzione molto precisa, quella di rappresentare cosa fa il potere del corpo umano: l’annullamento della personalità degli altri, dell’altro. […] il sesso ha una grande funzione metaforica […] metafora del rapporto tra potere e coloro che ad esso sono sottoposti […] C’è una frase in particolare che faccio dire ad uno dei personaggi del mio film: “là dove tutto è proibito si ha la possibilità reale di fare tutto, dove è permesso solo qualcosa si può fare solo quel qualcosa…”»

L'erotico diventa quindi scandaglio e specchio del potere, che vanifica le istanze del corpo veicolandole a sovrastrutture alienanti che stimolano e provocano, come conseguenza estrema, uno stato di perversione latente. Allo snaturamento delle pulsioni fisiologiche da parte della griglia civile, Pasolini oppone un vitalismo esasperato, che non si riduce a mera smania individuale, ma che afferma il bisogno di esperienze totalizzanti a livello collettivo, in una revisione radicale dell'etica e del vivere associato. L’illusoria patina di libertà democratica garantita dal sistema borghese, in realtà, annichilisce e vanifica le istanze del corpo, costringendo l’individuo a far defluire le emozioni in pre-ordinati canali di sfogo.

Parallelamente a questo utilizzo ideologico del corpo, il rapporto di Pasolini è anche veicolato alla sua omosessualità, vissuta spesso nei termini di colpa e estraneità; per l'autore il soggetto omosessuale inevitabilmente vive all'esterno della società, senza possibilità di integrazione all’interno del tessuto civile. Forse anche da questo (ma siamo nei limiti dell'azzardo critico) nasce la sua ossessiva ricerca dell'Alterità, di una diversità che possa essere compatibile con il proprio ruolo di ostracizzato. Tutti i personaggi che animano l'immaginario di Pasolini sono infatti la somma delle identità che il soggetto vorrebbe essere ma che consapevolmente rifiuta, come se volesse gelosamente custodire il proprio io mancante, accettando lo statuto inesorabile della propria incompiutezza, che non può e non vuole esistere ufficializzata nell'ambito della società borghese. L'eros pasoliniano in questa accezione diventa l'unico e disperato tentativo di contatto e compenetrazione con il mondo (spesso infatti Pasolini ripeteva che amare equivale a conoscere), in un'estrema prospettiva di evasione da un senso di colpa di cui l'autore sembrò volersi punire con una asocialità forzata.


Bibliografia

E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 1956, primo volume
L. CANALI, Introduzione a Petronio, Bompiani, Milano 1990
L. CANALI, L'erotico e il grottesco nel Satyricon, Laterza, Bari 1986
L. CANALINeutralità e vittoria di Petronio, in Petronio, Satyricon, a cura di Ugo Dettore, Rizzoli, Milano 1981
L. CICU, Donne petroniane. Personaggi femminili e tecniche di racconto del Satyricon di Petronio, Roma 1992
G. B. CONTE, L'autore nascosto. Un'interpretazione del Satyricon, Il Mulino, Bologna 1997
F. FELLINI,  Fellini Satyricon, a cura di D. Zanelli, Cappelli, Bologna 1969
F. FELLINI, Un regista a Cinecittà, Mondadori, Milano, 1988
R. GUERRINI, Petronio e Céline (ovvero la denigrazione del reale), "Reale Istituto Lombardo" 1973
K.J. HUYSMANS, A' rebours, Parigi 1884
P. P. PASOLINI, Petrolio, Edizione Mondadori, "Oscar scrittori moderni", Torino 2005
PETRONIO, Satyricon, traduzione e note a cura di Andrea Aragosti, Grandi classici greci e latini BUR, Bergamo 2009
J.P. SARTRE, Leparole, Edizione Il Saggiatore (tascabili), collana dei maestri dell' '900.
E. SANGUINETI, La ballata del quotidiano, interviste di Giuliano Galletta (1994-2009), Genova 2012
G. VERGA, da Vita dei campi, Novelle, Rizzoli, Milano 1981.
P. ZANKER, Augusto e il potere delle immagini, Torino 1989.




[1] P.P.Pasolini, Petrolio,Milano 2005, Edizione Mondadori "Oscar scrittori moderni", pag. 9
[2] P.P.Pasolini, lettera ad Alberto Moravia in calce a Petrolio. Edizione Mondadori, pag. 579-580
[3] Jean-Paul Sartre, Leparole, Edizione Il Saggiatore (tascabili), collana dei maestri dell' 900, pag. 43
[4] P.P.Pasolini, Petrolio, Idem, pag. 448
[5] P.P.Pasolini,Petrolio, Idem, pag. 446
[6] P.P.Pasolini, Petrolio, Idem, pag. 13
[7] P.P.Pasolini, Petrolio, Idem, pag. 193
[8] Pozzuoli? Napoli? Una città di mera fantasia? La profusione dilagante di saggi ed articoli di geologi, critici letterari e storici dell'arte dimostra quanto sia concettosa e pedantesca l'insopprimibile querelle. Il dinamismo e la vivacità coloristica della descrizione non risentono in alcun modo, a mio parere, della determinazione effettiva di un paio di (indimostrabili) coordinate spaziali.
[9] Gian Biagio Conte, L'autore nascosto. Un'interpretazione del Satyricon, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 40-42.
[10] Gian Biagio Conte, L'autore nascosto. Un'interpretazione del Satyricon, Il Mulino, Bologna 1997
[11] Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 1956, primo volume.
[12] A. Barbieri, nella sua Poetica Petroniana (Roma 1983) è del parere che Petronio “ha inteso colpire il moralismo e con ciò indicare una morale diversa fino a divenire opposta: una morale dell’immoralità”. Non condivido questa prospettiva (per creare una tale morale il Satyricon avrebbe dovuto presentare una dose assai più cospicua di immoralità) ma è senza dubbio una tesi affascinante.
[13] Petronio, Satyricon, traduzione e note a cura di Andrea Aragosti, Grandi classici greci e latini BUR, Bergamo 2009, p. 229
[14] Petronio, Satyricon,Idem, p. 233.
[15] Petronio, Satyricon, Idem, p. 259.
[16] Luca Canali, Introduzione a Petronio, Bompiani, Milano 1990, pp. 10-11.
[17] Giovanni Verga, da Vita dei campi, Novelle, Rizzoli, Milano 1981.
[18] Vitruvio raccomandava addirittura di costruire le scalinate dei templi con un numero dispari di gradini, in modo da garantire l'inizio e la fine del percorso con il piede destro, evitando così il rischio di catalizzare sul malcapitato fedele distratto una sorte nefasta.
[19] Il gallo era contemporaneamente simbolo di luce e di malattia; era infatti sacro al dio della medicina Asclepio, a cui veniva sacrificato in caso di avvenuta guarigione, e a Persefone, dea dell'Ade.
[20] Luca Canali, L'erotico e il grottesco nel Satyricon, Laterza, Bari 1986.
[21] Al termine della narrazione, Trimalchione anzi chiosa lo sbigottimento generale affermando che "Scio Niceronem nihil nugarum narrare: immo certus est et minime linguosus".
[22] Petronio, Satyricon, Idem, p. 269.
[23] Non sono d'accordo con la supposizione postulata da Bȕcheler circa una lacuna immediatamente successiva alla novella sopra citata, motivata dal fatto che il raccordo con il segmento successivo sembri allo studioso brusco ed improvviso. A mio parere, proprio quest'effetto di dissonanza anti-armonica era ricercato da Petronio, per squalificare e screditare goliardicamente la scarsa attenzione e la gretta fruizione della "letteratura" (sebbene di tipo conviviale e popolaresco) da parte dei convitati, subito disposti a gettarsi nel loro ambiente culturale prediletto: la comicità de-sublimata.
[24] Petronio, Satyricon, Idem, p. 271.
[25] G.B. Conte, L'autorenascosto. Un'interpretazione del Satyricon, Il Mulino, Bologna 1997, p. 42
[26] Petronio, Satyricon, Idem, p. 331.
[27] Per l'approfondimento della tematica si veda il saggio di Paul Zanker Augusto e il potere delle immagini (nella sezione dedicata al Programma di rinnovamento culturale, in Toga e Stola).
[28] Petronio, Satyricon,Idem, p. 413.
[29] P.P.Pasolini, Petrolio,Oscar Mondadori, Torino 2005, pp. 137- 146.
[30] P.P.Pasolini, Petrolio, Idem, p. 133.
[31] Il mito delle Argonautiche viene riletto in chiave fortemente anticapitalista e anticolonialista, in cui il vello d'oro, motore e causa primigenia del conflitto, viene assimilato al petrolio, l'oro nero della nostra società.
[32] Riporto la schematizzazione dello stesso Pasolini, alle pp. 170-171 di Petrolio: "(...) in una riunione intellettuale si raccontano e si commentano le seguenti storie: - L'acquisto di uno schiavo (a Khartoum) andata e ritorno (andata schiavista, ritorno osmosi tra le due culture attraverso il sesso) - La storia di una famiglia indiana i cui membri muoiono a uno a uno di fame - La distruzione della popolazione di Bihar (i Bianchi cercano di distruggere i 30 o 40 milioni di affamati e colerosi, dapprima buttando dall'alto pacchi di viveri avvelenati, poi addirittura bombardando a tappeto città e villaggi. Ma la popolazione non muore: appena uccisi, massacrati, risuscitano. - Lo scambio di esperienze tra un giovane israeliano e un giovane arabo (tutti e due muoiono in una battaglia sul Golan e ognuno dei due rinasce nel corpo dell'altro, vivendone le esperienze culturali: l'arabo vive l'industrializzazione e il cosmopolitismo industriale di Israele, l'israeliano vive l'esistenza preindustriale, contadina, magica di un villaggio del Libano povero. La storia finisce con i due funerali veri. - Tre storie di Botole: in Marocco in fondo alla botola mondo; uguale per merito di un Re (morente, appestato), in Nigeria un mondo degradato, con la vecchia in gabbia, in Algeria il mondo di Parigi, in cui il ragazzo diventa uno scopino. veramente degradato e servo - La rifondazione della religione dei Kota - Una storia che si svolge nel momento in cui la Sicilia è riromanizzata (Arabi e Siciliani) - Storia di un emigrante greco o andaluso in Germania, visto nei primi Anni Sessanta alle soglie del '68 (ancora assolutamente imprevisto)".
[33] Tristram Shandy di Lawrence Sterne?
[34] Ricordano quasi le buone cose di pessimo gusto, descritte con squisita ironia da Guido Gozzano.
[35] K.J. Huysmans, A' rebours, Parigi 1884.
[36] R. Guerrini, Petronio e Céline (ovvero la denigrazione del reale), "Reale Istituto Lombardo" 1973.
[37] E. Auerbach, Mimesis, I volume, Torino 1956, pp. 37-38.
[38] E. Auerbach, Mimesis, I volume, Torino 1956, pp. 38-40.
[39] P.P. Pasolini, Petrolio, Idem, pag. 260.
[40] Ivi, pag. 269.
[41] Ivi, pag. 460.
[42] Ivi, pag. 12.
[43] Ivi, pag. 275.
[44] Ivi, pag. 188.
[45] Ivi, pag. 266.
[46] Luca Canali, dall'introduzione a Petronio, Satyricon, a cura di L.C. , Bompiani, Milano 1990, pp. 14-15.
[47]  La scelta di questo nome non è casuale: Petronio ha attinto dal repertorio mitico la vicenda di Filomela, Procne e Tereo, anche se, a prima vista, parrebbe un collegamento iperbolico e non giustificato. In realtà, come ha brillantemente osservato Luciano Cicu nel suo saggio Donne petroniane. Personaggi e tecniche di racconto nel Satyricon di Petronio, la matrona di Crotone eredita i caratteri costitutivi dei tre personaggi: da Filomela l’ingegnosità, da Tereo la doppiezza, da Procne la determinazione contro natura ad utilizzare i figli per assecondare le vendette o le passioni personali.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Un contatore di accessi era stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data
venivano visualizzate le visite a questo blog. Gli accessi pregressi (registrati da Google)
andavano quindi sommati a quelli esposti dal contatore di Shiny Stat.
Da un confronto fornito da Google (Blogspot) mi accorgo però che gli accessi
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L’attendibilità delle statistiche di Google è fuori discussione.
Per questo motivo, utilizzando le informazioni statistiche di Google, darò notizia,
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cioè dal 15 febbraio 2012. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

15 febbraio 2012 – 12 luglio 2013: ACCESSI TOTALI SEGNALATI DA GOOGLE 735.661

La Regina Esigente e la Madre Consolatrice, di Sandra Bardotti

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
La Regina Esigente e
la Madre Consolatrice
di Sandra Bardotti

La crisi ideologica che, negli anni Sessanta e Settanta, ha portato Pasolini fino alla sfiducia testimoniata dagli Scritti corsari e dalle Lettere luterane, oltre che dalla produzione poetica, narrativa, teatrale e cinematografica, fu una profonda crisi personale, che portò alla rottura con una grande personalità che si era legata a lui con un vincolo di affetto profondo e intimo, Elsa Morante. Non ha senso cercare di stabilire quale delle due sia maggiormente rilevante. Credo sia solo possibile affermare che furono concomitanti, che l’una coinvolse l’altra. Sicuramente il distacco dalla Morante fu un momento molto difficile per Pasolini, perché coinvolse e mise in crisi anche la visione di intellettuale e di uomo che egli aveva di se stesso.
Pasolini e la Morante si conobbero verso la metà degli anni Cinquanta, e la loro conoscenza fu mediata dalla figura di Alberto Moravia. L’ammirazione di Pasolini per la scrittrice si manifesta già nel 1953, quando egli ha la possibilità di leggere Lo scialle andaluso, apparso su ‹‹Botteghe oscure››. È tra il 1953 e l’anno successivo, dunque, che si deve collocare l’incontro personale, testimoniato dall’epistolario pasoliniano. Subito tra i due scatta una reciproca stima, ma anche un dialogo produttivo che non risparmia critiche e biasimi; insomma, un rapporto di sincera amicizia. La frequentazione si fa assidua soprattutto durante gli anni Sessanta, e nel 1961 l’amicizia si era consolidata a tal punto che i tre organizzarono insieme un viaggio in India. Di questa esperienza rimangono le testimonianze di Pasolini (L’odore dell’India) e di Moravia (Un’idea dell’India), così diverse tra loro, che documentano due approcci assai distanti al paese visitato. Indicativo è che Pasolini si presenti più solidale con le idee di carità che Elsa mostra di avere, rispetto al maggiore realismo scettico dell’amico Moravia. “La fraternità si cementa in una comune appartenenza alla razza di coloro che hanno ‹‹come ideale della vita, quello di svuotare con un ditale il mare›› [i] [ii]. 
Anche se il realismo dei primi romanzi romani pasoliniani sembra così diverso dall’indagine psicologica con cui sono indagati i personaggi delle borgate romane nei romanzi della Morante, un filo sottile lega i due scrittori. È l’amore per i ragazzini, per una società sottoproletaria che appare ancora incosciente dei cambiamenti messi in atto dal nuovo Potere consumistico, che attraversa i loro romanzi. Il discorso potrebbe essere più chiaro se analizzassimo il significato che il concetto di “barbarie” viene ad assumere nell’opera di entrambi, ma non è questo il luogo per affrontare un parallelo che pure si rivelerebbe interessantissimo; per chi volesse approfondire l’argomento preferiamo rimandare al bel saggio di Massimo Fusillo [iii]. Basterebbe la testimonianza dell’incipit de Il pianto della scavatrice: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta” [iv], che omaggia il morantiano “Solo chi ama conosce” [v] (Alibi), per capire la comunione di visione e le corrispondenze che si venivano a creare tra i due poeti. Si tratta di un’adulazione reciproca, di un omaggiarsi a doppio senso, di rispecchiamenti continui dell’altro nella propria opera. Per celebrare l’amica, Pasolini le dedica anche il volume La religione del mio tempo, uscito nel 1961.
Pasolini deve essersi presentato alla Morante, fin dai primi momenti della loro amicizia, come un nuovo Rimbaud. Del resto, egli è uno dei pochi autori del nostro Novecento che abbia ripetuto un’esperienza così rivoluzionaria come fu quella di Rimbaud un secolo prima. La sua genialità, la sua precocità colpirono immediatamente una donna così sensibile e attenta al mondo letterario. Poi ci fu la comunanza di motivi, temi, intenti: Pasolini le appariva come colui che avrebbe potuto, come Rimbaud, accusare con violenza inaudita il mondo del nuovo capitalismo, dare una scossa a tutta la società borghese che stava procedendo al genocidio del mondo sottoproletario, svelare con la forza della sua parola l’inganno che si celava dietro l’apparente benessere. Già in Poesia in forma di rosa, però, Elsa scorgerà una radice narcisistica e una vena di populismo che non apprezzerà. Così, dopo aver letto Poesia in forma di rosa, nel 1964, scrive e invia all’amico un testo “scherzoso”, Madrigale in forma di gatto, un calligramma in cui lo accusa di ipocrisia, di finto amore, di malafede ideologica:

La rosa è la forma delle beatitudini.
Beata l’angoscia in forma di rosa.
Beato il disordine e la libidine sanguinosa
la passione di sé invereconda gli eccessi di velocità e le orge funebri
il nero rifiuto dello sposalizio le bandiere dell’oltranza le corazze dell’ignoranza
i vari equivoci dell’egoismo le mascherate degli stracci
le carità pretestuose le immondizie deificate
i pregiudizi di casta l’alibi storicistico
le complicità attuali, l’adorazione ai padri farisei, la paura della castrazione
il candido tradimento il pianto vantone
la corda sentimentale e la spada della ragione
beate le secrezioni i visceri della letteratura l’oratorio la mistificazione
quando finalmente s’aprono in forma di rosa!
Il ragazzo che si intende protagonista del mondo
(protagonista anche se bandito, anzi di più perché bandito…
starà sempre beato al centro della rosa.
E lui beato ignorerà gli altri peccatori al bando della rosa
e al bando di se stessi
non protagonisti del mondo
non leggenda di se stessi
soli senza nessun addio. Agonie senza nessun pianto e nessuna rosa

Il gatto che non crepa [vi]


Non sono accuse da poco. Sostanzialmente Elsa accusa Pasolini proprio di falso amore verso il sottoproletariato, di narcisismo e protagonismo. A ciò si aggiungerà uno screzio ancora più grande: quando l’Arco Film si rifiuta di pagare due attori amici di Elsa che avevano partecipato al Vangelo secondo Matteo, e Pasolini non fa niente contro la casa di produzione cinematografica, scriverà all’amico: «E' chiaro che aspettarsi un simile rispetto da parte di quegli immondi stronzi dell’Arco Film era utopistico, per non dire cretino, giacché loro non rispettano che la merda (cioè proprio quelle poche miserabili lire che tu dici). Almeno avrei voluto che tu, con la tua autorità, gli facessi almeno mettere il muso nella merda loro, almeno per un momento, e che si vergognassero almeno (loro stessi per la loro parte in quanto persone) della loro merda ecc. ecc. […] E tu sai benissimo che il pagare di tua tasca (o io di mia tasca) qui non significa niente […]. Perciò anche se tu fossi miliardario (e purtroppo non lo sei) non potrei accettare i tuoi soldi […]. L’ombra che tu dici sulla nostra amicizia lo sai benissimo non è il debito tuo, che fra l’altro non esiste; ma "l’adorazione ai Padri Farisei" come ti avevo già scritto nella poesia. Ma non è vero che questa è la prima volta che c’è quest’ombra». [vii]
Elsa, dunque, gli rimprovera una complicità con i padroni, l’incapacità di opporsi alla forza capitalistica; accusa durissima per un poeta civile che tutto voleva mostrare di essere tranne che un borghese omologato e consumista come gli altri. L’immagine che Elsa si era costruita di Pier Paolo continuerà a sgretolarsi col tempo. Intanto, siamo arrivati alla metà degli anni Sessanta e, nonostante queste polemiche tra i due, si può affermare che è il periodo di maggiore vicinanza ideologica. Entrambi sono in disarmonia con il mondo, ma mentre Pasolini sembra spinto a scrivere e produrre sempre di più come se si trattasse di una competizione contro la società del Potere, Elsa se ne sta da parte facendosi scudo con il suo ammaliante umorismo. Mentre Pasolini accusa e respinge quella società che continuamente lo esclude, Elsa ama chi la odia e non chiede niente in cambio, come amano le madri. Mentre Pasolini cerca di rinnegare la sua appartenenza piccolo-borghese con lo strumento della rimozione, Elsa usa quello della parodia innamorata.
Dopo il 1969 i contrasti subiscono una chiusura comunicativa e cessano di essere dispute produttive e stimolanti per entrambi. La Morante si sente sostanzialmente delusa. Pasolini non si è rivelato essere quell’uomo che lei aveva dipinto, quel geniale Rimbaud forte della sua maledizione. Pasolini era diventato insopportabile nella sua angoscia di sentirsi sempre messo sotto accusa. Si sentiva escluso e condannato anche quando non lo era, e avvertiva il bisogno di difendersi continuamente. Si ripiegava sempre più su se stesso, e aveva abiurato per sempre quella vena poetica così pura delle poesie friulane e delle Ceneri. Alla Morante sembrava che egli perdesse tempo inutilmente. D’altra parte, lui si sentiva chiuso nel rimorso di non essere stato all’altezza di quella figura che lei aveva creato di lui. Si sentiva sopravvalutato da Elsa, e ciò gli provocava il vergognoso rimorso di non essere riuscito a soddisfare le sue aspettative.
Nel 1971, dopo l’uscita di Trasumanar e organizzar, Elsa scriverà una lettera per cercare di sottrarsi al ruolo di “Regina Esigente” che Pasolini le aveva attribuito:

Si sa che ogni spiegazione è inutile.
Tanto l’altro spiega la nostra spiegazione
con la sua spiegazione. E così l’equivoco
gira in eterno. Ma questo è bene in fondo
come in fondo tutto è bene […].
A ogni modo (anche se NON ‹‹a scanso di equivoci››)
io qui m’affanno a comunicarti
quello che tu vuoi negare: insomma che
non rimprovero NIENTE A NESSUNO               
e tanto meno a te. […]
[…] Io rimprovero solo ME, per una cosa
e anche me, per quella sola (ti avverto
che se credi d’averla indovinata ti sbagli).
È la sola cosa che non c’è nel tuo libro
che pure è un libro disperato.
Disperato ma beato
perché quella cosa non c’è
(e se credi d’indovinarla ti sbagli).
Il tuo libro è disperato-beato perché sì. Dentro
c’è Pier Paolo
e Ninetto e Maria e pure Elsa
(benché solo l’Elsa che tu vuoi conoscere
e cioè dico la pura la
inconcussa Oh Dio
essa è concussa e invece impura
ecc. ecc.
Ma tu beato vuoi che gli appartenenti
a Pier Paolo
siano come Pier Paolo li vuole
e hai ragione. BADA! HAI RAGIONE!! 
Forse il solo modo di farli esistere (gli altri)
È questo: il tuo).
A ogni modo, nel tuo libro c’è Pier Paolo
e basta [viii]
Adriana Asti, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante

La Morante testimonia dunque l’impossibilità di un dialogo con Pasolini, perché quest’ultimo non riesce più ad ascoltare gli altri e a instaurare un confronto. Nelle sue poesie c’è solo lui, solo il suo narcisismo, e non c’è posto per gli altri. Al massimo vi si sente l’eco di altre persone a lui care e vicine, ma la loro immagine risulta sempre filtrata e deformata dalla presenza di un Ego assoluto e totalizzante, padrone incontrastato della scena. Così Elsa gli rivela anche di non essere la pura e inconcussa che egli credeva, né tantomeno colei che crede di avere l’autorità di rimproverare qualcuno.
Poi, nel 1971 Ninetto decide di sposarsi. È questo l’anno della crisi definitiva con la Morante. Pasolini si sente abbandonato, tradito dall’amico, e lo accusa di aver voluto seguire la propria natura allontanandosi da un “dovere” che aveva nei suoi confronti. Ad agosto scrive a Volponi: «Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o a cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui. Ti prego, non parlarne con persona al mondo. Non voglio che si parli di questa cosa. Tu e Elsa siete i soli (con Nico) che lo sanno. Può darsi che io riesca a vivere ancora». [ix]
Elsa sta dalla parte di Ninetto, sostiene il suo diritto a innamorarsi di una donna, e dice a Pasolini che amare vuol dire desiderare il bene di chi si ama, senza chiedere niente in cambio. Chi gli aveva finora dato sostegno e garantito forza vitale se ne va, lasciandolo solo. Egli non sopporta di restare solo con la propria diversità. Così, proietta sulla Morante il fantasma della “Madre Consolatrice”. Sa che la verità della Morante, della Madre, è superiore, ma proprio come un bambino non vuole accettarla.
Il ritratto che Pasolini ci offre di Elsa in Petrolio dimostra come l’amica sia stata un centro focale fino agli ultimi anni, e quanto la sofferenza provocata dal suo abbandono abbia inciso anche nelle scelte formali della sua ultima produzione. Viene detto subito di lei che aveva “il viso di giovane gatta” [x], e anche i caratteri psicologici le appartengono inequivocabilmente (“padrona del proprio pensare, per quanto il suo fondo potesse essere passionale, viscerale e tempestoso” [xi]). Tutta impegnata nella sua opera di carità nei confronti di un ragazzino alquanto bruttino, ma che a lei doveva sembrare bellissimo, non sta ad ascoltare l’amico. Lei non sta mai a sentirlo, per tutta la durata della loro amicizia; questo è quello che Pasolini, da figlio, le rimprovera. Lui ha un segreto di incalcolabile valore storico che vorrebbe donarle, perché è stata lei stessa a porsi nel mondo come una che non ha nulla da perdere. Ma lei rifiuta lo scambio, rifiuta di prendersi questo peso. Pasolini le rimprovera anche di non essersi mai schierata al suo fianco nelle battaglie sostenute contro le istituzioni e la politica, di essere sempre stata passiva.
Credo sia possibile che il recupero dell’opera di Rimbaud nell’ultimo Pasolini, di cui ho già parlato nel saggio Una lunga stagione in inferno: Rimbaud nell'opera di Pasolini, edito in Studi pasoliniani (n. 3, 2009) [*], sia dovuto alla volontà del figlio-Pasolini di dimostrare alla madre-Elsa che l’immagine che lei aveva sempre dipinto di lui era vera. Come un bambino che voglia dimostrare alla madre il suo amore. La nega, la accusa, ma nello stesso tempo le ubbidisce. Tutto come nel più comune dei rapporti madre-figlio. Questa è la motivazione che abbiamo intravisto nel recupero di Rimbaud da parte di Pasolini, perché non è da sottovalutare l’importanza della figura della Morante in tutta la vita di Pasolini. È lei la donna più importante della sua vita, dopo la madre; e ai suoi pensieri, accuse o lodi, dedicherà sempre un’attenzione particolare.
Ne Lo scialle andaluso si racconta di un bambino che desidera diventare santo, e ci rinuncia per amore della madre. I due vivono una vita mediocre, con lei “convinta che lui sia destinato a qualcosa di grande” [xii]. Sembra che già in questo racconto giovanile lei sia stata capace di prefigurare quell’amicizia che nacque e si sviluppò con Pasolini alcuni anni dopo. Forse sentiva che sarebbe arrivato un “figlio” che avrebbe incrociato il suo cammino, che l’avrebbe riempita di gioie e di dispiaceri, che avrebbe tentato di intervenire nel mondo con la sua parola e di scongiurare l’ecatombe borghese come lei non era riuscita a fare. Forse era proprio lei che cercava questo nuovo Rimbaud, e lo aveva espresso già in questo racconto. Pasolini all’inizio fu in grado di assolvere questo compito, ma poi si rivelò troppo preso da sé e dalle sue angosce.
Si tratta solo di uno spunto di lettura, che rivela ancora una volta quanto sia divertente fare critica letteraria.

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[i] P.P. Pasolini, L’odore dell’India; in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1998, vol. I (1946-1961), pag. 1233.
[ii] W. Siti, Elsa Morante nell’opera di Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, a cura di C. D’Angeli e G. Magrini, Studi Novecenteschi, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, pag. 134.
[iii] M. Fusillo, ‹‹Credo nelle chiacchiere dei barbari››. Il tema della barbarie in Elsa Morante e in Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, cit., pagg. 97-129.
[iv] P.P. Pasolini, Il pianto della scavatrice; in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Meridiani Mondadori, Milano 2003, vol. I, pag. 833.
[v] E. Morante, Alibi; in E. Morante, Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Meridiani Mondadori, Milano 1988, vol. I, pag. 1392.
[v] Il testo è pubblicato da N. Naldini in P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, Einaudi, Torino 1988, pagg. LXXXIX-XC.
[vii] Ibidem, pag. CLXXIII.
[viii] Ibidem, pagg. CXXXVI-CXXXVII.
[ix] Ibidem, pag. 707.
[x]P.P. Pasolini, Petrolio, a cura di Silvia De Laude, Oscar Mondadori, Milano 2005, pag. 27.
[xi] Ibidem, pag. 27.
[xii] E. Morante, Lo scialle andaluso; in E. Morante, Opere, cit., vol. I, pag. 1578.

[*Una lunga stagione all'inferno: Rimbaud nell'opera di Pasolini, di Sandra Bardotti. L'articolo esamina la presenza di Arthur Rimbaud nell'opera di Pasolini. Attraverso un'ampia serie di riferimenti, ci proponiamo di mostrare che Rimbaud è presente come un fiume sotterraneo in tutta la produzione pasoliniana, configurandosi come simbolo di poesia e di autorità poetica. Un maestro accolto nell'adolescenza poetica delle Poesie a Casarsa, la cui lezione verrà continuamente ripensata anche nella maturità.
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Pasolini nel Duemila, di Giorgio Galli

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LA SAGGISTICA - LIBRI
Giorgio Galli
Pasolini nel Duemila
di Giorgio Galli
In Pasolini comunista dissidente. Attualità di un pensiero politico
Kaos edizioni, Milano 2010


Alberto Asor Rosa
Alberto Asor Rosa, storico e cattedratico della lettera­tura italiana, di formazione marxista, aveva pubblicato nel 1965 Scrittori e popolo, saggio su un tema caro proprio a Pasolini. Era stato molto letto in chiave sessantottina, e sembrava collocare Antonio Gramsci più vicino al po­pulismo che al marxismo.
Asor Rosa è dunque uno studioso particolarmente at­trezzato per valutare Pasolini come pensatore politico. Eppure, dopo aver rilevato che «egli descrive, con gli strumenti propri dell'analisi linguistica, una condizione peculiare, storica e profonda al tempo stesso, della na­zione italiana nel suo complesso, e cioè la sua imperfet­ta e manchevole unità politica, e le crepe sociali non mai rimarginate, da cui essa è stata ed è tradizionalmente contraddistinta» [1], approda a questa conclusione:

«Pasolini accetta fin da allora, fin dai lontani, operosi e tut­to sommato "positivi" anni Cinquanta... di sperimentare tutta la durezza del contatto, del confronto, del conflitto, dell'aspra contesa con il mondo. Negli anni Cinquanta in prospet­tiva ancora positiva: in seguito, in maniera sempre più scon­solata, e poi sempre più disperata, fino alla tragica uscita di scena di vent'anni dopo» [2].

L'uscita di scena non è né sconsolata né disperata, se è quella del saggio per il congresso del Partito radicale. Pone, con "durezza", i temi attuali, si è visto, sulla pos­sibile immodificabilità dei rapporti sociali e sul ruolo degli intellettuali. Se gli intellettuali non "tradiranno" - è l'ipotesi "positiva" - i rapporti sociali potranno conti­nuare a essere modificabili, come nella storia e, particolarmente, negli ultimi "cento anni", quando gli intellet­tuali hanno svolto appieno il loro ruolo critico per an­nunciare e conquistare diritti civili (saldandosi a com­portamenti e movimenti collettivi di masse che comin­ciano a capire questi diritti, anche se inizialmente non ne sanno).
Questi i giudizi di un altro autorevole prefatore, Al­fonso Berardinelli:

«I poveri e i senza potere non aspiravano ad avere più ric­chezza e più potere, ma ad essere in tutto e per tutto come la classe dominante, divenuta culturalmente la sola classe esi­stente. A questi discorsi [di Pasolini] la cultura di sinistra ita­liana reagì con un'alzata di spalle spesso al limite dell'irrisione. Pasolini scopriva cose risapute e le caricava di enfasi... Era davvero possibile, in buona fede, scoprire solo ora la "tol­leranza repressiva", "l'Uomo a una dimensione" di Marcuse? [...]
Nonostante lo schematismo concettuale, Scritti corsari resta uno dei rari esempi in Italia di critica intellettuale radicale della società sviluppata. Se non può sostituire da solo una sociologia spregiudicata... è almeno in parte riuscito a salvarel'onore della nostra cultura letteraria... E questa saggistica po­litica d'emergenza la vera invenzione letteraria degli ultimi anni di Pasolini» [3].

È vero che il suo pensiero politico non può sostituire, «da solo», una «sociologia spregiudicata»; tuttavia è mol­to di più di un fenomeno letterario che «ha salvato l'o­nore», o una altrettanto letteraria invenzione di «saggi­stica politica». Pasolini ha un pensiero politico organico in evoluzione, che è stato grave errore della cultura di si­nistra l'aver considerato con superficialità.
Sempre Berardinelli amplia il discorso:

«Non c'è Paese occidentale moderno nel quale la cultura letteraria e filosofica non abbia giudicato male l'avvento del­la modernità borghese e capitalistica... L'ossessività monotematica e il carattere testamentario di Lettere luterane ha fatto dimenticare che il libro è solo il punto culminante di una lun­ga serie di attacchi alla modernizzazione che nella nostra let­teratura si sono moltiplicati soprattutto dopo il 1955...
In un Paese più civile e libero un libro come Lettere luterane non sarebbe stato scritto. Pasolini parla con la persuasione e l'autorità morale di chi ha la certezza di avere intorno un ce­to intellettuale e politico non solo vergognosamente inade­guato ai suoi compiti, ma perfino al di sotto di un livello de­cente di autocoscienza. Così, uno scrittore "solo in mezzo al­la campagna", si assume il fardello di responsabilità enormi... Deve immaginare e proporre, con paradossali metafore swiftiane, che cosa è moralmente e politicamente necessario fare. È come se Pasolini dovesse surrogare da solo una classe diri­gente che non c'è» [4].

Questo approccio è valido, ma ancora prevalentemen­te letterario. Pasolini non è l'ultimo dei critici letterari della modernità. Ha un pensiero politico che distingue, si è visto, il "Consumismo" italiano da quello, in gene­rale, della "modernità", la democrazia italiana da quel­la, in generale, della modernità. Le sue proposte di ciò che è «politicamente necessario fare» non sono solo «metafore swiftiane» (come il Processo): sono proposte precise (anche se singolari) sulla scuola e sulla tv, rifor­mabili in vista di uno sviluppo che renda l'Italia un po­co più civile e un poco più libera (magari avvicinandola alle altre democrazie continentali).
Quanto il ceto intellettuale e politico italiano sia ina­deguato a questo modesto riformismo, il primo decennio del Duemila lo conferma ben più del 1975. Ma Pasolini non ha mai pensato di surrogare da solo una classe diri­gente che non c'è. Puntava sul ruolo collettivo di intellettuali che non tradissero e sull'ultima generazione del­la sinistra italiana. Non intendeva scrivere un monito "te­stamentario". Non voleva farsi massacrare a Ostia. Si preparava a proporre al congresso del Partito radicale un messaggio di critica, ma anche di implicita speranza.
L'opportunità di far uscire Pasolini dalla dimensione quasi esclusivamente letteraria, per dargli una dimensio­ne propriamente politica, è resa necessaria e urgente dal vuoto culturale, prima ancora che politico, di quanto re­sta della sinistra italiana. Si potrebbe pensare che l'Italia odierna della cosiddetta Seconda repubblica (cioè la Re­pubblica berlusconiana) sia diventata quel Paese degra­dato del quale egli parlava a metà degli anni Settanta.
A proposito delle vicende italiane del 1992-93 (snodo tra la Prima e la Seconda repubblica). Sarebbe stato pre­feribile «sostituire il personale politico per via elettora­le», come aveva auspicato Pasolini negli anni Settanta, e come avevano sperato i milioni di elettori che votavano per ridurre il potere della Dc. Ma il Pci, allora, non ave­va avuto il coraggio di rispettare il mandato ricevuto. E contro quel possibile mandato, contro la sostituzione per via elettorale, forze e personaggi ai quali era riferito l’"io so" di Pasolini avevano risposto con gli attentati, le stragi, il doppio "terrorismo" nero e rosso, anticomuni­sta e antifascista, che in parte veniva dal basso, ma che poteva manifestarsi solo dall'alto: la copertura delle stra­gi "nere", la tolleranza per la lotta armata "rossa".
Nel 1992-93 l'Italia non fu affatto attraversata «da un'ondata di ferocia», come sostenuto dalla vulgata craxiana. La magistratura milanese (pur con qualche protagonismo) non allestì affatto il Processo pasoliniano: perseguì le dilaganti corruttele di Tangentopoli. Se ne derivò l'era berlusconiana, ciò fu dovuto, oltre che al­l'evoluzione antropologica ben descritta proprio da Pa­solini, a partire dal Consumismo da poveri e dalla tv omologante, da morti provocate dalle stragi di mafia, di magistrati e di gente comune.
Pasolini non è stato affatto un "cattivo maestro" di violenza. Se parlò poco della lotta armata di sinistra, fu perché ancora non appariva fenomeno cruciale. Le Br non spararono per uccidere sino all'oscuro episodio di Padova (giugno 1975, due missini assassinati nella sede della loro federazione). Il sequestro Sossi (aprile-maggio 1974) non aveva influito negativamente sull'esito del re­ferendum divorzista, come temeva la sinistra, e la libe­razione dell'ostaggio era sembrata cavalieresca. Le Br di Mario Moretti cominciarono a uccidere alla vigilia delle elezioni politiche del 1976. Pasolini nel 1974 poteva scri­vere: «In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. C'è una sola eccezione. Si tratta di una decina d'anni fa. Per strada un gruppet­to di fascisti mi ha aggredito. C'erano con me dei giova­ni compagni. Abbiamo risposto con altrettanta violenza ed essi hanno battuto in ritirata».
Dunque Pasolini non fu un cattivo maestro, ma un buon maestro. Lo si può dimostrare proprio da una con­statazione di Berardinelli: «Chi ha preso in considera­zione un libro come Lettere luterane? Forse Norberto Bobbio o Rossana Rossanda? Luigi Pintor o Ernesto Galli della Loggia? Massimo D'Alema o Gianni Vattimo?» [5]. È vero. Le figure eminenti della sinistra italiana non lo hanno preso in considerazione. È un essere in debito. Lo si può ripagare solo cercando di capire quello che il buon maestro può insegnarci oggi. Egli stesso ci dà un'indicazione, dopo aver espresso il timore di rapporti sociali immodificabili. È una frase che ho già citata coi «partiti marxisti» ridotti «ad una funzione social-demo­cratica, sia pure, dal punto di vista storico, completa­mente nuova».
Credo sia una possibilità da approfondire, capovol­gendone il segno da negativo in positivo. Nel nuovo se­colo i partiti marxisti della Seconda internazionale si so­no evoluti in socialdemocratici. Altrettanto è accaduto per i partiti comunisti della Terza internazionale. Que­sta evoluzione ha ampliato i diritti della democrazia rap­presentativa. Si tratta dei diritti politici e civili. E qui la socialdemocrazia si è fermata. È nell'impasse.
È possibile, riallacciandosi al concetto marxiano del rapporto economia-politica, estendere questi diritti al controllo del potere economico, dei big players delle mul­tinazionali? Quando Pasolini parla di «funzione social­democratica completamente nuova», è compatibile pro­cedere, col suo pensiero, in questa dirczione? Non con pianificazioni totalizzanti, che pur si sono mosse sulla scorta di Marx, ma con l'estensione del diritto di voto, base della democrazia rappresentativa, oggi svuotato perché limitato alla sfera politica?
Se l'articolo "Io so" portava al Processo, la nuova fun­zione storica della socialdemocrazia, nell'ambito del pensiero liberale, non potrebbe portare al kantiano juscosmopoliticum? Vi avrebbe pensato Pasolini, se avesse potu­to continuare a pensare dopo lo scritto per il congresso del Partito radicale? [*] Forse è possibile ipotizzarlo. È que­sta la connessione tra il suo dubbio circa il ruolo degli in­tellettuali, e l’Appendice di questo libro [**]. Perché oggi le luc­ciole pasoliniane sono proprio scomparse, nonostante il parere contrario dell'ultima autorevole personalità a oc­cuparsi di Pasolini, il francese filosofo e storico dell'arte Georges Didi-Huberman, che aveva scorto le lucciole al Pincio «ancora all'inizio degli anni Novanta», le suppone «trasecolate nel vialetto degli aranci di Villa Medici», e che sostiene: «II compito che incombe su di noi è questo: rifuggire dai riflettori e cercarle nella notte» [6].
Certo, qualche comunità di lucciole sopravvive: ma so­no sparute eccezioni. La metafora di Pasolini è più che mai realtà. È giusto rifuggire dai riflettori. Ma perché le lucciole tornino ovunque, è necessario un pensiero for­te: quello che indichi come controllare il vero Potere.

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1 A. Asor Rosa, Prefazione a Passione e ideologia, cit., pag. XIII.
2 Ibidem, pag XXI.
3 A. Berardinelli, Prefazione a Scritti corsari, cit., pagg. X-XII.
4 A Berardinelli, Introduzione a Lettere luterane, cit., pagg. IX-XIII.
5 Lettere luterane, cit, pag. VIII.
6 «Le lucciole di Pasolini non sono scomparse», "la Repubblica", 16 settembre 2009. Cfr. G. Didi-Huberman, Come le lucciole: una politica della sopravvivenza, Bollati Boringhieri 2010.

[*Il testo dell'intervento che Pier Paolo Pasolini avrebbe dovuto tenere alCongresso del Partito radicale del novembre 1975 poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta, perché due giorni prima Pasolini moriva ucciso.  L’intervento è tratto dal "Numero unico" pubblicato dal Partito radicale per il suo 35° Congresso, Budapest, aprile 1989: il testo dell'intervento risulta, in tale "Numero unico", riportato soltanto parzialmente, con alcuni "omissis". Ma in pasolini.net  tale contributo pasoliniano viene proposto nella sua versone integrale (dai Meridiani Mondadori). L'intervento venne letto al Congresso 1975 del Partito radicale da Vincenzo Cerami.
C'è un grave pericolo - ci avverte il poeta e saggista - che incombe sul Partito radicale proprio per i grandi successi ottenuti nella conquista dei diritti civili. Un nuovo conformismo di sinistra si appresta ad appropriarsi della vostra battaglia per i diritti civili "creando un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo". Proprio la cultura radicale dei diritti civili, della Riforma, della difesa delle minoranze sarà usata dagli intellettuali del sistema come forza terroristica, violenta e oppressiva. Il potere insomma si accinge ad "assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici". La previsione di Pasolini si è avverata, non solo in Italia, ma nel resto della società occidentale dove, proprio in nome del progressismo e del modernismo, si è affermata una nuova classe di potere totalizzante e trasformista, di certo più pericolosa delle tradizionali classi conservatrici. 

[**] Il titolo dell’Appendiceè Ipotesi di cambiamento e si trova alle pagine 123-181 del libro di Giorgio Galli.

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La LIPU di Ostia per il centro culturale dedicato a Pasolini a Tor San Michele

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LE NOTIZIE
Una pagina storica di "pasolini.net"
Ostia, la michelangiolesca Torre di San Michele

La LIPU di Ostia per il Centro Culturale
dedicato a Pasolini a Tor San Michele
25 novembre 2005 - http://www.lipuostia.it/

La pagina che qui è riproposta si riferisce alle notizie erroneamente diffuse nei giorni scorsi
in base alle quali l'ex sindaco di Roma, Alemanno, si sarebbe attivato in tempi recenti
per la creazione di uno spazio museale dedicato a Pier Paolo Pasolini.
La proposta originaria per realizzare una simile iniziativa è da attribuire in realtà
ad Angelo Bonelli, che nel 2005, da Assessore all'Ambiente della Regione Lazio
formulò la proposta di creare a Ostia un Centro Culturale intitolato a
Pier Paolo Pasolini all'interno di Tor San Michele.

La LIPU, Lega Italiana Protezione Uccelli, di Ostia si schiera pubblicamente a favore della proposta, avanzata dall'Assessore all'Ambiente della Regione Lazio On. Angelo Bonelli, di creare un Centro culturale intitolato a Pier Paolo Pasolini all'interno di Tor San Michele, collegato al limitrofo Centro Habitat Mediterraneo LIPU.

Da anni la LIPU di Ostia si sta impegnando per il recupero dell'area dell'Idroscalo. In pochi anni, in quella che era una vera e propria discarica a cielo aperto, la LIPU ha ricostruito uno lago di 11 ettari, in cui sono state censite oltre 190 specie di uccelli, con la nidificazione di specie rarissime come l'airone rosso (unica della provincia di Roma) e la moretta tabaccata, il tutto attrezzato con sentieri natura su passerella e capanni per l'osservazione dell'avifauna. Tale area, in poco tempo, è diventata meta di visita da parte di scolaresche, gruppi turistici e ricercatori ed oggetto dell'attenzione da parte di mass media nazionali ed internazionali. A breve inizieranno i lavori per la realizzazione di un centro museale didattico-naturalistico di livello internazionale.

Qualche giorno fa, compreso all'interno del CHM LIPU, è stata inaugurata l'area dedicata alla memoria di Pier Paolo Pasolini, con la nuova stele del Maestro Mario Rosati ed un vero e proprio giardino letterario, il tutto gestito dallo stesso CHM LIPU di Ostia. In tale contesto, da anni, la LIPU Ostia ha chiesto alle autorità competenti il recupero di Tor San Michele ed un coinvolgimento della stessa LIPU nella gestione della struttura (soprattutto per quanto concerne la terrazza, ideale punto di osservazione sull'intera foce del Tevere), considerando anche la contiguità territoriale con il Centro Habitat Mediterraneo (sededella LIPU).

La LIPU di Ostia si dichiara quindi disponibile a mettere a disposizione le proprie strutture e conoscenze affinché questo ambizioso progetto di recupero ambientale e culturale possa trovare attuazione, in memoria di uno dei più grandi artisti ed intellettuali che il nostro Paese abbia mai avuto.
* * *
Tor San Michele, il maschio dell'idroscalo di Ostia, faceva parte del sistema difensivo litoraneo realizzato da Pio IV e Pio V per garantire la sicurezza della navigazione. Dopo la costruzione dell'idroscalo Tor San Michele fu restaurata per utilizzarla come base per il faro dell'aerodromo. La torre, di scuola michelangiolesca, fu edificata nel 1567 a guardia della foce del Tevere. Venne terminata durante il pontificato di Pio V sotto la direzione di Giovanni Lippi (1568) che sostituì Michelangelo dopo la sua morte. Il torrione a pianta diagonale, circondato da un fossato, ha un'altezza di 18 metri. La costruzione interamente casamattata è articolata su tre piani ciascuno con otto vani coperti con volta a crociera; nei sotterranei si custodivano materiali d'artiglieria; al piano terra si trovava il corpo di guardia e gli alloggiamenti per gli uomini; al primo piano si trovava l'alloggio dei comandanti. Completa la struttura la terrazza, circondata da un massiccio cornicione sporgente sostenuto da beccatelli in muratura, che ospita la piazza d'armi. Sul cornicione otto garitte o "bertesche" proteggevano le vedette. La particolarità della torre si nota proprio nella terrazza che ha il pavimento obliquo per facilitare lo scorrimento dei proiettili incendiari e una apertura circolare del diametro di otto metri. Nel 1930 la torre fu restaurata e in questa occasione si aprirono sui muri esterni delle finestre. Utilizzata come faro, fu occupata durante la seconda guerra mondiale dai tedeschi e poi dagli americani. Nel 1892 entrò a far parte degli immobili artistici su incarico della Soprintendenza Archeologica di Ostia Antica. Dal 1994 è passata in consegna alla Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Roma. Tor S. Michele è un immobile demaniale di interesse importante ai sensi della legge 1089/39, sulla tutela delle cose d'interesse storico-artistico. 
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Pasolini. Poesie e pagine ritrovate, a cura di Andrea Zanzotto e Nico Naldini Lato Side Editori srl, Roma 1980 - Con disegni di Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Zigaina

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LA SAGGISTICA - LIBRI - POESIA
Copertina del libro, disegnata da Emanuele Luzzati (1980)

Pasolini. Poesie e pagine ritrovate,
a cura di Andrea Zanzotto e Nico Naldini
Lato Side Editori srl, Roma 1980
Con disegni di Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Zigaina

La testimonianza-Pasolini, configurata nel lievitare estremo di un'idea di vita e di poesia in
quanto diversità, dischiude qualche suo enigma ai gio­chi dell'interpretazione, sia per il
fondamentale contributo di Nico Naldini che con Pier Paolo passò gli anni giovanili in Friuli,
sia per l'acuto e originalissimo saggio di Andrea Zanzotto,
uno dei maggiori poeti italiani. Da questi due interventi emergono elementi utilissimi
e del tutto nuovi. Il volume illustrato da disegni di Pasolini e Zigaina, presenta
un'ampia scelta dei testi più noti del grande poeta friulano, tratti dalle raccolte «La meglio gioventù», «L'usignolo della Chiesa Cattolica», «Le ceneri di Gramsci», «La religione del mio tempo», «Poesia in forma di rosa», «Affabulazione», «Trasumanar e organizzar».
Tutte le composizioni poetiche di Pasolini sono attualmente raccolte sia in singoli volumi
sia nei due volumi (Pasolini. Tutte le poesie) pubblicati nei Meridiani Mondadori.
Qui di seguito vengono riportati il saggio di Andrea Zanzotto
nonché le riproduzioni di alcuni disegni pasoliniani contenuti nel volume
Pier Paolo Pasolini, Ragazzo che dipinge, 1943
Pasolini poeta, di Andrea Zanzotto

Con tutto quello che ha scritto, e creato nei più vari campi, è giusto qualificare Pasolini soprattutto col nome di poeta? Sì; e nell'accezione più imbaraz­zante, «intempestiva» e persino desueta che questo termine può assumere. La ricerca, lo sperimenta­lismo di Pasolini, coincidente con lo stesso destreg­giarsi fisico di un corpo-psiche nelle pieghe equivoche del mondo per sopravviverci, sono stati, per così dire, stilizzati e rischiati secondo la « figura del poeta». Esistevano per Pasolini la simultanea ricer­ca della restituzione di un significato completo alla figura del poeta e la sempre rinnovata constatazione della sua irrilevanza, inesistenza, focomelia, sia di fronte alla storia e ai suoi movimenti ambigui, sia in relazione ad un atto pedagogico-terapeutico tale da coinvolgere in modo rapido e diretto la società (il «tutti» come conglobazione anch'essa «corporea» prima che consapevolmente aggregata). Questo fatto ha situato Pasolini in una delle condizioni più espo­ste e onnicomprensive che mai abbiano assunto il fantasma del «poetico» e il suo ectoplasma atroce­mente abbarbicato ad un «io».
In Pasolini si sovrapposero, sfilarono, si negaro­no, si punirono tra loro tutti i connotati che il poeta poté assumere nei tempi: coscienza attiva, pur contestatrice, entro la pienezza della tradizione-istituzione, testimone della separazione lirica quale grado ottimo e massimo, innalzamento (regressione) ad un ruolo sciamanico, se non addirittura pon­tificale (di segno meno, contro-pontificale). Non ba­sta: Pasolini raccolse in pieno, pur negandola appa­rentemente, anche la sfida presunta «avanguardistica» alla dilatazione dell'area della poesia anche al di là della sua particolare connessione al fatto lin­guistico; puntò cioè alla «poesia totale», intesa co­me superamento delle consolidate partizioni del campo artistico in una superiore unità mai smentita come unità «superpoetica» e forse la identificò nel cinema. Tutto questo, senza perdere di vista il parlare-scrivere, o meglio l'«affabulazione» come fattore essenziale della poesia. Allo stesso modo Pasolini nelle sue operazioni sui generi letterari perseguì una interscambialità sempre sotto il segno del poetico, persino ai tempi della rivista «Officina» quando fece suo programma dichiarato portare la poesia al livel­lo della prosa, contro l'opposto canone tipico del nostro Novecento.
Pier Paolo Pasolini, Ragazza di San Vito, 1943

Di fatto, però, il suo corpo-io diviso, pur nella sua coerenza, i suoi tropismi divergenti, lo portarono a lasciare intatte certe linee di demarcazione, di frat­tura, e quasi ad istituzionalizzarle, destinando ad esempio una lingua preferenziale (italiano o dialet­to), ai vari momenti e tipi di espressione, o di mes­saggio da veicolare.
Ma la questione di «livelli» e giustapposizioni, o al contrario di compenetrazioni, osmosi di linguag­gi, ha senso per Pasolini unicamente se si considera che per lui erano sempre meno esistiti un alto o un basso, un passato o un futuro, un «privato» o un «sociale» che non fossero in stato di continua ridi­scussione, o anzi lacerazione e combustione recipro­ca: fermo restando che la sua stella-guida era sempre un'idea di poesia in quanto diversità allar­mante, eccesso, emergenza: ma (a differenza di quella delle neoavanguardie e di altri), sempre coat­ta anche ad essere, a qualunque costo, centralità sociale, anzi momento massimo della reinstaurazio­ne del sociale. Il dato di partenza era comunque un compatto, intensissimo microcosmo, un famelico, instancabile Narciso - un oblativo, disperato Nar­ciso - destinato ad una concentricità impossibile/ necessaria con eventuali e sempre instanti macro­cosmi (storici) anch'essi in metamorfosi.
Per Pasolini la differenza «doveva» anche essere norma (sempre incarnata entro un magma, e persino sprofondata in una volontà di cancellazione di qualunque autoanalisi) doveva essere istituzione (e non soltanto teoresi-guida), ma pur sempre in un «corpo a corpo» con l'istituzione. Ogni presa di con­tatto per Pasolini era anche gesto che dirompe e «scosta», e viceversa. L'ultramobilità e l'invarianza della poesia di Pasolini vengono allora a proporsi necessariamente quale parabola di quello che è il destino della poesia nel nostro tempo; si propon­gono e lo sono. Exemplumcome tremendo manuale di condotta, come utopia aperta, e infine come squartamento fisico in atto.
La prima fase della poesia di Pasolini, quella del dialetto friulano in cui ci fu pressoché coincidenza tra linguaggio «della madre» e linguaggio popolare (mentre coesisteva la lingua «alta» del padre e della borghesia), poté davvero essere edenica, e insieme colorata di riverberi félibristici e decadentistici, e, ancora, doppiata da un sovrappiù di gusto e degustazione pertinenti al filologo, filologo romanzo. Era una poesia che poteva ben sentirsi, anche senza chiamarsi, «pura», in sintonia con i miti degli anni '30-40, perché nell'alone dell'inizio le gioie e i dolori comunque «divini» di Narciso tutto inglobavano come nuclei concentrici, nel modo più latteo.
Pier Paolo Pasolini, Ritratto di Susanna, 1941

In questa fase l'io-corpo, il paese, il tempo circo­lare della campagna, costituiscono un mondo nel quale ognuno, ben più che compagno (quale potrà forse essere domani) è «fratello», couterino di ogni altra persona, anche lungo le ramificazioni delle parentele reali (comprese quelle linguistiche), e nel­l'omogeneità relativa delle esperienze.
Pasolini non uscì mai del tutto da questo «sfero» in cui da ogni ferita e da ogni peccato si diffonde tuttavia un riverbero celestiale. La tenaglia etica, marcata sul versante religioso prima e prestissimo su quello socio-politico, non avrebbe mai potuto avere la meglio su questa intensità di «piacere pri­mo», anche se intriso di morte. Ma questa morte è nominabile, sta a due passi dal paese, in un cimitero campestre, nel quale tutto è accarezzato e quasi richiama la resurrezione, è cellula tra le cellule vi­venti come lo sono le case e i paesi contigui. È que­sto il tempo delle poesie, in gran parte friulane, secondo una ricca botanica di varietà locali, rac­colte ne La meglio gioventù.
I successivi poemetti come «IIcanto popolare» e «L'Italia» sono importanti perché le categorie storiche, la ragione e la prassi affiorano con la più innocente spontaneità proprio da quel mondo adelfico e adolescenziale, riferito qui ai primordi della nazione italiana ed alla sua lingua, mentre si precisa un dettato più uniforme e rettilineo (logico?) anche rispetto a quello della raccolta L'usignolo della Chiesa Cattolica, che aveva costituito il controcanto in lingua nazionale-alta di ciò che era stato scritto contemporaneamente in friulano. Già allora la fun­zione pubblica (usignolo, ma pur della chiesa) era stata dunque connessa alla lingua veicolare maggio­re, l'italiano.
Da quel tempo in avanti, dopo che il poeta sarà stato avvelenato e ferito proprio da quel mondo che più amava, e lo avrà abbandonato, si produce un profondo rivolgimento. Pasolini si stabilisce a Ro­ma, centro simbolico di ogni storia «massima» (nel­la quale si sarebbe dovuto articolare il piano del logos politico), ma, nel fatto, coacervo di visceri riluttanti a tutto ciò che non sia inconscio ed eros, vittoriosi anch'essi, ma per altre vie, sulla morte e sul pus in cui allignano, come un cimitero pieno di vermi, fresche erbe selvatiche. Si delinea così la grandiosa operazione che dura ininterrottamente attraverso quattro libri densi sbalzati, acremente collegati al moto reale e contraddittorio degli even­ti nei quali essi tendono a incidere, ad agire: da Le ceneri di Gramsci a La religione del mio tempo, a Poesia in forma di rosa, a Trasumanar e organizzar, dall'inizio degli anni '50 fino agli anni '70.
Pier Paolo Pasolini, Donna che dorme, 1942

Mentre nella contemporanea produzione in prosa Pasolini si inoltra nell'impasto con il romanesco e là confina il rapporto con la dialettalità, nella poe­sia egli non abbandona quasi mai un monolinguismo in cui l'italiano - a suo modo ancora in una situazione di «purezza», ora purezza di tensione alla razionalità - si proietta in avanti, si auscultale anche si irrigidisce) appunto come lingua di una voce che non può non essere progettuale e pubbli­ca nemmeno quando mette in piazza il più riposto «privato», anzi, nemmeno quando fa leva su un pri­vato eccentrico per mettere in questione il dato pub­blico, sempre più disgregato, anche nelle sue novità. Pasolini sa benissimo di registrare e registrarsi in una lingua corrotta dall'essere medio-borghese, e dentro la deriva di uno stile che è sempre meno stile. Eppure non rinuncia mai ad essere «bestia da stile», passando da una ripresa di moduli tradizionali, qua­si carismatici, come la terzina ai dolci dettati convenzionalmente neocrepuscolari, agli impennamenti petrosi di una denuncia e di un proclama pedagogici, all'immediato furore del più impuro giornalismo. Egli sa di contraddirsi e di essere costretto a con­traddirsi: ma sempre all'interno di una scelta lin­guistica che nasce dalla irrinunciabile pulsione ad un magistero dotato del più largo raggio possibile.
Pier Paolo Pasolini, Paolo dipinge, 1941

Ogni discorso comunitario autentico, nella nostra recente storia, risulta per Pasolini impossibile. Egli ben consciamente fin dall'inizio si rivolge a qualco­sa di mancato, di assente, a ceneri gramsciane («la nostra storia è finita»), e resta calato in un vuoto che è insieme di dopostoria e di preistoria, e co­munque in mutazione «genetica» verso il mostruoso. Pasolini che seppe cogliere così tempestivamente appunto «la muda» della lingua italiana (insieme col paese) da uno status crociano-letterario-artigianale a uno status manageriale-neocapitalistico-tecnologico, sembra usare quasi con nauseato disprezzo la lingua proprio perché essa nasconde malamente l'immenso vuoto lasciato da un mancato rinnova­mento più o meno di tipo gramsciano, nazional-popolare (anche linguistico), mai incarnatosi. È que­sto, per Pasolini, un «blanc», un «lack», che sembra talvolta violentemente rimosso, e che proprio per tale motivo non risulta mai ricuperabile ad una funzionalità endoletteraria, endopoetica, per altro rintracciabili come in un negativo fotografico. Paso­lini avvertiva che con il suo «italiano d'uso» la poe­sia poteva aver a che fare sempre meno. Esso è sentito come un'instabile piattaforma che favorisce demoniacamente l'equivoco e lo stereotico più di quanto possa sporgersi sul futuro e veicolare autentiche scienze ed esperienze umane di cui comunque il futuro deve vivere. Ad esse Pasolini si riferisce continuamente «nominandole» (così, egli nomina la psicanalisi ma non entra mai in analisi), e, in questo quadro, rivolgendo sempre più la sua attenzione al grande patrimonio culturale «implicito» che stava distruggendosi, alle culture dette subalterne.
Pier Paolo Pasolini, Estate, 1941

Il fallimento dei miti rivoluzionari e poi la loro degenerazione, l’«utilizzazione della propria diversità psico-sessuale come baluardo contro la depersonalizzazione di singoli e gruppi sociali nel clima della massificazione neocapitalistica, fino al rilevamento della catastrofe antropologica italiana (e mondiale) sono i temi soprattutto sui quali Pasolini mobilita la sua persistente «passione» che genera poesia (non solamente), la sua sapienza artigianale di maestro anche di retorica com'era stato fin da fanciullo, e restando sempre maestro-fanciullo e i-deologo «impossibile». Sembra quasi che Pasolini renda volutamente malfamato il suo dire, lo butti fuori quasi distrattamente, vi accumuli quanto c'è di più grezzo: e insieme appare chiaro che non vuole rinunciare ai più sottili ricami culturali e rin­vii letterari, né tanto meno perdere la sua funzione di poeta civile, che anzi in questi ingorghi cor­po-storia, violenza-dolcezza, narciso-umanità, orrore-candore si caratterizza sempre più ossessiva­mente.
Pier Paolo Pasolini, Donna col ranocchio, 1942

Si sviluppa nel frattempo l'operazione della neoa­vanguardia; nulla può impedire che parlino i gradi reali della mutazione in atto, nella quale ci sarà sempre meno posto tanto per la passione quanto per l'ideologia. Con i teschi dei padri si giocherà tranquillamente a bocce, e con le figure del sempre più proliferante schizoidismo si giocherà all'oca. Se dal cadavere del bue non usciva lo sciame delle api di Aristeo usciva comunque, da un cadavere senza connotati e limiti, provinciale e panterrestre insie­me, una legione di esseri-spettri, una valanga di gadgets in cui scoppiavano e si palesavano tutte le fratture e le ambiguità prima tenute a freno se non rimosse. Esse erano complanari a quelle di Pasolini, che fu tra i primi a prenderne atto, e insieme a coglierne il nuovo e più agghiacciante livello di per­fidia necessaria, di vero-falso; mentre egli non ri­nunciava affatto a sondare altre possibilità di uscita e di innovazione, pur che non fossero incoerenti con le sue costanti interiori, con il suo perpetuo cimen­tarsi su strapiombi.
È in questa tensione estrema che Pasolini trova a forza per passare sulle teste delle avanguardie a quell’aldilà della lingua, a quella totalità che il cinema vorrebbe essere e metaforizza. Ma più Pasolini s'ingolfa nel cinema e più se ne fa straziare godendo entro la sua immane cassa di risonanza e nella sua multilateralità, più perdura e si accentua in lui l'invariante poetica «pura», l'amore per la poesia fatta di parole (per la quale né l'italiano, né il dia­letto, né le parole, tuttavia, bastavano). La stessa «inutilità» della poesia, la sua stessa emarginazione, gliela faranno apparire come ultima roccaforte di resistenza alla marea montante della massificazione, del figliare vuoto su vuoto che segue gli accoppiamenti incestuosi tra moda (consumo) e morte.
Pier Paolo Pasolini, Donna nel canneto

I soprassalti di questa tragedia connotano le oscillazioni, i tentativi e anche le incertezze delle crea­zioni poetiche del Pasolini di questo periodo in cui le esperienze compiute in altri settori tornano poi a quello della parola: ora anche in certe pagine di teatro (come Calderon e soprattutto Affabulazione, Porcile, Orgia). E così si rigiustifica il parlare nella piccola, e ormai «dialettale», lingua italiana (misero dialetto entro il rimbombo panterrestre e l'empatia visiva universale del cinema). Ma proprio per que­sto l'italiano dei drammi avrebbe dovuto essere pronunciato, forse, unicamente da voci puerili (come ebbe ad affermare lo stesso Pasolini).
A questo punto l'arco della poesia, almeno come figura parallela all'arco già declinante della vita, non poteva per Pasolini non ripiegarsi sulle proprie origini dialettali, sia pure per negarle, per dichiara­re un mai-più: e proprio mentre si riattivava (forse ormai una moda anch'essa) l'attenzione per i dialet­ti e per le culture locali come unico polo di opposi­zione al progressivo, inarrestabile cancellarsi di ogni identità individuale e collettiva, di ogni etica personale o comunitaria. La nuova gioventù è un ricamminare sopra La Meglio Gioventù, anche cal­pestandola. Del resto, se ben si guarda, anche questa si trovava fin dall'inizio «soto tera», come nel canto degli Alpini. Ma c'è sepultura e sepultura: quel pas­sato lontanissimo aveva un futuro, poteva averlo, «era» futuro, (un futuro parallelo che non si realiz­zò); perché era sì sepolto, ma sepolto nel proprio alone, nel proprio nutrimento, era sepolto «rite», cioè secondo una verità in accordo con un bioritmo cosmico, era sotterra com'è sotterraneo il seme: che poi venne fatto marcire anziché fiorire.
Pier Paolo Pasolini, Ragazzo seduto, 1942

Il Pasolini degli anni 70 è presago di ogni scon­cio e di ogni violenza, e quasi di quella violenza che doveva farlo a brandelli, letteralmente. Ma la «di­sperata vitalità» di Pasolini era pur sempre attiva e i fatti di poesia che nascevano da questo ritorno, così consapevole di essere precario, e ora distinto da un rituale di coazione (com'egli stesso afferma), so­no spesso di alto, inatteso valore: fango e neve, cerchio e linea di fuga, dimissione e soffocato grido di presenza, uovo orfico infranto e notiziari-commenti da tavola rotonda tv, «in italiano». Si tratta ancora del sogno, infine, di un procedere, più che mai solo e nudo come agli inizi del suo parlare, di ogni vero parlare.
Sì, è soprattutto nei suoi versi che Pasolini resta per sempre «lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri / la vita, la zoventut».

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Andrea Zanzotto (1921-2011) Nato a Pieve di Soligo (Treviso) nel 1921, Andrea Zanzotto ha iniziato a insegnare all'età di sedici anni. Laureatosi in Lettere all'Università di Padova nel 1941, ha poi vissuto a lungo all'estero, in Francia e Svizzera. Tornato in Italia, si è stabilito nel suo paese natale, dove vive tuttora. Oltre che poeta, è autore di racconti e di acuti saggi critici, specie su contemporanei (Ungaretti, Montale, Sereni).
Il primo ad attirare l'attenzione sulla poesia di Zanzotto è stato Ungaretti; in seguito, dopo la raccolta Beltà del 1968, buona parte della critica gli ha assegnato un posto di tutto rilievo tra i poeti italiani contemporanei. Zanzotto esordisce come un "epigono fuori tempo dell'ermetismo" (Mengaldo) rifacendosi direttamente a Ungaretti. Altri suoi importanti punti di riferimento sono Petrarca, Leopardi, Hölderlin e Mallarmé, in corrispondenza con la profonda convinzione che il poeta abbia la precisa missione di dare un ordine all'universo. Quella di Zanzotto è, come ha scritto Fortini, "un'intensa nostalgia per il momento eroico del poeta come legislatore, sacerdote e agnello da sacrificio". Per ciò che concerne il lessico, è stato notato come il poeta veneto ne faccia un uso assai particolare: egli attinge infatti al linguaggio infantile, al dialetto, a lingue straniere; con questo composito vocabolario, poi, spazia dall'elegia del suo angolo di Veneto all'astrofisica, dalla psicologia alla microbiologia. Da tanta varietà di temi e linguaggi nasce una "recitazione illimitata" (Fortini) che spesso porta con sé difficoltà di comprensione del testo. L'oscurità di Zanzotto, però, ha un preciso significato. Egli intende infatti comunicare al lettore i limiti, o l'impossibilità, che incontra la verbalizzazione nel cercare di rendere conto del vissuto privato e intimo di ognuno. Il poeta deve quindi cercare una lingua che rappresenti lo stadio intermedio tra coscienza e incoscienza, con puntate nel silenzio più assoluto da un lato e nella vociferazione babelica dall'altro. Quest'impostazione si fa più evidente soprattutto a partire dalle IX Ecloghe del 1962, a proposito delle quali il critico Agosti, autore di un saggio ritenuto fondamentale per la miglior comprensione di Zanzotto, ha scritto che "il significante non è più collegato a un significato … ma si intuisce esso stesso come depositario e produttore di senso". Parallelamente a questa riduzione del linguaggio a ammasso indifferenziato viene compiuto anche lo sforzo inverso; ripercorrerlo, cioè, sino alle sue radici per ritrovarne l' origine più autentica (qui rappresentata, in particolare, dalla lingua infantile). E' anche importante rilevare, sempre seguendo le indicazioni di Agosti, come la libertà del significante sia ottenuta con procedimenti che ricordano quelli psicanalitici, "lasciando fluttuare l'attenzione fonica nei dintorni di una parola, finché accanto non ne sorge una simile" (Siti), in polemica con i linguaggi sempre più standardizzati della comunicazione di massa. La poesia, secondo le stesse parole di Zanzotto è "prima figura dell'impegno: perché non solamente essa deve e può parlare della libertà, dire cioè la prepotente 'sortita' dell'uomo dalle barriere di ogni condizionamento, e il superamento di qualunque 'dato'; ma col suo solo apparire, col suo sì essa dà inizio alla sortita, al processo di liberazione. La poesia, come la libertà è 'una sola parola' quella che 'salva l'anima' in una suprema proposta qualitativa …" [A cura di Olivia Trioschi]
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Con Moni Ovadia sono andati in scena gli Scritti Corsari di Pasolini a Vobarno (BS)

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LE NOTIZIE - SAGGISTICA
Con Moni Ovadia sono andati in scena
gli Scritti corsari di Pasolini a Vobarno


Una serata unica in esclusiva per Acque e Terre Festival. Martedì 2 luglio alle ore 21.15, presso il Parco della Salute della Fondazione Irene Rubini Falck di Vobarno. Moni Ovadia è stato protagonista di un appuntamento speciale, costruito ad hoc per il pubblico dei Viaggi di Acqua, durante il quale ha letto e commentato gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. L'accompagnamento musicale dello spettacolo è affidato a Maurizio Dehò (violino) e a Nadio Marenco (fisarmonica).

Due menti, quelle di Ovadia e Pasolini, che non hanno mai smesso di analizzare la società nei suoi risvolti meno evidenti, a volte terribili e contraddittori. Pasolini fu lucido analista di un mondo intriso di perbenismo e conformismo. Moni Ovadia è spirito critico che si batte contro chi ancora racconta la favola secondo cui il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili. Moni Ovadia legge e commenta, dunque, quegli Scritti corsari che furono pubblicati fatalmente subito dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, nel 1975, ma che lo scrittore aveva redatto e pubblicato sui principali quotidiani italiani nei due anni precedenti. Pagine rimaste nella storia, che esprimono concetti che ben riassumono la situazione sociopolitica italiana di quegli anni: dalla rivoluzione antropologica all'omologazione culturale, passando attraverso alcuni snodi cardine di quegli anni tormentati, come l'analisi dell'etica politica e della religione, il dilagare dello stragismo e il referendum sul divorzio.

Moni Ovadia nasce a Plovdiv in Bulgaria nel 1946, da una famiglia ebraico-sefardita. Dopo gli studi universitari e una laurea in scienze politiche, dà avvio alla sua carriera d'artista come ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e popolare di vari paesi. Nel 1984 comincia il suo percorso di avvicinamento al teatro, prima in collaborazione con artisti della scena internazionale, come Bolek Polivka, Tadeusz Kantor, Franco Parenti, e poi, via via proponendo se stesso come ideatore, regista, attore e capocomico di un "teatro musicale" assolutamente peculiare, in cui le precedenti esperienze si innestano alla sua vena di straordinario intrattenitore, oratore e umorista. Filo conduttore dei suoi spettacoli e della sua vastissima produzione discografica e libraria è la tradizione composita e sfaccettata, il "vagabondaggio culturale e reale" proprio del popolo ebraico, di cui egli si sente figlio e rappresentante, quell'immersione continua in lingue e suoni diversi ereditati da una cultura che le dittature e le ideologie totalitarie del Novecento avrebbero voluto cancellare, e di cui si fa memoria per il futuro.
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Marco Antonio Bazzocchi, Pasolini e la parola

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LA SAGGISTICA
Bologna, Portici Santo Stefano

Pasolini e la parola
di Marco Antonio Bazzocchi
"Bollettino '900" - http://www.comune.bologna.it

Marco Antonio Bazzocchi
Negli anni Sessanta Pasolini rievoca, annullandolo, il mito romantico della parola primigenia: si tratta di un ricordo d'adolescenza, quando in un pomeriggio estivo risuona nella casa dei vicini di Casarsa la parola "rosada", cioè "rugiada", termine dialettale ma contemporaneamente colto, letterario, carico di memorie ma anche innocente: parola ancora orale che il poeta per primo trascrive sulla pagina, facendone l'inizio di una poesia. Questa poesia però è andata persa, al suo posto si formano le altre «a Casarsa»: l'origine del linguaggio è cancellata, ne rimane solo una memoria impossibile. 
Inizia così un interminabile lavoro di recupero e di scavo: scavo nella tradizione dialettale e popolare, studio della poesia colta, dai simbolisti agli ermetici (che per Pasolini formano un unico blocco). Una parola "bassa", dunque, ed una parola "alta", quasi in anticipo su quello che Contini dirà di un poeta amato e studiato, Pascoli. E Pascoli (con dietro Leopardi e Tommaseo) diventerà il filtro di tutta l'esperienza poetica novecentesca, esperienza che Pasolini legge come lotta ininterrotta tra una parola del centro ed una parola della periferia, in un processo di osmosi continua. Il binomio Passione e ideologia che dà titolo ad una delle indagini poetiche più importanti del nostro Novecento traduce anche un rapporto tra lingua minore, dialetto, corporeità (quello che Zanzotto oggi chiamerebbe soma-psiche), e lingua maggiore, appunto idea, razionalità. 
Nelle Ceneri di Gramsci tutto questo produce una torsione esasperata tra voce poetica (Soggetto) e mondo, torsione che porta alla famosa tecnica della sineciosi, per cui ogni oggetto viene definito da un contrasto esasperato di attributi (esemplare il «stupenda e misera città» riferito a Roma, luogo generatore dell'intera raccolta). Ma la sineciosi è un modo per risalire ancora una volta ad una parola primigenia, parola che contiene la compresenza degli opposti e non può trovare mai fissazione grafica, fin quasi all'autodistruzione.
In Dal Laboratorio (Appunti en poète per una linguistica marxista), il saggio del '65 di cui sopra, si arriverà alla teorizzazione della lingua italiana come struttura che "tende" ad essere un'altra struttura: «La mia lingua non consiste dunque in una struttura stabile, ma vive la inquietudine motoria, il bisogno di metamorfosi di una struttura che vuol essere altra struttura» (il che andrebbe tenuto presente per capire il parlato di molti film di Pasolini, parlato che si fonda su un doppiaggio fortemente straniato e connotato dialettalmente: qualcosa di simile, anche se in direzione opposta e più letteraria, farà Fellini). 
La parola orale diventa dunque un fantasma, e questo fantasma percorre l'intera attività di Pasolini scrivente, scrivente sia con segni grafici che con immagini. Solo così si può capire l'effetto di parola e immagine "estrema", verrebbe da dire "funeraria", che proviene dalle sue opere, e quell'atmosfera da "dopo-storia" che pervade sia il Salò-Sade che Petrolio, dove ad una esibizione strutturale esasperata si uniscono modi allegorici da sacra rappresentazione sul fondo di un dramma cosmico (e l'atmosfera ha qualcosa in comune anche con i Fratelli d'Italia di Arbasino, vecchi e nuovi: fenomeno da meditare meglio quando si dibatte sulla "situazione attuale" e non ci si rende conto che molto era già preannunciato in opere degli anni Settanta, soprattutto per quel che riguarda gli sfaceli sociali e ambientali - da tenere ben uniti - che forse riusciremo a rimediare con anni e anni di fatiche, anche letterarie).

Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature
n. due-tre, dicembre 1995 - 1996, n. 1
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Era il pieno dell'estate, di Pier Paolo Pasolini

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LA POESIA
Pietro Nenni (1891-1980)

Era il pieno dell'estate
di Pier Paolo Pasolini


Come contributo alla discussione sull'eredità letteraria e culturale di Pier Paolo Pasolini, si propone qui una poesia, scritta nel 1960, presumibilmente all'indomani della caduta del governo Tambroni. Questo testo che ha la forma di una epistola in versi indirizzata a Pietro Nenni fu pubblicato sull'«Avanti!» il 31 dicembre 1961, e si inserisce nel dibattito sulla svolta socialista che stava approdando alla prima controversa esperienza del centrosinistra in Italia. Storicamente datato, questo testo ci sembra che contenga un nucleo di riflessione politica - «La lotta senza vittoria inaridisce» - di straordinaria attualità e importante stimolo ad osservare i travagli dell'odierno schieramento di centrosinistra. 

NENNI

Era il pieno dell'estate, quell'estate
dell'anno bisestile, così triste
per la nazione in cui sopravviviamo.
Un governo fascista era caduto, e dappertutto
c'era, se non quell'aria nuova, quella nuova
luce che colorò genti, città, campagne,
il venticinque Luglio - una sia pur incerta
luce, che dava al cuore un'allegrezza
eccezionale, il senso di una festa.
E io come il "naufrago che guata" (scrivo
a un uomo che certo mi concede il cedere
a delle citazioni dannunziane…)
felice d'aver salvato la pelle - bisestile
doppiamente per me, è stato l'anno -
ho avuto, per un attimo, dentro, il senso
d'un "poema a Fanfani": e non soltanto
per solidale antifascismo e gratitudine,
ma per un contributo, anche se ideale,
di letterato: un "appoggio morale", com'è
uso dire. Fu l'idea di un mattino
bruciato dal sole di quell'estate
che qualcuno aveva maledetto, e il cui biancore
faceva dell'Italia ricca - che ronzava
in lidi popolari e in grandi alberghi,
nelle strade delle Olimpiadi incombenti -
l'imitazione d'una civiltà sepolta.

E poi, ero ridotto a una sola ferita:
se ancora ero in grado di resistere,
lo dovevo a una forza prenatale, ai nonni
o paterni o materni, non so, a una natura
radicata ormai in un'altra società.
Eppure, in quel mio slancio, mezzo
pazzo e mezzo troppo razionale,
c'era una necessità reale: lo vedo
meglio ora, che la collaborazione
è un problema politico: e Lei lo pone.
Dal quarantotto siamo all'opposizione:
dodici anni di una vita: da Lei
tutta dedicata a questa lotta - da me,
in gran parte, seppure in privato
(quanti interni terrori, quante furie).
Con che amore io vedo Lei, acerbo,
gli occhiali e il basco d'intellettuale,
e quella faccia casalinga e romagnola,
in fotografie, che, a volerle allineare,
farebbero la più vera storia d'Italia, la sola.
Io ero ancora in fascie, e poi bambino,
e poi adolescente antifascista per estetica
rivolta… Timidamente La seguivo
d'una generazione: e L'ho vista trionfare
con Parri, con Togliatti, nei grandiosi,
dolenti, picareschi giorni del Dopoguerra.
Poi è ricominciata: e questa volta
abbiamo, sia pur lontani, ricominciato insieme.
Dodici anni, è, in fondo, tutta la mia vita.
Io mi chiedo: è possibile passare una vita
sempre a negare, sempre a lottare, sempre
fuori dalla nazione, che vive, intanto,
ed esclude da sé, dalle feste, dalle tregue,
dalle stagioni, chi le si pone contro?
Essere cittadini, ma non cittadini,
essere presenti ma non presenti,
essere furenti in ogni lieta occasione,
essere testimoni solamente del male,
essere nemici dei vicini, essere odiati
d'odio da chi odiamo per amore,
essere in un continuo, ossessionato esilio
pur vivendo in cuore alla nazione?

E poi, se noi non lottiamo per noi,
ma per la vita di milioni di uomini,
possiamo assistere impotenti a una fatale
inattuazione, al dilagare tra loro
della corruzione, dell'omissione, del cinismo?
Per voler veder sparire questo stato
di metastorica ingiustizia, assisteremo
al suo riassestarsi sotto i nostri occhi?
Se non possiamo realizzare tutto, non sarà
giusto accontentarsi a realizzare poco?
La lotta senza vittoria inaridisce.

(Una lettera, di solito, ha uno scopo.
Questa che io Le scrivo non ne ha.
Chiude con tre interrogativi ed una clausola.
Ma se fosse qui confermata la necessità
di qualche ambiguità della Sua lotta,
la sua complicazione ed il suo rischio,
sarei contento di avergliela scritta.
Senza ombre la vittoria non dà luce.)


Pier Paolo Pasolini
in Appendice a La religione del mio tempo
(1961) con dedica a Elsa Morante
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Essere inattuali e diffidenti, di Francesca Romana Merli

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Essere inattuali e diffidenti
di Francesca Romana Merli (*)
E' questa l'eredità e la lezione più preziosa che ci ha lasciato un grande intellettuale
che sapeva individuare il potere nascosto in ogni discorso


Pasolini ci serve inattuale. Credo che oggi ci possa servire solo a patto di mantenerlo inattuale; invece renderlo attuale, parlare di cosa avrebbe detto se fosse vivo è un altro modo per renderlo normale. E anche innocuo.

Si dice che Pasolini è stato santificato, e l’uso che si fa della sua opera qualche volta sembra un po’ acritico, semplicistico, un uso che non sarebbe piaciuto a Pasolini, ma di cui Pasolini e il suo atteggiamento verso la comunicazione e la presenza pubblica dell’intellettuale sono in parte responsabili. In un articolo dello scorso novembre sul Corriere della Sera Franco Cordelli spiegava che Pasolini è diventato il Santo Patrono Intellettuale d’Italia anche perché nella fase più aspra del suo attacco al degrado antropologico italiano si era lasciato andare a «frasi brutte, perfino stupide, sicuramente arroganti» e oggi seguirlo su quella strada di generico disprezzo e superficiale moralismo è facile e redditizio. Se l’industria culturale si appropria subito dei concetti più corrivi e “scandalosi” che l’intellettuale esprime magari per fretta o ansia o ingenua fiducia in se stesso, non si può negare che Pasolini quello scandalo spesso lo cercava, per caparbia provocazione, per l’intenzione di mettere in discussione tutto, e anche forse perché era meno abile di quanto credesse nell’orientare l’industria culturale sulla strada che lo interessava: diceva che per parlare del potere bisogna avere un posto in quel potere e questa convinzione è trasparente nei suoi discorsi, tanto trasparente che a volte rischia di rendere opaco il lavoro vero, il lavoro di parlare del potere. Questo lavoro sul potere dovrebbe essere una delle eredità di Pasolini, se di eredità proprio si deve discutere.

Pasolini ha fatto in modo che l’artista e il personaggio raccolti nel suo nome non potessero più essere separati, un fatto che nella lettura che se ne può dare oggi non è né giusto né sbagliato, è un fatto e va osservato e studiato. La critica più interessante ne trae conseguenze importanti, intorno al significato del corpo di Pasolini che è un corpo presente molto più di tutti gli altri corpi di intellettuali e scrittori della sua epoca, autori di cui conosciamo l’opera ma non ricordiamo i tratti del viso, i gesti, i movimenti. Di lui ricordiamo tutto, il suo volto ci è noto, e ci era noto anche prima dell’occasione del trentennale. Forse è il destino che tocca ai santi, diventare santini, immaginette, ma credo che anche questo faccia parte, abbia fatto parte, di una strategia pasoliniana. Lui sentiva il dovere della presenza invasata, diceva così, se avesse taciuto, se non si fosse mostrato sarebbe stato superato, travolto, dimenticato. Credo che tutti siamo affetti dalla sindrome pasoliniana secondo cui un libro un film una storia ci interessano solo se parlano in un modo o nell’altro di noi, ma qualche volta riusciamo a non manifestarlo, lui mai. Lui lo dichiarava, e ne faceva la sua forza. Quando leggo Pasolini che descrive un momento di un romanzo, un passaggio di una poesia, il carattere degli indiani, quello che sto leggendo è Pasolini che descrive se stesso. Anche al cinema, ovviamente. In questo va cercata la sua grandezza, anche la sua grandezza, insieme a scelte meno grandi, insieme ai discorsi più facili e arroganti e a volte sbagliati di cui sarebbe giusto considerare facilità arroganza e errore piuttosto che farli diventare profondi, tolleranti, condivisibili.

Malipiero, City, 2002
Oggi è inutile e dannoso santificare Pasolini, non ha senso definirlo un profeta, perché i profeti parlano per intuizione mistica mentre nelle analisi di Pasolini non c’è nessun misticismo, se ha saputo leggere nella sua epoca e persino a volte parlarci della nostra è perché stava attento, sapeva guardare la storia e la cronaca, particolarmente quando non si lasciava prendere dall’ira e da quel bisogno di dire l’ultima parola come fa il maestro a scuola. Oggi Pasolini si può avvicinare non tanto separando l’artista dal personaggio, che appunto non è possibile e non è nemmeno necessario, non tanto ribellandosi a una creatività così profondamente connotata dall’autobiografia (che è un concetto su cui i critici – giustamente – si accapigliano, perché non si dovrebbe far derivare seccamente le espressioni dalle esperienze ma non si può nemmeno pensare che quello che siamo non coincida con quello che scriviamo), quanto scegliendo cosa è importante e cosa meno, andando a vedere se sotto i discorsi che funzionano meglio perché sono “scandalosi” non c’è qualche indicazione che sorprende davvero perché è silenziosa e sussurrata. Credo non si possa evitare di avvicinarsi a Pasolini con ambivalenza, non si può evitare perché a digerirlo tutto si rimane schiacciati; credo sarebbe interessante leggere più cose di Pasolini “storico”, analista dei misteri italiani, intellettuale che sapeva collegare fatti diversi fra loro piuttosto che conoscere quegli aspetti minori della sua vita professionale e dei rapporti con gli altri intellettuali, insomma le nevrosi, che qualcuno (insospettabile, come è prevedibile, perché i suoi segreti li conosce chi lo conosceva bene) a volte ci racconta come fossero fonti critiche. Mi piace quando Pasolini insegna a diffidare dei discorsi, di tutti i discorsi, perché il potere si annida lì, nei modi di pensare e anche di parlare, mi piace quando spiega che al razzismo, all’omofobia, al disprezzo del diverso si risponde facendosi ancora più diversi, rifiutando di farsi uguali. Questa caparbia dichiarazione di consapevolezza potrebbe mantenere la sua forza dopo che la schiuma dei suoi discorsi meno interessanti sarà affiorata e superata. E in questo sarebbe la sua preziosa inattualità.

---------- 
(*) L’autrice di questo articolo ha pubblicato il libro
Lo specchio a colori - Pasolini trent’anni dopo (Editrice Zona, 2005)

Pier Paolo Pasolini: il mistero di una vita libera e di una morte tragica. Vita pubblica e privata di un artista: le amicizie e le passioni, il rapporto con lo spettacolo e la politica, fino al processo a Pino Pelosi. Tra romanzo e reportage, Francesca Romana Merli esplora le zone del linguaggio e dell’eros, i ricordi, il mito, la tenerezza di Pasolini, dall’interiorità creativa al disagio della coscienza civile. Ce ne riporta il testamento culturale attraverso le opere letterarie e cinematografiche, ricostruendo il rapporto dell’artista con il mondo dello spettacolo e della politica, a trent’anni dal tragico epilogo e dal processo che ne seguì.
"I movimenti del viso di Pasolini sono diversi da come si pensa. Un poeta così intenso, un pensiero così potente e poi un sorriso giovanile che mette discretamente le parole tra virgolette come per semplicità, per non essere trombone, perché tanto anche solo se apre bocca l’artista è scandaloso. Diceva che lo scrittore quando è sincero e appassionato è sempre una contestazione vivente e questo vuol dire quasi tutto, il resto si scopre lentamente, ti rileggi i romanzi dopo venti trent’anni, gli scritti eretici e corsari dopo quindici, le poesie dopo pochi mesi e i libri e gli interventi su di lui e cominci a camminare nel suo percorso, attraverso fatiche piacevoli e domestica rabbia e cominci da capo a farti domande senza risposta, a cercare senza trovare." (dalla premessa). 
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Francesca Romana Merli, nata a Roma nel 1961, è regista teatrale, autrice radiofonica e aiuto regista cinematografica. Nel 1998 ha pubblicato il romanzo Hardcore. Il suo racconto Cibo e ariaè presente nella raccolta "Italiane duemilaquattro. Nuove voci della narrativa italiana".
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Il passato che non passa, ovvero il mito della "pasolinità" e le "armi barbariche" di un poeta immolatosi sulle barricate del suo tempo, di Stefano Docimo

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"Pagine corsare"
LA POESIA
Il passato che non passa
Ovvero il mito della "pasolinità" e le "armi barbariche"
di un poeta immolatosi sulle barricate del suo tempo
di Stefano Docimohttp://www.retididedalus.it/

Che cos'è oggettivamente il destino?
È  l'oscuro senso di dover pagare un debito contratto.
Paolo Volponi

Abbandonati oramai a se stessi, gli artisti e gli scrittori contemporanei
devono creare nello stesso tempo il testo ed il contesto,
il mito e la sua critica, l'utopia e la sua sconfitta,
la storia e l'uscita da essa, l'oggetto artistico e il suo commento.
Boris Groys

Ma è poi vero che si deve a tutti i costi somigliare agli altri, che si deve diventare normali, cioè come gli altri e non diversi? Qui sussistono troppe confuse categorie, mi sembra. La mise en prose delle quali rischia en effet di apparentarsi, anche se in modo assai goliardico, ad una mise en abîme. Dell'imbecillità, del resto, aveva scritto Flaubert, ancor prima di Pasolini. E qui casca l'asino, cioè il bue, dentro cui l'asino si trova. Se è vero, infatti, che l'esperienza che ci troviamo a vivere è quella del silenzio, che è ciò che sostiene Vittorio Foa ne Il silenzio dei comunisti, è vero anche a riprova del fatto che il clangore assordante del mercato non suona per tutti allo stesso modo; ma a quale mercato ci riferiamo, quando parliamo o scriviamo di mercato? Dunque, ognuno per la propria strada, o per il suo rivolo [1], anche se - ed è questo il grottesco - non ci sono più rivoli, né strade praticabili, umanamente e animalescamente parlando. Ma solo autostrade virtuali, splendidi rifacimenti di giacimenti petroliferi, offshore e oltremodo smerdicchianti. 
Ma vi rendete conto, scrive - o forse dice soltanto - Foa "che egli [2] ha capito per primo che si doveva diventare normali, si doveva essere come gli altri e non diversi?". O più sopra: "Vi sono momenti in cui si avverte che la storia sta cambiando (…) e allora avvertiamo che le parole usate normalmente [3] sono prive di senso. E arriva il silenzio". 
E più avanti: "Come mai si imputa la fine del compromesso storico alla morte di Moro?". Altra nobile domanda. Ognuno per la propria strada, si diceva - o forse scriveva - là dove sono le radici di ognuno a scandire come pietre miliari il secolo breve. Così, anche Pasolini era disperatamente legato alle proprie. Perché è da quel momento, cioè da sempre, che il tempo ha cessato di svilupparsi secondo una linea progressiva. 
Già Nietzsche lo ricordava, riconducendosi al dionisiaco delle origini, alla storia come eterno circolo, eterno ritorno del rimosso, ricordando in ciò anche un Vico. Anche il comunismo, agli albori del secolo scorso, ha percorso l'utopia della fine della storia, in modo consapevole e tragico: "Se il mito però, contrariamente all'idea di Barthes, ha a che fare con la creazione e la trasformazione del mondo, allora saranno mitologiche innanzitutto l'avanguardia e la politica di sinistra, che assegnando all'artista, al proletariato, al partito, al leader politico il ruolo del demiurgo, li inseriscono naturalmente nella mitologia universale" [4]. Per il marxismo "il fatto di venire inserito nell'unico racconto mitologico della creazione del mondo degli oggetti per mezzo dell'attività lavorativa permette all'uomo di uscire dai limiti dei suoi condizionamenti terreni e di mutare se stesso, diventare 'uomo nuovo', cambiando le condizioni della sua esistenza" [5]. Questa mancanza di memoria, non solo storica, fa sì che ricerchiamo nel mito ciò che non ritroviamo più nella storia. 
Nel saggio commemorativo del '78, Pasolini maestro e amico [6],  Paolo Volponi, nel tentativo di trascinarlo fuori dal mito e ricondurlo nei più civili e articolati percorsi poetico-letterari, formula "un alto giudizio di valore sull'eredità poetica, culturale e politica pasoliniana, fondato su rilievi originali: la triangolazione Leopardi-Gramsci-Pasolini, l'interpretazione psicanalitica di Musatti, l'incontro-scontro con la neo-avanguardia, il profetico giudizio sul '68" [7]. In apertura, l'enunciato, o dichiarazione tematica, per cui Pasolini sarebbe stato "un grande poeta civile; un intellettuale che nella sua poesia ha affrontato i temi della nostra società e che ha capito, come poeta, come il nostro popolo fosse estraneo ad ogni possibilità reale di partecipare e di scegliere, come fosse costretto - nei suoi dialetti, nelle sue piazze, nei suoi gruppi - a vivere una vita per certi aspetti ricca di rapporti, ma alla fine deprivata della cittadinanza, della possibilità di decidere" [8]. 
O incivile, direi piuttosto, nel senso oggi più rimarchevole d'un'arte che quando fa politica "è come se uscisse da se stessa. E del resto, quando lo fa, vuol dire che proprio non ne può più, vuol dire che è già fuori di sé" [9], o in quello indicato da Pasolini stesso [10]: "Sono infiniti i dialetti, i gerghi, / le pronunce, perché è infinita / la forma della vita", nel suo congedarsi da quel "poemetto in terzine a rime incatenate (di matrice pascoliana)" come emblema d'una scrittura in cui "s'incarna al massimo grado quella perenne tensione fra norma e libertà, ordine e disordine, mimesi e invenzione"[11], che S. Agostino titola, significativamente, La parola fuori di sè [12], o che Brevini associa all'autore dei Poemetti,  delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio [13], come componente antagonistica che il dialetto conserverebbe nei confronti della lingua. [14] 
Perciò, scrive Volponi "Ecco che Pasolini, capite queste cose, fin da giovanissimo fa una scelta e si iscrive al Pci. Era nella sua piccola Casarsa, il paese friulano della madre, che lui ha amato e sentito profondamente. Lì aveva organizzato una piccola accademia dialettale di poeti, contadini, artigiani, studenti, avviato delle ricerche sui costumi, sulla lingua, sulle tradizioni, sulla miseria di quella gente, all'interno della stessa comunità, cioè con il contributo vivo di tutti". Ma il bello deve ancora venire. Già in quella "storica" raccolta di documenti intitolata Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, apparsa nel novembre del '77 [15] viene riportata l'intervista ad Aldo Semerari [16], in cui lo psichiatra dichiarava che Pasolini poteva essere salvato da se stesso, se solo avesse accettato di curarsi per quella che, in termini tecnici, è stata definita una "psicopatia dell'istinto", ma che in volgare suona come "omosessualità". 
Dunque una "devianza", una diversità. Lo stesso Volponi annota: "Era amato da tutto il paese, considerato veramente un piccolo profeta. Ma improvvisamente è esploso quello che poi è stato il dramma della sua vita. Allora tutto il paese, che lo aveva amato moltissimo, insorse sconvolto e furente contro di lui" [17]. Sempre Volponi, citando Musatti: "…in lui (come in molti altri) l'omosessualità non era né costituzione né vizio, né men che mai mancanza di coscienza morale. Anzi, era l'effetto di una impostazione ipermoralistica. In base alla quale, il gioco dell'amore poteva esser fatto solo fra ragazzi (e Pasolini si sentiva ancora ragazzo adesso). Anche il ceto in cui ricercava i suoi compagni doveva essere non maturato, quale appunto è (o era nelle sue nostalgie) il mondo delle borgate. Non per esercitare il potere dell'uomo colto e munito di denaro sui poveri e gli sprovveduti, ma nel desiderio di essere con loro in condizioni di parità, senza far valere né cultura né denaro, ma soltanto una forma di affettuosità quasi materna (…) Pasolini avrebbe dovuto temere i giovani borgatari incattiviti (…) ma quando partiva la sera, alla ricerca dei suoi incontri, quella stessa istanza pseudomorale che gli impediva il contatto fisico con la donna, lo induceva a rinunciare ad ogni cautela per la propria incolumità" [18]. 
Ma qui si confonde l'arte con la vita, la poesia con la sessualità, la psicanalisi col mondo arcaico, diranno i critici. Ed ecco allora l'incontro con l'ideologia, che fa da correttivo, tentando di tamponare la ferita. Scrivere vuol dire, allora, mantenere acceso il conflitto, aumentare il senso di colpa verso la natura. E se questa scrittura si allarga colludendo in molteplici registri, in una moltitudine di linguaggi, corrompendosi in nuovi schemi, in materiali sempre distanti e diversi, in un meticciato senza più scampo, diventa allora impossibile invocare coperture "borghesi": l'uguaglianza, la solidarietà non paternalistica, un senso più profondo della vita come miscidazione, come voglia di fraternizzare coi più deboli, cogli emarginati, tutto ciò ed altro ancora pone allo scoperto la ferita, impedendone in modo allarmante la rimarginazione. Il lavoro diviene frenetico, fuoriesce dai margini dell'organismo sociale, non sta più nei limiti, invade l'orizzonte del politico, si fa portatore d'istanze che lo pervadono di sempre nuovi orizzonti e, per di più, come conciliarlo con una costante opera di desublimazione notturna? Qui l'ideologia, come rimedio al disordine della vita, viene messa a dura prova. "La morte non è ordine, superbi / monopolisti della morte, / il suo silenzio è una lingua troppo diversa / perché voi possiate farvene forti [19]". 
La mediazione razionale diviene impalpabile: solo un'intelligenza critica, veloce e agguerrita, spesso contraddittoria. Un'intellettualità diffusa, acuta e a tratti dolente, contro il nulla della sintesi tra opposti. La ragione, come luogo della pacificazione dei contrasti, diviene impraticabile. Scoppia il mito. In una citazione forse un po' troppo agiografica [20], del curatore dell'edizione delle opere complete di Pier Paolo Pasolini [21], il mito viene riportato alla definizione che ne dà Roland Barthes in Mythologies [22]. Barthes inizia la propria analisi con una asserzione che dovrebbe rispondere alla domanda Che cos'è un mito, oggi? La risposta è del tipo etimologico: Il mito è una parola. Non un concetto, terminologia secondo Antonio Negri troppo abusata da troppe lunghe guerre e da troppe diverse tradizioni interpretative [23]. Ma neanche un oggetto, un'idea; bensì un modo di significare, una forma; può essere mito tutto ciò che subisce le leggi di un discorso. 
Dal modo, dunque, in cui il messaggio viene profferto, dacché "Ogni oggetto del mondo può passare da un'esistenza chiusa, muta, a uno stato orale, aperto all'approvazione (o disapprovazione [24]) della società", secondo un valore d'uso sociale che si aggiunge alla pura materia. Il mito, cioè, non è un qualcosa di naturale, non può sorgere dalla natura delle cose. In quanto al concetto, "il sapere contenuto nel concetto mitico è un sapere confuso, formato da associazioni incerte, indefinite" [25]. Il mito, secondo Barthes, risponde ad una concettualità aperta e funzionale, ad una tendenza in cui confluiscono molteplici significanti, in un insieme dove a dominare è la sproporzione tra il significante ed il significato che lo trascende. La sua funzione è di deformarne [26] il senso, alienandolo in un metalinguaggio immaginante, in un alibi perpetuo [27] che scarica su ogni soggetto la sua provocazione a nominarlo, un invito imperioso [28], personale: "viene a cercarmi per obbligarmi a riconoscere l'insieme di intenzioni che lo hanno motivato, messo lì come segnale di una storia individuale, come una confidenza e una complicità (…) sembra sia stato creato sul momento, per me, come un oggetto magico sorto nel mio presente senza alcuna traccia della storia che lo ha prodotto (…) Perché questa parola interpellativa è contemporaneamente una parola congelata: al momento di raggiungermi, si ferma, gira su se stessa e ricupera una generalità: s'irrigidisce, si discolpa, è innocente (…) alla superficie del linguaggio qualcosa non si muove più [29] (…) Perché il mito è una parola rubata e restituita. Solo che la parola riportataci non è più interamente quella sottratta: nel riportarla, non la si è esattamente rimessa al suo posto. Questo rapido furto, questo breve momento di una falsificazione costituisce l'aspetto congelato della parola mitica (…) mai completamente arbitraria (…) sempre in parte motivata" contenente "fatalmente una parte di analogia [30] (…)"  giocata "sull'analogia del senso e della forma" [31]. Principio stesso del mito sarebbe quello di trasformare la storia in natura "corrompendo tutto, fino al movimento stesso che gli si rifiuta [32]". 
Ma, a ben vedere, tutto il discorso e la conseguente analisi a cui Barthes sottopone il mito, nasce da un sotteso punto di vista teorico, oggi tendente allo sgretolamento, che è rappresentato dall'ideologia come metalinguaggio. "Ma il mito, di fatto, se proprio ha rapporto con la teoria, lo ha solo in quanto narra della sua creazione e dunque la legittima; e soprattutto nel nostro tempo, quando descrivere il mondo in modo nuovo equivale praticamente a crearlo, si iscrive a sua volta nella mitologia tradizionale" [33]. Un cane che si morde la coda, dunque. 
Alla colonizzazione del linguaggio operata dal mito, alla sua stessa prostituzione, per cui, seguendo di pari passo l'angolazione critica della parafrasi barthesiana, ben si potrebbe titolare il presente pezzo "Pasolini, un linguaggio che si prostituisce al mito", manca quella che un tempo veniva chiamata la ragione di fondo. In tal senso, alla dimostrazione barthesiana forse non sempre si affianca un'analisi del soggetto, rappresentato, in questo caso, dal mondo esterno dell'editoria, dei media e dello spettacolo, in altre parole da ciò che produce il mito, che lo trasforma in un valore commerciale, imponendo al tempo stesso un modo di produzione che, a sua volta condiziona la fruizione del mito e dunque crea consenso: il mercato. Chi ci guadagna è l'industria del libro e dello spettacolo nel suo insieme, in altre parole l'attività autocelebrativa del soggetto e, insieme, l'altra pur sempre autocelebrativa, dell'esistente. 
Quella di Pasolini sarebbe, dunque, la parabola tragicomica e autopunitiva d'un poeta, d'un intellettuale, d'uno scrittore di teatro e d'un cineasta alla ricerca spasmodica del successo. Ma allora perché, ancora oggi, se ne continua a parlare? Cos'è che rimane incompiuto e irrisolto in questa vicenda? Scrive infatti Volponi: "Pasolini ha avuto un decennio di tranquillità e anche di felicità negli anni di maggior successo: era ambizioso in modo un poco infantile: gli piaceva molto di essere riconosciuto per la strada, essere salutato dalla gente, avere numerosissimi lettori, ricevere lettere di complimento. Gli piaceva molto il successo. E questo ha finito in qualche modo per limitarne le possibilità, specialmente in campo letterario. 
Allora in quegli anni, i suoi libri ottenevano un grosso successo: Ragazzi di vitaè uno dei primi libri italiani che si è venduto a decine di migliaia di copie in pochi mesi, suscitando discussioni e ottenendo traduzioni in tutto il mondo. E' forse il primo libro che ha rotto la tradizionale composizione sociologica dei lettori del nostro Paese, per arrivare davvero a tutti" [34]. Non era ancora la tiratura di un best-seller quale sarà quella degli anni sessanta-settanta e ancor meno di oggi, ma considerando che alla fine degli anni cinquanta l'Italia vive il difficile trapasso da civiltà contadina a civiltà industriale, conservando vecchi retaggi della prima, non conoscendo pienamente le trasformazioni della seconda, la figura di Pasolini, contraddittoria e polemica nel porsi al tempo stesso come personaggio e antipersonaggio, "provocatoria e antistituzionale, libera da pregiudizi sessuali e da opportunismi politici" [35] nel suo esporsi in prima persona come interlocutore dell'Italia del suo tempo, odiato sia da fascisti che da democristiani, faceva notizia. 
Basta rileggere la Sentenza del tribunale di Milano pronunciata il 4 luglio 1956 nella causa penale contro "Ragazzi di vita" [36], così come viene riportata da Walter Siti in Il romanzo sotto accusa [37] - posta a seguito di quella del 1933 con cui il giudice distrettuale degli Stati Uniti John M. Woolsey consente all'“Ulisse”di Joyce di entrare negli Stati Uniti - nella quale viene sottolineato l'impegno dello stesso imputato Pasolini "di giustificare la sua opera sul piano morale, di porne in luce il significato artistico, letterario, di palesarne, per così dire, la chiave ed il motivo conduttore" [38], senza contare le successive querele per aggressione (1961), per diffamazione (1962), per oscenità a proposito di Mamma Roma (1963), per vilipendio alla religione ecc., a mettere in moto la nuova macchina da guerra della critica antipasoliniana più sofisticata, quella dell’Extratesto
Ed è sull'analisi di ciò che Barthes definirebbe forse con il termine astratto di pasolinità, cioè sul suo mitologizzarsi, che si sofferma nel suo intervento sul n. 6 del 2005 di Micromega, dedicato alla scrittura e l'impegno, ancora Siti [39] che applica la semiologia barthesiana all'immagine di Pasolini, prendendone come "significante" l'intera opera, "ma anche le fotografie che lo ritraggono, o gli spezzoni di video in cui compare", e come "significato" quello di uno degli intellettuali "più intelligenti e coraggiosi della seconda metà del Novecento in Italia, le tesi che ha sostenuto, la bellezza che è riuscito a creare, ma anche un uomo nevrotico e contraddittorio, e un artista che ha spesso sprecato il suo talento in testi ridondanti e non esenti dal kitsch". Insieme, significante e significato diverrebbero una coppia per il significante del mito Pasolini, senza che per far ciò si debba necessariamente attraversarne l'opera. In esso s'individuano alcune componenti : a) la poesia assassinata dalla società; b) esistono i profeti, che intuiscono e vedono per noi; c) il coraggio delle proprie idee, fino alla morte; d) basta la passione per capire; e) l'omosessualità esemplare. Per concludere, dopo aver constatato come il mito Pasolini sia "politicamente, un mito trasversale", con il dubbio circa la legittimità d'un'operazione che tenda a scindere l'opera dal mito.
È il mito della poeticità contrapposto al lavoro poetico, alla produzione come alla fruizione d'una poesia che, come ogni altro lavoro, alterna fasi di entusiastica adesione a tempi di noia mortali, che spinge l'intervento dell'esegeta pasoliniano alla radicalità d'una esclamazione che ha il sapore d'una provocazione estetica. 
Nel commentare la poesia assassinata dalla società si afferma: "Pasolini ha disseminato la poesia anche fuori dei suoi versi, aveva il ‘fisico’ del Poeta [40]. Non importa quello che ha scritto. Pasolini ci regala la soddisfazione di amare la poesia senza la noia di leggerla" [41]. È evidente qui uno iato profondo, tra il mondo del lavoro (ma non soffre anche il Lavoro d'una sua originaria mitologia?) e una nebulosa quanto violenta colonizzazione del linguaggio, operata attraverso l'insinuazione d'una forma parassitaria - il mito - che inevitabilmente, quanto cruentemente, lo adopera e lo stravolge. Mentre nel concludere sul Che fare?, coniugando esibizionismo e santità, lo si accosta ad Artaud, Karol Wojtyla e Marilyn. [42] 
Insomma, qui si pone il rapporto tra ciò che uno scrittore scrive e la sua maggiore o minore capacità di divulgazione con altri mezzi della propria scrittura. Forse basta meno, o ci vuole di più? È un problema di dosaggio e di autoironia, credo, ma la società dello spettacolo ci abitua oggi a ben altro. Paradossalmente, l'opera di Pasolini, soprattutto quella scritta, è la più nascosta, rispetto alla visibilità del personaggio che se ne fa d'altro canto veicolo. Ma forse questo - c'è da dire purtroppo? - non riguarda solo Pasolini: si legge poco e si mitizza molto: si vive troppo d'immagini, di mitologia e di rituali collettivi. Ma perché "troppo"? O forse "troppo poco"? 
Viene in mente, ad esempio, un altro esibizionista delle lettere, di cui si lamenta la poca frequentazione delle opere e che pagò con il carcere i suoi scandali, un certo Oscar Wilde [43], dacché non ogni artista, ma ogni parola è a rischio di mito [44], dal momento che la forma mitica dell'immaginario umano è il modo più economico di raggiungere quei saperi che altrimenti rimarrebbero sepolti per sempre nel tempo. Il simbolo è la maniera più facile per accostarsi ad un sapere che altrimenti permarrebbe occulto. E di questo Pasolini era cosciente. Il progresso dei media non ha fatto altro che aggiungere tecnologia ad un'operazione dell'intelletto umano, già presente e operativa ancor prima del lungo lavoro di simbolizzazione dei linguaggi. Solo che in tempi recenti si è giunti ad una fase di maggior consapevolezza ed allora è iniziato nella modernità il pensiero critico volto alla demistificazione della società e della cultura. 
Come il suicidio di Catone, la morte annunciata di Pasolini è un atto simbolico. Innanzi tutto l'espressione d'un grande carattere che, al pari di Catone rappresenta l'ultima protesta contro un nuovo ordine di cose. La successiva elaborazione del lutto, fa parte del vuoto che i simboli, più sono forti, lasciano nel vissuto collettivo. Pasolini ha lasciato un gran vuoto, perché? "In realtà Pasolini non ha previsto praticamente niente del futuro italiano e mondiale" continua Siti, e "là dove ha azzardato delle profezie (…) le ha generalmente sbagliate, com'è giusto e umano. Lui, certo, ha visto con straordinaria precocità cose che stavano già accadendo, e le ha viste con quella chiarezza e quella prontezza perché per lui non erano solo dati sociologici, erano questioni di vita o di morte. Ma il mito di massa preferisce pensare che in lui fosse all'opera, invece che un'ossessione dolorosa, una misteriosa capacità di veggente (forse da relazionare, ancora una volta, con la Poesia Mitica). Se ci sono i Profeti, noi possiamo smettere di sforzarci" [45].
Ma forse Pasolini aveva anche più di una ragione. La sua insofferenza, la sua critica, la sua lingua minore e, in ultimo, la sua disperata vitalità erano povere armi barbariche [46] aizzate contro il Potere, [47] contro la nascente americanizzazione dello stile di vita, e non solo di quello. Ma c'era in lui anche un senso diverso della storia, del tempo che non traccia una linea progressiva coincidente con lo sviluppo reale dell'animale-uomo, c'era un senso panico della corruzione che lo faceva somigliare a un povero cristo crocifisso lungo la via del progresso: in questo senso vanno letti i suoi interventi polemici e provocatori contro l'aborto, contro l'omologazione, contro le neo-avanguardie e, da ultimo, contro i capelloni e gli studenti contestatori. 
Si ha in lui uno spaccato della vita del suo tempo, della religione del suo tempo, ma non solo: c'è anche qualcosa che lo travalica, che lo trascende, che lo fa pervenire a tratti ad una visione, forse ad una illuminazione di tipo antropologico e atemporale, di cui restano emblematici, al fine di trovare quel suo personale inferno, alcuni passaggi del romanzo incompiuto La Mortaccia [48], dove la morte, per essere allontanata, viene rincorsa ancora una volta: "Arrivarono davanti a una porta, piccola, in tutta quella parete, gialla e nuda, dove stava scritto: ‘Carcere Penitenziario’. Teresa si fermò, leggendo e rileggendo quelle parole: e subito le prese il mammatrone, tanto che cominciò a tremare tutta, a non tenersi più, finchéle vennero le convulsioni, e si buttò per terra, strappandosi le vesti, piangendo, come una ragazzina, perché sentiva come nel cuore che, da quella prigione, non sarebbe risortita mai più" [49].

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[1]  riverrun
[2] Achille Occhetto (sic)
[3] Corsivo nostro.
[4] Boris Groys, Lo stalinismo ovvero l'opera d'arte totale, Garzanti ed. p.146.
[5] Op.cit. p.146.
[6] Pubblicato in aa.vv., Perché Pasolini, Guaraldi, Firenze 1978. Ora in Paolo Volponi Romanzi e prose, vol. II, Einaudi ed., Torino 2002. p. 649 e sgg.
[7] Op.cit. p.773, Commenti e apparati, a cura di Emanuele Zinato.
[8] Op.cit.
[9] Almanacco Odradek 2006.
[10] V. Poesie incivili (Aprile 1960), in Pier Paolo Pasolini, Le poesie, Garzanti, novembre 1975, p. 295. Ora in Tutte le poesie, tomo I, a cura di Walter Sini, per la collana i Meridiani, Mondadori 2003.
[11] Cfr. Furio Brugnolo, Il sogno di una forma. Metrica e poetica del Pasolini friulano, in Pier Paolo Pasolini La Nuova gioventù, poesie friulane 1941-1974, Torinio 2002, p.271 e nota.
[12] In  ID., Cinque analisi. Il testo della poesia, Milano 1982, pp. 127-54.
[13] v. Franco Brevini, Le parole perdute. Dialetti e poesia del nostro secolo, Einaudi 1990, p. 199 e sgg.
[14] Op.cit.p.205.
[15] Aldo Garzanti Editore
[16] Su "Gente", nel marzo del '76.
[17] Op.cit.
[18] Op. cit. p. 652
[19] Id.
[20] Walter Siti, Il mito Pasolini, in MicroMega n.6 / 2005 novembre, p.135 e sgg.
[21] Id.
[22] Roland Barthes, trad. it. Miti d'oggi, Giulio Einaudi ed. 1974, p. 191 e sgg.
[23] Antonio Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso, manifestolibri, Nuova edizione 2006, p. 19.
[24] Aggiunta del sottoscritto
[25] R.Barthes, p.201
[26] id. p.203
[27] id. p.205
[28] id. p.206
[29] id. p.207
[30] crs.vi ns.tri
[31] Nota Barthes: "Dal punto di vista etico ciò che disturba nel mito è appunto il fatto che la forma sia motivata. Perché se c'è una salute del linguaggio, a fondarla è l'arbitrarietà del segno. Ciò che disgusta nel mito è il ricorso a una falsa natura (…) La volontà di appesantire la significazione di tutte le cauzioni della natura provoca una specie di nausea: il mito è troppo ricco, è di troppo ha appunto la sua motivazione (…). Eticamente, c'è una specie di bassezza a giocare su due tavoli" (crs.vi ns.tri).
[32] Id. p. 213
[33] Groys, op.cit. pp.145-46
[34] P. Volponi, op.cit. p. 652
[35] v. A.Cadiolo, L'industria del romanzo, Editori Riuniti 1981
[36] Dattiloscritto presso il Fondo Pasolini di Roma
[37] v. Il romanzo, a cura di Franco Moretti, Volume primo. La cultura del romanzo, Giulio Einaudi editore, 2001.
[38] Id. p.182
[39] v.sopra
[40] con la "P" maiuscola
[41] Sic.
[42] v.sopra, p.139, Non per niente si tratta di personaggi che con lo spettacolo intrattengono rapporti drammaticamente proficui.
[43] v. Masolino d'Amico, in Oscar Wilde Opere, Arnoldo Mondadori editore, "Wilde era per molti storici della cultura solo un minore, un caso singolare, significativo soprattutto per il costume, uno scrittore sopravvalutato dagli stranieri, che confondono volentieri la persona con l'opera", pp.XIX-XX.
[44] v. R.Barthes, Il mito come linguaggio rubato, in op.cit, p.212.
[45] Op.cit. p.136
[46] Con il termine barbaro viene definito in questi giorni il leader libico Muhammar Gheddafi, il cane pazzo di Tripoli.
[47] v. Siti, op.cit., p.137: "Pasolini ha dato spesso l'impressione di combattere a mani nude contro il Potere".
[48] La Mortaccia (frammenti) (1959), in Alì dagli occhi azzurri, Aldo Garzanti Editore, 1965
[49] ivi pp.247-248
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Da un confronto fornito da Google (Blogspot) mi accorgo però che gli accessi
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