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L'origine è la meta. Il mito del ritorno in Pier Paolo Pasolini, di Aldo Riccadonna

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
L’origine è la meta.
Il mito del ritorno in Pier Paolo Pasolini
Aldo Riccadonna, 2 giugno 2013

Io, Es e Super-io: questa era la visione freudiana fino al 1920, anno di nascita di Al di là del principio di piacere, e già dal titolo si scopre un ripensamento della precedente teoria. La novità è che contro il principio di piacere non esiste solo il principio di realtà. Ma è una novità che Freud, in mancanza di riscontri empirici, assegna al campo della speculazione e dell’ipotesi. 
In alcune nevrosi Freud dice di aver scoperto una “coazione a ripetere”, cioè una tendenza a ripetere esperienze dolorose del passato. E questa tendenza è operante anche nei soggetti cosiddetti sani. Questa coazione si afferma contro il principio di piacere, infatti vi si riportano alla luce esperienze dolorose. Eppure “pare che la coazione a ripetere e un soddisfacimento pulsionale direttamente piacevole vi si intreccino nel modo più stretto”[1]. Questa coazione a ripetere sarebbe, secondo Freud, più originaria e più pulsionale del principio di piacere di cui non tiene alcun conto: appunto “al di là del principio di piacere”. La coazione a ripetere sembra quindi un ambito che è al di là del principio di piacere, un ambito che inerisce a qualche epoca precedente alla comparsa di tale principio. Ma anche le pulsioni di piacere mirano a riaffermare uno stato precedente di stabilità, mentre il dispiacere sarebbe il perturbamento prodotto dall’esterno e che mina la costanza dell’organismo.
Tutte le pulsioni tendono a ripristinare uno stato di cose precedente. Freud pensa di essere sulle tracce di una proprietà universale delle pulsioni: “Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale l’organismo ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno”[2]. Cambiamento e sviluppo sono illusioni; gli esseri viventi hanno una natura conservatrice.
L’organismo elementare non avrebbe mai inteso cambiare il suo stato iniziale; se le circostanze esterne fossero rimaste le stesse non avrebbe fatto niente di più che ripetere costantemente lo stesso corso di vita. […] Sarebbe in contraddizione con la natura conservatrice delle pulsioni se il fine dell’esistenza fosse il raggiungimento di uno stato mai attinto prima. Al contrario, si deve trattare di una situazione antica, di partenza, che l’essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare, al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo. Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi[3].
Freud parte dalla “coazione a ripetere” scoperta in alcune nevrosi e la prende come esempio guida della tendenza in tutte le pulsioni a riaffermare uno stato primigenio, distrutto da eventi esterni. Anche le pulsioni di piacere intendono ristabilire un’armonia perduta. Il progresso è per Freud illusione. Rimangono sul campo le due pulsioni di vita e di morte: la vita è sorta misteriosamente e da allora continua a ricrearsi, cioè a ripristinare se stessa; la morte è quello stato primigenio che intende catturare la vita e riportarla al suo stato naturale, come se la vita fosse un incidente malaugurato ed incomprensibile. La più universale aspirazione di tutti gli esseri viventi è quella di ritornare alla quiete del mondo inorganico. 
Pasolini ha molto a che vedere con una simile posizione. Nell’epilogo del film Edipo RePasolini fa tornare il cieco Edipo, dopo i suoi viaggi raminghi, al prato antico dell’infanzia:
E qui si ferma. Era tutto qui, quello che egli cercava, nella sua tenebra?
È il sublime angolo folto dei salici, argentei, rustici e selvaggi, che lasciano cadere i loro rami sull’acqua che se ne va lenta. Il luogo dove per la prima volta, gli occhi di Edipo distinsero e riconobbero la madre.
Su quest’immagine, animata da un lieve, antico e inenarrabile vento, scoppia la musica del motivo da cui essa trae, subito, un senso sconvolgente – una ripetizione, un ritorno – un’immobilità originale nel muoversi vano del tempo – la misteriosa musica del tempo infantile – il canto d’amore profetico – che è prima e dopo il destino – la fonte di ogni cosa[4].
Nel film (non nella sceneggiatura) Edipo dice: “O luce, che non vedo più, che prima eri stata in qualche modo mia, ora mi illumini per l'ultima volta. Sono tornato. La vita finisce dove comincia.” Siamo immersi nella ciclicità della cultura contadina, col ritorno al grembo materno (simboleggiato dal prato dell’infanzia). La ciclicità contadina viene affiancata alla ciclicità della vita, al desiderio del ritorno al grembo materno, del ritorno all’inorganico, alla morte. C’è la nostalgia di una totalità perduta, quella dell’unità con il corpo della madre, un desiderio regressivo del ritorno all’infanzia sua e dell’umanità. Ripetizione, ritorno, immobilità: l’infanzia è l’ultimo stadio della felicità panica dell’immobilità. Qui Edipo (Pasolini) torna dopo aver cercato la verità, prima in se stesso e poi nella storia, ma tutto ciò era inganno, tutto ciò si svolgeva nel tempo, sia il destino di Edipo che la storia, ma il tempo ha un movimento vano. Il canto d’amore è prima e dopo il destino e la storia; il canto d’amore è la verità che cercava Edipo.
Pasolini vuole esaltare l’innocenza contadina non contaminata dalla storia e dal pensiero borghese rivolto sempre al futuro; invece è il presente ad essere vissuto dalle classi astoriche, perché esse vivono in un eterno presente. Esse non conoscono la storia, ma vivono ciclicamente. Edipo è simbolo della vita inconsapevole che si scontra con la realtà angosciosa del principio di realtà. È l’innocenza di chi non ha avuto ancora l’obbligo di conoscere, di chi vive nella preistoria. Ma tale innocenza non esclude la colpevolezza inconscia freudiana. L’Edipodi Pasolini (che si stacca da quello intellettuale di Sofocle), nella tensione del “non voler sapere”, assembla l’istanza freudiana della rimozione inconscia con il mito della cultura contadina che vive fuori della storia nell’incoscienza del tempo.
Pasolini visse molti periodi dell’infanzia, adolescenza e giovinezza in Friuli Il Friuli era per lui un paese ideale, quasi fuori dello spazio e del tempo, “una specie di sentimentale e poetica Provenza”[5]. Le corse in bicicletta, le feste paesane, i balli, gli incontri coi fanciulli contadini, le ubriacature, i bagni nel fiume, le osterie, le chiacchierate allegre nelle stalle prima di andare a dormire: tutte immagini amalgamate a un tempo che si è fermato a una fase arcaica; “Nei monti carnici disboscati dalla fame, nei torrentacci sche­letrici, nei paesi immoti in un commovente odore di letame, la vita popolare tiene racchiuso in sé come il senso di uno stato umano assoluto”[6]. Il Friuli contadino appare col suo alone mitico e magico della statica perfezione, e qui si situa la vicenda dell’infante Pier Paolo, altrettanto mitica e magica. Le due astoricità, quella contadina e quella dell’infanzia, sono indissolu­bilmente compenetrate.
Mitica immobilità, che scaturisce dalle immagini agresti come la polenta, i buoi, la campana: ad esempio in Tornant al paìs (Tornando al paese) scritta tra il 1941 e 43, il poeta dice che il suo viaggio è finito là dove “si vif quiès e muàrs \ coma n’aga ch’a passa \ scunussuda enfra i bars (si vive quieti e morti \ come un’acqua che passa \ sconosciuta tra le siepi)”[7].
Come i contadini vivono sconosciuti e incoscienti, in quanto elementi della natura, così essi non conoscono un passato ed il loro tempo è senza giorni. Nei figli si ricompone identico il già accaduto, “coma s’al fos nòuf il timp antic \ dai vecius (come se fosse nuovo il tempo antico \ dei vecchi)”[8]: tema sempre ricor­rente in Pasolini, base di tutta la sua Weltanschauung.  
La perdita dell’infanzia, insidiata e distrutta dall’età adulta, è vissuta dal poeta in modo dramma­tico. La morte è sempre morbosamente presente in Pasolini, ed anche la morte della giovinezza viene celebrata con un mesto canto di addio rivolto dall’adulto verso se stesso fanciullo, ormai dileguato, che ora conosce “l’orrendo momento \ l’ultimo respiro”[9]. Questo spirito tremante vorrebbe ancora donare all’adulto un sorriso e non vuole rassegnarsi al silenzio che lo reclama e diventare una larva o un sogno sbiadito.
Quando Pasolini lascia per sempre il Friuli fuggendo verso Roma, è ormai prigioniero della nostalgia di un giorno morto ed assoluto, tramontato assieme alla giovinezza tutta immede­simata con una terra arcaica, dunque sempre giovane. Le due giovinezze potevano fiorire solo accomunate. Ora ronzano ancora le sagre nelle orecchie, ma come fossero le orecchie di un altro. I giorni del Friuli non sono andati perduti, ma sono divenuti di un altro, di un altro se stesso. Il Friuli ora vive sconosciuto, serrato dentro la gioventù, un tempo mitico e atemporale, “di là dal timp (al di là del tempo)”[10]: è qui racchiuso, tesoro nella luce per sempre viva, ma ormai inaccessibile. Ancora gli giungono gli odori nell’aria mattutina, “odori di campagne d’altri anni”, nei quali “la vita famigliare \ è immersa nel suo senso inconsapevole, \ e assoluto”[11]. È il passato che bussa sommesso e forse indifferente nella sua perfezione, lacerato tra un grido di disperazione proveniente dalla sua tomba e l’anelito verso l’ambito della meta-vita: la perfezione è solo un punto lontano, al quale non si tende, perché non è sulla nostra strada; è un punto lontano, ma dall’altra parte, alle nostre spalle, a cui volgiamo lo sguardo pieno solo di nostalgia. Forse nell’infanzia lo abbiamo toccato per l’ultima volta, ma senza accor­gercene, perché non avevamo un altro punto di confronto: la perfezione l’abbiamo perduta per sempre nell’atto della nascita? È questo il significato recondito (ma forse non troppo recondito) che Pasolini vuole esprimerci? Quel tempo è morto, eppure “quel tempo è sempre”[12], l’unico vero nostro tempo, nostro alter ego, nostro doppio che ci scorre parallelo senza poterlo mai più accarezzare, e che si specchia nella sua\nostra ombra.

“Non mi sento del tutto staccato dalle acque primordiali del ventre materno, ma pur sempre escluso da un’esistenza in cui regnava la plenitudine di un paradiso definitivamente perduto”[13].

“Spesse volte sogno di essere dentro il mare, nelle profondità che si dicono «abissali»: il mio nuotare, lì dentro, è un lento e capriccioso volare senza ali, proprio come quello dei pesci: e il paesaggio, per così dire, che mi vedo intorno, cioè le distese fluttuanti di acqua, ora filtrate da luci saettanti, ora riempite da luminosità diffuse e continue, mi dà un profondo senso di felicità. Quanto a respirare, poi, lì in fondo al mare, respiro magnificamente: anzi, la leggerezza del mio respirare è uno degli elementi del grande piacere che provo a stare lì dentro. Non c’è sogno più chiaro e assoluto di questo: si tratta di un regresso all’utero e alle sue acque, alla meravigliosa condizione prenatale «marina»”[14].

Edipo nel film pasolininano dice: “la vita finisce dove comincia” e il film si chiude sul prato verde, lo stesso prato dell’inizio quando il bambino era con la madre. Il prato simboleggia la madre, lo stato prenatale.
Il giovane Pasolini sperimenta con dolore il tempo che passa. Il dolore è così pressante che il dile­guamento del  presente viene anticipato già con l’occhio del futuro, come già morto. “Oh nostalgia \ del tempo presente! Amici, con voi cammino, \ e già tremate, larve, in fondo alla memoria”[15]: questi versi si riferiscono al tempo precedente alla fuga verso Roma, in cui Pasolini, finite le vacanze estive, deve lasciare Casarsa per tornare a Bologna. L’autunno fa cadere le foglie, i campi sono ormai grigi, il paese nella neve e nel freddo non potrà essere assaporato dal poeta. Ma il senso è più profondo: è la giovinezza che, a poco a poco, se ne va, assieme a un’altra estate vissuta nell’Arcadia friulana, lasciando in eredità al poeta l’angosciosa coscienza di essere sul punto terminale di un’età dell’oro. Poi ci sarà solo il rimpianto.
In tutta l’epopea sottoproletaria (ma anche nelle poesie friulane) aleggia la presenza incombente della morte. Muore Marcello all’ospedale ed anche Genesio alla fine di Ragazzi di vita, muoiono Accattone e Tommaso, ed anche in Mamma Roma e ne Il sogno di una cosa ci sono giovani che muoiono. La cre­scita, l’inserimento nel mondo degli adulti corrom­pe gli ideali giovanili, danneggia l’innocenza originaria dell’uomo: sembra dire Pasolini che se il destino dell’adulto è la perdita della vitalità e della libertà, è meglio la morte giovane.
In Adorno natura arcaica, infanzia ed arte sono accomunati in quanto disvelatori dell’utopia. Oggi siamo di fronte all’ “umiliante alternativa [...] alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: di­ventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino”[16].

“«Rien faire comme une bête», giacere sull’acqua e guardare tranquillamente il cielo, «essere e nient’altro, senz’altra determinazione e realizzazione», potrebbero sostituire processo, azione e compimento, e adempiere così sul serio alla promessa della logica dialettica, di sfociare nella propria origine. Tra i concetti astratti, nes­suno si avvicina all’utopia realizzata più di quello della pace perpetua”[17].

Riguardo alla promessa della dialettica di sfociare nella propria origine, Adorno, in quanto marxista, fa sua la visione di Marx (o meglio di Engels) sulle tre grandi fasi della storia. Ci fu un tempo il comunismo primitivo, la fase originaria della storia umana, in cui la scarsa popolazione poteva usufruire, senza lavorare e per soddisfare pochi bisogni, dell’abbondanza di prodotti che la natura elargiva. A questa fase segue la storia delle lotte di classe, la nascita del potere e dello sfruttamento. Infine il comunismo, questa volta scientifico, avrebbe ripristinato quel comunismo primitivo, ma in una forma superiore (è chiaro l’influsso hegeliano in tutto questo). La forma superiore è basata sull’acquisizione delle conquiste che l’umanità ha ottenuto tramite la storia, ad esempio la grande industria capace di soddisfare i bisogni molto più avanzati di quelli primitivi, o le scoperte scientifiche capaci di abolire le malattie, le inondazioni, la siccità ecc., a cui erano invece soggetti i primitivi. Tali conquiste, secondo Marx ed Engels, furono possibili solo tramite la storia delle lotte di classe, perché, ad esempio, solo allo scopo dell’arricchimento alcuni escogitarono l’industrializzazione, che in assenza di quell’incentivo non sarebbe esistita. Ovviamente nel futuro comunismo si sarebbe operata la comunanza dei mezzi di produzione, che invece durante la storia erano proprietà di alcuni.
Secondo Adorno quindi nostalgia, afflizione per il passato e utopia del futuro sono legati. La natura è ciò che noi fummo e ciò che torneremo ad essere. Tra i due poli, tra l’innocenza arcaica e naturale e quella futura, si estende la desolazione dell’Aufklärung, l’odissea civilizzatrice e illuministica. I due poli si rispecchiano e si richia­mano. L’infanzia accende dentro noi la nostalgia della natura arcaica; così la storia umana non deve dimenti­care questa innocenza. Ciò che appare ingenuo e naturale ci rende coscienti delle nostre mutilazioni, e ci fa presagire la conciliazione futura: è una sua promessa. Nella natura arcaica non esisteva opposizione tra indi­viduo, società e natura; la storia opera la rottura di questa originaria unità ed armonia. Nella consapevolezza della schiavitù, l’attrazione verso ciò che non esiste più coincide con lo slancio verso ciò che non esiste an­cora, di cui non possiamo però averne una definizione positiva, non possiamo prefigurarlo. Per Adorno, tra­mite il disincantamento scientifico della natura, è impossibile un rapporto diretto con la vita e la tradizione. La natura viene spogliata del mistero e ridotta a oggetto di utilità e calcolo. Comunque Adorno non pensa a un “ritorno” alla natura arcaica, bensì auspica che l’Aufklärungconcluda il suo corso civilizzatore e quindi si eclissi, lasciandoci in eredità le sue vittorie sulla miseria (pagate con secoli di schiavitù e orrori). La na­tura redentrice si colloca allafine della storia, e non all’inizio. Là si raggiungerà la “pace perpetua”.
Pasolini vede in ogni mutamento un allontanamento dalla perfetta staticità dell’infanzia e del passato. Nella poesia Il pianto della scavatrice il poeta assiste sconvolto allo sventramento di vecchi quartieri per fare posto alle nuove e moderne costruzioni: siamo negli anni ’50, l’epoca del boom economico. Mentre la scavatrice sgretola e distrugge senza meta, “un urlo improvviso, umano, / nasce”, “urlo che solo chi è morente, / nell’ultimo istante, può gettare”. A gridare è la scavatrice, “ma, insieme, il fresco / sterro sconvolto”, “tutto il quartiere... È la città,” “è il mondo. Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore”. Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore. La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci: è qui, che brucia / in ogni nostro atto quotidiano, / angoscia anche nella fiducia / che ci dà vita”[18].
L’urlo pazzo di dolore è umano, pur provenendo dal fresco sterro sconvolto, dalla scavatrice, dal quartiere, dalla città, da tutto il mondo. Sono i luoghi che l’uomo aveva voluto così, che ricalcavano la sua vita e la sua cultura, facevano parte del mondo umano nei loro lineamenti quasi umani. C’era questa simbiosi in cui tutto l’esistente viveva in una solidarietà e comunione, che sembravano eterne. Per questo il loro urlo è umano, è una cultura umana che viene sradicata. L’area erbosa, l’aperto spiazzo, libero per tutti, zona franca e selvaggia, retaggio dell’antica cultura contadina, diventa un cortile bianco, amorfo e anonimo, chiuso in un decoro borghese. Non più l’antica comunanza che si esprimeva anche negli spazi aperti, dove i bambini giocavano e gli adulti parlavano; ora, invece, al loro posto, ci saranno steccati ben squadrati, ove annida il rancore, il sospetto, la solitudine, con affissa e ben visibile l’insegna di proprietà privata e di divieto di passaggio. Le case costruite con muri storti (intonachi sghembi) erano come una vec­chia fiera caotica, anarchica e piena di vita. Ora, ci sarà qui l’ordine del nuovo isolato coi suoi rapporti umani freddi ad instaurarvi uno spento dolore. Questo mutamento è dolore anche quando si va verso il me­glio. Il futuro ci ferisce continuamente, la speranza e la fiducia sono indissolubilmente avvinghiate all’angoscia della perdita. Anche la fiducia che ci dà vita, la lotta degli operai col loro rosso straccio disperanza, non mitiga la disperazione e la nostalgia.
Il passato, ormai, non parlerà più ai nuovi abitanti del mondo che potranno fare a meno di interpretarlo, perché partiranno da zero. Per essi il passato sarà solo una curiosità da chiudere nel museo o da riattivare falsamente a scopi turistici. Al contrario di Adorno, in Pasolini c’è il desiderio del ritorno all’arcaico.
Si è visto sopra come Pasolini abbia una visione storica su cui basa tutte le sue analisi. È una storia intesa in senso marxista. Eppure si è visto anche come la cultura contadina, in Pasolini, sia estranea alla storia. Come conciliare queste due posizioni conflittuali? Tra filosofia della storia e astoricità contadina, Pasolini vive come scisso in due sfere incomuni­canti e questo “scandalo del contraddirmi” lo espone esplicitamente nel 1954 e lo vivrà per tutta la vita. Là, nel cimitero dove riposano le ceneri di Gramsci, Pasolini dice che si accinge ad accogliere i suoi insegnamenti “tra speranza \ e vecchia sfiducia”[19]: Gramsci gli ha insegnato a scindere il mondo in borghesia e proletariato ed alla prima Pasolini riserva rancore e disprezzo. Eppure il poeta non sceglie, amando il mondo che odia.

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un’ombra d’azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta[20].

Gramsci (il marxismo) ha insegnato a Pasolini come la società sia divisa in classi, eppure egli non sceglie! Non sceglie la coscienza storica che vorrebbe eliminare quel mondo creato dalla borghesia, perché ama questo mondo nella sua povertà, dove fiorisce la cultura contadina e sottoproletaria. Il mondo della povertà è il frutto del dominio borghese e delle altre classi dominanti precedenti. Il comunismo vuole eliminare questa miseria, ma per Pasolini il popolo è vero e puro solo se rimane nell’incoscienza astorica e nella povertà, là dove si è più vicini al mistero della vita non incrostata dai bisogni della civiltà. Quindi Pasolini ama questo mondo creato dalla borghesia. La fine della miseria porterebbe il popolo a divenire borghese, a perdere cioè la sua cultura fatta di austerità, di pochi bisogni, di vita animalesca, sensuale, vergine. Gramsci ha certo ragione a voler abolire sfruttamento e miseria – eppure ha torto perché ciò sarebbe l’eclissi della cultura popolare. Sia ben chiaro che Pasolini non ama la borghesia (anzi, la odia), ma ama il mondo che essa e tutti i potenti antecedenti per motivi di interesse hanno creato: solo in questo mondo il popolo primitivo ha potuto mantenersi incontaminato, a causa (per merito!) del dominio a cui è stato soggetto.
Pasolini si sente un traditore del paterno stato (la borghesia: il padre era un piccolo borghese) nel pensiero e nell’azione, eppure vi è attaccato nella sua estetica passione, una eredità borghese. Con te nel cuore, in luce: con Gramsci, con la storia, nella luce della ragione. Contro te nelle buie viscere: nelle radici borghesi. Attratto da una vita proleta­ria a te anteriore: anteriore alla storia ed alla coscienza, delle quali è manifestazione la lotta di emancipazione verso il comunismo. È alla sua natura ed allegria che Pasolini si rivolge, cioè alla sua ontologia astorica. Il mito del popolo vergine non intaccato dalla civiltà è un mito che gli deriva dal suo essere un intellettuale borghese, che vede nel popolo animale un alter ego nostalgico ed irraggiungibile, o meglio che si può raggiungere solo tramite l’estetica passione borghese.
Quindi, da un lato Pasolini sente che il mondo contadino è salvo solo se al potere c’è la borghesia o le classi dominati precedenti – da un altro lato ammette di fare parte della borghesia e di volere intatto il mondo contadino perché l’intellettuale borghese ha l’estetica passione. Questi versi si possono interpretare in ambedue tali maniere.
L’eredità borghese è simboleggiata da un altro morto, la cui tomba è nello stesso cimitero di Roma: il poeta inglese Shelley, che elude la vita immergendosi nella “carnale \ gioia dell’avventura, estetica \ e puerile”[21]. In questo cimitero vi sono accomunate le due istanze di Pasolini stesso, la coscienza e la passione estetica, due anime non dialettiche. Pasolini le ha proiettate nei due illustri ospiti. Ma dietro l’estetica passione borghese, oppure più in profondità, c’è in Pasolini la nostalgia di uno stato perfetto, qui simboleggiato dal popolo animale ed altrove dal grembo materno. 
Eredità borghese è anche la coscienza storica, di cui l’intellettuale si sente investito. “Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?”[22]In quanto intellettuale borghese, anche se diseredato, Pasolini possiede, ma non denaro, come i borghesi ortodossi, bensì la storia, cioè la coscienza storica, che infatti non può essere fatta propria dalle classi subalterne, in quanto esse sono appunto estranee alla storia. Ma ritorna subito la contraddizione: questo esaltante possesso milita contro la staticità del mondo astorico. E nel vuoto della storia il popolo irrompe:

Non vita, ma sopravvivenza
- forse più lieta della vita - come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
che per l’operare quotidiano[23].

Se è giunta la luce (la coscienza storica), sembra gravida solo di sogni, mentre la realtà sta nella vita: “ecco che tu ti accorgi che sogni”[24], se ti immergi nella storia, ed invece rimani ancora attaccato al mistero sensuale della vita, e scompare ogni vergogna “di non essere – nel sentimento – / al punto in cui il mondo si rinnova”[25]. La storia vuole uccidere l’atemporalità della sensualità, che viene associata a quella del mondo astorico, ma è proprio là che il poeta cerca se stesso. “È necessità il capire / e il fare: il credersi volti / al meglio”, “Eppure qualche cosa è più / forte del nostro ardore empio”, “E ci trascina indietro, al fresco, / all’arso tempo, al tempo vano, / assordato dalle vane feste / dell’umile gente, al tempo umano, / al tempo allegramente terrestre”[26]. Al rinnovarsi del tempo in cui un ardore empio ci spinge al meglio, a scordare i morti, e non ci concede re­spiro, viene contrapposto il tempo umano, vano, terrestre: quasi che il primo non fosse il tempo della vita, appunto il meta-tempo della storia, una corsa sfrenata che ci affascina e ci attira e insieme ci violenta in un’ambivalenza irrisolvibile. È l’umile gente che vive il tempo umano, nelle sue vane feste, nella sua alle­gria, nella sua incoscienza[27].

Parmenide affermò l’identità del punto d’inizio col punto di arrivo, e dunque negò il divenire e il tempo: “Per me è uguale da qualunque punto cominci: poiché là tornerò di nuovo”[28].

Come in Freud, la vita (la maturazione, l’evoluzione ecc.) sembra un incidente che impedisce all’organismo di rimanere nella pace inorganica, così in Pasolini la storia (la maturazione, l’evoluzione ecc.) ha distrutto la mitica pace atemporale della preistoria umana. Non è un caso che sia in Freud che in Pasolini il progresso sia un’idea illusoria. In Pasolini il tempo astorico (eterno, immobile) legato alla ciclicità contadina è metafora del tempo prenatale: la storia è la nascita, la fuoriuscita dal ventre della natura-madre. E Pasolini sogna il ritorno all’immobilità.    
Come con l’arcaicità contadina, così Pasolini intende rimanere “Pari, sempre pari con l’inespresso, \ all’origine di quello che io sono”. L’evoluzione è solo decadimento e ansiosa nostalgia. Ciò che “si esprime” (che si tramuta, che avanza) esce dalla mitica assolutezza. Solo l’origine può essere la meta


Adulto? Mai - mai, come l’esistenza
che non matura - resta sempre acerba,
di splendido giorno in splendido giorno -
io non posso che restare fedele
alla stupenda monotonia del mistero.
[...]
Pari, sempre pari con l’inespresso,
all’origine di quello che io sono[29].




[1]Sigmund Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920 (tr. it. di Anna Maria Marietti, Al di là del principio di piacere, Torino, Boringhieri, 1975, p. 40). 
[2]Ivi, pp. 60-61.
[3]Ivi, pp. 62-63.
[4] P.P.P., Edipo Re, Milano, Garzanti, 1967 (ora in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re, Medea, Milano, Garzanti, 1991, pp. 448-449).
[5]P.P.P., Le belle bandiere, cit., p. 136.
[6] P P.P., Un paese di temporali e di primule, Parma, Guanda, 1993, p. 193.
[7] P.P.P., La meglio gioventù, Firenze, Sansoni, 1954 (ora in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Torino, Einaudi, 1975, p. 18). La traduzione di tutte le poesie friulane è dello stesso Pasolini.
[8]Ivi, p. 132.
[9] P.P.P., L’usignolo della Chiesa Cattolica, Torino, Einaudi, 1976, pp. 13.
[10] P.P.P., La meglio gioventù, cit., p. 94.
[11] P.P.P., Roma 1950, diario, Milano, Scheiwiller, 1960, p. 21.
[12]Ibidem.
[13] P.P.P. cit. in Jean Duflot (a cura di), Les dernières paroles d’un impie, Belfond, 1981 (tr. it. di Martine Schruoffeneger, Il sogno del centauro, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 165).
[14] P.P.P., Descrizioni di descrizioni, cit., p. 446.
[15] P.P.P., Lettere 1940-1954, Torino, Einaudi, 1986, p. 85.
[16] T. W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1951 (tr. it. di Renato Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, 1979, p. 155).
[17]Ivi, p. 185.
[18] P.P.P., Le ceneri di Gramsci, cit., pp. 111-112.
[19]Ivi, p. 69. 
[20]Ivi, p. 71.
[21]Ivi, pp. 73-74.
[22]Ivi, p. 72.
[23]Ivi, p. 76. “La loro «cultura», tanto profondamente diversa da creare addirittura una «razza», forniva ai sottoproletari ro­mani una morale e una filosofia da classe «dominata», che la classe «dominante» si accontentava di «dominare» polizie­scamente, senza curarsi di evangelizzarla, cioè di costringerla ad assorbire la propria ideologia (nella fattispecie un ripu­gnante cattolicesimo puramente formale). Lasciata per secoli a se stessa, cioè alla propria immobilità, quella cultura aveva elaborato valori e modelli di comportamento assoluti. Niente poteva metterli in discussione. Come in tutte le culture popolari, i «figli» ricreavano i «padri»: prendevano il loro posto, ripetendoli (cosa che costituisce il senso delle «caste», che noi razzisticamente, e con tanto sprezzante razionalismo «eurocentrico» ci gratifichiamo di condannare). Mai nessuna rivoluzione interna a quella cultura, dunque. La tradizione era la vita stessa. Valori e modelli passavano immutabili dai padri ai figli”. P.P.P., Lettere luterane, cit., pp. 152-153.
[24] P.P.P., Le ceneri di Gramsci, cit., p. 108. 
[25]Ivi, pp. 108-109.
[26]Ivi, p. 49.
[27] Ma la storia, come si è visto sopra, dopo il boom economico degli anni ’60, non è più storia di classe come era stata delineata dal marxismo.
[28]Parmenide, in Umberto Curi (a cura di), Testimonianze e frammenti dei presocratici, Padova, R.A.D.A.R., 1971, p. 140.
[29] P.P.P., Roma 1950, cit., p. 7.
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Pier Paolo Pasolini, Poesie in friulano

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LA POESIA
Casarsa, foto di Fabien Gerard
Pier Paolo Pasolini
La meglio gioventù
(1954)
In Bestemmia. Tutte le poesie, Volume I, Garzanti, Milano 1993

La nuova gioventù
(1975)
In Bestemmia. Tutte le poesie, Volume II, Garzanti, Milano 1993
Casarsa, foto di Fabien Gerard

La meglio gioventù


POESIE A CASARSA (1941-1943)
I. CASARSA


Il nini muàrt

Sera imbarlumida, tal fossàl
a cres l’aga, na fèmina piena
a ciamina pal ciamp.

Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòur
da la sera, quand li ciampanis
a sùnin di muàrt.

IL FANCIULLO MORTO. Sera luminosa, nel fosso cresce l’acqua, una donna incinta cammina per il campo.
Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore della sera, quando le cam­pane suonano a morto.


Ciant da li ciampanis

Co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me paìs al è colòur smarìt.

Jo i soj lontàn, recuardi li so ranis,
la luna, il trist tintinulà dai gris.

A bat Rosari, pai pras al si scunìs:
io i soj muàrt al ciant da li ciampanis.

Forèst, al me dols svualà par il plan,
no ciapà pòura: io i soj un spirt di amòur

che al so paìs al torna di lontàn.


CANTO DELLE CAMPANE. Quando la sera si perde nelle fontane, il mio paese è di colore smarrito.
Io sono lontano, ricordo le sue rane, la luna, il triste tremolare dei grilli.
Suona Rosario, e si sfiata per i prati: io sono morto al canto delle campane.
Straniero, al mio dolce volo per il piano, non aver paura: io sono uno spirito d’amore,
che al suo paese torna di lontano.


II. ALELUJA


A na fruta

Lontàn, cu la to pièl
sblanciada da li rosis,
i ti sos una rosa
ch’a vif e a no fevela.

Ma quant che drenti al sen
ti nassarà na vòus,
ti puartaràs sidina
encia tu la me cròus.

Sidina tal sulisu
dal solàr, ta li s-cialis,
ta la ciera dal ort,
tal pulvìn da li stalis...

Sudina ta la ciasa
cu li peràulis strentis
tal còur romai pierdùt
par un troi de silensi.

A UNA BAMBINA. Lontana, con la tua pelle sbiancata dalle rose, tu sei una rosa che vive e non parla.
Ma quando nel petto ti nascerà una voce, porterai muta anche tu la mia croce.
Muta sul pavimento del solaio, sulle scale, sulla terra dell’orto, nella polvere delle stalle.
Muta nella casa, con le parole strette nel cuore, ormai perduto per un sentiero di silenzio.


SUITE FURLANA (1944-1949)
II. DANZE


Dansa di Narcìs (II)

Jo i soj na viola e un aunàr,
il scur e il pàlit ta la ciar.

I olmi cu’l me vuli legri
l’aunàr dal me stomi amàr
e dai me ris ch’a lusin pegris
in tal soreli dal seàl.

Jo i soj na viola e un aunàr,
il neri e il rosa ta la ciar.

E i vuardi la viola ch’ a lus
greva e dolisiosa tal clar
da la me siera di vilùt
sot da l’ombrena di un moràr.

Jo i soj na viola e un aunàr,
il sec e il mòrbit ta la ciar.

La viola a intorgolèa il so lun
Tinar tai flancs durs da l’aunàr
E a si spièglin ta l’azùr fun
Da l’aga dal me còur avàr.

Jo i soj na viola e un aunàr,
il frèit e il clìpit ta la ciar.

DANZA DI NARCISO (II). Io sono una viola e un ontano, lo scuro e il pallido nella carne.
Spio col mio occhio allegro l’ontano del mio petto amaro e dei miei ricci che splendono pigri nel sole della riva.
Io sono una viola e un ontano, il nero e il rosa nella carne.
E guardo la viola che splende greve e tenera nel chiaro della mia cera di velluto sotto l’ombra di un gelso.
Io sono una viola e un ontano, il secco e il morbido nella carne.
La viola contorce il suo lume [tenero] sui fianchi duri dell’ontano, e si specchiano nell’azzurro fumo dell’acqua del mio cuore avaro.
Io sono una viola e un ontano, il freddo e il tiepido nella carne.


Il dì da la me muàrt

Ta na sitàt, Trièst o Udin,
ju par un viàl di tèjs,
di vierta, quan’ ch’a mùdin
il colòur li fuèjs,
i colarài muàrt
sot il soreli ch’al art
biondu e alt
e i sierarài li sèjs,
lassànlu lusi, il sèil.

Sot di un tèj clìpit di vert
i colarài tal neri
da la me muàrt ch’a dispièrt
i tèjs e il soreli.

IL GIORNO DELLA MIA MORTE. In una città, Trieste o Udine, per un viale di tigli, quando di primavera le foglie mutano colore, io ca­drò morto sotto il sole che arde, biondo e alto, e chiuderà le ciglia lasciando il cielo al suo splendore.
Sotto un tiglio tiepido di verde, cadrò nel nero della mia morte che disperde i tigli e il sole.


ROMANCERO (1947-1953)
IL TESTAMENTO CORÀN (1947-1952)

El testament Coràn

In ta l’an dal quaranta quatro
fevi el gardon dei Botèrs:
al era il nuostri timp sacro
sabuìt dal sòul dal dover.
Nùvuli negri tal foghèr
thàculi blanci in tal thièl
a eri la pòura e el piathèr
de amà la falth e el martièl.

Mi eri un pithu de sèdese ani
con un cuòr rugio e pothale
cui vuoj coma rosi rovani
e i ciavièj coma chej de me mare.
Scuminthievi a dujà a li bali,
a ondi i rith, a balà de fiesta.
Scarpi scuri! ciamesi clari!
dovenetha, tiara foresta!

Chela vuolta se ‘ndava a rani
de nuòt col feràl e la fòssina.
Rico al sanganava li ciani
e i bruscànduj col feral ros
ta l’umbrìa ch’a inglassava i vuos.
Tal Sil se trovava pissìguli
a mijars in ta li pothi.
Se ’ndava plan thentha un thigu.

In ta la boscheta dai poj
’pena magnàt se ingrumava
duta la compagnia dai fiòj,
e lì spes se bestemava
e coma uthiej se ciantava.
Dopo se dujava a li ciarti
a l’umbrìa da la blava.
La mare e il pare a eri muarti.

De Domènia, òmis dal cuòr gredo,
se coreva via in bicicleta
par loucs de un inciànt sensa pretho.
E na sera mi ài vist la Neta
in tal lustri da la boscheta
ch’a menava a passòn la feda.
Liena co la sova bacheta
a moveva l’aria de seda.

Mi nasavi de arba e ledàn
e dei sudòurs rassegnadi
tal me cialt stomi de corbàn;
e li barghessi impiradi
tai flancs, da l’alba dismintiadi,
a no cujerdavin la vuoja
sglonfa de albi insumiadi
e seri thenta fresc de ploja.

Par la prima vuolta ài provàt
cun chela fiola de tredese ani
e plen de ardòur soj s-ciampàt
par cuntalu ai me cumpagni.
Al era Sabo, e nancia un cian
no se vedeva par li stradi.
Al brusava el loùc de Selàn.
Li luci duti distudadi.

In mieth da la platha un muàrt
ta na potha de sanc glath.
Tal paese desert coma un mar
quatro todèscs a me àn ciapàt
e thigànt rugio a me àn menàt
ta un camio fer in ta l’umbrìa.
Dopo tre dis a me àn piciàt
in tal moràr de l’osteria.

Lassi in reditàt la me imàdin
ta la cosientha dai siòrs.
I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin
dei me tamari sudòurs.
Coi todescs no ài vut timòur
de lassà la me dovenetha.
Viva el coragiu, el dolòur
e la nothentha dei puarèth!

IL TESTAMENTO CORÀN. Nel mille novecento quaranta quattro fa­cevo il famiglio dei Boter: era il nostro tempo sacro arso dal sole del dovere. Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello.
Io ero un ragazzo di sedici anni, con un cuore ruvido e disordinato, con gli occhi come rose roventi e i capelli come quelli di mia madre. Cominciavo a giocare alle bocce, a ungere i ricci, a ballare di festa. Scarpe scure, camicia chiara, giovinezza, terra straniera!
In quel tempo si andava a rane di notte col fanale e la fiocina. Rico insanguinava le canne e le erbacce col fanale rosso, nell’ombra che gelava le ossa. Nel Sile si trovavano pesciolini a migliaia dentro le pozze. Andavamo piano senza un grido.
Nel boschetto dei pioppi appena mangiato si radunava tutta la compagnia dei ragazzi, e lì spesso si bestemmiava e come uccelli si cantava. Dopo giocavamo alle carte all’ombra del granoturco. La madre e il padre erano morti.
Di Domenica, uomini dal cuore rozzo, si correva via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo. E una sera ho visto la Neta, nella luce del boschetto, che conduceva al pascolo la pecora. Con il suo ramoscello essa muoveva l’aria di seta.
Io odoravo di erba e letame e dei sudori rassegnati nel mio caldo torace di cuoio; e i calzoni infilati sui fianchi, dimenticati dall’alba, non coprivano la voglia gonfia di albe assopite e di sere senza fresco di pioggia.
Per la prima volta ho provato con quella ragazza di tredici anni, e pieno di ardore sono scappato a raccontarlo ai miei compagni. Era Sabato ma per le strade non si vedeva neanche un cane. La casa dei Sellàn bruciava. Le luci erano tutte spente.
In mezzo alla piazza c’era un morto in una pozza di sangue ag­ghiacciato. Nel paese deserto come un mare quattro tedeschi mi hanno preso e gridando rabbiosi mi hanno condotto su un camion fermo nell’ombra. Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso del­l’osteria.
Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei.ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori. Coi te­deschi non ho avuto paura di lasciare la mia giovinezza. Viva il co­raggio, il dolore e l’innocenza dei poveri!


ROMANCERO, 1953
II. IL VECCHIO TESTAMENTO


Il quaranta quatri
 .
No roseéa pì la surìs,   a ciantin li sizilis, 
no svualapèa il colòmp,   a sgiarfin Ii gialinis. 
No suna par il timp,   sunin li Aimariis. 
A si vièrs l’ùs da l’ort,   e palidùt il nini 
al ven fòur curìnt,  e sclufat tal glerìn 
al matièa bessòul   c’un gamelòt lusìnt.
La mari drenti in ciasa,   tal sulisu fruvàt 
a spaca i stecs trimànt   sul puòr zenoli alsàt. 
Po’ a impija i fulminàns   e il cialdirìn dal lat 
a picia un puc ’fanada   stissiànt il fòuc cu’l flat.
Fòur a è dut un bati   fresc di Aimariis 
vía par i puòrs paìs   plens di malincunia. 
Quìndis àins! disnòuf àins!   Botonànt li barghessis
a vègnin ju i fantàs,   a ghi tirin li stressis: 
«Dai, mama, i vin fan,   prepara di marinda!»
Cui stòmis nus a còrin   tal curtìl sot la linda,
e lì coma doi poj,   sora la vas-cia plena 
un ridìnt al si lava   chel altri al si petena. 
Recuàrditi, Signòur,   chel ch’a ni à capitàt,
da la nustra pasión   vuarda di vej pietàt.
La nustra ciera a è stada   in man dai forestèirs
e nu a ni àn puartàt   ta n’antra prisonèirs.
I zòvins e i vecius  in plassa a àn piciàt,
li nustris fantassinis   a àn disonoràt.
A ni è muàrt in tal còur   il ben da la ligria
ogni voja di ridi   a è svualada via. 
Par li stradis feratis,   par i stradòns di sfalt
par vej un toc di pan   i ris-ciavin la muàrt.
Clàmini tu, o Signòur,   e nu i Ti clamarìn,
torna a fà i nustris dis   coma ch’a erin prin.

IL QUARANTA QUATTRO. No rode più il topo, cantano le rondini, non svolazza il colombo, raspano le galline. Non suona per la tempesta, suonano le Avemarie. Si apre l'uscio dell'orto e palliduccio il bambino vien fuori correndo, si accuccia sulla ghiaia, e gioca da solo con un barattolo lucente. La madre dentro in cucina, sul pavimento consunto, spacca gli stecchi tremando, sul povero ginocchio alzato. Poi accende i fulminanti, e appende un poco affannata il pentolino del latte, attizzando il fuoco col fiato. Fuori è tutto un battere, fresco di Avemarie, via per i poveri paesi pieni di malinconia. Quindici anni! diciannove anni! Abbottonandosi i calzoni, vengono giù i ragazzi, la tirano per le treccie: «Su, mamma, abbiamo fame, prepara la merenda!». Coi petti nudi corrono nel cortile sotto la grondaia, e lì come due pioppi, sul vascone pieno, uno ridendo si lava, l'altro si pettina. Ricordati, Signore, quello che è accaduto, della nostra passione guarda di avere pietà. La nostra terra è stata in mano agli stranieri, e noi ci hanno portato prigionieri in un'altra. I giovani e i vecchi li hanno impiccati in piazza, le nostre giovinette, ce le hanno disonorate. Ci è mostro nel cuore il bene dell'allegria, ogni voglia di ridere ci è volata via.  Per le strade ferrate e gli stradoni d'asfalto, per un poco di pane, abbiamo rischiato la morte. Chiamaci tu, o Signore, e noi ti chiameremo, rifà i nostri giorni com'erano prima.


Il quaranta sinc

Strussànt i piès tal pòlvar   stralumìs di straca 
a van via i Todèscs,    pioris ta la fumata. 
A van tra li masèriis   tra li cassis bagnadis 
russànt i sclops tal fangu   da li pì scontis stradis. ....
In tal borc na ciampana   a bat il Matutín 
e a tòrnin i dìs   coma ch’a erin prin. 
In tai borcs li campani   a botizèin di fiesta 
par li cors ben netadis   par la ciampagna fres-cia, 
là che trops di frutis   ch’a ghi slus la stressa 
par galeriis di vencs   a van legris a messa. 
E driu i fantassìns   apena cunfessàs 
cui calsetòns blancs   e i ciafs biondus tosàs. 
Lùnis, lùnis di Pasca!   Co a còrin ridìnt 
i miej zòvins dal borc…di lunc su il Tilimìnt 
cu li so bicicletis,   e li majetis blancis, 
sot i blusòns inglèis,   ch’a nàsin di naransis! 
Un puc ciocs a ciantin   di matina bunora 
e su li so siarpetis   gh’inzela il flat la bora,
ju par Codròip, Ciasàl,   par li pradariis 
plenis di custòdiis   e di cumpagniis, 
zent ch’a zuja, ch’a siga,   tor atòr dal breàr
e i bistròcs risìns   dal prin bal da l’an. 
Il Signòur ni à vistùt   di ligrìa e pietàt 
na corona di amòur   a ni à mitùt tal ciaf. 
Il Signòur l’à vulùt   sbassà duciu i mons 
implenà li validi   fà dut vualìf il mond, 
parsè che il so pòpul   cuntènt al ciamini 
par la quieta ciera   dal so quiet distìn. 
Il Signòur lu saveva   che tal nustri còur 
davòur dal nustri scur   a era il So luzòur. 
 
IL QUARANTA CINQUE. Trascinando i piedi nella polvere, ciechi di stanchezza, vanno via i Tedeschi, pecore nella nebbia. Vanno tra le macerie, tra le acacie bagnate, trascinando i fucili nel fango, per le strade più nascoste. Sul borgo una campana batte il Mattutino, e i giorni ritornano com'erano prima. Sui borghi le campane suonano a festa, per le corti ben spazzate, per la fresca campagna, dove sciami di bambine, con la treccia che gli luce, per gallerie di venchi, vanno allegre a messa. E dietro i ragazzetti, appena confessati, coi calzettoni bianchi, e i biondi capi tosati. Lunedì, lunedì di Pasqua! Quando corrono ridendo i più bei giovincelli, sul ponte del Tagliamento, con le loro biciclette e le magliette bianche, sotto i blusoni inglesi, che sanno di arance! Un poco ubriachi cantano, alla mattina presto, e sulle loro sciallette gli gela il fiato la bora, giù per Codroipo, Casale, per le praterie piene di posteggi e di compagnie, di gente che gioca, grida, sotto la piattaforma, dentro i fiammanti spacci del primo ballo dell'anno. Il Signore ci ha vestiti di allegria e pietà, una corona di amore ha messo sul nostro capo. Il Signore ha voluto abbassare rupi e monti, colmare le vallate, fare uguale tutto il mondo, perché il suo popolo contento cammini per la quieta terra del suo quieto destino. Il Signore lo sapeva che nel nostro cuore, dietro il nostro scuro, c'era il Suo splendore.


La nuova gioventù


TETRO ENTUSIASMO (POESIE ITALO-FRIULANE 1973-1974)

Versi sottili come righe di pioggia 


Bisogna condannare 
severamente chi 
creda nei buoni sentimenti 
e nell’innocenza. 

Bisogna condannare 
altrettanto severamente chi 
ami il sottoproletariato 
privo di coscienza di classe. 

Bisogna condannare 
con la massima severità
chi ascolti in sé e esprima 
i sentimenti oscuri e scandalosi. 

Queste parole di condanna 
hanno cominciato a risuonare 
nel cuore degli Anni Cinquanta 
e hanno continuato fino a oggi. 

Frattanto l’innocenza, 
che effettivamente c’era, 
ha cominciato a perdersi 
in corruzioni, abiure e nevrosi. 

Frattanto il sottoproletariato, 
che effettivamente esisteva, 
ha finito col diventare 
una riserva della piccola borghesia. 

Frattanto i sentimenti 
ch’erano per loro natura oscuri 
sono stati investiti 
nel rimpianto delle occasioni perdute. 

Naturalmente, chi condannava 
non si è accorto di tutto ciò: 
egli continua a ridere dell’innocenza, 
a disinteressarsi del sottoproletariato 

e a dichiarare i sentimenti reazionari. 
Continua a andare da casa 
all’ufficio, dall’ufficio a casa, 
oppure a insegnare letteratura: 

è felice del progressismo 
che gli fa sembrare sacrosanto 
il dover insegnare al domestici 
l’alfabeto delle scuole borghesi. 

È felice del laicismo 
per cui è più che naturale 
che i poveri abbiano casa 
macchina e tutto il resto. 

È felice della razionalità 
che gli fa praticare un antifascismo 
gratificante ed eletto, 
e soprattutto molto popolare. 

Che tutto questo sia banale 
non gli passa neanche per la testa: 
infatti, che sia così o che non sia così,
a lui non viene in tasca niente. 

Parla, qui, un misero e impotente Socrate 
che sa pensare e non filosofare, 
il quale ha tuttavia l’orgoglio 
non solo d’essere intenditore 

(il più esposto e negletto) 
dei cambiamenti storici, ma anche 
di esserne direttamente 
e disperatamente interessato. 
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Il libro della madre di Pasolini, di Ferdinando Camon

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LA VITA
Il libro della madre di Pasolini
di Ferdinando Camon
"La Stampa -Tuttolibri", 4 dicembre 2010

Susanna Colussi Pasolini, Il film dei miei ricordi
a cura di Graziella Chiarcossi, Archinto ed., 2010

Per onestà, avverto il lettore che la mia lettura di questo libro non può essere imperturbata e serena, perché troppi ricordi mi riportano all’autrice. Di lei so troppe cose, che un lettore normale non sa. L’autrice è la madre di Pier Paolo Pasolini. Quindi l’ho vista più volte, a casa sua all’Eur. Io parlavo con Pier Paolo e lei stava di là, silenziosa, discreta ma incombente. Pier Paolo le aveva dedicato una poesia, bellissima, intitolata “A mia madre”, in cui con sorprendente lucidità (in lui, che aveva fatto solo 7-8 sedute di analisi con Musatti, poi si ritirò: troppa sofferenza), mostra di capire che la fonte della sua omosessualità stava in sua madre: troppo amata, per poter amare un’altra donna, troppo intoccabile, per poter toccare una donna. Pasolini è sepolto a Casarsa, a un’ora d’auto da casa mia. 
Una volta ero lì, alla sua tomba, ed arrivò un ragazzo con un libro e uno sgabello: si sedette accanto a Pier Paolo (che sta insieme con la madre, fianco a fianco, in una “tomba coniugale”), e a mezza voce lesse tutta “A mia madre”. Ho pensato: un altro omosessuale che spiega alla propria madre l’origine della propria omosessualità. 
Girando il film “Il Vangelo secondo Matteo”, Pier Paolo aveva bisogno di una Madonna che piange ai piedi del figlio crocifisso, e scelse sua madre dicendole: «Piangi come quando hai visto tuo figlio partigiano ucciso». Susanna pianse un pianto incontenibile, sorretta per le braccia, a destra e a sinistra. Qui c’è un coacervo di significati che nessuna critica ha mai tirato fuori: la madre del fratello come la madre di Cristo? Il figlio come Gesù Cristo? Come poteva il figlio Pier Paolo rinnovare un dolore così totale per un film? Io vidi il film a Padova, Franco Fortini lo vide a Firenze, ci telefonammo, e Fortini mi disse che era uscito prima della fine: non aveva retto all’angoscia. Ora, ecco qui un libro, “il” libro della madre. La madre valeva questo amore? Chi è Susanna? È possibile capire che madre, che donna era, vedendo che autrice è?
Vedendo il libro, noi vediamo qualcosa che Pasolini non ha mai visto. Questo libro infatti riunisce 21 quaderni da quinta elementare, scritti a penna (quella col pennino, che s’intingeva nel calamaio), in cui Susanna racconta la stirpe dei Colussi (suo cognome da nubile), per circa un secolo, dal tempo di Napoleone fino alla gioventù sua e dei suoi fratelli. I quaderni sono adesso pubblicati a cura di Graziella Chiarcossi, nipote di Pier Paolo, affezionata e scrupolosa custode della sua memoria. Vorrebbero essere storia. Ma Susanna fa storia come Erodoto: tutto quello che viene a sapere è storia. Nella civiltà contadina funziona così, tutto quello che si tramanda a voce è nostro ed è verità, quello che sta scritto è degli altri ed è inganno. 
Susanna è una affabulatrice portentosa. Comincia dalla vita di Visèns (Vincenzo), che nel paesetto di Casarsa (centro di tutta l’epopea, a sradicarsene definitivamente sarà Pier Paolo) si sentiva morire: diventa ragazzo, il padre gli regala un cavallo, con quel cavallo si presenta all’esercito di Napoleone, accampato in Lombardia, e viene arruolato come dragone (eran tutti alti, questi Colussi, ma allora da dove vien fuori Pier Paolo?). Parte per la campagna di Russia, 1812. Napoleone è sconfitto. Visèns fa parte della cavalleria sbaragliata, nella fuga si perde, resta solo in un deserto di neve, è ferito, prima di svenire ammazza il cavallo, lo sventra con la spada, e si nasconde nella sua pancia. È l’apice del mito. Visèns è il personaggio più memorabile rievocato-reinventato da Susanna (che usa i racconti della nonna). Passa di lì una slitta, sopra c’è una ragazza che deve sposarsi entro la settimana, con un uomo ricco che lei non ama, vede il cavallo stramazzato, lei col padre tira fuori Visèns, e insomma facciamola breve: i due si amano, scappano in Italia, nel viaggio si sposano, e da loro discendono altri personaggi successivi. 
I protagonisti sono Visèns, Beputi, Cenci, un altro Beputi (Beppino), Minuti (Domenico), Centin. Le loro storie oscillano fra la distilleria dei Colussi a Casarsa, e le fughe in Piemonte, a Roma, in California. Susanna ama più di tutti l’ultimo, Centin. Che, generoso scialacquatore, facile preda di donne “perdute”, sparisce in California e non sappiano che ne sarà di lui. Finito il libro avventurosissimo, ti domandi: “E poi?”. Non vorresti mai che finisse. Sì, c’è qualche vena retorica, qualche romanticheria, ma se a sentire queste storie tu, lettore qualsiasi, resti legato, come può sentirsi (mettiamoci nei panni di Pier Paolo) un figlio, un figlio piccolo? Incantato. Senza scampo. 
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Benares, da "L'odore dell'India" di Pier Paolo Pasolini

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LA NARRATIVA
L'odore dell'India

Siamo a Benares e camminiamo, reduci dal bazar, condotti dal tassista maomettano, grosso, intelligente e veloce come un europeo, verso il tassì. Camminiamo per una larga strada del centro, con le case a due passi, gonfie come pianole, tutte di legno, con gli angoli smussati rotondeggianti, i portichetti slabbrati e dipinti di colori teneri.
Sotto un portichetto dipinto di fresco di verdognolo, nella confusione di tassì, cenci e vacche, sentiamo il suono insistente e primitivo di una musica. La faccia del tassista ci promette qualcosa di buono: perciò ci accostiamo, e ci uniamo a una piccola ressa, addossata a una finestrella, in un vicolo perpendicolare alla strada e alla loggetta verde. Attraverso la finestrella, vediamo una saletta non molto grande e completamente disadorna, ma non sporca: in fila sono accucciati per terra degli indù, sei o sette file di una decina di persone l'una. Tutti cantano con gran fervore. Gli strumenti musicali che accompagnano quel coro, sono pochi. Prevale un tamburo lungo e stretto battuto con grande furore dal musicante, che pare stacchi, vorticosamente, le mani dalla pelle del tamburo, come questa fosse spalmata di colla. I colpi sono ordinati, ma precipitosi e drammatici. Il canto della folla accucciata, benché elementare, com'è la melodia indiana, ha qualcosa di giocondo: ricorda i canti delle nostre osterie.
Sotto la finestra, in un angolo della stanza, c'è un parapetto, dipinto di giallo, che circonda la cappella, col solito dio, l'ingam, [1] ossia il sesso, tra le figure in atteggiamenti simbolici: arte folclorica e moderna.
India. La tradizionale danza delle spade in occasione dei festeggiamenti per la proclamazione della repubblica

Saltato fuori da chissà dove, ecco che uno strano essere comincia a ballare davanti al recinto del piccolo altare, sui tappeto stinto e strappato. È un nano, maschio, ben adulto e peloso, ma vestito da nana: una grande sottana gialla e un corpetto verde; braccialetti ai polsi e alle caviglie: collane e orecchini luccicanti. Tra le dita agita dei sistri, che si uniscono al suono degli altri strumenti, ossessivi. All'assordante ritmo dei suoi sistri, il nano balla vorticosamente, ripetendo sempre gli stessi gesti: rotea su se stesso, facendo fare alla gonna una specie di ruota, si ferma, si rigira, va verso la folla, fa l'atto di prendere qualcosa sul palmo della mano aperto e teso, e va a gettare questo qualcosa verso l'altare. Ripete questi gesti, senza posa, coi sistri che ronzano e ringhiano come un alveare di api furenti.
L'espressione del nano ha qualcosa di osceno, di maligno. Tra tutte quelle facce dolci di indiani, è l'unico a sapere cos'è la bruttezza. Lo sa in modo infantile e bestiale, chissà per quale ragione: e compie la sua danza sacra e antica, come facendone la caricatura, deturpandola con la sua inspiegabile perfida volgarità.
Non fu il solo caso. Anche a Gwalior, una cittadina tra Delhi e Benares, potei notare qualcosa di analogo. Passavamo per la piazza centrale della città, stupiti del suo aspetto moderno; una gran Porta, due tre palazzotti rossi e bianchi, una grossa aiuola nel centro. Però dappertutto, in mezzo al traffico, vacche e capre, grige di sporcizia. Tra le vacche e le capre, su un marciapiede, era disteso un sacco, grigio di sporcizia, e, sotto, un uomo, con una gran capigliatura nera che fuorusciva dagli orli del sacco. Un gruppo di gente stava intorno a lui, in ginocchio, venerandolo. Prima di andarsene, qualcuno che era stato lì in raccoglimento devoto, gli baciava o gli sfiorava i piedi con la mano. E lui, l'adorato, fermo sotto il suo straccio immondo, con tutti quegli immondi capelli sciolti sul marciapiede. Quando uno, paralizzato di venerazione, gli si accostò offrendogli una sigaretta accesa, l'adorato rifiutò, muto, limitandosi a scuotere follemente un piede, quasi desse piccoli vorticosi calci isterici all'intero mondo.
A Kajurao, il giorno dopo, abbiamo avuto modo di vedere un altro di questi santoni. Kajurao è il posto più bello dell'India, anzi forse l'unico posto che si può dire veramente bello, nel senso «occidentale» di questa parola. Un immenso prato-giardino di gusto inglese, verde, d'una tenerezza struggente, con delle buganvillee sparse a grossi cespugli rotondi, davanti a ognuno dei quali l'occhio si sarebbe perduto a goderne il rosso paradisiaco per ore intere. File di giovinette, col sari, tutte inanellate, lavoravano il prato: e, più in là, file di fanciulli, accucciati sull'erba, e, più in là ancora, giovani che portavano, appesi all'estremità di una pertica, dei secchi d'acqua: tutto in una pace di infinita primavera. E sparsi in questo prato, i piccoli templi: che sono quanto di più sublime si possa guardare in India.
Ai margini del prato, c'era una casetta, una catapecchia non lurida, di mattoni: un fuoco acceso dentro, e qualche suppellettile. Intorno, qualcuno stava trafficando, come preso dalle sue faccende. Era un uomo sui quarant'anni, con una folta barba nera e una folta zazzera nera alla D'Artagnan. Il suo aspetto era immediatamente antipatico. Osservandolo bene, infatti, si vedeva che non stava affatto sfaccendando, occupato a accendersi il fuoco, a cucinarsi i fagioli o che so io: ma, con la stessa attenzione, accuratezza e albagia, di chi fa un lavoro ritenuto indispensabile, stava accudendo a un cerimoniale sacro. Girava come un matto intorno alla catapecchia, si fermava, toccava degli oggetti, faceva dei gesti con le mani, si chinava a terra.
Lo lasciammo lì: chiuso nella sua maniaca concentrazione, in un cerchio infinito di tolleranza.
Non riuscivamo a staccarci da Kajurao: c'erano sei templi, piccoli e stupendi, e intorno a ognuno indugiavamo almeno per un'ora, seduti sui suoi scalini, o sul prato sottostante, a goderci quella insperata pace, potentemente mite.
I templi davanti a noi, coi loro due corpi (uno grande, con nell'interno l'ingam, l'altro, di fronte, più piccolo, poco più che una tettoia a coprire la stupenda vacca di pietra rivolta all'ingam) nell'oro del sole, erano di una bellezza inesauribile. Non cose di pietra, parevano: ma d'un materiale quasi commestibile, più che prezioso, aereo. Nuvoloni e nuvolette cadute in quel gran prato verdino, condensate, coagulate, diventate simili a grandi grappoli d'uva, col gambo ficcato a terra, gocciolanti, e i grani fitti, quasi incastrati l'uno nell'altro: e poi un po' alla volta, un sole paziente pareva averli prosciugati, fino a renderli sughero, canna, legno, tufo: ma lasciando a ogni superficie quel groviglio di grani incastrati, ricciuti.
Guardavamo, seduti su un gradino slabbrato, fatto di quel materiale ch'era pura tenerezza e vecchiezza, intorno a noi, quel mondo di templi, quando fummo distratti da una figura che attraversava il prato. Veniva avanti sicura, rapida: i giardinieri, intorno, radi e pigri, la guardavano passare deferenti.
Era il santone. Chissà dove andava. Camminava impettito, nudo come un verme, con lo zazzerone e il barbone neri che andavano su e giù al moto del suo passo elastico e quasi sportivo: camminava altezzoso col petto in fuori, senza degnare di uno sguardo i fedeli. Sembrava un capoufficio che passasse per il corridoio tra gli uscieri e i fattorini. E quando un povero negretto, umile umile, gli si accostò e gli offerse la solita sigaretta accesa, egli non si voltò nemmeno non solo a ringraziarlo, ma nemmeno a guardarlo, quell'imbecille.
Fortunatamente l'induismo non è una religione di stato. Perciò i santoni non sono pericolosi. 
Mentre i loro fedeli li ammirano (ma mica tanto, poi), c'è sempre un mussulmano, un buddista o un cattolico che li guarda con compassione, ironia o curiosità. È un fatto, comunque, che in India l'atmosfera è favorevole alla religiosità, come dicono anche i referti più banali. Ma a me non risulta che gli indiani siano molto occupati da seri problemi religiosi. Certe loro forme di religiosità sono coatte, tipicamente medioevali: alienazioni dovute all'orrenda situazione economica e igienica del paese, vere e proprie nevrosi mistiche, che ricordano quelle europee, appunto, del medioevo, che possono colpire individui o intere comunità. Ma più che una religiosità specifica (quella che dà i fenomeni mistici o la potenza clericale) ho osservato tra gli indiani una religiosità generica e diffusa: un prodotto medio della religione. La non violenza, insomma, la mitezza, la bontà degli indù. Essi hanno forse perso contatto con le fonti dirette della loro religione (che è evidentemente una religione degenerata) ma continuano a esserne dei frutti viventi. Così la loro religione, che è la più astratta e filosofica del mondo, in teoria, è, ora, in realtà, una religione totalmente pratica: un modo di vivere.
Si giunge addirittura a una specie di paradosso: gli indiani, astratti e filosofici alle origini, sono attualmente un popolo pratico (sia pure di una pratica che serve a vivere in una situazione umana assurda), mentre i cinesi, pratici e empirici alle origini, sono attualmente un popolo estremamente ideologico e dogmatico (pur risolvendo praticamente una situazione umana che pareva irrisolvibile). Così, in India, ora, più che alla manutenzione di una religione, l'atmosfera è propizia a qualsiasi spirito religioso pratico.
Ho conosciuto dei religiosi cattolici: e devo dire che mai lo spirito di Cristo mi è parso così vivido e dolce; un trapianto splendidamente riuscito. A Calcutta, Moravia, la Morante e io siamo andati a conoscere Suor Teresa, [2] una suora che si è dedicata ai lebbrosi. Ci sono sessantamila lebbrosi, a Calcutta, e vari milioni in tutta l'India. E una delle tante cose orribili di questa nazione, davanti a cui si è del tutto impotenti: in certi momenti ho provato dei veri impulsi di odio contro Nehru [3] e i suoi cento collaboratori intellettuali educati a Cambridge: ma devo dire che ero ingiusto, perché veramente bisogna rendersi conto che c'è ben poco da fare in quella situazione. Suor Teresa cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perché cominciano dal nulla. La lebbra, vista da Calcutta, ha un orizzonte di sessantamila lebbrosi, vista da Delhi ha un orizzonte infinito.
Suor Teresa vive in una casetta non lontana dal centro della città, in uno sfatto vialone, roso dai monsoni e da una miseria che toglie il fiato. Con lei ci sono altre cinque, sei sorelle, che l'aiutano a dirigere l'organizzazione di ricerca e di cura dei lebbrosi, e, soprattutto, di assistenza alla loro morte: esse hanno un piccolo ospedale dove i lebbrosi vengono raccolti a morire.
Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l'occhio dolce, che, dove guarda, «vede». Assomiglia in modo impressionante a una famosa sant'Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica.
[...]


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Note dei curatori del "Meridiani"
1. In realtà, lingam. Più avanti si parla della «stupenda vacca» rivolta verso il lingam nei templi (non una vacca, ma il toro Nandi). Del «membro come ingam» Pasolini - dopo l'India - parla anche in alcune pagine scartate dalla redazione definitiva di Teorema.
2. Madre Teresa, suora di origini kosovare, fondò a Calcutta nel 1950 la Congregazione delle Suore della Carità. Ha ottenuto nel 1979 il Nobel per la pace.
3. Il Pandit Nehru (1889-1964) combatté a fianco di Gandhi per l'indipendenza dell'India, e dopo l'indipendenza fu Primo Ministro dell'Unione Indiana dal 1947; fu tra i promotori, nel 1955, della conferenza di Bandung, che avviò il movimento dei paesi non-allineati.
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L'odore dell'Indiaè il resoconto di un viaggio in compagnia di Moravia ed Elsa Morante in India. Al rientro a. Roma Pasolini aveva cominciato a pubblicare sul «Giorno» una serie di articoli, confluiti poi nel volume apparso nel 1962 da Longanesi. Sul «Giorno» gli articoli di Pasolini erano apparsi tra febbraio e marzo: Uomini vestiti di asciugamani (26 febbraio 1961), Non conoscono l'allegria (4 marzo 1961), Il santone sembrava un capoufficio (9 marzo1961). È un mondo, un oceano o un inferno? (11 marzo 1961), Un popolo che esce da ombre atroci (16 marzo 1961), Il rogo di morti sul fiume sacro (23 marzo 1961).

Da L'odore dell'India di Pier Paolo Pasolini, in Pasolini. Romanzi e Racconti 1946-1961, I, Meridiani, Mondadori 1998.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
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Pier Paolo Pasolini, poesie scelte

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"Pagine corsare"
LA POESIA
Pier Paolo Pasolini
Poesie scelte
La religione del mio tempo
(1961) 
A Elsa Morante

In Bestemmia. Tutte le poesie, Volume I, Garzanti, Milano 1993

I
LA RICCHEZZA (1955-1959)
RIAPPARIZIONE POETICA DI ROMA

Dio, cos’è quella coltre silenziosa
che fiammeggia sopra l’orizzonte...
quel nevaio di muffa - rosa
di sangue - qui, da sotto i monti
fino alle cieche increspature del mare...
quella cavalcata di fiamme sepolte
nella nebbia, che fa sembrare il piano
da Vetralla al Circeo, una palude
africana, che esali in un mortale
arancio... È velame di sbadiglianti, sudice
foschie, attorcigliate in pallide
vene, divampanti righe,
gangli in fiamme: là dove le valli
dell’Appennino sboccano tra dighe
di cielo, sull’Agro vaporoso
e il mare: ma, quasi arche o spighe
sul mare, sul nero mare granuloso,
la Sardegna o la Catalogna,
da secoli bruciate in un grandioso
incendio, sull’acqua, che le sogna
più che specchiarle, scivolando,
sembrano giunte a rovesciare ogni
loro legname ancora ardente, ogni candido
bracere di città o capanna divorata
dal fuoco, a smorire in queste lande
di nubi sopra il Lazio.
Ma tutto ormai è fumo, e stupiresti
se, dentro quel rudere d’incendio,
sentissi richiami di freschi
bambini, tra le stalle, o stupendi
colpi di campana, di fattoria
in fattoria, lungo i saliscendi
desolati, che già intravedi dalla Via
Salaria - come sospesa in cielo –
lungo quel fuoco di malinconia
perduto in un gigantesco sfacelo.
Ché ormai la sua furia, scolorando, come
dissanguata, dà più ansia al mistero,
dove, sotto quei rósi polveroni
fiammeggianti, quasi un’empirea coltre,
cova Roma gli invisibili rioni.


II
UMILIATO E OFFESO
EPIGRAMMI(1958)

I
Ai critici cattolici

Molte volte un poeta si accusa e calunnia,
   esagera, per amore, il proprio disamore,
esagera, per punirsi, la propria ingenuità,
   è puritano e tenero, duro e alessandrino.
È anche troppo acuto nell’analisi dei segni
   delle eredità, delle sopravvivenze:
ha anche troppo pudore nel concedere
   qualcosa alla ragione e alla speranza.
Ebbene, guai a lui! Non c’è un istante
   di esitazione: basta solo citarlo!

V
A me

In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza,
        il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza.

XII
A un Papa

Pochi giorni prima che tu morissi, la morte
        aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo:
a vent’anni, tu eri studente, lui manovale,
        tu nobile, ricco, lui un ragazzaccio plebeo:
ma gli stessi giorni hanno dorato su voi
        la vecchia Roma che stava tornando così nuova.
Ho veduto le sue spoglie, povero Zucchetto.
        Girava di notte ubriaco intorno ai Mercati,
e un tram che veniva da San Paolo, l’ha travolto
        e trascinato un pezzo pei binari tra i platani:
per qualche ora restò li, sotto le ruote:
        un po’ di gente si radunò intorno a guardarlo,
in silenzio: era tardi, c’erano pochi passanti.
        Uno degli uomini che esistono perché esisti tu,
un vecchio poliziotto sbracato come un guappo,
        a chi s’accostava troppo gridava: «Fuori dai coglioni!».
Poi venne l’automobile d’un ospedale a caricarlo:
        la gente se ne andò, restò qualche brandello qua e là,
e la padrona di un bar notturno, più avanti,
        che lo conosceva, disse a un nuovo venuto
che Zucchetto era andato sotto un tram, era finito.
        Pochi giorni dopo finivi tu: Zucchetto era uno
della tua grande greggia romana ed umana,
        un povero ubriacone, senza famiglia e senza letto,
che girava di notte, vivendo chissà come.
        Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente
di altri mille e mille cristi come lui.
        Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione
la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore.
        Ci sono posti infami, dove madri e bambini
vivono in una polvere antica, in un fango d’altre epoche.
        Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,
in vista della bella cupola di San Pietro,
        c’è uno di questi posti, il Gelsomino...
Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,
        tra una marana e una fila di nuovi palazzi,
un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.
        Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola,
perché quei tuoi figli avessero una casa:
        tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola.
Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un’onda
        immensa che si rifrange da millenni di vita
ti separava da lui, dalla sua religione:
        ma nella tua religione non si parla di pietà?
Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,
        davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
        non fare il bene, questo significa peccare.
Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto:
        non c’e stato un peccatore più grande di te.


NUOVI EPIGRAMMI (1958-1959)
II
Alla bandiera rossa

Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
     tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
     il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
     l’analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
     sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
     ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.

XI
A G.L. Rondi *

Sei così ipocrita, che come l’ipocrisia ti avrà ucciso,
        sarai all’inferno, e ti crederai in paradiso.

* Gian Luigi Rondi, già critico cinematografico conosciuto da Pasolini, è attualmente il  direttore del Festival del Cinema di Roma (ndr).
XV
Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
        ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
        governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
        funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
        Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
        tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
        proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
        che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

III
Ai letterati contemporanei

Vi vedo: esistete, continuate a essere amici, 
  felici di vederci e salutarci, in qualche caffè, 
nelle case delle ironiche signore romane…
  Ma i nostri saluti, i sorrisi, le comuni passioni,
sono atti di una terra di nessuno: una… waste land, 
  per voi: un margine, per me, tra una storia e l’altra.
Non possiamo più realmente essere d’accordo: ne tremo, 
  ma è in noi che il mondo è nemico al mondo.


A UN RAGAZZO (1956-1957)
A un ragazzo *

Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi 
che tornano su Roma, e che a noi altrove

ancorati a una luce d’altri tempi,
sembrano portati da inutili venti,

tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza 
pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.

Col sorriso confuso di chi la timidezza 
e l’acerbità sopporta con allegrezza,

vieni tra gli amici adulti e fieramente 
umile, ardentemente muto, siedi attento

alle nostre ironie, alle nostre passioni. 
Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,

vergognandoti quasi del tuo cuore festoso... 
Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,

ma perché esiste: per te, perché tu sia 
nuovo testimone, dolce-contento al quia...

Rimani tra noi, discreto per pochi minuti 
e, benché timido, parli, con i modi già acuti

dell’ilare, paterna e precoce saggezza. 
Esponi, orgoglioso, la tua debolezza

di adolescente, leso appena al ridicolo 
che ha la troppa umiltà in un mondo nemico...

Al giusto momento, ci lasci, ritorni 
alla segreta luce dei tuoi primi giorni:

alla luce che certo tu non puoi dire 
né, noi, ricordare, una luce d’aprile

in cui la coscienza con le sue gemme sfiora 
solo la vita, non la storia ancora.

Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi 
o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,

o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi, 
ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,

se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi 
ormai siamo, vuoi che le perdute notti

del nostro tempo siano come la tua fantasia 
pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia

la parte di vita che noi abbiamo spesa 
disperati ragazzi in una patria offesa.

Vuoi sapere le mute paure e le immature azioni
-  tra macerie, strade deserte e prigioni - 

delle nostre figure per te ormai remote. 
Vuoi sapere, e il viso infantile ti si infuoca,

tu, così puro, il male, così limpido l’odio, 
ch’è nei riaccesi ricordi su cui inchiodi

l’occhio ferito, parteggiando intero 
per chi lottava in nome del sentimento vero.

Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato 
da quell’avventura, in che cosa è mutato

lo spirito di questa povera nazione 
dove provi tra noi la tua prima passione;

sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa 
e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa

trovino nel tuo dolce desiderio di vita... 
Vuoi sapere l’origine della tua pudica

voglia di sapere, s’essa ha già dato prova 
di tanta vita in noi, e adesso cova

già nuova vita in te, nei tuoi coetanei. 
Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,

da noi scoperta e da te trovata,
grazia anch’essa, nella terra rinata.

Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto 
su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.

La risposta, se c’è, è nella pura 
aria del crepuscolo, accesa sulle mura

del Vascello, lungo le palazzine
assiepate nel cuore del sole che declina.

Le sere disperate per il troppo tepore 
che nei freddi autunni, dimenticato muore,

o, dimenticato, in nuove primavere 
torna improvviso -  le disperate sere

in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi, 
o il fresco appuntamento con giovani modesti

come te, e felici, esci svelto di casa, 
mentre nel rione suona la sera invasa

dall’ultimo sole -  penso a quel serio, candido 
ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.

Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere, 
se fu in lui, com’è in te, pura speranza il mondo.

Era un mattino in cui sognava ignara 
nei rósi orizzonti una luce di mare:

ogni filo d’erba come cresciuto a stento 
era un filo di quello splendore opaco e immenso.

Venivamo in silenzio per il nascosto argine 
lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi

del nostro ultimo sonno in comune nel nudo 
granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.

In fondo Casarsa biancheggiava esanime 
nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;

e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti, 
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi

dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba 
del binario, attendeva il treno di Spilimbergo...

L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta, 
dove dentro un libro di Montale era stretta

tra pochi panni, la sua rivoltella, 
nel bianco colore dell’aria e della terra.

Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta 
ch’era stata mia, la nuca giovinetta...

Ritornai indietro per la strada ardente 
sull’erba del marzo nel sole innocente;

la roggia tra il fango verde d’ortiche 
taceva a una pace di primavere antiche,

e i rinati radicchi da cui vaporava 
un odore spento e acuto di rugiada,

coprivano il dorso della vecchia scarpata 
grande come la terra nell’aria riscaldata.

Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna:
liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana

pace del lavoro, nel parlante amore muti,
tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,

vigne e casolari azzurri di solfato, -
nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.

Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro, 
legati a quel dolore che ancora oscura il petto.

Ci togli questa luce che a te splende intera, 
ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera...

Noi invecchiati ora nient’altro diamo 
che doloroso amore alla tua lieta fame.

Anche la tua stessa pietà, che cosa dice 
se non che la vita solo in te è felice?

Perché, per fortuna, quel nostro passato, 
vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.

In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi 
di esso solo quanto può adesso valerti...

Nella tua nuova vita non è esistito mai 
fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai

perché vuoi sapere: esiste solamente 
in te come un crudele dolce fiore il presente.

Che tutto sia davvero rinato -  e finito –
sia tutto -  è scritto nel tuo sorriso amico.

È vizio il ricordare, anche se è dovere; 
a quei morti mattini, a quelle morte sere

di dodici anni or sono, non sai se più rancore 
o nostalgia, leghi il nostro cuore...

L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza, 
voce che contraddice la vitale presenza!

Fosse, com’è in te, la spietata gioia
di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!

Ciò che potevamo risponderti è perduto. 
Può parlarti -  se, tu ragazzo, sai il muto

suo nuovo linguaggio di ragazzo -  soltanto 
chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto...

Era ormai quasi estate, e i più bei colori
ardevano nel mite, friulano sole.

Il grano già alto era una bandiera 
stesa sulla terra, e il vento la muoveva

fra le tenere luci, riapparse a ricolmare 
di festa antica l’aria tra i monti e il mare.

Tutti erano pieni di disperata gioia:
sulla tiepida polvere delle vie ballatoi

e balconi tremavano di fazzoletti rossi 
e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi

bande di ragazzi andavano felici
da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.

Mio fratello non c’era, e io non potevo 
urlare di dolore, era troppo breve

la strada verso il granaio perso nei campi, dove 
per un anno l’ingenua, eternamente giovane,

povera nostra mamma aveva atteso, e ora 
era lì che attendeva, sotto il tiepido sole...

Ma ha ragione la vita che è in te: la morte, 
ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.

Noi dovremmo chiedere, come fai tu, dovremmo 
voler sapere col tuo cuore che si ingemma.

Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna 
sempre più tempo, allenta ogni legame

con la vita che, ancora, un’amara forza 
a vivere e capire invano ci conforta...

Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, 
finirà non chiesto, si perderà non detto.

* Il ragazzo al quale Pasolini dedica questa poesia è Bernardo Bertolucci(ndr)
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Un'opera "internazional"-popolare: "L'ultimo imperatore" di Bernardo Bertolucci, di Fabien S. Gerard

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"Pagine corsare"
LA  SAGGISTICA - CINEMA
Una scena di massa in "L'ultimo imperatore" di Bernardo Bertolucci
“L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci:
un’opera internazional-popolare
Fabien S. Gerard
"La Forma del Passato" - Cinema"
Université de Bruxelles (ULB)
Una scena di massa in "Il fiore delle Mille e una notte" di Pier Paolo Pasolini

Premessa
L'idea di nazional-popolare in Pasolini

Alberto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo (Einaudi, 1965), aggiunge il suo nome ai critici della concezione pasoliniana. Dopo aver ricordato, in particolare, alcune affermazioni di Pasolini stesso in un’intervista del ’59: «…io credo soltanto nel romanzo ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e ‘tipico’…dato che destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico per me non esistono: che marxista sarei?», Asor Rosa dunque afferma: «La verità è che di tutte le possibili varianti marxiste, Pasolini ha colto, magari attraverso la mediazione degli interpreti ufficiali comunisti, unicamente il tema gramsciano del nazional-popolare, che è infatti il solo a contare qualcosa nella sua opera narrativa».
Probabilmente non sono presenti in Asor Rosa alcune categorie utili per comprendere a fondo il marxismo di Pasolini, che egli infatti definisce «… quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare in questo campo, negli anni ancora molto a noi vicini del progressismo letterario».
Che il romanzo pasoliniano si possa definire storico e nazionale, e che possa entro ben definiti limiti anche essere rapportato al realismo socialista, mi pare fuori di ogni dubbio. Ma inquadrarlo unicamente nell’ambito del nazional-popolare mi sembra significhi non comprenderlo per intero. Anche se è stato lo stesso Pasolini in alcune occasioni di dibattito pubblico a richiamarsi al tema gramsciano del nazional-popolare. Se ad Asor Rosa la poetica pasoliniana sembra quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare… è proprio, con ogni probabilità, perché in essa manca in maniera evidente l’intento pedagogico, tipico del realismo socialista e del concetto di nazional-popolare. In Pasolini l’opera poetica è nazionale in quanto tipica; e popolare perché è il sottoproletariato a esserne protagonista, non certo perché essa serva a trasmettere la verità socialista nella coscienza popolare attraverso l’opera del partito e dell’intellettuale organico. Sembra essere, dunque, proprio una concezione della politica e del marxismo come rimpianto a fuoriuscire dai canoni interpretativi di Asor Rosa (e non solo suoi), e a precludergli la piena comprensione del mondo politico pasoliniano. 
E' partendo da questi brevissimi appunti sulla concezione pasoliniana di nazional-popolare che riproduco qui con piacere un saggio, opera di Fabien Gerard, una vera e propria lezione di cinema: riguarda Bernardo Bertolucci e la sua esperienza in L'ultimo imperatore che Fabien Gerard definisce "un'opera internazional-popolare". Bertolucci ha avuto con Pasolini un rapporto di amicizia e di affetto certamente profondi che apre, oggi, un'ampia ed eloquente riflessione sulla concezione filmica dei due registi cui non ci si può sottrarre.  (a.m.
“L’ultimo imperatore” di Bertolucci: un’opera
internazional-popolare
Fabien S. Gerard
Université de Bruxelles (ULB)

Seppure la Cina sia vicina, come diceva qualcuno, perché ho scelto di evocare in questa sede un film girato oltre la Grande Muraglia (salvo alcuni interni completati a Cinecittà), che si rifà all’autobiografia dell’ex “Figlio del Cielo” Aisin Gioro Pu Yi [1] ? Forse anzitutto per averci dedicato un paio di anni della mia vita come assistente di Bernardo Bertolucci, dall’inizio della pre-produzione, nel gennaio del 1986, fino alla promozione del diario di lavorazione edito presso i “Cahiers du cinéma”, [2] in coincidenza con l’uscita sugli schermi de L’ultimo imperatore, nell’autunno del 1987. Quella, in realtà, era la mia prima esperienza su un set cinematografico. Però, accanto all’apprendistato tecnico, sarebbe stato difficile dimenticare del tutto la mia formazione accademica. Donde la particolare attenzione con cui continuai a consegnare ogni dato utile sul work in progress.
Essendo vissuto a Roma per tutti gli anni Ottanta, ero in prima fila poi per seguire il meglio e il peggio della produzione nazionale del decennio, nonché per cercare di capire perché il marchio “cinema italiano” non riusciva più a varcare i confini della Penisola come era stato il caso, quasi ininterrottamente, dal 1945. Morto Pasolini, morto Visconti, morto Rossellini, come pure Petri e Zurlini, la generazione dei Rosi, dei Ferreri, degli Olmi, della Cavani, dei fratelli Taviani stava passando di moda a sua volta (benché io ricordi con quanta emozione scoprii Kaos in una sala di “prima visione” zeppa di spettatori). Nonostante la consacrazione di Una giornata particolare, c’era chi sosteneva che anche il momento magico di Scola era tramontato, e il testamento involontario di Leone, C’era una volta l’America, fu considerato quasi subito un classico. Quanto a Fellini, malgrado l’acutezza dello sguardo che Ginger & Fred portava sul nuovo paesaggio audiovisivo, il maestro de La dolce vita era ormai considerato un dinosauro confinato in uno zoo chiamato Cinecittà. (E durante la fase finale delle riprese de L’ultimo imperatore, i più giovani membri della troupe correvano a spiarlo come tale, appena si girava qualche scena di Intervista per i viali degli stabilimenti della Tuscolana). Un altro dinosauro era senz’altro Antonioni, la cui notizia dell’ictus cerebrale ci giunse in Manciuria, in una gelida mattina di novembre.
Nel bene e nel male, il mondo stava cambiando a passo veloce, e stava cambiando di conseguenza il gusto della gente, l’attesa del pubblico. Più che mai era in moto la “mutazione antropologica” di pasoliniana memoria. Da cui, forse, la nostalgia emblematica illustrata in Splendor o in Nuovo cinema Paradiso. Erano gli anni di Sogni d’oro, di Bianca e de La messa è finita, di Colpire al cuore, de I ragazzi di via Panisperna e di Porte aperte; Nanni Moretti e Gianni Amelio si stavano affermando come autori veri e propri. Venivano salutati gli esordi di Pisicelli e di Luchetti, di Tornatore e di Salvatores, di Marco Risi, dell’Archibugi, di Francesca e Cristina Comencini. Benigni, Troisi, Verdone, Nichetti e Nuti prendevano il testimone a Sordi, Manfredi, Tognazzi e Gassman – non si tratta a priori dello stesso mestiere, ma ormai i comici della generazione montante si volevano anche registi. Per approdare a una nuova forma di trasgressione invece, bisognerà aspettare l’arrivo di Ciprì e Maresco, nel corso del decennio successivo.
Eppure, a differenza di quanto era accaduto ai tempi del neo-realismo, o negli anni Sessanta e Settanta, la stramaggioranza di questi nomi – per non dire di Pupi Avati, di Giuseppe Bertolucci, di Marco Tullio Giordana – rimaneva disperatamente sconosciuta all’estero. Solo i cinefili più convinti sapevano ancora chi fossero Marco Bellocchio o Bernardo Bertolucci, ripensando a I pugni in tasca, a La Cina è vicina e a Nel nome del padre, a Prima della rivoluzione e a Strategia del ragno, a Il conformista, a Ultimo tango a Parigi, a Novecento. Chiaramente, il cinema italiano, anzi, i cineasti italiani, vecchi o giovani, risultavano incapaci di continuare ad accattivare in qualche modo il resto del mondo.
In seguito alla liberalizzazione del mercato televisivo, come dappertutto cresceva paurosamente la concorrenza della cultura anglosassone, diffusa dalla schiera dei film USA, i cui titoli venivano sempre più spesso pubblicizzati in lingua originale (Shining, Alien, Blade Runner, Platoon, Full  Metal Jacket, ecc.), senza più ricorrere alle inventive traduzioni-tradimenti di una volta. (Si pensi al geniale “Ombre rosse”, coniato a suo tempo per la distribuzione locale del mitico Stagecoach di John Ford). Questo, quindi, era grosso modo il contesto di crisi nel quale nacque L’ultimo imperatore, una stagione in cui – parla Bertolucci – la nuova realtà italiana “non riusciva neppure a incidere la pellicola della [sua] macchina da presa”.

Per aver avuto la fortuna di seguire dietro le quinte ogni tappa del processo creativo de L’ultimo imperatore, due punti mi colpirono particolarmente riguardo al fenomenale successo del film, specialmente in seguito all’imprevedibile pioggia di Oscar avvenuta nell’aprile 1988, quattro anni dopo l’avvio del progetto. Da un lato, l’equivoco relativo alla nazionalità dell’opera stessa. Dall’altro, il ruolo giocato da questo “blockbuster” sui generis nella prospettiva dello sviluppo del cosiddetto Global Village.
Ancora oggi, la maggior parte della critica parla, a proposito de L’ultimo imperatore, dell’inizio della carriera “hollywoodiana” di Bertolucci, al punto da rinfacciare al cineasta parmigiano di aver rinunciato all’impegno poetico-politico che fece la sua fama autoristica. A prescindere dal fatto che la sua scoperta dell’Oriente sia coincisa col desiderio di prendere le dovute distanze col nuovo materialismo delle Golden Eighties per andare incontro ad altre visioni del mondo, non perdiamo di vista che il “kolossal d’autore” in questione altro non era che una (super)produzione indipendente europea. Mai, infatti, le Major californiane avrebbero concesso all’uomo di Novecento la libertà con la quale è riuscito a portare avanti, come fu il caso, una scommessa così delicata sul piano dei contenuti. In altre parole, seppure il film mirasse anche al pubblico americano, l’impresa si presentava anzitutto come una sfida alla Dream Factory lanciata dalla Vecchia Europa con l’appoggio logistico della Cina di Deng Xiaoping.
Dopo il provincialissimo – e ingiustamente sottovalutato – La tragedia di un uomo ridicolo, girato nel 1980 nell’Appennino parmense, Bertolucci, attraverso la “Trilogia dell’altrove” proseguita con Il tè nel deserto e Piccolo Buddha, aveva forse dato l’impressione di essersi dimenticato del proprio paese, benché questi titoli  abbiano almeno permesso di  mantenere sulla scena internazionale la presenza di una firma italiana di grande prestigio. Perciò, oltre all’identità europea (dal punto di vista anagrafico) de L’ultimo imperatore, vorrei ora insistere su certi aspetti della sua paradossale italianità. Anzitutto va ricordato che il progetto nacque sulla scia della serie televisiva Marco Polo, realizzata in Cina da Giuliano Montaldo per conto della Rai. Fu uno dei direttori di produzione del Marco Polo, il compianto Franco Giovalè, a regalare all’amico Bernardo, per il Natale del 1983, una copia dell’autobiografia di Pu Yi, come pure furono i contatti privilegiati con le autorità cinesi sviluppati grazie al Marco Polo che facilitarono in modo decisivo le trattative per la concretizzazione de L’ultimo imperatore.
A questo punto, potrei fare una parentesi su come lo straordinario sfarzo del film rimandi a tutta la tradizione del melodramma – a cominciare dalla Turandot di Puccini –, o all’eredità cinematografica sia di Visconti che di Rossellini. Ricordiamoci Il Gattopardo e La caduta degli dei, ma più specialmente ancora Ludwig, in cui il “condottiere marxista” seppe coniugare magistralmente il senso dell’affresco storico con l’intimistico ritratto di un monarca solitario quanto decadente. Certo, la Baviera non è la Cina, ma l’ispirazione di questi due ambiziosi creatori sembra proprio riallacciarsi ad una matrice comune, già confermata in precedenza da Il conformista e Novecento. E neppure Versailles è la Città Proibita, però la lezione rosselliniana de La presa del potere da parte di Luigi XIV non lascia dubbi nella descrizione della vita quotidiana di questo palazzo d’altri tempi, dove centinaia di cortigiani si aggirano come satelliti attorno alla figura solare del Grande Drago. 
Più interessante mi pare invece esplorare la genesi del film per capire come sia stato L’ultimo imperatore a scegliere il suo regista, e non il contrario. Letto il libro di Pu Yi, una delle prime iniziative di Bertolucci fu quella di visitare due suoi vecchi conoscenti, cioè Alberto Moravia, autore di un memorabile diario cinese pubblicato all’inizio della Rivoluzione culturale [3] (lo stesso scrittore era anche stato la prima persona a raccontargli la storia di Pu Yi), e Michelangelo Antonioni, invitato nel 1972 a girare nella Repubblica Popolare il personalissimo documentario Chung Kuo – Cina. [4] Venuto poi il momento dei sopralluoghi, non è casuale che Bertolucci si sia portato in tasca, insieme alle opere di Confucio e di Chuang-tse, di Lu Xun e di Mao, gli Scritti corsari di Pasolini. 
Dieci anni dopo la scomparsa del Grande Timoniere, l’antica Terra di Mezzo, di tradizione prevalentemente agricola e preindustriale, stava ora alle prime prese col consumismo, sulla soglia dello stesso boom che, attorno al 1960, aveva cominciato a sconvolgere il paesaggio socioculturale dell’Italia postbellica. [5]
Bernardo Bertolucci sul set di "The Dreamers" (2003)
Così come è concesso al bruco nascere una seconda volta sotto forma di farfalla, è possibile per un Figlio del Cielo vivere un giorno la vita di un ordinario cittadino ? E’ concepibile per un figlio della borghesia agraria emiliana, quale Bernardo Bertolucci, non solo aderire alla diagnosi marxiana della lotta di classe, ma anche impegnarsi di persona nell’altruista “sogno di una cosa”? Da Prima della rivoluzione a L’assedio o ai Dreamers, passando per Partner e Novecento, questo interrogativo va di certo considerato una delle tematiche madri della filmografia del Nostro, accanto all’ossessione proustiana dell’ impermanenza e della “nostalgia del presente”, destinate a confluire significativamente in Piccolo Buddha. Da questo punto di vista, è doveroso notare che la scena tanto discussa del processo al padrone, in Novecento, si rifaceva meno alla realtà storica del 25 aprile 1945 quanto alla scoperta, da parte del regista, di fotografie di Tribunali popolari scattate nelle campagne cinesi sul finire degli anni Quaranta. Il fatto che Alfredo Berlinghieri, sia pure condannato a morte dall’assemblea dei contadini, fosse lasciato in vita quale “prova vivente che il padrone è morto” altro non fa che prefigurare la situazione di Pu Yi, sia nel 1911 – quando viene assegnato a residenza nel proprio palazzo quale prova vivente dell’abolizione del regime imperiale –, sia nel 1950 – quando inizia la sua “rieducazione”, dopo l’arrivo al potere del presidente Mao. (Ugualmente, alla fine de La tragedia di un uomo ridicolo, definito da Bertolucci un possibile “atto terzo” di Novecento, il padrone Primo Spaggiari viene fatto “presidente a vita” della cooperativa instaurata dagli operai-terroristi). Di conseguenza, è affatto lecito affermare che l’ispirazione italiana de L’ultimo imperatore e l’ispirazione cinese di Novecento si rispondono a vicenda.
Visti i noti sensi di colpa legati al “peccato originale di non essere nato povero” presenti in tutta l’opera dell’autore, è interessante riportare il seguente aneddoto, confermato dalla testimonianza di Carla Zuelli, figlia dei mezzadri che curavano una volta il podere famigliare dei Bertolucci, vicino a Parma : Bernardo aveva sui dieci anni quando la bambina gli spiegò come i contadini avrebbero impiccato tutti i padroni agli alberi più alti del frutteto il giorno in cui sarebbe finalmente scoppiata la Rivoluzione. Di fronte al viso sconsolato del suo compagno di gioco però, la piccola Carla aggiunse subito: “Ma te no! Tu verrai risparmiato, perché sei simpatico.” [6]  Detto questo, non c’è da meravigliarsi della curiosità di lunga data del regista per il fatto che i comunisti cinesi non avessero tagliato la testa all’ex padrone della Città Proibita, segnalatogli da Moravia fin dal 1966. Inoltre, il fatto che il Figlio del Cielo, considerato un modello assoluto da centinaia e centinaia di milioni di sudditi, fosse anche chiamato da sempre il “Coltivatore del Regno”, il quale, ogni anno, semina simbolicamente il primo solco, e ne raccoglie per primo la mietitura, rovescia del tutto l’interpretazione comune dell’epilogo de L’ultimo imperatore, facendo di Pu Yi un “letzte Mann” alla Murnau, caduto dall’alto del trono nel baratro di una vita mediocre. 
Non bisogna dimenticare che, quando lo vediamo prendersi cura delle piante, all’Orto Botanico di Pechino, con le mani sporche di terra, questo nuovo Candide voltairiano si sente forse per la prima volta nella sua vita una persona utile e responsabile. Bisogna inoltre ricordare che la colpa per la quale è stato riformato nei carceri di Mao non riguarda lo statuto “celeste” che gli fu imposto da bambino nell’Ancien Régime, bensì il suo collaborazionismo col nemico giapponese, che autorizzò l’invasione del proprio paese, provocando la morte di venti milioni di cinesi (secondo le fonti occidentali) in una guerra durata dodici anni.
Così, la parte del film dedicata alla creazione dello Stato fantoccio del Manciukuò, dove Pu Yi fa l’errore fatale di risalire sul trono del Drago offertogli nel 1933 da Hiro Hito, è stata l’occasione per Bertolucci di tornare a visitare, proseguendo l’Asse Roma-Berlino-Tokyo, il clima del ventennio nero che faceva da cornice a Il conformista e a Novecento. Anche in questo caso sarà comunque una fonte italiana a fornire agli sceneggiatori la descrizione più dettagliata di quell’episodio storico quasi sconosciuto in Occidente, cioè le Memorie di Amleto Vespa, alias il “comandante Feng”, [7]  un avventuriero abruzzese finito in Manciuria durante la prima guerra mondiale, poi assunto dai servizi segreti nipponici fino al 1936.
Ma se il filo rosso degli interrogatori di Pu Yi, ne L’ultimo imperatore, rammenta gli interrogatori ricorrenti dei vari sospetti ne La Commare secca, l’autocritica del sovrano decaduto ci riporta più precisamente ancora all’esame di coscienza del personaggio di Puck, il vecchio padrone rovinato, in Prima della rivoluzione. Inoltre, Bertolucci ha voluto associare l’esperienza stessa della rieducazione cinese alla psicoanalisi, per le analogie che queste discipline presentano nel lavoro svolto a livello dell’inconscio, scegliendo di mostrare il direttore del penitenziario seduto alle spalle di Pu Yi, esattamente come fa l’analista nelle sedute freudiane. [8]
Allo stesso modo che le mura color di vino della Città Proibita echeggiano la scenografia naturale della fattoria dei Berlingieri, in Novecento, chi ha visto Strategia del ragno avrà subito identificato nel palazzo di Pechino un doppio della cittadina immaginaria di Tara, [9] “città-teatro” e “città-prigione” nelle cui strade vuote ed erbose il tempo sembra essersi fermato da secoli. Bisogna però precisare che, avendo appena iniziato l’analisi nella primavera del 1969, Bertolucci ideò Tara come una specie di rappresentazione surreale dell’inconscio, rifacendosi all’atmosfera delle vedute “ideali” della Scuola di Urbino, come pure a certi quadri metafisici di Giorgio de Chirico. Si sa poi che alla fine di Strategia, il giovane Athos, forse in risonanza con L’angelo sterminatore di Buñuel, non riuscirà a scappare da questo luogo incantato, rimanendo prigioniero della ragnatela del passato.
Non sarà un caso che, in una scena ripristinata nella versione lunga de L’ultimo imperatore, Pu Yi citi una poesia dedicata a “un ragno preso nella tela da lui tessuta”. Insieme alle suddette somiglianze tra Tara e la Città Proibita, tali giochi di specchi fanno assai chiaramente del palazzo imperiale un’altra visione architettonica dell’Es, nel cui labirinto Pu Yi – incarnazione per eccellenza della Vecchia Cina – appare a sua volta prigioniero del passato e del proprio inconscio. [10] 
Ritorna così a galla la figura del Pasolini corsaro, vittima anche lui della “forza del Passato”, il quale dichiarava, ai tempi della Trilogia della Vita, che “il [suo] amore per il passato [era] ormai una sfida al nuovo potere consumistico che [voleva] disfarsene”. Dalla sua nota diffidenza nei confronti della terapia freudiana risultò poi un rapporto quasi impossibile col principio di realtà e l’accelerazione della Storia, mentre la “carriera” analitica del suo discepolo e caro amico Bernardo Bertolucci, doveva portare questi, invece, a sottoporre il passato al setaccio, per intenderci, almeno se voleva continuare a guardare al futuro.
Mutatis mutandis, la prospettiva rivoluzionaria portata avanti da Mao funziona secondo lo stesso principio. E qui giungiamo all’allegoria della “pagoda”: la Cina, la più vecchia e duratura civiltà del mondo, è anche una delle più conservatrici, dedita per millenni al culto degli avi, all’archiviazione del sapere, alla burocrazia. Ora immaginiamo una pagoda di una quarantina di piani. Ogni piano corrisponde a un secolo, e contiene tutti i tesori accumulati negli ultimi cento anni. Così, ogni cento anni viene aggiunto un altro piano. Finché, dopo quattromila anni di Storia ininterrotta, sia per l’altezza che per il peso, la pagoda-Cina si mise a pendere sempre più paurosamente, un po' come la Torre di Pisa. Intanto, le maggiori potenze straniere aspettavano che crollasse per poter raccoglierne i tesori e dividere quel terreno tra di loro. Durante la guerra col Giappone, negli anni Trenta, venne fuori un giovane intellettuale visionario, il quale decise nientemeno che di ristrutturare le fondamenta dell’edificio in previsione dei piani successivi. Era Mao. E così come il successore dell’imperatore insegnò a Pu Yi a stare saldo sui propri piedi, così raddrizzò la pagoda, compiendo a modo suo una “psicoanalisi coatta” a livello di un’intera civiltà, il cui esemplare risorgimento viene oggigiorno considerato da tutti gli economisti il faro del secolo venturo.
"L'ultimo imperatore": Pu Yi lascia definitivamente la Città Proibita.
Il "paparazzo" ante litteram immortala il momento con la sua Rolleiflex

Nella stessa maniera in cui un Eisenstein, un Coppola o un Forman ci raccontano di loro stessi pur appoggiandosi alla biografia del primo zar (Ivan il terribile), dell’ingegnere Preston Tucker (Tucker, un uomo e il suo sogno) o di W. A. Mozart (Amadeus), il “compagno imperatore” era una maschera ideale per la mise en abyme di Bertolucci, come lo indicano i resoconti di un’infanzia fuori dal comune vissuta in un ambiente protettissimo. [11] Tra i tanti particolari che andrebbero segnalati in merito, basti pensare alla relazione tra il giovane Bernardo e il fratellino Giuseppe, che echeggia i giochi di Pu Yi con Pu Chieh, o alla passione atavica per Verdi, e specialmente per il Rigoletto, che lo porterà a popolare di gobbi i suoi film. [12]
Quanto al “koutou”, la prosternazione in uso nella Cina feudale, chi leggerà le ultime righe dell’appendice a questo contributo capirà come questa mossa coincide visualmente con un antico rituale religioso della Bassa Padana, ben conosciuto dal regista. [13]
Forse anche memore del fatto che Parma possiede la più ricca collezione di arte cinese esistente in italia – il Museo di Arte Cinese e Etnografico, fondato dai missionari saveriani –, non c’è dubbio che l’autore de L’ultimo imperatore faccia ormai la figura di un nuovo Marco Polo, all’alba dell’età planetaria. Non solo il primo capitolo della trilogia che sappiamo fece riscoprire la Cina al resto del mondo, ma l’impatto del film ha contribuito a rompere l’isolamento culturale della Celeste Repubblica, favorendo l’imprevedibile slancio del cinema cinese sul piano internazionale. Va notata la presenza attiva sul set de L’ultimo  imperatore di registi oggi confermati quali Chen Kaige o Ning Ying, mentre l’anno successivo Il sorgo rosso di Zhang Yimou – allora del tutto sconosciuto al di qua della Grande Muraglia – vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino. Seguiranno i clamorosi successi di Le lanterne rosse, di Addio mia concubina, de L’aquilone azzurro, senza dimenticare i premi d’interpretazione di Gong Li a Cannes e a Venezia, nonché l’esplosione delle produzioni di Hong Kong e Taiwan, con l’esordio di Ang Lee, di Wong Kar-wai, di Hou Hsiao-hsien, di Tsai Ming-liang.
Può darsi che la maggioranza degli spettatori occidentali sia rimasta principalmente abbagliata dall’esotismo dei costumi e delle scenografie de L’ultimo imperatore, compatendo magari col destino tragico di un altro “uomo ridicolo” ingannato dalla Storia. Però, malgrado l’equivoco che sappiamo attorno alla fama hollywoodiana del “Signor Oscar”, [14] il regista così poco conformista de Il conformista non poteva dimostrarsi più fedele, in questa sua ambiziosa impresa “internazional-popolare”, al proprio concetto di cinema d’autore, superata l’esperienza rigorista del “monologo” che lo caratterizzò fino agli ultimi anni Sessanta. [15] Vale a dire un cinema che mira al grande pubblico, sforzandosi sempre di aprirgli poeticamente gli occhi sulle realtà del suo tempo.
Fotogramma dal film "Il fiore delle Mille e una notte" di Pier Paolo Pasolini

Appendice
Dal diario di lavorazione de L’ultimo imperatore 

Beijing Film Studios, giovedì 28 agosto 1986

Eccoci insediati nella hall scarlatta degli appartamenti imperiali ricostruiti da Ferdinando Scarfiotti nel Teatro 4 degli Studi cinematografici di Pechino, per girare una paginetta aggiunta a giugno nella settima e penultima stesura della sceneggiatura. Si tratta della scena della mosca cieca, in cui due file di eunuchi disposte faccia a faccia, da ogni lato di un lunghissimo pezzo di seta teso attraverso lo stanzone, devono riconoscersi a vicenda col solo tatto.
“Anjing !... Yubei !... Kaishe !” Silenzio !... Motore !... Azione ! Maestosa ripresa dall’alto del dolly lungo il drappo che viene dispiegato, per finire sul giovane Pu Yi arrivando in cima alle scale, il viso mascherato da una testa di re delle scimmie, mentre una lancinante litania dell’Opera di Pechino fa da musica di fondo. Dopo il primo brivido della giornata, il regista vuol andare avanti a qualsiasi costo, preoccupato per le ore che scorrono precipitose fino ai fatidici tocchi delle 11. Però la solita corsa contro il tempo sembra svolgersi stamane sulle sabbie mobili. Il senso stesso di questo gioco iniziatico è quasi impalpabile, e non risulta facile intuire quanto lo spettatore capirà da ciò che si svolgerà sullo schermo.
Seduto accanto al produttore Jeremy Thomas, Bertolucci ha la pressione bassissima. Una sinologa dell’università di Venezia si offre di massaggiargli la schiena. Eletto a Gunga Din di turno, un assistente fiammingo con la bandana sempre in testa va a preparare una tazza di “tè cinese” – un tonico scozzese che ha del tè solo il colore. Il maestro ha un bell’esortare la sua corte a rifiutargli invece ogni minima sigaretta, venuto il momento critico salta sempre fuori qualche mano disposta a cedere. Segno d’incertezza forse, le carrellate danno l’impressione di accumularsi da tutti gli angoli possibili del telone bianco. All’ora di pranzo, spossato dall’alternanza dei sonniferi e degli eccitanti inghiottiti negli ultimi giorni, Bernardo errerà per una decina di minuti nel labirinto del set, prima di trovarne l’uscita.
L’atmosfera febbrile va crescendo dopo la pausa. La preziosa stoffa appositamente comprata a Nanchino, impregnandosi del sudore delle comparse, è ormai zuppa. I nostri eunuchi cominciano finalmente a godersela! Spetta a Wang Biao tradurre le parole del “daoyen”, per dirlo con i tecnici locali designando il regista, il quale insiste perché si muovano di più mentre si toccano. Li vorrebbe più sensuali, almeno quanto i cinesi, notoriamente riservati, sono capaci di esserlo nella privacy. Finché, ridendo come bambini, alcuni di essi si baciano addirittura sulla bocca dopo aver pizzicato il naso della sagoma anonima che sta loro di fronte.
Arriva il momento in cui Pu Yi si getta a sua volta nella mischia. L’euforia raggiunge il suo culmine quando Bertolucci si lascia cadere con gli occhi chiusi in mezzo a questa ondosa “culla” umana per indicare il giusto movimento al suo giovane attore, Wu Tao. Incoraggiato dall’assenza di Peter O’Toole, l’adolescente si mette a “ruggire” di propria iniziativa per scaricarsi i nervi prima di ogni ripresa, proprio come lo aveva fatto ieri, a scuola, l’alto leone biondo dagli occhi azzurri. Wu Tao è dotato, impara subito.
Al fine di riservarsi un’opzione di montaggio, si approfitta dell’accidentale dimenticanza della testa di scimmia in uno dei ciak della mattina, per filmare il seguito del gioco sia con che senza maschera. Viene in mente La Bella e la Bestia di Cocteau, nel momento in cui decine di mani si aggirano selvaggiamente attorno a Pu Yi. Ci saranno volute otto ore per arrivare a questo quadro di una bellezza quasi diabolica, “typique d’une Lune en Scorpion” precisa Suzanne, la segretaria di edizione, che fu la memoria vivente di Buñuel prima di raggiungere la troupe di Ultimo tango.
Girata come in uno stato di trance collettivo, la scena della mosca cieca ha preso forma sull’orlo dell’abisso. Basterà guadagnarsi mezza giornata la prossima settimana per chiuderla con l’irruzione del nuovo precettore, Reginald Johnston, che porta al suo allievo l’imperiale regalo di una bicicletta. Ognuno lascia il Teatro 4 quasi in levitazione. Bernardo manda un sospiro di sollievo. Con un largo sorriso nel profondo degli occhi.

Città Proibita, venerdì 29 agosto 1986

Attorno al “bar” di fortuna piazzato in un vicolo della Città Proibita, le scommesse riguardano il compimento nei tempi della scena 67 – ben quattro pagine di copione – per la quale la produzione ha previsto solo un giorno e mezzo di riprese : finita la lezione nella scuoletta imperiale, Mister Johnston è invitato ad assistere al pranzo di Pu Yi nella veranda aperta sul retro del padiglione dell’Eterna Primavera. Davanti a noi sfila una cinquantina di piatti che evocano certi fiori esotici. Malgrado la straordinaria raffinatezza visiva, non invogliano molto a lungo però: a causa del gran caldo, questi saranno già del tutto immangiabili prima della pausa.
Frattanto, Gabriele, l’aiuto regista, ordina alla bravissima Ning Ying di non perdere d’occhio gli eunuchi che non devono fermarsi di ventilare due vasi riempiti di ghiaccio pestato: un aspetto della climatizzazione al modo cinese prima dell’era industriale, che, come tanti particolari del genere, sfuggirà probabilmente alla massa degli spettatori.
Sfoggiando la sua camicia verde delle grandi occasioni, per la prima volta da un paio di settimane, Bertolucci appare sereno. È pronto ad iniziare la prova alle 10, quando si conferma l’assenza di Peter O’Toole, bloccato alla Porta Ovest per essersi dimenticato il distintivo. Miseria e nobiltà, estasi e agonia della star di Lawrence d’Arabia, fermata per strada perché – per una volta – non l’hanno riconosciuta! Questo imprevisto ci consentirà almeno di girare stamane tutte le inquadrature sull’assaggiatore. Colpito dall’odore fetido che comincia ad aleggiare, non appena l’eunuco ha esaminato le varie portate che passano e ripassano anche sotto il naso della cinepresa, Bernardo gli suggerisce poi di allontanarsi a ritroso “col sorriso amaro di chi è afflitto da un terribile mal di pancia”. Finché Serena invita tutti ad incamminarsi verso la solita cantina. Bon appétit lo stesso !
Solo quattro inquadrature in quattro ore. Chissà se si riuscirà ad accelerare il passo nel pomeriggio? “Zampone d’orso, bile di serpente, uova di cent’anni…” : in teoria era Chang, il capo degli eunuchi, che doveva enumerare i piatti destinati a Pu Yi. Ora il regista trova più buffo assegnare il compito a “Gobbetto”, un ruolo secondario tenuto da uno dei traduttori locali di nome Huang. Sia pure parlando l’italiano e il francese alla perfezione, Huang risulta incapace di pronunciare tre parole di seguito nella lingua di Shakespeare, e l’asportazione di una corda vocale, da bambino, non migliora certo la situazione. Eccolo che inciampa ancora e ancora sulla sua battuta, provocando un’imbarazzante risata nel cortile. Perciò il coach suggerisce una registrazione sonora “a vuoto”, a fine ripresa: ogni singola parola verrà così ripetuta più volte, separatamente, per la versione originale in inglese.
Nel frattempo ci ha raggiunto il piccolo Henry Kyi, che riparte domattina per Hong Kong, dopo essere stato per tre settimane il principe Pu Chieh, fratello minore di Pu Yi. Ultimi bacioni per la posterità insieme alle sarte, davanti alla macchinetta del nostro generoso paparazzo, Angelo, conosciuto tra i tecnici cinesi come “Babbo Natale”. Prima della separazione però, Henry è stato richiesto per completare in una viuzza vicina il suo close up nella scena del corteo, rimasto indietro da giorni a causa di un herpes. Invece, è appena sbarcato da Baltimore Alvin Riley Jr, per sostituirlo come Pu Chieh adolescente. Crisi di pianto quando Alvin ha realizzato ieri che non recita la parte dell’imperatore (per la quale fece un provino sei mesi fa), bensì quella più discreta del secondogenito. Tocca adesso al parrucchiere convincerlo a lasciarsi radere il capo al modo manciù. Dall’accettazione del ragazzo dipenderà il cast del “terzo” Pu Chieh, dovendosi assicurare la continuità fisionomica del personaggio fino all’età adulta.

Città Proibita, sabato 30 agosto 1986

Un sorso di caffè mandato giù alla garibaldina basta a tirare su Cinzia, Bruno e Osvaldo, Robertino e Luciano, per rimettere a posto l’arredamento della veranda entro le 9. Secondo il copione, Pu Yi, durante lo stesso pranzo di ieri, si accinge ad interrogare Johnston sull’assassinio del “figlio” dell’imperatore Francesco Giuseppe, a Sarajevo. Un ospite polacco provvidenzialmente ammesso ad assistere alle riprese della mattina esprime il suo stupore a Giulietto, che riferisce nell’orecchio di Serena, la quale contatta subito Nicoletta sul talkie-walkie. Nel giro di pochi minuti, l’ufficio ottiene conferma presso l’ambasciata austriaca : l’arciduca Francesco Ferdinando era in realtà il nipote del Kaizer. “Dieci frustate allo sceneggiatore!”, lancia maliziosamente Bernardo. Meno di mezz’ora più tardi si passa alla seconda inquadratura. La giornata parte in quarta.
I piatti preparati per la scena del pranzo infetidano ormai la veranda: come si ferma il motore dell’Arriflex 35 BL-III, Peter O’Toole e Wu Tao si affrettano a sputare puntualmente i cibi che hanno appena portato alla bocca con gusto davanti all’obiettivo. Il brodo di tartaruga, in particolare, nausea a dieci metri di distanza. Tanto per rinfrescarsi le idee, l’attore inglese approfitta del fatto che sta replicando fuori campo a Pu Yi per tenere la sigaretta tra due bastoncini di avorio, quando non si diverte ad abbozzare, nella sua vestaglia di seta bianca, un’azzeccata imitazione del protagonista di Rocky.
Dopodiché, era previsto che, a colazione finita, il topo bianco dell’imperatore – il suo compagno segreto – sbucasse dalla sua borsa, in eco alla scena della scuola filmata tre giorni fa. Il caso vuole che, alla quinta ripresa, il piccolo animale continui a salire lungo il braccio del padrone, poi sulla spalla, per fermarsi infine sotto l’orecchio. Nutriti applausi per “Topolino”, ovviamente poco propenso a ripetere un exploit del genere.
Il pomeriggio è dedicato invece all’inquadratura probabilmente più elaborata dell’intera settimana. Per evitare di sciupare la veste di seta gialla tagliata su misura per Wu Tao, Serena sostituisce ben volentieri l’attore sotto il mirino del regista, mentre la “famiglia” Storaro si affaccenda a montare il binario e a sistemare l’illuminazione. Pu Yi nota un insolito vocìo proveniente dalla “città dei suoni” che sta oltre le mura della sua gabbia dorata. Improvvisa apertura dello spazio : una carrellata lunga quindici metri segue l’imperatore dalla veranda sin nel mezzo del cortile… Come egli si inginocchia, l’orecchio premuto al pavimento, la macchina fissata sul dolly lo scavalca a volo radente. Viraggio di 180 gradi abbracciando il cielo al di sopra dei tetti di tegole color grano maturo, e ritorno dall’alto su Johnston, che esce a sua volta dalla penombra della veranda per raggiungere Pu Yi nell’accecante luce meridiana e informarlo della manifestazione nella quale si è imbattuto in macchina la stessa mattina. Legittimo motivo del furore degli studenti : la cessione ai giapponesi, in virtù del Trattato di Versailles, dei territori del Nord precedentemente occupati dai tedeschi.
L’inquadratura dura più di tre minuti. Sembra che ogni mossa dei personaggi, ogni svolta della cinepresa siano stati sognati da Bernardo durante la scorsa notte. Certi deliri freudiani trovano subito spazio tra i presenti, e un quarantenne teenager dai fitti capelli d’argento non manca di sottolineare come l’adolescente sembra offrire il fondoschiena al torbido maestro, prima di lasciarsi sedurre dalla mdp! Comunque, l’inginocchiarsi per ascoltare la terra che parla sta molto a cuore al regista : torna in Novecento, e si sovrappone qui alla triplice prosternazione del “koutou”, assai ricorrente ne L’ultimo imperatore. Ma non ricorda per primo lo spettacolo di quei bambini parmensi che, la domenica di Pasqua, dopo aver baciato tre volte il suolo, porgevano l’orecchio a terra al modo dei pellerossa per sentire vibrare sotto terra tutte le campane della Bassa slegate in contemporanea ? La poesia, è stato detto, consiste tra l’altro nella ricerca di certe segrete immagini sepolte in fondo alla memoria. Così, nel presente, il poeta non farebbe che riprodurre in altra forma le emozioni più intime dell’infanzia.
Orario ridotto del sabato. Ultimo cut alle ore 16, mentre gonfie nuvole si profilano all’orizzonte. Secondo l’ordine del giorno distribuito al volo da Manuela, bisogna che il sole sia all’appuntamento lunedì per terminare la scena 67. Quasi impallidiscono a veduta d’occhio le mani dell’ansiosissimo “padrino” Mario Cotone, cui incombe la gestione di tutta la lavorazione. Bernardo non l’ha ancora avvertito che ha appena deciso di fare a meno invece della scena 68, dove Johnston scorgeva un branco di eunuchi accovacciati in un cortiletto di servizio, mangiando con inquietante voracità gli avanzi del pranzo di Pu Yi. Un mese esattamente dopo il primo giro di manovella, tra alti e bassi, veglia e sonno, anticipi e ritardi, L’ultimo imperatore perde e ritrova giorno dopo giorno il battito del proprio cuore.
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Estratto dagli Atti del Convegno internazionale La Forma del Passato: Questioni di identità in opere letterarie e cinematografiche italiane a partire dagli ultimi anni Ottantaa cura di Sabina Gola & Laura Rorato,  © Peter Lang, 2007.
Per l'"Appendice. Dal diario di lavorazione de L'ultimo imperatore", vedi anche: Fabien S. Gerard, Ombres jaunes, Journal de Tournage "Le dernier empereur" de Bernardo Bertolucci, Editions Cahiers du Cinéma, octobre 1987.


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1From Emperor to Citizen. The Autobiography of Aisin-Gioro Pu Yi, Pechino, Foreign Languages Press, 1964 (trad. italiana : Sono stato imperatore. L'autobiografia dell'ultimo sovrano della Cina, a cura di Francesco SABA SARDI, Bompiani, 1987).
2GERARD F.S., Ombres jaunes. Journal de tournage du ‘Dernier Empereur’ de Bernardo Bertolucci, Parigi, Editions Cahiers du cinéma, 1987.
3MORAVIA Alberto, La Rivoluzione culturale in Cina, Bompiani, 1967.
4Vedi ANTONIONI Michelangelo, Chung Kuo/Cina, Einaudi (“Nuovi Coralli”), 1974.
5Essendo il tema de L’ultimo imperatore, appunto, il cambiamento, la mutazione dell’intero paese come del singolo Pu Yi, si tornerà più avanti sull’interesse di Bertolucci per il saggio pasoliniano attraverso l’allegoria della “pagoda-Cina”, ideata durante le riprese per spiegare l’utopia maoista.
6Vedi Secret Agent of Japan. A Handbook to Japanese Imperialism, Londra, V. Gollancz Ltd., 1938 (trad. italiana: COMANDANTE FENG, Spia in Oriente, O.E.T. [Organizzazione Editoriale Tipografica] / Edizioni Poli- libraria, s.d. [1947]).
7Vedi il documentario La rosa bianca (1990) di Franco GUARESCHI.
8Utilissima durante la preparazione del film fu anche, a questo riguardo, la lettura di : RICKETT Allyn & Adele, Prisoners of Liberation, New York, Cameron Associates, 1957 (trad. italiana Prigionieri della Liberazione. Quattro anni nei carceri cinesi, Mazzotta, 1976) ; PASQUALINI Jean, Prisoner of Mao, a cura di Rudolph Chelminski, New York, Coward, McCann & Geoghegan, 1973 (trad. francese Prisonnier de Mao. Sept ans dans un camp de travail en Chine, Parigi, Gallimard, 1975) ; FYFIRLD J.A., Re-educating Chinese Anti-Communists, Londra/New York, Croom Helm/St. Martin’s Press, 1982.
9Nella realtà, Sabbioneta, vicino a Mantova, edificata di sana pianta per volontà di Vespasiano di Gonzaga, durante la seconda metà del Cinquecento.
10Sui rapporti de L’ultimo imperatore col passato e l’inconscio, si veda l’analisi del film nel libro di T. Jefferson KLINE, Bernardo Bertolucci. Cinema e psicoanalisi, Gremese, 1993; L’ultimo imperatore. Storia di un viaggio verso Occidente, a cura di Marcello GAROFALO, Istituto Tipografico e Zecca dello Stato/Libreria dello Stato, 1991 ; Bertolucci’s ‘The Last Emperor’: Multiple Takes, a cura di Bruce H. SKLAREW, Detroit, Wayne State University Press (“Contemporary Film & Television Series”), 1998.
11Oltre al primo capitolo del volume di conversazioni curato da Enzo UNGARI & Don RANVAUD, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri (“I Libri Quadrati”), 1987, vedi specialmente : LEONCINI Leonida, Fiori all’ombra de La capanna indiana. Nella freschezza dei suoi 11 anni, un bimbo si specchia in una polla di poesia, “Il Giornale dell’Emilia”, 24 marzo 1952 (ora in Bernardo Bertolucci: Interviews, a cura di F.S. GERARD, T.J. KLINE & B.H. SKLAREW, Jackson, University Press of Mississippi, “Conversations With Filmmakers Series”, 2000, pp. 3-5). MARAINI Dacia, E tu chi eri? Interviste sull’infanzia, Bompiani, 1973, pp. 165-176 (ried. Rizzoli, 1998, pp. 195-209); BIAGI Enzo, Dicono di Lei. Le interviste che avreste voluto fare voi, Rizzoli (“BUR”), 1978, pp. 51-56 ; GARIBALDI Andrea, GIANNARELLI Roberto, GIUSTI Guido, Qui commincia l’avventura del Signor..., La Casa Usher, 1984, pp. 150-162.
12Il “Gobbetto” de L’ultimo imperatore si rifaceva in partenza, però, alla presenza di un eunuco afflitto della stessa deformità nell’entourage del vero Pu Yi.
13MARAINI, cit., p. 172 (ried., p. 205).
14 Dalla copertina di “Time Magazine”, 25 aprile 1988.
15 CONSIGLIO Stefano & DAL BOSCO Francesco, Un ‘miura’ infiltrato a Hollywood, “Script/Leuto” n. 7/8, gennaio 1995 (ora in Bernardo Bertolucci: Interviews, cit., pp. 228-230).

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Pasolini, Le lettere. A Silvana Mauri, 10 febbraio 1950

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LA VITA
A Silvana Mauri - Milano
Roma, 10 febbraio 1950
in Pasolini. Lettere 1940-1954, a cura di Nico Naldini, Einaudi 1986

VEDI ANCHE:
http://pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/05/silvana-e-pier-paolo-storia-di-una.htm
Storia di un'amicizia amorosa

Carissima Silvana,
avevo deciso di riscriverti questa mattina, perché mi ero pentito della mia ultima lettera [1], un po' troppo piena di disperazione; spero che tu me l'abbia perdonata. Oggi, senza una ragione, ero meno oppresso, avevo qualche linea di meno di sconforto. Adesso è già sera, e sono qui con la tua lettera davanti agli occhi. Sai, abito vicino al ghetto, a due passi dalla chiesa di Cola di Rienzo: ti ricordi? Ho rifatto ormai due o tre volte quel nostro giro del '47, e anche se non ho più ritrovato quel cielo e quell'aria - dal tremendo grigio del ghetto al bianco di San Pietro in Montorio; l'ebrea seduta vicina a una catena contro la porta scura; il temporale con l'odore di resina, e poi Via Giulia e palazzo Farnese, quel palazzo Farnese che non si ripeterà più, come se la luce dopo il temporale lo avesse scolpito in un velo - mi sono stordito e consolato.
Anche adesso ho la testa ronzante dei gridi di Campo dei Fiori, mentre spioveva. Ma questo calore che mi invade come un riposo, lo devo alla tua lettera: è qui sporca di rossetto e di crema, del carnevale di Versuta e dei fiori di Piazza di Spagna. A quei tempi, nel '47 è cominciata la mia discesa, che è divenuta precipizio dopo Lerici [2]: giudicarmi ancora non mi riesce, neanche, come sarebbe facile, giudicarmi male, ma penso che fosse inevitabile. Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con pudore di un caso come il mio: forse l'ho fatto in parte nelle mie poesie. Ora da quando sono a Roma, basta che mi metta alla macchina da scrivere perché tremi e non sappia più nemmeno pensare: le parole hanno come perso il loro senso. Posso solo dirti che la vita ambigua - come tu dici bene - che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all'etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza.
Per questo io qualche volta - e in questi ultimi tempi spesso - sono gelido, «cattivo», le mie parole «fanno male». Non è un atteggiamento «maudit», ma l'ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono. Non ho avuto un'educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale... Questa mia tradizione di onestà e di rettezza - che non aveva un nome o una fede, ma che era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale - mi ha impedito di accettare per molto tempo il verdetto. Devi immaginare il mio caso un po' come quello di Fabio, senza psichiatri, sacerdoti, cure e sintomi e crisi, ma che, com'è di Fabio, mi ha allontanato, assentato. Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio equilibrio, la mia innaturale resistenza, possono trarre in inganno... Ma vedo che sto cercando giustificazioni, ancora una volta... Scusami - volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno - come in fondo ho ingannato te, e anche altri amici che ora parlano di un vecchio Pier Paolo, o di un Pier Paolo da rinnovarsi. Io non so di preciso che cosa intendere per ipocrisia, ma ormai ne sono terrorizzato. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi pare dicesse San Paolo... Io credo - a questo proposito - di desiderare di vivere a Roma, proprio perché qui non ci sarà né un vecchio né un nuovo Pier Paolo. Coloro che come me hanno avuto il destino di non amare secondo la norma, finiscono per sopravalutare la questione dell'amore. Uno normale può rassegnarsi - la terribile parola - alla castità, alle occasioni perdute: ma in me la difficoltà dell'amare ha reso ossessionante il bisogno di amare: la funzione ha reso ipertrofico l'organo, quando, adolescente, l'amore mi pareva una chimera irraggiungibile: poi quando con l'esperienza la funzione ha ripreso le sue giuste proporzioni e la chimera è stata sconsacrata fino alla pili miserabile quotidianità, il male era ormai inoculato, cronico e inguaribile. Mi trovavo con un organo mentale enorme per una funzione ormai trascurabile: tanto che è di ieri - con tutte le mie disgrazie e i miei rimorsi - una incontenibile disperazione per un ragazzo seduto su un muretto e lasciato indietro per sempre e per ogni luogo dal tram in corsa. Come vedi ti parlo con estrema sincerità e non so con quanto poco pudore. Qui a Roma posso trovare meglio che altrove il modo di vivere ambiguamente, mi capisci?, e, nel tempo stesso, il modo di essere compiutamente sincero, di non ingannare nessuno, come finirebbe col succedermi a Milano: forse ti dico questo perché sono sfiduciato, e colloco te sola nel piedestallo di chi sa capire e compatire: ma è che finora non ho trovato nessuno che fosse sincero come io vorrei. La vita sessuale degli altri mi ha fatto sempre vergognare della mia: il male è dunque tutto dalla mia parte? Mi sembra impossibile. Comprendimi, Silvana, ciò che adesso mi sta più a cuore è essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce. E l'unico modo per farmi perdonare da quel ragazzo spaventosamente onesto e buono che qualcuno in me continua a essere. Ma di tutto questo - che continuerà a rimanerti un po' oscuro, perché detto troppo confusamente e rapidamente - potremo parlarne con più agio. Credo dunque che resterò a Roma - questa nuova Casarsa - tanto più che non ho intenzione non solo di conoscere, ma neanche di vedere i letterati, persone che mi hanno sempre atterrito perché richiedono sempre delle opinioni, mentre io non ce n'ho. Ho intenzione di lavorare e di amare, l'una cosa e l'altra disperatamente. Ma, allora, mi chiederai se quello che mi è successo - punizione, come tu dici giustamente - non mi è servito a nulla. Sì, mi è servito, ma non a cambiarmi o tanto meno a redimermi: mi è servito a capire che avevo toccato il fondo, che l'esperienza era esaurita e che potevo ricominciare daccapo ma senza ripetere gli stessi errori; mi sono liberato dalla mia riserva di perversione malvagia e fossile, ora mi sento più leggero e la libidine è una croce, non più un peso che mi trascina verso il fondo.

Ho riletto quello che ti ho scritto finora e ne sono molto scontento: forse lo troverai ancora un po' agghiacciante, come la lettera dopo Lerici, ma tieni presente che allora cominciavo la mia discesa verso la sfiducia, l'incredulità, il disgusto, mentre ora ne sto risalendo, o almeno spero. Tu potrai individuare quanto di patologico e febbrile sussista nelle mie parole, che traccie vi lasci la mia disperazione di questi giorni. Altre frasi non dovrai prenderle alla lettera. Per es. «Roma, questa nuova Casarsa» è una frase che non deve farti cadere le braccia, anche se è un po' odiosa: c'è stata anche una Casarsa buona, ed è questa che voglio riacquistare. Quest'ultima crisi della mia vita, crisi esteriore, che è il grafico di quella interiore che io rimandavo di giorno in giorno, ha ristabilito, spero, un certo equilibrio. Ci sono dei momenti in cui la vita è aperta come un ventaglio, vi si vede tutto, e allora è fragile, insicura e troppo vasta. Nelle mie affermazioni e nelle mie confessioni cerca di intravedere questa totalità. La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c'è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch'io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è cosi: e io, come te, non mi rassegno. Da certe tue parole («... tra cose che ti sono costate dolore, se veramente ti sono costate dolore») mi par di capire che anche tu, come molti altri, sospetti dell'estetismo o del compiacimento nel mio caso. Invece ti sbagli, in questo ti sbagli assolutamente. Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c'entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico. non me la sono mai sentita dentro. Solo in quest'ultimo anno mi sono lasciato un po' andare: ma ero affranto, le mie condizioni famigliari erano disastrose, mio padre infuriava ed era malvagio fino alla nausea, il mio povero comunismo mi aveva fatto odiare, come si odia un mostro, da tutta una comunità, si profilava ormai anche un fallimento letterario: e allora la ricerca di una gioia immediata, una gioia da morirci dentro era l'unico scampo. Ne sono stato punito senza pietà. Ma anche di questo parleremo, oppure te ne scriverò con più calma, ora ho troppe cose da dirti. Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando avevo tre anni e mezzo (mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta quell'attrazione dolcissima e violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra come un fossile.
Non aveva un nome allora, ma era cosi forte e irresistibile che dovetti inventarglielo io : fu «teta veleta», e te lo scrivo tremando tanto mi fa paura questo terribile nome inventato da un bambino di tre anni innamorato di un ragazzo di tredici, questo nome da feticcio, primordiale, disgustoso e carezzevole. Da allora tutta una storia che ti lascio immaginare, se lo puoi. Verso i diciannove anni, poco prima che noi due ci conoscessimo, ho avuto una crisi che è stata a un pelo di essere identica a quella di Fabio: si è risolta invece in una non gravissima nevrosi, in un esaurimento, in un ossessivo pensiero di suicidio (che spesso mi riprende ancora) e poi nella guarigione. Nel '42 a Bologna, ti ricordi?, ero sano come un pesce, ormai, e completo come un albero. Ma era una floridezza che non doveva durare.
Tu sei stata per me qualcosa di speciale e di diverso da tutto il resto: cosi eccezionale che non vi trovo nessuna spiegazione, neanche una di quelle spiegazioni larvali e cosi concrete che noi afferriamo nel nostro monologo intcriore: nelle nostre astute manovre del pensiero. Da quando mi hai aperto la porta a Bologna, pochi giorni dopo che io avevo conosciuto Fabio, e mi sei apparsa sotto la figura di una «madonna del duecento» (credo di avertelo detto), alla Malg.LetteLa Troi, a Milano, dopo la guerra, da Bompiani, a Versuta, a Roma, tu sei stata sempre per me la donna che avrei potuto amare, l'unica che mi ha fatto capire che cosa sia la donna, e l'unica che fino a un certo limite ho amato. Tu capisci cos'è quel limite: ma ora devo dirti che qualche volta, non so né come né quando l'ho varcato, timidamente, pazzescamente, ma l'ho varcato. Se vuoi pensare a una situazione simile, pensa alla «Porta stretta»: ma io non ti ho mai detto niente della mia tenerezza, perché non mi fidavo di me. Non farmi aggiungere altro, capiscimi. Nel mio ultimo biglietto ti ho scritto che tu eri l'unica, fra tutti i miei amici, con cui mi riusciva di confidarmi: e questo semplicemente perché sei l'unica che io ami veramente, fino al sacrificio. Per te, per esserti d'aiuto o di conforto, farei qualsiasi cosa senza la minima ombra d'indecisione o di egoismo.
Ora qui la tua lettera, se la guardo, mi commuove ferocemente, mi sento le lacrime agli occhi: penso a quello che ho perduto, allo spreco della mia vita nella quale non ho saputo accogliere te.
Non posso più continuare questa lettera: le altre cose che dovevo dirti te le scriverò domani. Potrei continuare solo se potessi abbandonarmi, ma non posso, deve sciogliersi in me ancora tanto gelo. Perdonami se ti ho scritto un'altra lettera odiosa, ma se potessi scrivere con bontà, con tutta la bontà di una volta, allora questa lettera non sarebbe stata necessaria. Sono furioso contro di me e la mia impotenza, mentre vorrei dirti tutta la mia tenerezza e il mio affetto.
Ti abbraccio 
Pier Paolo
-----------------
1  Cfr. Lettera a Silvana Mauri del 27 gennaio 1950.
2  Cfr, Lettera alla stessa del marzo 1949.
*  *  *
Silvana Mauri (Roma 1920-Milano 2006). Silvana Mauri nasce in una famiglia agiata, primogenita di cinque fratelli; dopo di lei nascono Fabio, Ornella, Luciano e Achille. Il padre è avvocato, la madre Maria Luisa Bompiani è sorella di Valentino Bompiani. Nel 1929 la famiglia si trasferisce a Milano quando il padre decide di impegnarsi nella neonata casa editrice Bompiani fondata dal cognato, fino a quel momento stretto collaboratore di Arnoldo Mondadori. Silvana conduce una tranquilla vita borghese; frequenta il Liceo Parini, sue compagne di scuola e amiche per la pelle sono Franca Norsa (che diventerà poi l’attrice Franca Valeri) e Billa Zanuso. A diciassette anni, quando ancora frequenta il liceo, lo zio Valentino la chiama a collaborare al Dizionario delle opere con il compito di togliere le “h” al verbo avere e le “d” alle preposizioni “ed” e “ad”, tutto per risparmiare la carta che scarseggiava. Inizia così, quasi per gioco, un’attività editoriale che durerà tutta la vita, quarant’anni in casa editrice e venti alla Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri, fondata dal fratello Luciano. La sua famiglia diviene nel tempo protagonista di spicco dell’editoria italiana con l’acquisizione delle Messaggerie Italiane e la distribuzione di Messaggerie Libri, e in anni più recenti con la creazione del gruppo Mauri-Spagnol. Frequentatori assidui della Bompiani come autori, ma anche come amici, sono Pirandello, Marotta, Brancati, Moravia, Zavattini, Vittorini e in anni più recenti Camilla Cederna e Umberto Eco, prima redattore, poi autore. Silvana cura gli scritti di molti di loro e di questa sua straordinaria attività di editor resta testimonianza nelle numerose lettere che scrive e riceve. In particolare con il giovane poeta Pier Paolo Pasolini stringe una profonda e duratura amicizia. «Come è accaduto che io, ragazza borghese, senza radici paesane, eterosessuale, e lui allora, tutto pervaso e raccolto di poesia casarsese... studente diligente, omosessuale, ci siamo inseguiti per tutta la vita, scritti, raccontati, raggiunti... dentro la sua vita che sempre più si separava dalla mia?». Nel 1950 sposa Ottiero Ottieri e dalla loro unione nascono due figli, Maria Pace e Alberto. Silvana si può considerare una vera eminenza grigia dell’editoria italiana, se pure defilata, per sua scelta, nel backstage della redazione in un lavoro silenzioso e quotidiano di cura dei testi e degli autori, lavoro che compie con grande talento e semplicità. Un lavoro editoriale fatto con la convinzione che con la ragione, col lavoro ben fatto, con la dedizione – alle cose editoriali come agli affetti famigliari – si può attingere a un’idea del mondo, della vita degni, appunto, di essere vissuti interamente, appassionatamente.
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Pasolini dal dialogo al monologo, di Roberto Chiesi

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Pasolini dal dialogo al monologo
Comizi d’amore (1964), La forma della città (1974)
e la trasformazione dell’Italia
di Roberto Chiesi
Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione Cineteca di Bologna
Diari di Cineclub n. 7, 5 giugno 2013

In una lettera rivolta al produttore Alfredo Bini del settembre 1963, Pier Paolo Pasolini scrive che il film Cento paia di buoi (primo titolo di Comizi d’amore), al termine delle riprese, si è trasformato. “Mi sono trovato davanti a del materiale nuovo, pieno di straripante concretezza visiva. In che senso il film è diventato un altro? (...) protagonista, è diventato il pubblico, cioè le centinaia di interrogati, con Arriflex e registratore, in tutta l’Italia. La loro vivezza, la loro spettacolare fisicità, la loro antipatia, la loro simpatia, i loro strafalcioni, i loro candori, le loro saggezze, come dire la loro “italianità”, hanno preso prepotentemente il posto riservato alla nostra premura didascalica, e si sono presentati sullo schermo “come ciò che importa”. 
“Ciò che importa” erano, quindi, gli italiani e le italiane, la gente del popolo e della piccola e media borghesia, che Pasolini ha incontrato, intervistato, incalzato, da Napoli a Palermo, da Roma a Milano, da Firenze a Viareggio, da Bologna a Venezia. Mentre stava effettuando i sopralluoghi per Il Vangelo secondo Matteo nel sud dell’Italia, Pasolini approfittava dell’occasione del viaggio per scandagliare le reazioni degli italiani di fronte a domande che investivano i loro tabù (il sesso, l’omosessualità, la diversità sessuale, il divorzio), per costringerli ad interrogarsi sui fondamenti della loro educazione, per provocarli nella fragilità dei loro pregiudizi. 
Questo viaggio, compiuto dal poeta-regista con la mdp e il microfono, a diretto contatto fisico con la gente anonima più disparata della penisola, traccia un quadro antropologico tanto casuale quanto ricco e sfaccettato di un paese che sta conoscendo un passaggio anomalo e bruciante dall’economia contadina all’industrializzazione. Ma è anche il viaggio intrapreso da un poeta che ama il suo paese per le potenzialità inespresse che ha, e soprattutto che ama la gente e in particolare la gente del popolo per la sua estraneità ai codici della piccola borghesia, per la sua contraddittoria innocenza. Il Pasolini che parla con decine e decine di persone di tutte le età, con la dolce e caparbia violenza delle sue argomentazioni, con la pedagogia trasgressiva del suo pensiero che penetra le corde più delicate e intime dei suoi interlocutori (la vita sessuale, appunto), è un Pasolini che ancora è animato dall’energia, dalla volontà, dall’utopia di cambiare il paese, di combattere per contribuire al cambiamento del paese. 
Un cambiamento che s’identifica nella vittoria di quella classe popolare che è sempre stata al centro della sua ispirazione, dai campi friulani delle poesie de La meglio gioventù, fino al sottoproletariato romano delle Ceneri di Gramsci e dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta
Adottando lo strumento di un cinema agile, un cinema che non ha bisogno delle strutture del set, dell’industria, ma si muove con la rapidità da reportage del cinema verità, Pasolini filma i volti della gente reale e li confronta, li interroga, li provoca sui problemi reali e concreti della loro cultura, della loro educazione, dei loro pregiudizi. È convinto che un film come Comizi d’amore possa scuotere qualche masso di oscurantismo, possa incrinare qualche certezza, possa mostrare, con la nuda verità dei fatti (in questo caso, la fisicità e la psicologia degli intervistati), quali siano le fragilità culturali e sociali dell’Italia. In un certo senso, la macchina da presa diviene un’arma per un dialogo sovversivo, per un dialogo che si contrappone all’Italia piccolo borghese, all’Italia del consumismo che sta avanzando. 
Il fascino di Comizi d’amore risiede nella sua sistematicità (la divisione in capitoli e titoli) e nella libertà dei suoi movimenti (anche del movimento del corpo di Pasolini, sempre esposto in prima persona agli incontri e ai dialoghi del film) e alla strana, contraddittoria dialettica che ne deriva. 
Se Comizi d’amoreè il film di un regista che crede nel dialogo con l’altro, che lotta per una palingenesi, il breve documentario La forma della cittàè un monologo dove Pasolini riesce a sottomettere il mezzo televisivo per mostrare ai milioni di telespettatori lo scempio del paesaggio italiano e le piccole aree dove ancora resiste un’Italia umile, in via di estinzione. Non è più il dialogo fisico e diretto con qualcuno (dialogo che Pasolini non ha mai rifiutato e, anzi, ha continuato a praticare fino alla fine: dieci giorni prima di morire parlava con gli studenti di un liceo di Lecce in un incontro pubblico), ma è il monologo di chi è consapevole di incarnare verità che l’interlocutore rifiuta – come il degrado dell’Italia, il potere mefitico della televisione – e che combatte per una guerra in cui è completamente solo. 
Negli anni Settanta, nonostante il servile conformismo che già allora la caratterizzava, la RAI produceva ancora qualche programma culturale di valore. La serie Io e..., curata da Anna Zanoli, un’ex allieva di Roberto Longhi, era senz’altro una delle trasmissioni più intelligenti e riuscite. Un intellettuale, uno scrittore o un artista italiano veniva sollecitato a parlare di un’opera d’arte prediletta: si susseguirono, fra gli altri, gli interventi di Eugenio Montale, Cesare Zavattini, Andrea Zanzotto, Tommaso Landolfi, Mario Luzi, Federico Fellini, e altri. Ogni programma durava circa un quarto d’ora ed era diretto da registi diversi, come Luciano Emmer e Paolo Brunatto. Nell’inverno del 1973-74, quando gli proposero di partecipare ad una trasmissione, Pasolini sulle prime disse che avrebbe parlato non di un quadro o di un libro, ma dei vecchi casolari di campagna. Poi mutò idea e si orientò su un’anonima fontana di Roma, priva di valore artistico, ma caratterizzata da un’identità sociale particolare come luogo di ritrovo di prostitute e lenoni. Scartata anche questa soluzione, decise di parlare di Orte e Sabaudia, due città che amava molto e che appartenevano alla sua vita, perché da qualche anno possedeva un’antica torre e un’abitazione nel bosco del fiume Chia, vicino a Orte, e la sua casa al mare si trovava proprio a Sabaudia. 
In realtà, la scelta di quei due luoghi, così legati all’esistenza di Pasolini, divennero il pretesto per denunciare la speculazione edilizia, che stava devastando il paesaggio di Orte, ossia l’armonia fra le colline e la natura circostante e l’antica cittadina medievale. Un’armonia che aveva resistito per secoli, ma che venne deturpata nell’arco di pochi anni da alcune recenti abitazioni, costruite nel modo più arbitrario e senza rispettare il disegno del paesaggio. Fu lo stesso Pasolini a dirigere la mdp per mostrare lo scempio mentre la sua voce dolorosa e assorta, esprimeva un’indignazione profonda. Il poeta-regista introdusse, poi, l’inserimento di alcuni frammenti di Le mura di Sana’a, un bellissimo cortometraggio che aveva girato a Sana’a, la capitale dello Yemen del nord, al termine delle riprese che aveva effettuato in quei luoghi de Il Decameron. Era una città stupenda e antichissima che la modernità stava minacciando di distruzione. 
Ritornando a commentare le immagini di Orte, Pasolini precisò che “mentre per Orte si può parlare soltanto di un lieve danneggiamento, di un difetto, per quello che riguarda, invece, la situazione dell’Italia, delle forme delle città nella nazione italiana, la situazione è decisamente irrimediabile e catastrofica”. Il poeta esaltò, poi, la bellezza umile di un’antica stradina di Orte e insistette sull’importanza di difendere e preservare un patrimonio artistico di urbanistica e edilizia popolare che aveva una grazia estetica mai più ripetuta. Sabaudia è percorsa dallo sguardo di Pasolini in una “grigia luce lagunare” e le forme massicce degli edifici costruiti in piena epoca fascista sono descritti con parole inattese dal poeta-regista, ricordando l’ironia che gli intellettuali, lui compreso, hanno riservato all’architettura del regime. “Il passare degli anni ha fatto sì che quest’architettura di carattere littorio, assuma un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico. (...) Come ci spieghiamo un fatto simile, che ha del miracoloso? Una città ridicola, fascista, improvvisamente ci sembra così incantevole...”. 
Arrestatosi su una spiaggia di Sabaudia, battuta dal vento invernale, Pasolini si rivolge direttamente alla mdp e concludendo il cortometraggio, ecco che lo trasforma in uno “scritto corsaro” in forma di immagini, condensando alcuni degli argomenti della sua geniale polemica contro l’omologazione che aveva intrapreso da pochi mesi sulle pagine del “Corriere della sera”. Il paesaggio urbano di Sabaudia rivela oggi una sua grazia perché, in realtà, il fascismo non è riuscito a distruggere l’Italia popolare, rustica e contadina, mentre il potere della società dei consumi, con le armi della televisione e il cancro dell’omologazione, sta distruggendo il paese nel profondo della sua identità. 
Trasmessa per la prima volta il 7 febbraio 1974 dalla RAI, La forma della città è firmata da Paolo Brunatto, ma costituisce uno di quei casi “impuri”, tutt’altro che rari nel cinema, in cui l’apporto di chi è filmato assume un rilievo così forte da assorbire, in un certo senso, la paternità del film: infatti, in questo cortometraggio, Pasolini, oltre ad assegnare al film il respiro della propria dialettica, scelse e decise numerose inquadrature. Non a caso, inserì nella versione definitiva di Le mura di Sana’a alcune sequenze girate a Orte in quell’occasione e, in un’intervista a Gideon Bachmann (La perdita della realtà e il cinema integrabile, 13 settembre 1974), si attribuì la paternità del cortometraggio.
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Lazio: domani la prima maratona sulla via Francigena

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LE NOTIZIE
Lazio: la prima maratona sulla via Francigena
8 giugno 2013

Il pellegrinaggio dei Racconti di Canterbury di Chaucer, che ha reso celebre il santuario di Becket e ispirato il film di Pasolini, si snodava nell'Inghilterra medievale per 109 chilometri. Ma 400 anni prima di Chaucher, Sigerico di Canterbury compì ben altra impresa percorrendo 1600 km da Canterbury a Roma - e ritorno - oggi noti come Via Francigena, e che Sigerico, ricevuta l'investitura da Giovanni XV, raccontò in un diario di 79 tappe.
La via Francigena che da Canterbury, attraversando l'intera Francia, conduceva in Italia tramite il passo del San Bernardo, era in realtà l'antica via di penetrazione e di conquista dei Franchi: col movimento di merci, genti, arti, spiritualità e conoscenze, divenne una importantissima via di pellegrinaggio che, da Aosta, attraverso Pavia, Parma, Luni, Siena e Viterbo giungeva a Roma. 
La maratona attuale è organizzata dall'Assessorato Sport Turismo e Cultura del Comune di Acquapendente, dal Club Alpino Italiano Sezione di Viterbo e dal Corpo Forestale dello Stato Comando Provinciale Viterbo, con la collaborazione dei Comuni di San Lorenzo Nuovo, Bolsena e Montefiascone.
L'organizzazione si avvarrà della collaborazione di Associazioni locali e dei Comuni interessati alla manifestazione; dell'assistenza del Corpo Forestale dello Stato, Comando Provinciale Viterbo per il controllo dell'intero percorso; del supporto logistico del Cai di Viterbo. La manifestazione si svolgerà sotto l'egida dell'Associazione Europea delle Vie Francigene e della Regione Lazio.
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Associazione Pasolini, “Il Vangelo secondo Matera"

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LA SAGGISTICA
Enrique Irazoqui, indimenticato protagonista del "Vangelo secondo Matteo" pasoliniano


Associazione Pasolini
“Il Vangelo secondo Matera"
18 giugno 2013

In occasione della 13ᵃ edizione della “Semaine Italienne”  il Festival della cultura italiana  dal 22 al 29 giugno presso il comune del 13° arrondissement di Parigi l’Associazione Pasolini Matera ed il Comune del 13° arrondissement di Parigi hanno partecipato al Vernissage della mostra fotografica “Il Vangelo secondo Matera” di Domenico Notarangelo.

Si tratta di una esposizione al pubblico di scatti inediti che riproducono minuziosamente ogni azione saliente delle riprese, ma anche momenti di relax nel backstage, del film “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, girato nel 1964 a Matera.
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Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma, recensione di Darius

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Pier Paolo Pasolini
Mamma Roma
Recensione di Dariuswww.debaser.it

E' innegabile la stretta parentela fra il Pasolini primo cineasta e l'alter romanziere neorealista. Accattone e Mamma Roma, esordio e post esordio di una delle menti nostrane più floride dell'ultimo decennio di secolo, ricalcano magistralmente le tematiche e le atmosfere di Ragazzi di Vita e Una Vita Violenta: in una Roma ancora segnata dalla catastrofe della guerra, ben lontana dal benessere e dall'opulenza economica tanto sostenuta dai propugnatori del boom, si aggirano tra le macerie e i nuovi complessi popolari dispersi nel verde della periferia protettori, donne di strada, loschi individui, bambini e infanti che si divertono con le magre attrazioni di baraccopoli e bidonville, giovani scapestrati senza licenze scolastiche e mestieri assimilati impegnati a oziare, trafficare e derubare. Pur non vantando l'efficacia e lo scabrosità che scaturiscono dalle pagine dei romanzi, il bis Accattone-Mamma Roma ne trae i succhi più significativi e incisivi: da un lato un reietto "pappone" squattrinato che muore senza essersi redento dalla strada, dall'altro una madre ex prostituta dolce, eccentrica e un po' svitata che tenta, non riuscendoci, di purificare il figlio appena ritrovato dal laido retaggio ancestrale.
Riponendo la cruda parabola del furbo Vittorio "Accattone", addentriamoci nella favola dal mesto finale quale è Mamma Roma. Mamma Roma, stravagante, simpatica e baldanzosa donna delle contrade, ritrova dopo anni il figlio Ettore, nato da un marito finito in galera senza quasi neanche vedere l'altare, e si sforza con qualsiasi mezzo a sua disposizione di crescerlo in un ambiente moralmente raffinato, filoborghese ed educato e, soprattutto, di nascondergli la verità circa la propria desolante professione. Il sedicenne, trovata ospitalità presso un modesto appartamento della periferia romana, si lega immediatamente ai "ragazzi di vita" del sottoproletariato e inizia a circuire la madre per poter conquistare i favori di una giovane ventiquattrenne opportunista e finta innocente. Notando la propensione dell'adolescente a non costruirsi un avvenire, studiando e imparando un mestiere, Mamma Roma studia un piano per sottrarlo ai ragazzacci e agli "amorazzi" tipici della sua età e lo fa assumere come cameriere in una trattoria. I sogni dell'ex prostituta ed ora fruttivendola sono tuttavia di breve durata: costretta dal suo vecchio protettore ad approdare nuovamente sulla strada, la donna non riesce a sottrarre il figlio dal terribile segreto che lei gelosamente celava. Riabbracciato il regime di delinquenza, Ettore, pur gravemente malato, tenta di derubare un paziente d'ospedale e finisce in carcere; in preda agli spasmi della febbre, il giovane delira e viene legato ad un letto di contenzione ove perirà in preda ai rimorsi e al dolore, dimenticato da tutti.
Pendente fra il malinconico, l'edulcorato e il drammatico, Mamma Romaè un lavoro che colpisce e addirittura sciocca per un approccio umorale per il quale il commovente e un po' "bizzarro" sentimento di amore e protezione di una madre - che domina per buona parte del film e che pare preludere ad una risoluzione, magari non immediata, delle spinose problematiche - decede rovinosamente con la scomparsa del ragazzo e la disperazione della donna. Mamma Roma, magistralmente interpretata da Anna Magnani, è un personaggio forte, tenace, rumoroso, eclettico, eccentrico, possente e persino "forzuto", una ex prostituta che nell'universo pasoliniano si discosta, ad esempio, dalla debolezza o dall'impietosità delle femmine di strada di Accattone, nel quale tracciano una retta immediata fra la donna indifesa e persino insignificante e la prostituta lasciva e priva di sentimento. Roma veste invece il doppio abito della dolce maliziosa, amorevole e scatenata, "burina" e raffinata, una sorta di casacca "double face" facilmente interscambiabile in base alle contingenze. Infatti, se all'inizio assistiamo all'esilarante ruvidità comportamentale della prostituta che intrattiene gli ospiti al matrimonio di colui che riteneva il suo ex protettore, poco prima dei titoli di coda lo stesso personaggio, la fruttivendola semi redenta, crolla in un vortice di disperazione che quasi la induce al suicidio. Proprio al termine del film si comprende il carisma di Roma come scuotitrice delle folle: nel delirio post morte del figlio, Mamma corre verso casa e tutti la seguono, quasi come una stella, una stella caduta, e ciò denota un ruolo che nemmeno l'Accattone dell'omonima pellicola d'esordio poteva vantare.
Lontana dai kolossal sacri e profani, distante dalla Trilogia della Vita e dall'apocalittico Salò, Mamma Romaè il secondo tassello di un curriculum cinematografico che in una manciata di capolavori ha saputo maritare spiritualità e corporalità, morale e materia, etica e realtà. Dalle macerie del Dopoguerra alla nudità profana di Teorema, Medea e del Fiore delle Mille e una Notte, passando per le commedie del Decameron e dei Racconti di Canterbury, quella di Pasolini è la filmografia della vita, dell'esistenza umana in tutte le sfaccettature storiche, religiose e ideologiche, un percorso in cui la Mamma Roma con la borsetta e i tacchi a spillo può persino bersi un caffè con la maga in peplo Medea.
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Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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Tagli, censure e condanne. La dura vita dello scrittore. Massimo Novelli per "la Repubblica"

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LA SAGGISTICA
Tagli, censure e condanne.
La dura vita dello scrittore
Massimo Novelli per "la Repubblica", 20 ottobre 2012

La prima censura di un libro in Italia risale probabilmente all'anno venticinquesimo dopo la nascita di Gesù Cristo. Tacito lo narra nei suoi Annali, ricordando il "delitto nuovo e inaudito" di cui venne accusato il senatore Cremuzio Cordio, vissuto sotto il principato di Tiberio e autore di opere giudicate troppo nostalgiche dell' epoca repubblicana. Vennero bruciate per ordine del Senato, lui si lasciò morire di fame. L'ultimo caso clamoroso è del 2007, quando lo storico Ariel Toaff, investito da polemiche roventi, è costretto a chiedere alla direzione della casa editrice Il Mulino di ritirare il suo saggio Pasque di sangue. Ebrei d' Europa e omicidi rituali. In questo arco temporale, da Cremuzio Cordio a Toaff, la macchina censoria ha funzionato a lungo a pieno ritmo, passando dall'Index librorum prohibitorum del Concilio di Trento, chiuso soltanto dal Concilio Vaticano II, allo Statuto Albertino, dalla dittatura fascista alla Repubblica democratica. 
Ma "la storia della censura libraria nell'Italia contemporanea", spiega Roberto Cicala, docente di editoria all'Università Cattolica di Milano, "è quella che era stata meno approfondita. Con il lavoro svolto dagli allievi del master organizzato dal Collegio universitario Santa Caterina, in collaborazione con l'Università di Pavia, si è voluto colmare una lacuna". Ne è nato il volume Inchiostro proibito. Libri censurati nell' Italia contemporanea, pubblicato dalle Edizioni Santa Caterina, con una introduzione dello stesso Cicala e saggi di diversi giovani studiosi. Sono raccontate le vicende travagliate di diciassette libri e di altrettanti autori (compresi gli album di Topolino) che, dai primi anni del Novecento ai tempi nostri, sono stati presi di mira dai censori di Stato, subendo revisioni, sequestri, condanne giudiziarie. È un elenco di librorum prohibitorum che comincia con Viva Caporetto! di Curzio Malaparte, prosegue con Il garofano rosso di Elio Vittorini e con La mascherata di Alberto Moravia. Passa per Il dottor Zivago di Boris Pasternàk e per L' amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence. Non risparmia il Tropico del Cancro di Henry Miller e il Pier Paolo Pasolini di Ragazzi di vita, fino a L'Arialda di Giovanni Testori, ad Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli e a Sodomie in corpo 11 di Aldo Busi. 
I tagli, le proibizioni, i processi, ebbero cause e motivazioni differenti. Per alcuni dei libri messi all'indice, o perseguitati a vario titolo, scattò la censura politica. Capitò per Malaparte e il suo scritto sulla disfatta di Caporetto, ma pure per il romanzo di Pasternak. Il dottor Zivago uscì nel 1957 nella traduzione italiana, e in prima edizione mondiale, grazie a Giangiacomo Feltrinelli, che, come ricorda Cicala, vinse "la pressioni internazionali del regime comunista sovietico". Anche Vittorini col suo Garofano rosso, uscito a puntate sulla rivista Solaria, fu condannato per ragioni politiche. Il vero motivo sarebbe però da rintracciarsi nella "licenziosità", come quando lo scrittore siciliano descrive i giochi erotici con ragazze che "hanno le poppe mature, madre di Dio!». Per altri si trattò di offesa al pudore: da Mafarka il futurista di Filippo Tommaso Marinetti a Lawrence, a Pasolini, a Testori, a Henry Miller. E continuando con La ragazza di nome Giulio di Milena Milani, con Tondelli, con Busi e con il Porci con le ali di Marco Lombardo Radice e di Lidia Ravera, dove uno dei brani incriminati verte su una "scopata tragica". Per le Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani, per Falce e carrello di Bernardo Caprotti e per le Pasque di sangue di Toaff, giudici e avvocati hanno frapposto "ostacoli sociali, religiosi o economici". Si salvò Topolino: con il plauso dei Mondadori, le autorità fasciste ne permisero la pubblicazione fino al 1942, per avere "un elemento artistico tale" da non essere un tipico esempio "dell' americanismo". Oggi la censura sembra avere cambiato volto. È il mercato, conclude Cicala, che "surclassa la stessa autorità giudiziaria attraverso la ricerca dei numeri e del commercio più che dei valori, la quantità sulla qualità".

NOTA DELLA CURATRICE DEL BLOG
La storia di Pier Paolo Pasolini è probabilmente tra quelle maggiormente costellate di episodi censori, tale da indurre a pensare seriamente a una forma sottile e continua di persecuzione. La tragedia oscura dell’assassinio è il culmine di questo processo di accanimento. 

I giornali che hanno sempre alluso grevemente al "privato" di Pasolini, ora possono scagliarsi con dettagliate descrizioni sulla sua vita intima di "diverso", che viene vivisezionata senza nessuno scrupolo sull’attendibilità di informazioni, notizie, testimonianze. 

Viene pubblicato tutto ciò che può offrire l’immagine più turpe del poeta per seppellirlo sotto l’effigie definitiva di "violento e perverso corruttore". In parte, tutto ciò è documentato da un libro che accompagnò nel 2005 una mostra alla Cineteca di Bologna, Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni. L’immagine di Pasolini nelle deformazioni mediatiche, a cura del Centro Studi - Archivio Pier Paolo Pasolinidella Cineteca di Bologna, nell'ambito della manifestazioneIn cerca di Pasolini 1975-2005 a trent'anni dalla morte

Si vedano in particolare, in pasolini.net, tra molti altri riferimenti:


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Dossier Pasolini. Il laboratorio dell'inferno di Salò, a cura di Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi Pasolini della Fondazione Cineteca di Bologna

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LE NOTIZIE - CINEMA
Pasolini durante la conferenza-stampa di Salò,
Cinecittà, teatro 15, 9 maggio 1975

© Archivio dell'Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini

Sabato 6 luglio 2013, ore 15,45
Cinema Lumière – Sala Scorsese
Piazzetta Pier Paolo Pasolini 3 (Bologna)
Dossier Pasolini
Il laboratorio dell'inferno di Salò

a cura di Roberto Chiesi
Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione Cineteca di Bologna
in collaborazione con Cinemazero (Pordenone)


 “Mi sono innamorato di questa sceneggiatura proprio al momento in cui ho pensato di trasporre questo film nella Repubblica di Salò. (…) È stata l'idea creatrice del film. (…) È venuta una specie di coreografia nazifascista completamente onirica in quanto non c'è un saluto romano, non c'è uno che si metta sull'attenti, non c'è un ritratto del Duce, non si nomina mai niente, si nomina solo la parola “Salò” e la parola “Marzabotto”, due nomi. (…) Questo non è un film didascalico. Chi vuol comprendere, comprenda, chi ha orecchie per intendere, intenda. In realtà questo film si presenta come visionario.”

Sono alcune dichiarazioni rilasciate da Pier Paolo Pasolini durante l'ultima conferenza-stampa che tenne per il suo film postumo, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), la cui registrazione è uno dei materiali d'archivio che vengono presentati nell'ambito del dossier curato dal Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna, in collaborazione con Cinemazero di Pordenone, sul 'laboratorio' del film.
   Un laboratorio particolarmente complesso perché Salò  fu l'unico film che Pasolini realizzò senza averne scritto la sceneggiatura ma basandosi su un copione largamente modificato durante le riprese e in sede di montaggio e doppiaggio, come un work in progress.
Grazie alle fotografie di scena e di set di Deborah Beer, in parte inedite, e ad alcuni documenti della lavorazione (come il copione della segretaria di edizione, Beatrice Banfi e annotazioni autografe di Pasolini), il dossier mostra la maggiore ampiezza narrativa che in origine avrebbe dovuto avere il prologo – l'Antinferno –, alcuni squarci dell'atroce 'quotidiano' della villa degli orrori, le foto del finale previsto originariamente – il ballo di tutta la troupe e il disvelamento del set – e alcune immagini – successivamente tagliate – dello sterminio delle vittime, una raffigurazione dei supplizi infernali che evoca la tradizione medievale ma allude all'orrore indifferenziato del presente.
Immagine di una sequenza tagliata da “Salò”.
Foto di Deborah Beer, © Gideon Bachmann-Cinemazero
Tutti i diritti riservati

Questo dossier audiovisivo, nato dalla collaborazione fra il Centro Studi – Archivio Pasolini e il Fondo Gideon Bachmann di Cinemazero (Pordenone), costituisce la prima parte di un progetto di ricerca ed editoriale sul film Salò o le 120 giornate di Sodoma  (1975) di Pier Paolo Pasolini.
Il progetto sarà presentato da Roberto Chiesi (Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna), Riccardo Costantini (coordinatore di Cinemazero) e Raffaella Canci (Archivio Fotografico di Cinemazero).

Seguirà la presentazione del volume Pier Paolo Pasolini. My Cinema, edito dalla Cineteca di Bologna. Interverranno i curatori, Graziella Chiarcossi e Roberto Chiesi.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.

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The Canterbury Tales, in "Pasolini ou le mythe de la barbarie", di Fabien S. Gerard

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - CINEMA
The Canterbury Tales
IN
Pasolini ou le mythe de la barbarie
de Fabien S. Gerard
Editions de l'Université de Bruxelles, 1981
Con una nota sull'Autore, sul Soggetto
e sulla Prefazione del libro

IN FRANCESE E IN ITALIANO - TRADUZIONE ITALIANA: A.M.
FR
The Canterbury Tales
Des les premières images, les Canterbury Tales, sortis en 1972, se présentent comme une variante anglo-saxonne du Decameròn, ce que vraisemblablement fut le livre à l'origine, et que Pasolini ne manque pas de rappeler lorsqu'il nous montre leur illustre auteur Geoffrey Chaucer prenant un plaisir évident à la lecture du chef-d'oeuvre inaugural de la prose italienne. L'atmosphère cependant a quelque peu changé, en fonction des latitudes et des mentalités: la fraîcheur et l'humidité ambiantes remplacent les touffeurs généreuses du Mezzogiorno; l'intimité s'abrite plus souvent au fond de chambres obscures et glacées; l'idée de la mort - impalpable - marque tous et chacun, tandis que le diable en personne sévit sur terre et que plusieurs des protagonistes finiront bel' et bien par connaître les feux de la géhenne...

Oubliant délibérément la lettre afin de ne point trahir l'esprit, Pasolini n'hésite pas a «réinventer» l’une ou l'autre anecdote, telles ces frasques du fringant Peterkin, auxquelles il donne, en hommage au gentleman tramp, des allures ironiquement chaplinesques! Mais sur la route menant au tombeau du très saint martyr Thomas Becket, tous les pèlerins n'en sont pas moins fidèles au rendez-vous de l'auberge du Tabard, et le «Yeoman», la «Dame de Bath» ou le «Pardonneur» nous content avec force détails et redondantes explications, leurs édifiantes tranches de vie, où le surnaturel, la boulimie sexuelle et la scatologie la plus démystificatrice font partie intégrante de l'existence quotidienne.
Tournés entièrement dans les vieux quartiers de Cogeshall, Battle, Lavenham, Welles et Warwick, les Tales restituent la vivacité d'une Angleterre médiévale encore tout imprégnée de paysannerie, de même que les venelles tortueuses et escarpées de Naples laissaient croire a la pérennité de l'Italie de Boccace. Décors et costumes, inspirés de scènes de chasses ou de moeurs, font de malicieuses références à Bruegel et aux petits maîtres flamands et français des XIVe et XVe siècles, cependant que nous savourons la beauté sereine des matins insulaires, captée par l'oeil avide et exigeant d'un Pasolini caméraman, en ces instants de grâce fugitifs où le jeudu soleil et de la brume confère à la couleur des prés une luminosité incomparable.
Plusieurs chants populaires traditionnels, choisis sur place, constituent par ailleurs le fond sonore du film, et les interprètes - repérés pour la plupart dans la rue, en fonction de leurs caractéristiques physiques ou vocales - parlent avec l'aisance inimitable du langage de tous les jours: d'oùce mélange coloré de slang londonien et d'accents dialectaux gallois ou écossais, qui ajoute une note de vérité indispensable à la description de ce petit monde d'artisans et de marchands, de détrousseurs, de prostituées et de clochards. Apothéose visionnaire greffée en guise de conclusion au conte du «Semoneur», les Canterbury Tales s'achèvent sur l'évocation tonitruante et bigarrée d'unenfer peuplé de diables cornus et ailés, issu en droite ligne des compositions de Jérôme Bosch, où Satan lui-même expulse par les voies naturelles, une multitude de moines vénaux parmi les damnés promis aux flammes!
Outre quelques visages familiers du cinema britannique, comme Jenny Runacre, Hugh Griffith, Vernon Dobtcheff ou Michael Balfour, il convient de relever la présence significative de Joséphine Chaplin, ainsi que les compositions tout a fait savoureuses de Laura Betti dans le rôle de la rutilante «Dame de Bath», et du journaliste John Francis  Lane (correspondant officiel du Times a Rome) dans celui du «frère mendiant»! Les habituels Franco Citti et Ninetto Davoli, pareils a eux-mêmes, assurent de leur côté - faut-il le rappeler - le lien stylistique des différents volets de cette bourdonnante trilogie.
IT 
I racconti di Canterbury
Fin dalle prime immagini I racconti di Canterbury, uscito nel 1972, si presenta come una versione anglosassone del Decameron, che probabilmente è stato il libro di origine, e che Pasolini non manca di ricordare quando ci mostra il loro illustre autore Geoffrey Chaucer che prende evidente piacere nella lettura del capolavoro inaugurale della prosa italiana. Tuttavia, l'atmosfera è un po’ cambiata al variare della latitudine e degli atteggiamenti mentali: il fresco e l’umidità ambientale sostituiscono il clima generoso del Mezzogiorno; l’intimità si rifugia spesso in stanze buie e fredde, e l'idea della morte - immateriale - marchia tutti e ciascuno, mentre il diavolo in persona prevale sulla terra e molti dei protagonisti si troveranno alla fine a conoscere le fiamme dell'inferno...

Dimenticando deliberatamente la lettera in modo da non tradire lo spirito, Pasolini non esita a "reinventare" l’una o l’altra storia, come le scappatelle del focoso Perkin, a cui assegna, quale omaggio al gentiluomo vagabondo, alcune caratteristiche ironicamente chapliniane! Ma sulla strada per la tomba del santo martire Thomas Becket, tutti i pellegrini non sono meno fedeli all’appuntamento del Tabard Inn, e "Yeoman", la "Donna di Bath" o "L’indulgenziere" ci raccontano con forza dettagli e spiegazioni ridondanti delle loro edificanti esperienze di vita, in cui il soprannaturale, l'appetito sessuale e la più demistificante scatologia sono parte integrante della vita quotidiana.

Girato interamente in vecchi quartieri di Cogeshall, Battaglia, Lavenham, Welles e Warwick, I racconti ripristinano la vitalità di una Inghilterra medievale ancora permeata di cultura contadina, così come i vicoli ripidi e tortuosi di Napoli lasciavano credere di avere conservato intatta la credibilità dell’Italia del Boccaccio. Scene e abiti, ispirati a scene di caccia o di costume, fanno riferimento a Bruegel e a piccoli maestri fiamminghi e francesi dei secoli XIV e XV, mentre ci godiamo la serena bellezza del mattino insulare catturata dall'occhio avido ed esigente di un Pasolini cameraman, in questi momenti fugaci di grazia in cui il gioco di luce del sole e della nebbia dà un colore molto vicino a una luminosità senza confronto.

Diversi canti tradizionali popolari, scelti sul posto, costituiscono la colonna sonora del film, e gli interpreti - presi per lo più dalla strada, in base alle loro caratteristiche fisiche o vocali - parlano con semplicità inimitabile la lingua di tutti i giorni: di qui deriva la variopinta mescolanza di slanglondinese e di accenti dialettali gallesi o scozzesi, che aggiunge una nota di verità essenziale per descrivere questo piccolo mondo di artigiani e di mercanti, di ladri, prostitute e mendicanti. Visionaria apoteosi innestata come conclusione al racconto di "Semoneur" I racconti di Canterburyterminano con l'evocazione forte e colorata di un inferno popolato da diavoli cornuti e alati, provenienti in linea diretta dalle composizioni di Hieronymus Bosch, in cui lo stesso Satana espelle per vie naturali una moltitudine di monaci venali, dannati destinati alle fiamme!

Oltre ad alcuni volti noti del cinema britannico, come Jenny Runacre, Hugh Griffith e Michael Vernon o Dobtcheff Balfour, si segnala la presenza significativa di Josephine Chaplin, oltre alla interpretazione molto gustosa di Laura Betti nel ruolo brillante della "Donna di Bath" e del giornalista John Francis Lane (corrispondente ufficiale del Times a Roma ) nel ruolo di "fratello mendicante!" I soliti Ninetto Davoli e Franco Citti, uguali a se stessi, garantiscono da parte loro - va ricordato - il collegamento stilistico delle diverse parti di questa animata trilogia.
FR
L'auteur
Historien d'art et archéologue diplômé de l'Université Libre de Bruxelles, Fabien S. Gerard est né en 1956. On lui doit quelques traductions de textes poétiques et littéraires, de même qu'une série d'articles traitant aussi bien des arts graphiques que du cinema. Il poursuit en outre - par tradition familiale - des activités de peintre et de dessinateur.
Connaissant son vif intérêt pour tout ce qui touche a l'héritage pasolinien, Maria-Antonietta Macciocchi fit appel a son aide, en mai 1979, pour présenter une exposition d'ensemble destinée à animer le séminaire «Pasolini» organisé dans les locaux de l'Université de Paris VIII.
La présente étude, Le Mythe de la Barbarie, constitue le prélude à un travail de recherche de plus longue haleine, portant sur certaines perspectives spécifiques à l'art cinématographique en Italie.
Fabien S. Gerard a été proclamé laureat de la Fondation Belge de la Vocation - promotion 1980 Emile Langui.
FR
Le sujet
Cet essai s'attache à cerner l'image tout à fait originale de la «barbarie» telle qu'elle apparaît dans l'oeuvre du poète-cinéaste italien P.P. Pasolini. En parcourant les réalisations majeures de l'artiste, nous suivons le cheminement profondément cohérent d'une pensée en perpétuel devenir, marquée dans la douleur par l'emprise irrésistible de la civilisation consumériste occidentale sur l'univers archaïque paysan - ultime bastion de la sacralité, dépositaire privilégié des forces du passé, et unique porteur des germes d'un avenir aux dimensions de l'homme. Primordiale quant à l'intelligence de sa démarche éthique, celle position «corsaire» de Pasolini aboutit ainsi au subtil paradoxe d'un progressisme conservateur, proclamant sans relâche qu'il est aujourd'hui indispensable de savoir encore «regarder en arrière», si l'on veut réellement «aller de l'avant».
L'ouvrage, qui est présenté par l'écrivain Pierre Mertens, contient par ailleurs une traduction originale de trois des tout derniers textes dûs à la plume de Pasolini, ainsi que la bibliographie la plus complète à ce jour, parue en langue française.
FR
AVANT-PROPOS
 Pour bon nombre de gens, Pier Paolo Pasolini n'est avant toute chose qu'un nom, un nom lié à la mort, et pour être plus précis, a une mort scandaleuse, tragique, exemplaire; un fait-divers aussitôt stratifié par les commentaires équivoques - et souvent tendancieux - de l'ensemble des mass media.

On pourrait dire, en quelque sorte, que sa disparition a irrémédiablement pris le pas sur sa vie, l'effaçant, ou pire: la «contaminant» du même coup.

L'intérèt passionné que nous accordions depuis plusieurs années à son travail, ayant du reste entrepris la traduction - combien révélatrice - de l'un de ses ouvrages l'été qui précéda son assassinat, nous a incité dès ce moment à approfondir chaque jour davantage la connaissance de l'homme et de sa pensée, afin d'être à même d'en porter témoignage.

Une conscience «inquiète et obstinée» 1 qui le place au coeur même du débat culturel italien de l'après-guerre, fait de son discours un point de référence fondamental pour quiconque ressent les contradictions sous-jacentes de notre société et cherche à en déceler les multiples aliénations. Et si la notoriété du poète, ou plus encore du cinéaste, à quelque peu occulte, en dehors de son pays, le rayonnement de ses autres activités, n'oublions pas que la vocation protéiforme de Pasolini lui a permis d'intervenir pratiquement a tous les niveaux, et que rares sont les sujets qui n'ont été abordés par celui qui fut tout autant - et à part entière - romancier, essayiste, dramaturge, chroniqueur, polémiste, et même peintre comme l'atteste la recente exposition de ses toiles 2.

Face a un tel pouvoir d'expression, nombreux sont les pôles thématiques qui s'offrent à l'analyse; parmi ceux-ci, le recours permanent à une symbolique privée n'apas manqué de longtemps nous fasciner, mais l'ampleur de l'argument et les diverses connotations techniques et linguistiques qu'il implique, nous auraient sans doute par trop écarté du cadre «initiateur» dans lequel nous tenions à inserire cet ouvrage. Aussi notre choix s'est-il porté, en définitive, sur un aspect plus spécifique de la personnalité pasolinienne, et, nous semble-t-il, primordial quant à l'intelligence de son oeuvre: le mythe de la barbarie.

«Le mot barbarie, je l'avoue, est le mot que j'aime le plus au monde» 3. Par son évidence même, cette profession de foi exprimée voici quelques années par Pier Paolo Pasolini, continue à semer le trouble parmi ses proches, ses amis, ceux qui sont ses lecteurs attentifs, à tel point qu'elle ne peut aboutir qu'à un refus de leur part de lui voler l'exclusivité de ce terme choisi et récurrent, précieux entre tous, si ce n'est lorsqu'il s'agit - comme nous nous le proposons - de faire référence de façon explicite à sa démarche.

Précision indispensable - sinon capitale -, encore faut-il s'entendre dès le départ sur le sens qu'il convient de donner ici à cette expression ambigue s'il en est! A l'opposé d'une «barbarie de l'horreur» - fut-elle à visage humain - telle que la conçoivent notamment Bernard-Henri Lévy et les Nouveaux Philosophes, définition qui selon son acception usuelle rappelle aussitôt les génocides les plus atroces de l'Histoire, en revanche, le «merveilleux barbare» 4 que nous propose Pasolini, évocation magique et sauvage liée aux racines de l'aventure humaine, assume un ensemble de valeurs relevant du sacre, essentiellement positives.

Dans cet esprit, trois de ses films comme Accattone, L'Evangile selon Matthieu ou OEdipe Roi, se révèlent les jalons significatifs d'un itinéraire idéologique où s'impose la constante d'un attachement existentiel au sous-prolétariat urbain, à l'antiquité classique et au Tiers Monde, en tant qu'incarnations d'une «authenticité» rurale archaïque, dépositaire des forces du passé.

Par-delà les dégradations et distorsions sémantiques qu'a connues le mot «barbarie» au fil du temps, Pasolini adopte donc d'emblée une signification plus proche de l’étymologie première, et tend à renouer le contact avec ces populations venues d'ailleurs que, jadis, les Grecs appelaient précisément «barbaroi». Dès lors, les Barbares qui nous occupent aujourd'hui, davantage menacés que menaçants, composeraient l'ensemble des marginalités sociales condamnées à plus ou moins brève échéance par le développement irrésistible de la civilisation technologique occidentale: autant de peuples «périphériques» dont la langue et la culture nous deviennent chaque jour plus étrangères, plus obscures, plus incompréhensibles.

Prenant appui sur la production cinématographique de l'auteur - ceci en raison de son impact figuratif manifeste et des nombreux renvois qui y sont faits à l'art et à l'archéologie -, nous nous proposons de recomposer tout d'abord le cheminement pri­vilègié qu'a suivi Pasolini dans l'optique d'une quête absolue de la Barbarie, de dégager ensuite les différents visages que celle-ci a pu revêtir a la lumière de son inspiration, et enfin d'introduire une réflexion autour des ouvertures que ce concept original ne manquera pas de susciter. Après avoir tenté de cerner la personnalité complexe de l’artiste dans une approche biographique, nous axerons l'analyse de ses principales réalisations selon une ordonnance qui en bouleverse quelque peu la chronologie, mais qui peut-être a l'avantage de mieux mettre en évidence, par une confrontation critique passé/présent, la progression passionnante d'une interrogation en perpétuelle effervescence face à la marche substantiellement tyrannique de l'Histoire.

Il nous est apparu nécessaire, toutefois, de ne pas tenir à l'écart son activité littéraire, dans la mesure où l'écriture s'y révèle un élement que l'on ne peut dissocier de l'image, et où les diverses disciplines que le cinéaste a maîtrisées se rejoignent et s'éclairent tour à tour. Compte tenu de l'indéniable ascendant de la poésie sur son oeuvre tout entière, et de l'acuité signifiante qu'il accordait a chaque mot, nous avons en outre pris la décision de placer en guise d'exergue aux différentes parties de cette étude, quelques vers particulièrement éloquents, choisis au sein de son abondante production.

Faut-il préciser que c'est avant tout la parole éclairante et feconde de Pasolini qui nous a guidé tout au long de ce travail. Mais parmi l'immense «corpus» que l'auteur laisse derrière lui, il est quasi impossible de citer le livre ou le film qui, plus qu'un autre, constituerait une source particulière à nos recherches. Le détail des notes de références sera donc la principale indication en cette matière, en dehors de la filmographie et la bibliographie. Signalons encore que trois articles fondamentaux écrits par le cinéaste en 1975 - dont deux totalement inédits en français -, sont présentés en annexe à titre documentaire.

NOTES
(1) L'expression, très belle, est d'Andrée TOURNÈS (Pasolini, conscience inquiète et obstinée, in: Jeune Cinéma n° 27-28, Paris, janvier-février 1968, p. 25).
(2) A l'initiative du peintre frioulan Giuseppe Zigaina, ami de jeunesse de PPP (= Pier Paolo Pasolini), un large choix de tableaux et de dessins du cinéaste a été presenté, pour la première fois, au Palazzo Braschi de Rome en mai-juin 1978. L'ouvrage en forme de catalogue édité a cette occasion, rassemble plusieurs textes signés G. ZIGAINA, G.C ARGAN, M. Di MICHELI ed A. ZANZOTTO: Pier Paolo Pasolini / I Disegni (1941-75), Scheiwiller.
(3) PPP à Jean DUFLOT, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini, Belfond, 1970, p. 92.
(4) Ibidem, p. 94.
FR
Je suis une force du Passé.
Dans la seule tradition est mon amour.
Je viens des ruines, des églises,
des pales d'autel, des hameaux
oubliés dans les Apennins et les Préalpes
où ont vécu mes frères.
Je vais errant sur la Tuscolana comme un fou,
Sur l’Appia comme un chien sans maître.
Ou je regarde les crépuscules, les matins
sur Rome, sur la Ciociaria, sur le monde,
comme si c'étaient là les premiers actes de l'Après-Histoire,
auxquels j'assiste par privilège d'état-civil,
du bord extrême d'un âge
enseveli. Monstrueux celui qui est
né des entrailles d'une femme morte.
Et moi, foetus adulte, je vais
plus moderne que tous les modernes
à la recherche de frères qui ne sont plus.

P. P. Pasolini
Poésies Mondaines (1962)
© 1963 Aldo Garzanti Editore S. p. A.

IT

L'autore 
Storico dell’arte e archeologo diplomato all'università Libera di Bruxelles, Fabien S. Gerard è nato nel 1956. Si devono a lui alcune traduzioni di testi poetici e letterari, e una serie di articoli che trattano altrettanto bene le arti grafiche e il cinema. Si occupa inoltre - per tradizione familiare - delle attività di pittore e di disegnatore. 
Conoscendo il suo vivo interesse per tutto ciò che riguarda l'eredità pasoliniana, Maria-Antonietta Macciocchi (*) fece appello al suo aiuto, nel maggio 1979, per presentare un'esposizione d’insieme destinata ad animare il seminario "Pasolini" organizzato nei locali dell'università di Parigi VIII. 
Il presente studio, Le mythe de la barbarie, costituisce il preludio a un lavoro di ricerca di più ampio respiro riguardante alcune prospettive specifiche dell'arte cinematografica in Italia. 
Fabien S. Gerard è stato proclamato laureato dalla Fondazione belga della Vocazione - promozione 1980 Emilio Langui. 

(*) Nota redazionale. Una intervista a Maria Antonietta Macciocchi nell’ambito del seminario internazionale di Parigi del maggio 1979 è nell’archivio di Radio Radicale: 
http://www.radioradicale.it/scheda/591?format=32[a.m.]

IT
Il soggetto
Questo saggio si propone di circoscrivere l'immagine del tutto originale della "barbarie" come appare nell'opera del poeta-regista italiano P.P Pasolini. Percorrendo le realizzazioni più importanti dell'artista, si segue l'avanzamento profondamente coerente di un pensiero in continuo divenire, contrassegnato dal dolore per l'ascesa irresistibile della civiltà consumistica occidentale a danno dell'universo arcaico contadino - estremo bastione della sacralità, depositario privilegiato delle forze del passato ed unico portatore dei germi di un avvenire a dimensione d'uomo. Primordiale quanto alla comprensione del suo passo etico, questa posizione "corsara" di Pasolini finisce così per condurlo al sottile paradosso di un progressismo conservatore, che proclama senza tregua che oggi è indispensabile sapere ancora “guardare indietro ", se si vuole realmente “andare avanti ". 
Il lavoro che è presentato dallo scrittore Pierre Mertens, contiene inoltre una traduzione originale di tre tra gli ultimi ultimi testi dovuti alla penna di Pasolini, così come una bibliografia - attualmente [1981, ndr] la più completa apparsa in lingua francese. 
 

IT
PREFAZIONE 

Per un buon numero di persone, Pier Paolo Pasolini non è prima di ogni cosa che un nome, un nome legato alla morte, e per essere più precisi, a una morte scandalosa, tragica, esemplare; un fatto diverso stratificato sùbito da commenti equivoci - e spesso tendenziosi - dell'insieme dei mass media. 

Si potrebbe dire, in qualche modo, che la sua scomparsa abbia preso irrimediabilmente il sopravvento sulla sua vita, cancellandola, o peggio: "contaminandola" al tempo stesso. 

L'interesse appassionato che accordavamo da parecchi anni al suo lavoro, avendo del resto intrapreso la traduzione - quanto mai rivelatrice - di uno dei suoi lavori l'estate precedente il suo assassinio, ci ha incitato da questo momento ad approfondire ogni giorno di più la conoscenza dell'uomo e del suo pensiero, per essere in grado di darne testimonianza. 

Una coscienza «inquieta e ostinata» [1] che lo pone al cuore stesso del dibattito culturale italiano del dopoguerra, fa del suo discorso un punto di riferimento fondamentale per chiunque percepisca le contraddizioni sottostanti alla nostra società e cerchi di scoprirne le molteplici alienazioni. E se la notorietà del poeta, o più ancora del cineasta, un po' occultata fuori dal suo paese, si irraggia dalle altre sue attività, non dimentichiamo che la vocazione proteiforme di Pasolini gli ha permesso di intervenire praticamente a tutti i livelli, e che sono rari gli argomenti che non sono stati abbordati da quello che è stato - e a pieno titolo - romanziere, saggista, drammaturgo, cronista, polemista, e anche pittore così come attestato dalla recente esposizione delle sue tele [2]. 


Di fronte a un tale potere espressivo, sono numerosi i poli tematici che si offrono all'analisi; tra questi, il ricorso permanente a un simbolico privato non manca di affascinarci da lungo tempo, ma l'ampiezza dell'argomento e le diverse connotazioni tecniche e linguistiche che implica ci avrebbero scostati probabilmente anche troppo dalla cornice "iniziatrice" in cui tenevamo a inserire questo lavoro. Perciò la nostra scelta si è rivolta, alla fine, a un aspetto più specifico della personalità pasoliniana, e, ci sembra, primordiale quanto alla comprensione della sua opera: 
 il mito della barbarie

«La parola barbarie, lo confesso, è la parola che amo di più al mondo» [3]. Per la sua evidenza stessa, questa professione di fede espressa per alcuni anni da Pier Paolo Pasolini, continua a seminare l'agitazione tra coloro che gli sono vicini, i suoi amici, i suoi lettori attenti, a un punto tale che può sfociare soltanto in un rifiuto da parte loro di rubargli l'esclusiva di questo termine scelto e ricorrente, prezioso tra tutti, se questo non è quando si tratta - come noi proponiamo - di fare riferimento in modo esplicito alla sua sollecitazione. 


Precisione indispensabile - se non capitale -, ancora bisogna intendersi fin dall’inizio sul senso che conviene dare a questa espressione ambigua, se lo è! Al contrario di una "barbarie dell'orrore" - fosse a viso umano - come la concepiscono particolarmente Bernard-Henri Lévy ed i Nuovi Filosofi, definizione che ricorda subito i genocidi più atroci della storia secondo la sua accezione comune, in compenso, il "meraviglioso barbaro" [4] che ci propone Pasolini, evocazione magica e selvaggia legata alle radici dell'avventura umana, assume un insieme di valori rilevanti del sacro essenzialmente positive. 


In questo spirito, tre dei suoi film come Accattone, Il Vangelo secondo Matteo o Edipo re, si rivelano le tappe significative di un itinerario ideologico dove s’impone la costante di un legame esistenziale al sottoproletariato urbano, all'antichità classica e al Terzo Mondo, in quanto incarnazioni di una "autenticità" rurale arcaica, depositarie delle forze del passato. 


Attraverso le degradazioni e distorsioni semantiche che ha conosciuto la parola "barbarie" col passare del tempo, Pasolini adotta dunque di colpo un significato più vicino all’etimologia originaria, e tende a riannodare il contatto con queste popolazioni venute da altri luoghi che i greci chiamavano un tempo precisamente “barbaroi". Da allora, i barbari di cui ci occupiamo oggi, minacciati oltre che minacciosi, comporrebbero l'insieme delle marginalità sociali condannate a più o meno breve scadenza per lo sviluppo irresistibile della civiltà tecnologica occidentale: altrettanto che i popoli "periferici" di cui la lingua e la cultura ci diventano ogni giorno più straniere, più oscure, più incomprensibili. 


Prendendo spunto dalla produzione cinematografica dell'autore - questo a causa del suo impatto figurativo manifesto e dei numerosi richiami che sono fatti all'arte figurativa ed all'archeologia -, ci proponiamo di ricomporre anzitutto il percorso privilegiato che ha seguito Pasolini nell'ottica assoluta della barbarie, di distinguere poi i differenti profili che questa ha potuto rivestire alla luce della sua ispirazione, e infine di introdurre una riflessione intorno alle aperture che questo concetto originale non mancherà di suscitare. Dopo avere tentato di contornare la personalità complessa dell'artista in un approccio biografico, impernieremo l'analisi delle sue principali realizzazioni secondo un ordinamento che ne sconvolge un po' la cronologia, ma che ha forse il vantaggio di mettere meglio in evidenza, per un confronto critico passato/presente, la progressione appassionante di un'interrogazione in continua effervescenza di fronte alla marcia sostanzialmente tirannica della storia. 


Ci è sembrato necessario, tuttavia, non mettere in disparte la sua attività letteraria, nella misura in cui la scrittura si rivela un elemento che non si può dissociare dall'immagine, e dove le diverse discipline di cui il cineasta ha la padronanza si congiungono e si illuminano una dopo l'altra. Tenuto conto dell'innegabile ascendente della poesia sulla sua intera opera, e dell'acutezza significativa che accordava a ogni parola, abbiamo preso inoltre la decisione di porre a guisa di esergo alle differenti parti di questo studio, alcuni versi particolarmente eloquenti, scelti in seno alla sua abbondante produzione. 


Bisogna precisare che è prima di tutto la parola illuminante e feconda di Pasolini che ci ha guidato lungo tutto questo lavoro. Ma tra l'immenso "corpus" che l'autore lascia dietro di sé è quasi impossibile citare il libro o il film che, più di ogni altro, costituirebbe una sorgente particolare per le nostre ricerche. Il dettaglio delle note di riferimento sarà la principale indicazione in questa materia, a prescindere dalla filmografia e dalla bibliografia, dunque. Segnaliamo ancora che tre articoli fondamentali scritti dal cineasta nel 1975 - di cui due totalmente inediti in francese -, sono qui presentati a titolo di documentazione. 

NOTE 

(1) L'espressione, molto bella, è di Andrée TOURNÈS (Pasolini, coscienza inquieta e ostinata, in: Giovane Cinema n° 27-28, Parigi, gennaio-febbraio 1968, p. 25). 
(2) Per iniziativa del pittore friulano Giuseppe Zigaina, amico di gioventù di PPP (= Pier Paolo Pasolini), un’ampia scelta di quadri e di disegni del regista è stata presentata, per la prima volta, a Palazzo Braschi di Roma nel maggio-giugno 1978. L’opera in forma di catalogo pubblicato per questa occasione riunisce parecchi testi firmati G. ZIGAINA, G.C ARGAN, M. Di MICHELI ed A. ZANZOTTO: Pier Paolo Pasolini / I Disegni (1941-75), Scheiwiller. 
(3) PPP a Jean DUFLOT, Il sogno del centauro (1970-1975). Incontri con Jean Duflot, Belfond, 1970, p. 92. 
(4) Ibidem, p. 94. 


IT
Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle chiese, 
dalle pale d’altare, dai borghi, 
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi
dove sono vissuti i fratelli. 
Giro per la Tuscolana come un pazzo, 
per l'Appia come un cane senza padrone. 
O guardo i crepuscoli, le mattine, 
su Roma, sul Ciociaria, sul mondo, 
come i primi atti della Dopostoria, 
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, 
dall’orlo estremo di qualche età 
sepolta. Mostruoso è chi è nato 
dalle viscere di una donna morta. 
Ed io, feto adulto, mi aggiro 
più moderno di ogni moderno 
a cercare fratelli che non sono più. 

P. P. Pasolini 
Poesia in forma di rosa, 1. La realtà, Poesie Mondane (1962) 
© 1963 Aldo Garzanti Editore S. p. A. 
  

[I contenuti della citazione poetica - In questi potenti versi si narra la tragedia di un sopravvissuto. I fratelli vissuti nei borghi, all’ombra delle chiese, sono i contadini. Il poeta ora si sente un cane senza padrone, un reietto, uno straniero. E guarda sul mondo, sui suoi primi atti della Dopostoria, in quanto il neocapitalismo ha affondato la storia. Egli è 
l’ultimo baluardo sull’orlo di qualche età sepolta che sta per essere definitivamente archiviata. È un sopravvissuto che cerca invano i fratelli, ormai tutti morti. Mostruoso è il neocapitalismo, nato da una storia morta, senza radici, che incomincia da zero. Eppure il poeta è più moderno di ogni moderno: il suo privilegio d’anagrafe lo pone nella condizione di esser vissuto nella vecchia era dell’umanità e di aver subìto lo smacco della sua rovina. Pasolini rivendica con orgoglio la comprensione profonda e drammatica del tempo presente, pur essendo egli un sopravvissuto di un’altra epoca, oppure proprio per questo: solo chi è testimone dell’alterità può comprendere, mentre è dubbio che coloro che si sono buttati trionfalmente e ottimisticamente nel nuovo mondo ed hanno dimenticato o non vissuto per nulla l’altro mondo, posseggano un barlume delle differenze abissali tra i due. (a.m.)]

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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"Il Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini negli scatti di Domenico Notarangelo

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - CINEMA
Il Vangelo secondo Matteo
di Pier Paolo Pasolini
negli scatti di Domenico Notarangelo

Pier Paolo Pasolini, dopo alcuni sopralluoghi in Palestina, scelse nel 1964 principalmente Matera e i suoi Sassi per il suo “sole ferocemente antico”, quale luogo ideale per realizzare il  "Vangelo secondo Matteo". Le foto di Domenico Notarangelo - di cui le pagine pasoliniane hanno spesso scritto nel corso degli anni - così intense e partecipate riportano alla memoria quelle scene senza colore che diffusero in tutto il mondo lo sguardo su una città caratterizzata da un bianco abbagliante e, allo stesso tempo, conservarono dietro un ciak l’integrità dei Sassi e la memoria della loro cultura materiale nel tempo. 
Notarangelo conobbe Pasolini, con lui instaurò un vero e proprio rapporto di amicizia come con molti dei protagonisti dell’Italia degli anni ’60, fotografandone uno spaccato e divenendone lui stesso attivo protagonista. Corrispondente dell’Unità durante gli anni della nascita della questione meridionale, dirigente politico e amministratore locale è stato punto di riferimento del Pci in Lucania e nel Mezzogiorno. 
Mimì, come lo chiamano comunemente i suoi amici, appassionato di fotografia anche se non professionista, ha raccolto e documentato testimonianze di costume e di tradizioni popolari e religiose in Puglia e Basilicata. Guardando le sue foto emerge proprio questa sua propensione a narrare per immagini.
Gli scatti, realizzati durante la lavorazione del film pasoliniano riescono infatti a cogliere l’umanità vissuta in quel set evidenziando le inquietudini di un regista che si divide tra l’essere vicino ai suoi attori, alla madre Susanna, allo studente ribelle Irazoqui che impersona il Cristo e la ricerca tutta interiore che lo porta spesso a isolarsi dal contesto; è forse in quei momenti che Pasolini medita circa la possibilità, attraverso la sua opera, di restituire a un mondo contadino relegato ai margini una dignità letteraria.
Le foto narrano di passeggiate in compagnia degli interpreti, tra i ruderi di una città che in quegli anni si stava svuotando della sua popolazione contadina, di dialoghi muti, di paesaggi bruciati e scene girate sotto un sole cocente. Ricordi radicati in Notarangelo che, nel "Vangelo secondo Matteo", vestiva i panni di un giovanissimo centurione.

Matera, i Sassi e il Vangelo Galleria fotografica

Ringrazio Enrique Irazoqui, indimenticato interprete del "Vangelo" per avermi inoltrato quelle immagini. Suo tramite, ringrazio inoltre Mimì Notarangelo. Le splendide foto vengono qui pubblicate perché  tutti i visitatori di "Pagine corsare" - le pagine web dedicate da quasi un ventennio a Pier Paolo Pasolini e alle sue opere - possano fruire e condividere lo stupore e la bellezza di tali preziosi scatti. 

VEDI ANCHE IL FILMATO DI TRM24 DI MATERA:
"INAUGURATO A MATERA IL MUSEO FOTOGRAFICO CINEMA NEI SASSI"

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Ravenna. Teatro, poesia e diversità: Maurizio Lupinelli ha portato in scena "Che cosa sono le nuvole?"

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LE NOTIZIE - TEATRO
Ravenna. Teatro, poesia e diversità:
Maurizio Lupinelli ha portato in scena
‘Che cosa sono le nuvole?’
27 giugno 2013

RAVENNA. Solo Pier Paolo Pasolini poteva ‘rivisitare’ il dramma di Otello, facendone modificare il finale dal pubblico. Il cortometraggio ‘Che cosa sono le nuvole?’ girato dal grande regista nel 1967 per il film collettivo ‘Capriccio all’italiana’. È una riflessione amara sul significato dell’esistenza e sul rapporto fra essere e apparire, in realtà anche sulla vita e la morte. Maurizio Lupinelli ha recuperato quel testo e quelle considerazioni per proseguire la propria ricerca sulla ‘diversità’; porta così a Ravenna Festival lo spettacolo ‘Che cosa sono le nuvole’, prodotto da Nerval Teatro, Armunia Festival, inequilibrio, Regione Toscana.

E' andato in scena giovedì 27 giugno, alle 19, ai Giardini Pubblici.

Lo spettacolo è il risultato del lavoro che la compagnia ‘Nerval Teatro’, fondata nel 2007 da Maurizio Lupinelli e Elisa Pol, sta portando avanti in un laboratorio permanente dedicato ai linguaggi del teatro con persone diversamente abili del territorio della Bassa Val di Cecina. Alla base di questa esperienza c’è prima di tutto la consapevolezza del valore artistico del lavoro con queste persone speciali. Da tempo Maurizio Lupinelli, attore e regista, intreccia il proprio percorso con la diversità in rapporto alle persone e ai luoghi: dagli ex pazienti psichiatrici ai membri delle comunità rom di Scampia, fino ai ragazzi diversamente abili di Castiglioncello.

Il confronto con i molteplici aspetti del disagio ha il duplice obiettivo di dar vita a una piccola comunità aperta al mondo circostante e insieme di realizzare un percorso, artistico prima che sociale, sotto il segno dell’autenticità e della verità. In ‘Che cosa sono le nuvole’, dunque, Lupinelli, usando anche evidenti rimandi poetici dell’altro capolavoro pasoliniano, ‘La ricotta’, mette in scena un gruppo di attori diversamente abili che, a modo loro, rappresentano l’Otello di Shakespeare e un’improbabile crocefissione attraverso un teatrino popolare, animato da figure che affrontano la vita con un gusto del gioco che non si incrina neanche davanti agli aspetti più tragici dell’esistenza. In perfetta sintonia con le intenzioni originarie del poeta friulano. E così la persistenza di “un sogno dentro un sogno” è perfettamente visibile negli occhi e nella gioia degli attori protagonisti.

In scena tredici ragazzi diversamente abili del consorzio nuovo Futuro di Rosignano Marittimo: Simone Bernardoni, Ilaria Giari, Marco Lambardi, Gianluca Mannari, Federica Rinaldi, Valentina Scarpellini, Diana Spadoni, Cesare Tedesco, Elena Tomaino, Vincenzo Viola, Paolo Faccenda, Lucy Statelli, Roberto Capaldi. Con loro gli educatori Elena Pantani, Silvia Proserpio, Franca Giglio, Giacomo Carpitelli.
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Marco Tullio Giordana: "Non ci sarà un'altra 'meglio gioventù"

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LA SAGGISTICA - CINEMA


Marco Tullio Giordana:
"Non ci sarà un'altra 'meglio gioventù"
Il regista milanese parla dei suoi inizi, del suo lavoro ma soprattutto della lunga e accurata fase di documentazione che precede ogni ciak. La crisi del cinema? "Riguarda più le sue modalità di fruizione, la gente ma i film ma non vuole vederli nelle sale"
26 giugno 2013 - www.mymovies.it


Da 'Pasolini un delitto italiano' a 'I cento passi', 'La meglio gioventù', 'Quando sei nato non puoi nasconderti', 'Sangue pazzo', fino a 'Romanzo di una strage' che ricostruisce dell'attentato di Piazza Fontana: è sulla storia e l'inchiesta che il regista milanese Marco Tullio Giordana a puntato nelle sue ultime pellicole cinematografiche. Un lavoro certosino di documentazione a monte che effettua sempre con il suo team di il regista cerca di sceneggiatori, una sorta di scomposizione dei problemi che il regista cerca di affrontare "di affrontarli uno per volta, portando in luce tutti i punti di vista e le ragioni di ciascuno, anche le più perverse". E è stata, forse, questa sua capacità, unita ad un'esperienza di ormai oltre trent'anni, a fargli ottenere la medaglia del Senato della Repubblica alla Mostra del cinema di Venezia e il David di Donatello. Per cercare di approfondire un po' la conoscenza di uno dei maestri del cinema, lo abbiamo raggiunto e parlato a lungo con lui:

Come si è avvicinato al cinema?
"Da ragazzo volevo dipingere, il mio primo amore è stata la pittura. Poi, dopo aver visto a Parigi una mostra sconvolgente di Francis Bacon, abbandonai l'idea. Fu allora che cominciò il tarlo del cinema: mi piacevano quello americano, inglese, i film della nouvelle vague, un po' tutto. Ero uno spettatore onnivoro".

E a quale autore si è ispirato di più?
"Tantissimi, impossibile citarli tutti. Forse quello che mi ha più segnato è stato però Ingmar Bergman. Avevo visto da ragazzino i suoi film in televisione, mi avevano sempre turbato. Un altro autore per me molto importante è stato Rainer Werner Fassbinder. Oggi non lo ricorda più nessuno".

Nei suoi film svela la verità.
"Non mi sento migliore dei miei personaggi, non ho nessun atteggiamento di superiorità. Non voglio approfittare del vantaggio di sapere in anticipo come va a finire una storia, cerco di scoprirlo man mano che si svolge. Proclamare verità indiscutibili mi sembra un atto di violenza. Se devo mandare un messaggio - diceva Hitchcock - vado alla posta. I 'messaggi' poi si dimenticano subito, non creano alcuno stimolo a documentarsi, ad andare avanti da soli".

Quali strumenti ha usato per la ricostruzione storica dei suoi film-inchiesta?
"Sono il frutto di una ricerca molto accurata che, insieme con i miei sceneggiatori, effettuo per ogni film. In particolare se il tema è scabroso o controverso, se le questioni sono ancora aperte, come nei casi di Pasolini, Impastato o Piazza Fontana. Cerco di scomporre i problemi, di affrontarli uno per volta, portando in luce tutti i punti di vista e le ragioni di ciascuno, anche le più perverse. Un po' come ha sempre fatto Francesco Rosi, che considero il maestro di questo genere".

Ha mai pensato di continuare la storia de 'La meglio gioventù'?
"Ma no. Quel film fu un'avventura straordinaria, con un incredibile esito commerciale in tutto il mondo, una fortuna critica, una gioia degli spettatori, che è impossibile replicare. Un cineasta deve essere felice di aver vissuto un'esperienza del genere e tenerla calda nel suo cuore, ricordando con riconoscenza tutti i suoi collaboratori. La forza del film fu proprio non aver seguito alcuna ricetta, la sua totale sincerità. Già l'idea della replica contiene invece qualcosa di artefatto, di furbo. Lo spettatore non lo perdonerebbe. Certo sarebbe interessante raccontare che cos'è oggi 'la meglio gioventù', dove si nasconde, cosa fa, come vive. Ma credo che questo film lo farebbe meglio un regista coetaneo ai suoi personaggi".

E di raccontare la storia di uno scienziato?
"È un mondo che mi affascina da sempre. Da ragazzo divoravo le biografie dei ricercatori, dal fisico statunitense Julius Robert Oppenheimer, con la sua crisi di coscienza per essere stato fra i realizzatori della prima bomba atomica, a Marie Curie. E i nostri Fermi, Caffè, Pontecorvo, Majorana. Sì, sarebbe bello, ma immagino anche la faccia che farebbero i produttori".

A quale dei suoi film è più legato?
"A quello che verrà, al prossimo. Sto lavorando a un progetto che mi appassiona molto e che per la solita scaramanzia non vorrei dire finché non è sicuro".

Come vede il cinema oggi?
"Senza confini nazionali. Certo la cultura specifica di ogni Paese ha un peso nei film, ma non credo sia l'elemento prevalente. Penso che l'immagine e il suono siano in grado di rompere le barriere linguistiche. A differenza della letteratura, nel cinema la lingua non è l’elemento fondamentale della comprensione".

Un'idea per riportare il pubblico al cinema?
"Credo che la crisi, più che il cinema, riguardi le sue modalità di fruizione. Il pubblico ama molto i film ma purtroppo non vuole vederli nelle sale. Oggi ci sono un'infinità di modalità di fruizione: dall'iPad al telefonino, alla televisione, al computer. Noi cineasti non possiamo fare altro che adattarci a questi nuovi strumenti, cercare di comprenderne il più possibile i vantaggi. È una rivoluzione più violenta dell'avvento del sonoro. Di una cosa però sono convinto: i film possono essere visti ovunque ma se non ci si preoccupa di tutelarne la proprietà intellettuale, prima o poi finiranno. Se mai dovesse succedere sarà per l'avidità di qualcuno, non certo perché la gente non vuole più vederli".

(*) Intervista publicata sull'Almanacco della Scienza del Cnr
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Mistero sulla morte di Pasolini? Santato non crede al complotto, 26 giugno 2013

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LA SAGGISTICA - VITA
Mistero sulla morte di Pasolini?
Guido Santato non crede al complotto
Il più autorevole studioso del poeta a Gorizia
con un saggio sul poeta corsaro
«E’ il primo grande artista multimediale»
di Luciano Santin


Un’analisi testuale meticolosa e articolata, sullo sfondo di sterminati studi internazionali; questo è il volume Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, di Guido Santato, edita da Carocci, che è stata presentata alla Leg di Gorizia da Angela Felice e Giampaolo Borghello, presente l’autore. Ordinario di letteratura italiana a Padova, Santato è considerato il massimo studioso di Pasolini, dalla laurea su di lui nel 1970 a Pier Paolo Pasolini. L´opera, Premio Viareggio 1981, alla fondazione e alla direzione della rivista "Studi pasoliniani", fino a quest’ultimo, monumentale lavoro di quasi 600 pagine.

Professor Santato, che differenze ci sono tra questo libro e quello di trent’anni fa?
Questa è una monografia concepita interamente ex novo. Rispetto agli anni ’80 tutto è cambiato negli studi su Pasolini: si sono moltiplicate le edizioni (basti pensare all’edizione in dieci tomi dei Meridiani), sono usciti testi inediti (per citarne uno solo, Petrolio) e l’interesse per Pasolini è esploso in tutto il mondo. Oggi Pasolini è l’autore italiano del ’900 più tradotto e discusso nel mondo.

Lo definisce “il primo grande artista multimediale”.
La definizione è stata proposta dal grande linguista Tullio De Mauro ed esprime bene lo straordinario eclettismo dell’opera di Pasolini, che spazia dalla poesia alla narrativa, alla saggistica, al cinema, al teatro, alla traduzione dei classici, al giornalismo, alla pittura, con una dichiarata tendenza alla contaminazione dei generi.

Quanto si può inquadrare e definire Pasolini, vista l’irrisolta compresenza di tesi e antitesi?
Della sua dialettica negativa – per mutuare una categoria di Adorno – aveva parlato già Fortini. La visione del mondo di Pasolini è fondata su contraddizioni inconciliabili: tra mito e realtà, tra passato e presente, tra passione e ideologia...  Il suo giudizio sulla società contemporanea diviene conseguentemente sempre piú critico negli ultimi anni.

Un profeta, si dice.
È un cliché che non amo, se non altro per il logoramento del termine. Pasolini aveva antenne sensibilissime e una capacità di osservare i fenomeni da punti di vista diversi rispetto a quelli correnti che gli permettevano di comprendere le trasformazioni sociali in atto prima degli altri.

Tra i luoghi comuni che lei contesta, anche la chiave teleologica: la vita che prepara la morte.
È vero. Il tema della morte è presente sin dagli inizi della sua poesia e del suo pensiero, basti pensare a Il dì da la me muàrt o a certe lettere inviate già nel ’42-’43 agli amici bolognesi. Non si può considerare tutta la vita e l’opera di Pasolini dal punto di vista della sua morte, immaginandola magari come una morte da lui “programmata” o sostenendo ipotesi di “complotto politico” non ben documentate.

Si aspetta polemiche?
Ho sempre cercato di evitarle poiché non amo polemizzare con interpretazioni spesso non fondate sulla conoscenza dell’opera di Pasolini. Ancor piú della precedente questa nuova monografia si sviluppa attraverso una puntuale analisi dei testi e, per la produzione cinematografica, dei singoli film. Il confronto con i testi è il criterio metodologico seguito nella ricostruzione delle varie fasi e dei diversi settori di un’opera vastissima e complessa come quella di Pasolini: impostazione che ha comportato l’adozione di una pluralità di strumenti critici. Ripartire dai testi è sempre il modo migliore per far parlare l’autore, per riscoprire la vitalità della sua opera.

Le poesie in friulano: sperimentalismo giovanile, o qualcosa di più?
Probabilmente il suo momento lirico piú alto e piú felice. Pasolini fa un uso raffinatissimo del casarsese, utilizzando a esempio gli schemi metrici dei provenzali. La sua poesia friulana si colloca all’interno della grande poetica del simbolismo europeo. A mio avviso Lengàs dai frus di seraè la piú bella poesia in dialetto del ’900 italiano.

Un altro Pasolini, da che parte lo si potrebbe trovare?
È molto difficile. Pasolini è un unicum. Ci saranno certamente intellettuali, scrittori, poeti, registi bravissimi e dotati di grande libertà critica. Un altro autore come lui, però, è difficile che possa riapparire.

Il messaggio più attuale che ci lascia?
Pasolini ci ha lasciato molti messaggi. Già nei primi anni ’70, a esempio, parla della contraddizione tra sviluppo e progresso: tema che gli economisti hanno cominciato a riprendere alcuni anni fa e che è di cruciale attualità. Ma soprattutto vanno ricordate la grande testimonianza di irriducibile libertà intellettuale e la sua capacità di sviluppare una critica tanto lucida quanto serrata del conformismo e dell’omologazione che si sono imposti in modo crescente nella società dello sviluppo.
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Rossano Astremo, Pier Paolo Pasolini: nell’incavo dell’eclettismo stilistico

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LA SAGGISTICA - POESIA
Pier Paolo Pasolini:
nell’incavo dell’eclettismo stilistico
di Rossano Astremo

   
Pier Paolo Pasolini è un autore che, nella molteplicità di interessi (narrativa, poesia, saggistica, teatro e cinema), ha agito con continuità e pervicacia nell’assiduo impegno della ‘produzione’ di versi.
Il Pasolini poeta nasce a stretto contatto con il suo amore per il dialetto, come dimostrano le ‘Poesie a Casarsa’ (1942) e ‘La meglio gioventù’ (1954), dove una sorta di raffinatezza metrica, appartenente alla tradizione cortese, si unisce alla ricerca di una parlata originaria e vergine, priva di un’autentica tradizione letteraria.
L’Usignolo della Chiesa Cattolica’ è la prima raccolta in lingua, con l’abbandono quindi della pratica dialettale, mantenendo, però, delle poesie precedenti una marginalità lussureggiante e arcaica: << Non me lo dico, ma / è ben chiaro che presto / la mia vita finirà / se non è già finita. / Ed era sempre chiaro / che, per vivere, m’era / necessario non vivere / restare ingenuo, ignaro >>.
Poi è la volta di ‘Le ceneri di Gramsci’ (1957), i cui poemetti furono scritti dal 1951 al 1956, in cui diviene preponderante l’interesse pasoliniano per le tematiche civili, senza comunque rinunciare ad una ricerca metrica aulica, come dimostra la terzina dantesca-pascoliana: "Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/ con te o contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere // del mio paterno stato traditore / - nel pensiero, in un’ombra d’azione - / mi so ad esso attaccato nel colore // degli istinti, dell’estetica passione".
Nella raccolta ‘La religione del mio tempo’, composta tra il 1955 e il 1960, pubblicata nel 1961, in continuazione con quanto scritto in ‘Le ceneri di Gramsci’, c’è una continua oscillazione tra i due poli del lirismo civile da un lato e della polemica in versi dall’altro: "Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana, nel segno // di ogni privilegio, di ogni resa, / di ogni servitù; che il peccato / altro non è che reato di lesa// certezza quotidiana, odiato / per paura e aridità; che la chiesa / è lo spietato cuore dello Stato".
Di fronte alla terzina, a questa forma chiusa, dettata dal rispetto di una inesorabile metrica, si nota la volontà pasoliniana di osare, come dimostra la raccolta ‘Poesia in forma di rosa’ (1964), dove il motivo principale è la ricerca in versi del magma, l’accettazione del caos, la profezia di un’imminente preistoria civile: "E poi... chi può comprendere un uomo di quarant’anni, / che soffre fino a sentirsi slogare il cuore / dai precordi... solo perché vede un ragazzo.../ due ragazzi... intorno alla fontanella.../ che giocano, nel loro dopocena colpevole... / in fondo alla purezza della notte che copre / il loro quartiere, con la freschezza / che fu di popoli antichi".
L’evoluzione stilistica di Pasolini raggiunge esiti estremi nello spiazzante ‘Trasumanar e organizzar’ (1971), caratterizzato da una scrittura quasi ‘informale’, da un verso prosastico, che ricorda la tradizione americana che va da Whitman a Ginsberg, molto lontana dalla perfetta terzina di ‘Le ceneri di Gramsci’: "Ch’io abbia pianto come un vecchio, che, dopo aver tanto posseduto / il mondo, lo ritrova come una cosa che non gli spetta più, / ma, libero dagli obblighi di questo possesso, finalmente lo vede, per la sua bellezza, soltanto per la sua riapparsa bellezza".
Considerando l’intera produzione del Pasolini poeta ciò che emerge chiaramente è la presenza contemporanea di strutture stilistiche contrapposte, dalla componente manierista, frutto del tentativo di non abbandonare la ‘secolare tradizione metrica italiana’, alla componente autenticista, che ci consegna il Pasolini più originale, dove la necessità d’espressione lo spinge ad abbandonare la maniera, tornando all’ambizione di una scrittura vasta, totalizzante e inspiegabile come la vita.
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L'inferno di Pier Paolo Pasolini

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LA SAGGISTICA
 L'inferno di Pier Paolo Pasolini
di Francesca Santucci


Ingiuriato dalla furia omicida, con il volto tumefatto per i colpi ricevuti, l’orecchio sinistro strappato via, quello destro tagliato a metà, sul corpo i segni visibili dei pneumatici di quella’auto che barbaramente ci era ripassata sopra più volte: aveva 53 anni Pier Paolo Pasolini quando, come stabilì la magistratura con frettoloso e lacunoso processo, morì assassinato per mano di un "ragazzo di vita", Giuseppe Pelosi.
Aveva scritto: Attratto da una vita proletaria…è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta,  la sua natura, non la sua coscienza.
Affascinato dal vitalismo dei sottoproletari romani, dalla carica umana che, pur immersi nell’abbrutimento, i suburbi conservavano, da quella Roma marginale che aveva scoperto nella lunga frequentazione del popolo di periferia, Pasolini non mancò di denunciarne lo squallore, lasciandoci, in Ragazzi di vita, romanzo del ’55, e in Una vita violenta, del ’59, un fedele ritratto dell’epoca.
In chiave naturalistica, che spesso induce a pensare al realismo ottocentesco e a Verga, attraverso la vita di un gruppo di ragazzi dei suburbi, il loro vagabondaggio, gli atti di teppismo, la noia e le avventure minime, indagò sulla diversità sociale dei quartieri poveri di Roma, visti come luogo primordiale, quasi stato di natura, in qualche modo puro ed incontaminato come il mondo friulano contadino nel quale affondava le sue radici.
Contrariamente ad Una vita violenta, dove l’attenzione di Pasolini fu concentrata sul personaggio di Tommaso, eroe positivo che prendeva coscienza, qui  protagonista fu la varia eppure simile umanità dei borgatari.
Dormì alla chiarina, tenesse la cica, annasse a ripone a Caracalla, me prenne er mammatrone: così si esprimevano quei ragazzi di borgata, con una parlata a metà tra il dialetto e il gergo della malavita, e si chiamavano Riccetto, Rocco, Alvaro, Alduccio, in fondo interscambiabili fra loro, accomunati tutti dallo stesso destino dal quale si sarebbe salvato solo Riccetto, scegliendo d’integrarsi nella società dei consumi attraverso il lavoro.
L’amore di Pasolini per il mondo descritto non lo allontanò mai dalla lucida visione della tragedia insita nel destino dei borgatari che, pur aderendo ai nuovi valori della società, esplosi col boom economico degli anni ‘60, soggiogati dal fascino del denaro e dei beni di consumo, ne restavano esclusi e subalterni.
Quando Ragazzi di vita fu pubblicato Pasolini subì un processo per oscenità, troppo crudo era apparso l’argomento trattato, sottolineato anche, dal punto di vista linguistico, dalla coloritura dialettale; Moravia, invece, lo definì: il romanzo che con scandalo e forza di denuncia rivelò la realtà "diversa" del sottoproletariato romano.
Nonostante le contraddizioni che possono essere rilevate, vale la pena rileggerlo perché voce
fuori dal coro, nel panorama letterario di quegli anni, di un autore scomodo, che pagò di persona l’adesione a quel mondo di cui era stato appassionato interprete.
E vale la pena rileggere anche Una vita violenta che, insieme a Ragazzi di vita, compone il "dittico delle borgate romane", poiché l’autore pure vi descrive la drammatica vita di quegli anni del sottoproletariato romano di borgata, periferia della grande città, emarginata dalle ingiustizie sociali, un mondo dal quale era attratto per la spontanea ingenuità, per la purezza dei valori contrapposti a quelli borghesi, salvo poi ricredersi quando, subendo il fascino del consumismo, quei sottoproletari, descritti con tanta partecipazione, s’imborghesirono.
Come in Ragazzi di vita anche in Una vita violenta i protagonisti sono loro, i ragazzi di borgata, uno in particolare, Tommaso, seguito da Pasolini passo passo, con la descrizione della malattia, l’aggregazione agli sbandati, la militanza comunista, fino all’alluvione del Tevere e allo slancio generoso, incompreso dagli amici di un tempo che lo deridono con la frase: San Tommaso, er santo dell’alluvionati.
In questo romanzo,  anche storia di una presa di coscienza proletaria, che però avviene in modo quasi incosciente, il protagonista è, appunto Tommaso Puzzilli, un giovane di Pietralata, uno sbandato che frequenta ragazzi sbandati, ragazzi di vita appartenenti al suo stesso ambiente: la borgata romana.
Eppure Tommaso è diverso dagli altri, in lui si agitano dei fermenti che lasciano intravedere una diversa coscienza, un animo generoso e un desiderio di riscatto.
Nello squallore del suo ambiente caratteristiche comuni sono il vizio e l’abbrutimento, in un clima di prepotenza, dove la comunicazione avviene solo attraverso la violenza verbale della parlata romanesca, tanto usata dall’autore che, con l’adesione al dialetto, intendeva registrare dal vero la vita difficile di quei ragazzi ed esprimere la sua adesione viscerale al sottoproletariato romano visto come mondo "diverso" da quello borghese.
Ammalatosi di tubercolosi Tommaso guarisce, però il suo fisico resta segnato dalla malattia; da allora in poi la sua vita si svolgerà all’insegna di una violenza che può essere interpretata come esigenza di affermare la vita contro la precarietà dell'esistenza e contro la minaccia sempre incombente della fine, attraversando episodi da teppista ed anche aggregandosi a bande neofasciste. Infine prenderà coscienza e diventerà militante comunista, e quando la tempesta improvvisa allagherà le case di borgata, abitate dagli infelici come lui, nonostante la salute precaria non esiterà a partecipare alle azioni di soccorso, in uno slancio di generosità che lo redimeranno agli occhi del mondo e di se stesso.
L’indomani il destino di Tommaso sarà già segnato: tra i colpi di tosse e gli sputi di sangue realizzerà il rinnovato vigore del suo male e nella battuta Me sto a morì sarà già insita la consapevolezza dell’imminente fine.
Fino in fondo Tommaso conserverà la violenza verbale, concludendo anche in modo tragico la sua vita violenta : «Ma annatevene! - disse Tommaso - Invece che stamme a fa compagnia a me, annate a rompeve le corna de fora, che oggi è domenica! … Come diventò notte, si sentì peggio, sempre di più: gli prese un nuovo intaso di sangue, tossì, tossì, senza più rifiatare, e addio Tommaso».
Pasolini scoprì ed osservò con sentita partecipazione il mondo del sottoproletariato di borgata, cercando sempre di metterne in luce il valore umano ed il contributo all’evoluzione di tutta la comunità, ai margini della quale la pongono solo le circostanze e le ingiustizie sociali.
Era il 2 novembre del 1975 quando, tra baracche e rifiuti, all’idroscalo di Ostia venne ritrovato il corpo senza vita di Pasolini, contro il quale l’aggressore si era scagliato con inaudita violenza, assassinato in circostanze oscure, ancora oggi non chiarite, ma sicuramente legate al mondo di cui tanto aveva parlato e scritto con dolente e appassionata partecipazione, quello dei ragazzi di vita.
Artista versatile, poeta, sperimentatore di letteratura, di cinema, perennemente circondato da un alone negativo, in vita perseguitato da censori e magistrati (ogni anno quattro volte in tribunale per oltraggi al comune senso del pudore e reati a sfondo sessuale dai quali puntualmente assolto, per un totale di 33 processi) scomodo, critico anche verso quella sinistra alla quale apparteneva come quando, nel ’68, rischiando l’impopolarità, in piena difesa del punta di vista del sottoproletariato, si pose contro gli studenti figli di papà borghesi e piccoli borghesi, a favore dei poliziotti di origine proletaria, ma anche più cristiano dei cristiani schierato com’era in totale adesione dei più umili,  più volte dichiarò di voler restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirli.
Resta incomprensibile come abbiano potuto colpirlo proprio coloro dei quali si era, con tanta partecipazione, eletto interprete e come la magistratura ancora non abbia sciolto l’enigma della sua morte.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.

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Un contatore di accessi era stato inserito il 13 gennaio 2013 e da quella data
venivano visualizzate le visite a questo blog. Gli accessi pregressi (registrati da Google)
andavano quindi sommati a quelli esposti dal contatore di Shiny Stat.
Da un confronto fornito da Google (Blogspot) mi accorgo però che gli accessi
a queste pagine non corrispondono alle visite effettive che le pagine stesse ricevono.
L’attendibilità delle statistiche di Google è fuori discussione.
Per questo motivo, utilizzando le informazioni statistiche di Google, darò notizia,
manualmente, degli accessi reali, a partire sempre dalla data d’inizio del blog,
cioè dal 15 febbraio 2012. Ti ringraziamo per avere visitato queste pagine.

15 febbraio 2012 - 5 luglio 2013: ACCESSI TOTALI SEGNALATI DA GOOGLE 722.983
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