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Il cinema italiano cristologico - "Close up"

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Il cinema italiano cristologico
http://www.close-up.it/5 aprile 2013, Giammario Di Risio


"D’istinto allungai la mano al comodino, presi il libro dei vangeli che c’è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima – lo ricordo bene – quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. Alla fine, deponendo il libro, scoprii che, fra il primo brusio e le ultime campane che salutavano la partenza del papa pellegrino, avevo letto intero quel duro ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo che è appunto quello di Matteo. L’idea di un film sui vangeli m’era venuta altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore".
A parlare è Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale che, nonostante sia passato più di mezzo secolo, ha saputo più di altri registi far slittare il significato della parabola cristologica dalla letteratura alle immagini in movimento. Da questa “confessione”, anche senza aver visto il suo poetico e profondo Il Vangelo secondo Matteo, si comprende la fascinazione che la storia di Yehoshua ben Yosef (denominazione ebraica di Gesù il Nazareno) abbia esercitato su di lui, in un meccanismo che parte dalla genesi letteraria per arrivare alla costruzione, messinscena di un racconto in immagini sincero e dalla grande forza spirituale.
Il cinema cristologico italiano ha in Pasolini un punto di riferimento per stile, autorialità, tecniche di narrazione e attorialità. In questo caso la genesi è il testo di Matteo, di fatto quello, tra i Canonici, più spostato verso la cultura ebraica, in cui emerge un Gesù ostinato e dall’afflato dittatoriale. Perfetta risulta la coniugazione tra immagini e forza della parola, con Gesù, interpretato dallo studente rivoluzionario Irazoqui che, con la sua iconografia sindonica, consente, mediante primi e primissimi piani, di sostenere al meglio la poetica dei contrasti tanto cara a Pasolini. Sul versante ideologico, sfruttando l’impianto ebraico/tradizionalista, ruvidamente Pasolini riesce a criticare la società dei consumi del boom economico senza svilire o strumentalizzare la storia dell’individuo più famoso degli ultimi duemila anni, colui in nome del quale è nato un sistema religioso che da sempre ha stabilito in Italia il suo quartier generale.

L’ultimo film, in ordine temporale, che nelle nostre sale fa lietamente rivivere la storia di Gesù è Su re del sardo Giovanni Columbu, che si inserisce nella poetica autoriale tracciata da Pasolini sia in termini di linguaggio della macchina da presa che per la messinscena.
Giovanni Colombu sul set del film "Su Re"

Una poetica che, a torto o a ragione, non sempre è stata l’unica forma di espressione caratterizzante il nostro cinema cristologico. Sin dai suoi primi passi, il cinematografo infatti ha avuto la necessità di proporre storie già conosciute alle masse per creare affezione e iniziare lentamente un affrancamento dalla letteratura e dal teatro. In quest’ottica, la storia della Passione vivente tramandataci dai Canonici diventa genesi tematica della macchina da presa e, decodificata a mo' di tableaux vivants, caratterizza i primi anni del muto italiano.
Dal 1897 al 1910 abbiamo in tutto il mondo ben diciotto pellicole che passano a setaccio episodi cristologici con il tema della Risurrezione che diventa, in questa prima fase, collante tra sperimentazione cinematografica e iconografia tradizionale cattolica. Gesù è dunque rappresentato mediante la classica iconografia da santino, e in Italia è il film Passione di Gesù, di Luigi Topi, del 1897, ad aprire le danze.
Nel decennio successivo, mentre Gabriele D’Annunzio fornisce credibilità al cinematografo firmando le didascalie vergate del film Cabiria, il regista Enrico Guazzoni gira la pellicola cristologica Quo Vadis?, in cui è forte lo stile da kolossal, con scenografie sontuose e centinaia di figuranti che opprimono il quadro. Riassumendo, in questa fase il cinema muto italiano cristologico presenta i tre nuclei tematici riscontrabili anche in pellicole straniere: sperimentazione delle potenzialità del cinematografo, narrazione a quadri con l’intento di mitizzare la figura di Gesù e materializzazione del contenitore cattolico come vettore di significazione.
Il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli
Stiamo parlando di opere in cui il filo d’oro è Gesù. Sfociando poi nell’epoca del sonoro, abbiamo nel 1964 il film di Pasolini, nel 1973, il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, un’operazione da quadretto oleografico atta esclusivamente a solennizzare la figura del Messia sulla base dell’opera dei Canonici e l’ideologico Il Messia di Roberto Rossellini, in data 1975. Nel giro di pochi anni si apre una fase in cui è forte la differenza tra cinematografia americana (di stampo industriale) e europea (di stampo autoriale), e il nostro cinema cristologico entra in un quadro economico-produttivo incerto sviluppando pellicole elegantemente confezionate, come Cercasi Gesù di Luigi Comencini, del 1982, L’inchiesta di Damiano Damiani, del 1986 o Il bacio di Giuda di Paolo Benvenuti, del 1988, ma che tuttavia tendono, a differenza di Pasolini, a rappresentare più che evocare, interpretare la parabola cristologica.
Passano gli anni e, tralasciando pellicole caratterizzate esclusivamente dal tema del sacro, non si ritrovano nella nostra produzione film su Gesù. Il nostro cinema inizia a preferire altri contenitori e, vista la necessità di capitalizzare al massimo l’attenzione dello spettatore moderno, la figura del Messia perde di credito tra i cineasti. Ora però, e qui si conclude il breve focus, in sala abbiamo il film di Columbu, un prodotto di grande qualità che potrà raschiare la diffidenza dei nostri registi sull’argomento per aprire una nuova stagione di cinema cristologico. Il tutto in concomitanza con la nuova fase del mondo cattolico, che ha appena abbracciato il nuovo Papa e si appresta a riconfigurare la sua cultura e storia.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Milano ha festeggiato Giovanni Testori

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LE NOTIZIE
Dopo la grande mostra dedicata a Pasolini a Casa Testori
Vent'anni dopo, "Assolutamente Testori"
Milano ha festeggiato il suo poeta, con una serie di appuntamenti nomadi e live

Giovanni Testori, l'ultimo dei poeti. L'ultimo creatore di versi per una città, Milano, che non ha mai dimenticato il suo letterato scomodo, che militò nella gioventù fascista degli ambienti universitari della Cattolica, che succedette alla morte di Pasolini al Corriere della Sera, occupandosi della pagina culturale, che raccontò le dure storie della periferia in chiave neorealista, e che allo stesso tempo era devotamente cattolico. Una figura contraddittoria,  lontana dagli schemi e forse per questo ancora più affascinante, non solo come un pezzo di cultura prettamente meneghina difficilmente "esportabile” in altre zone d'Italia. 
E invece, nel 20esimo anniversario dalla morte del drammaturgo, critico e scrittore, l'Associazione Testori, che cura anche il programma della casa di Novate, dedica oltre un mese di mostre, spettacoli, passeggiate e rappresentazioni nel programma di "Absolut Testori”. Nel piccolo paese alle porte di Milano fotografie, video, proiezioni di spettacoli teatrali, e decine di dipinti inediti che vanno a comporre un ambiente "testoriano” in tutto e per tutto, mentre in diverse occasioni la casa è stata oggetto di "rivisitazioni” da parte di altri artisti nelle precedenti edizioni, a cui erano affidate le stanze dell'edificio per installazioni anche site specific. 
Fuori da Novate lo spettacolo continua, e continua per esempio al Teatro Franco Parenti, dove il 4 aprile 2013 è andata in scena in scena la rappresentazione dell'Ambleto, la storia di una compagnia di scarrozzanti che recita una versione particolare della tragedia shakespeariana e lo fa con i poveri mezzi che ha a disposizione, pur consapevole della grande vicenda che porta in scena, tratta da una cronaca brutale riferita alla distruzione di una famiglia contadina concepita come metafora della distruzione del potere e della sconvolgente brama del possesso.
E lo sguardo rivolto agli ultimi, tipico della poetica di Testori, è stato anche il 6 aprile, con una passeggiata d’autore nei luoghi dei suoi romanzi, accompagnati dalle sue parole e ripercorrendo "live” le strade de Il Dio di Roserio, gli affacci de La Gilda del Mac Mahon e i passi de La Maria Brasca, cercando di ritrovare quello che era l'universo degli anni '50, di cui ancora oggi si possono scoprire le tracce. 
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Ripensando Pasolini. Il fascino della Chiesa che va spoglia nelle periferie

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LA SAGGISTICA
Ripensando Pasolini. Il fascino
della Chiesa che va spoglia nelle periferie
di Roberto Carnero, 4 aprile 2013

Parlando in questi giorni con diverse persone non credenti, ho potuto constatare quanto i primi gesti e le prime parole del pontificato di Francesco stiano toccando il cuore di molti, anche di coloro che sono lontani dalla fede cristiana. Nel seguire, ammirato, questi stessi gesti e queste stesse parole, non ho potuto fare a meno di ripensare a certi passi di un libro laico e stimolante, gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Prima cattolico, poi marxista, ma sempre sinceramente pervaso da una forte spiritualità (il suo 'Vangelo secondo Matteo' – dedicato «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII» – rimane a giudizio di molti il più bel film mai girato sulla vita di Gesù), Pasolini in quel libro (che raccoglie articoli scritti nei primi anni Settanta) continua a parlare a suo modo del cattolicesimo come di una delle componenti fondamentali di quell’identità italiana che egli vede soggetta a un vorticoso mutamento.
Se la religione cristiana è stata per secoli legata alla civiltà contadina, ora che quest’ultima è stata travolta dall’industrializzazione del Paese, qual è il ruolo della dimensione religiosa? C’è ancora spazio per la fede? Pasolini ritiene che il nuovo Potere (con la maiuscola, come spesso lo scrive negli Scritti corsari), quello del consumismo di massa, non sappia più che farsene della religione. La omaggia formalmente, ma di fatto essa gli è inutile. E la Chiesa che cosa dovrebbe fare in questa mutata situazione? Ha capito di essere diventata qualcosa di profondamente antitetico rispetto all’imperante etica materialistica ed edonistica? Pasolini invita la Chiesa a «passare all’opposizione»: «Dovrebbe passare all’opposizione contro un potere che l’ha così cinicamente abbandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore. Dovrebbe negare se stessa, per riconquistare i fedeli (o coloro che hanno un 'nuovo' bisogno di fede)». 
Quando dice «negare se stessa», Pasolini intende dire che la Chiesa dovrebbe abbandonare quelle incrostazioni temporali che nel corso della storia hanno spesso rischiato di deturparne il volto. Ciò significherebbe il confronto serrato col potere politico: «Riprendendo una lotta che è peraltro nelle sue tradizioni (la lotta del Papato contro l’Impero), ma non per la conquista del potere, la Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano [...] il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante [...]. È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta».
Leggendo delle scelte e della storia di personale essenzialità di papa Francesco mi sono venute in mente altre parole 'corsare' dello scrittore friulano: «E poi [...] è proprio detto che la Chiesa debba coincidere col Vaticano? Se – facendo una donazione della grande scenografia (folcloristica) dell’attuale sede vaticana [...] il Papa andasse a sistemarsi [...], coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancio o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di San Damiano o Santa Priscilla – la Chiesa cesserebbe forse di essere Chiesa?». Il cardinal Bergoglio, parlando agli altri porporati prima di entrare in Conclave, aveva detto di avvertire la necessità che la Chiesa «esca da se stessa» per andare «verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche le periferie esistenziali». E in periferia c’è subito andato da Papa, per celebrare la Messa in Coena Domini con i ragazzi del carcere minorile di Casal del Marmo. Una delle direzioni immaginate da Pasolini. Il quale, quarant’anni fa, lanciava alla sua maniera una semplice provocazione. Eppure forse aveva intuito, da non (più) credente, una verità che oggi papa Francesco sta rendendo comprensibile a molti: cioè che molti aspetti della vita ecclesiale sono frutto di secoli storia e di cultura e perciò valgono, ma che l’essenziale è il depositum fidei, il Vangelo.
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“Sulle tracce di Anita”, film ispirato da un testo inedito di Federico Fellini, coautore della sceneggiatura insieme a Pier Paolo Pasolini

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IL CINEMA
“Sulle tracce di Anita”, film ispirato da
un testo inedito di Federico Fellini,
coautore con Tullio Pinelli e Pier Paolo Pasolini
di Laura Congiuhttp://www.viverefano.com/


E' stato presentato nella mattinata di martedì 2 aprile 2013 "Anita", film dell'urbinate Luca Magi liberamente ispirato al testo inedito di Federico Fellini "In viaggio con Anita". Il film ha debuttato all'ultimo Torino Film Festival del novembre 2012.

"Anita" è stato proiettato al pubblico fanese venerdì 5 aprile, alle ore 21, nella Sala Verdi del Teatro della Fortuna, ed l'apripista per le iniziative 2013 dell'associazione culturale Rule-Hot, che ha esordito lo scorso anno con Disegni Diversi. Festival del fumetto che vive il quotidiano.
"E' una grande soddisfazione - ha affermato l'assessore alla cultura Maria Antonia Cucuzza presente alla conferenza stampa di presentazione - dare il nostro apporto alle associazioni costituite da giovani, la cui nascita è in continuo aumento."
Il film, diretto da Luca Magi e sceneggiato da Antonio Bigini, si ispira ad un'opera inedita datata 1957 del regista Federico Fellini e che lui stesso, in un'intervista del 1989, ha definito "il soggetto cinematografico, forse il più bello che ho scritto, ma che poi non ho realizzato": un viaggio attraverso l'Italia segreta sulle tracce degli amanti Guido e Anita per raggiungere il padre di Guido sul letto di morte.
"Il film - spiega lo sceneggiatore - nasce 4 anni e mezzo fa. Abbiamo cercato di ripercorrere il tragitto delineato da Fellini, coautore del testo insieme a Tullio Pinelli e Pier Paolo Pasolini, in "In viaggio con Anita", e il protagonista Guido rappresenta l'alter-ego dello stesso Fellini, legato alla città di Fano dai suoi anni passati qui presso un collegio. La lavorazione e la produzione del film-documentario è stata lunga e travagliata, ma eravamo attratti dalla storia e nel viaggio siamo stati folgorati da riscontri magici, come l'incontro con un guardiano a Montecchio che conosceva Pasolini o i minatori del Furlo che ricordavano con esattezza alcuni episodi scritti dallo stesso Fellini. 

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Pasolini nei blog: "Monti, Pasolini e le contrapposizioni destra - sinistra", 6 gennaio 2013

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LA SAGGISTICA
Pier Paolo Pasolini in un ritratto di Ernest Pignon

Pasolini nei blog
Monti, Pasolini e le contrapposizioni destra - sinistra
di Francesco Latteri Scholten

In un ampio spettro del mondo politico e socio culturale avevano suscitato vivaci reazioni le recenti estrinsecazioni del Presidente del Consiglio Mario Monti che aveva definito ormai datate e frutto di vecchi ed obsoleti schemi mentali - oltreché di una visione riduttiva ed anzi monodimensionale - le contrapposizioni destra / sinistra. Invero le osservazioni del Presidente Monti erano già state anticipate negli anni '70 suscitando a tratti scalpore ed a tratti indifferenza nel mondo della cultura, e totale ignoranza in quello politico. Quasi a testimonianza della veridicità della cosa le tesi erano state sostenute sulle colonne del "Corriere della Sera", il più allineato dei grandi giornali di "regime" da quello che era considerato uno degli intellettuali più di "sinistra": Pier Paolo Pasolini, probabilmente il nome più importante della cultura italiana del Novecento. 
Pasolini, anticipandolo decisamente, si mostra ancor più di Monti uomo di orizzonti mentali estremamente vasti, di grande acume, sagacità e profondità di osservazione. Il 10 giugno 1974, ne "Gli italiani non sono più quelli" osservava: "Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c'è più dunque differenza apprezzabile - al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando - tra un qualsiasi cittadino italiano fascista ed un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico, non c'è niente che distingua - ripeto al di fuori di un comizio o di un'azione politica - un fascista da un antifascista ( di mezza età o giovane, i vecchi in tal senso possono ancora essere distinti tra loro )." 
Ma l'osservazione di Pasolini fu ben più profonda e radicale e, soprattutto, più pungente di quella di Mario Monti: "Per quel che riguarda gli estremisti, l'omologazione è ancor più radicale. A compiere l'orrenda strage di Brescia sono stati dei fascisti. Ma approfondiamo questo loro fascismo. E' un fascismo che si fonda su Dio? Sulla Patria? Sulla famiglia? Sul perbenismo tradizionale, sulla moralità intollerante, sull'ordine militaresco portato nella vita civile? O, se tale fascismo si definisce ancora, pervicacemente, come fondato su tutte queste cose, si tratta di un'autodefinizione sincera? Il criminale Esposti - per fare un esempio - nel caso che in Italia fosse stato restaurato a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l'Italia della sua falsa e retorica nostalgia? L'Italia non consumistica, economa e eroica (come lui la credeva)? L'Italia scomoda e rustica? L'Italia senza televisione e senza benessere? L'Italia senza motociclette e giubbotti di cuioio? L'Italia con le donne chiuse in casa e semi velate? No, è evidente che anche il più fanatico dei fascisti considererebbe anacronistico rinunciare a tutte queste conquiste dello "sviluppo". Conquiste che vanificano, attraverso nient'altro che la loro letterale presenza - divenuta totale e totalizzante - ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale." 
E, mentre Mario Monti, da uomo di Stato e con il senso dello Stato guarda al nuovo orizzonte alla ricerca di una nuova politica, Pasolini coglie il nucleo della nuova realtà e del nuovo Potere che in essa si è sibillinamente ma profondamente insediato, e lo identifica con quello dello stragismo italiano: "Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un'ideologia propria (perché vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da quei fascisti), e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa (il clerico-fascismo che era effettivamente una realtà culturale italiana) ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre - secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di Pubblica Sicurezza - all'eversione comunista." 
In un articolo successivo, sempre sul "Corriere della Sera", il 24 giugno 1974, intitolato "Il Potere senza volto", Pasolini ne traccia l'identikit: "L'identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti "moderni", dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente, ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e, quanto all'edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la Storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una "mutazione" della classe dominante, è in realtà - se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia - una forma "totale" di fascismo. Ma questo Potere ha anche "omologato" l'Italia: si tratta dunque di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l'edonismo e la joie de vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo."
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Juan Carlos Mestre, Tres Poemas para Pier Paolo Pasolini / Tre poesie per Pier Paolo Pasolini

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LA SAGGISTICA - POESIA
Juan Carlos Mestre
Tres Poemas para Pier Paolo Pasolini
Tre poesie per Pier Paolo Pasolini
[In spagnolo e in italiano. Con una nota biografica sull'Autore in italiano]
Da "Casa della Poesia" di Baronissi-Salerno - www.casadellapoesia.com


Solo perché sei morto ho potuto parlarti come ad un uomo
altrimenti le tue leggi me l’avrebbero impedito.
Pier Paolo Pasolini
IHubiera querido góndolas y uvas en tu frente, blanca túnica de vichí para tu cuerpo de arbusto, vomitel, árbol enorme donde tallen timbales, panderetas, músicas al tacto valiente de tu risa, tarambas, oboes y luces en la noche que te cuida, fósil de ámbar, rejalgar, cristal indefinido que gobierna adolescente. Pero ya el humo que resolvió a los príncipes es témpano dulcísimo, véspero en la tarde de los Médicis, cascabel y sedas en tu luz definitiva, vértigo ahora cuando un arpa inicia fuentes de bálsamo en la memoria, incienso en tu cenotafio de orégano y ciruelas, harina en el hojaldre sin fin, honrado jinete tan suave en el galope y hasta relincho fucsia del centauro que quiso Botticelli para llevarte a hombros a la soledad del ibis, madre comunal y sagrada que devoró el jaguar, cinta en el pelo, miel de palma y almendras en el licor de los festejos.

II
Voy a nombrarte como sol que duda entre el jazmín o la libélula, apenas aurora y ya friso de acanto que te oculta, breve fue el amor o la alimaña y ya están los evangelios anunciando fresas en tus labios, liebres, sacristanes, adobes y pulpa de manzana; quiero esta extensa geografía reducida a brote simple de cerezo y en tu oreja cultivar infiel e íntima la vida, el deseo, el goce carnal de un cielo que devore tu muerte y te devuelva intacto al ágora y al puente, al tren, al mingitorio, a las campanas y a la luna. Qué ya vienen las mariquitas de Roma tocando la marimba y las estatuas y la hojarasca y las navajas no son, Dante y el cisne de Veronés, y Venecia no se hunde por ti y no se hace inalcanzable el vértice, porque ya estamos todos sin vergüenza en el pubis de Safo, yuruma, jarabe de maíz, sustancia, hucha y alhelí, caimán y novia.

III
Y es preciso detener la resignación que como mañana blanca de domingo azuza el cárabo, devolver la alegría al alcahuete, el miedo al juez, fingir hasta el éxodo, adornar con azucena cada culpa, convidar a matrimonio, volverse cadmio, baya, ser prodigio, retallecer, rugir y hasta ocultar con velo lo jovial, ingerir jarabes que te vuelvan grillo y regreses en el canto, araña, saurio, gelatina, nivel del mar que lo inunde todo. Porque no me acostumbro, prometido, a revejecer, a regirme en el recuerdo, a reservarte el mármol como si cónsul hubieras sido, tú, hereje mayor, joya que adornó el pulgar, hierba que embosqueció la era, nunca harija, trigo, rayo que destrona, hiere, apila y excarcela. Te quiero ya tambor, voz atonal, adormidera, flauta, tubo de viento. Levanta tu cabeza, cáliz de pan, ven nómada, regresa, hágase la justicia y alegrémonos: Ecce homo.
*  *  *I
Avrei voluto gondole e uva sulla tua fronte, tunica bianca di vichy per il tuo corpo di arbusto, vomitel, albero enorme in cui intagliano timpani, tamburelli a sonagli, musiche al tatto coraggioso della tua risata, tarambas, oboi e luci nella notte che si prende cura di te, fossile d’ambra, realgar, vetro indefinito che governa adolescente. Ma già il fumo che risolse i prìncipi è timpano dolcissimo, vespero nel pomeriggio dei Medici, sonaglio e sete nella tua luce definitiva, vertigine ora quando un’arpa inizia fonti di balsamo nella memoria, incenso nel tuo cenotafio di origano e prugne, farina nella pasta sfoglia senza fine, onesto cavaliere tanto soave nel galoppo e persino nitrito fucsia del centauro che volle Botticelli per portarti a spalla alla solitudine dell’ibis, madre comune e sacra che divorò il giaguaro, nastro nei capelli, miele di palma e mandorle nel liquore dei festeggiamenti.

II
Ti nomino come sole che dubita tra il gelsomino o la libellula, appena aurora e già fregio di acanto che ti nasconde, breve fu l’amore o la bestia e stanno già i vangeli annunciando fragole sulle tue labbra, lepri, sagrestani, mattoni crudi e polpa di mela; amo questa estesa geografia ridotta a semplice germoglio di ciliegio e nel tuo orecchio coltivare infedele e intima la vita, il desiderio, il piacere carnale di un cielo che divori la tua morte e ti restituisca intatto all’agorà e al ponte, al treno, all’orinatoio, alle campane e alla luna. Che già vengono le coccinelle da Roma suonando la marimba e le statue e il fogliame ed i coltelli non sono, Dante ed il cigno di Veronese, e Venezia non affonda per te e non diventa irraggiungibile il vertice, perché siamo già tutti senza vergogna nel pube di Saffo, yuruma, sciroppo di mais, materia, salvadanaio e violacciocca, caimano e fidanzata.

III
Ed è necessario fermare la rassegnazione che come domani bianco di domenica aizza l’allocco, restituire l’allegria al ruffiano, la paura al giudice, fingere fino all’esodo, adornare con giglio ogni colpa, invitare a matrimonio, diventare cadmio, bacca, essere prodigio, rigermogliare, ruggire e persino occultare con velo il gioviale, ingerire pozioni che ti trasformano in grillo e ritorni nel canto, ragno, sauro, gelatina, livello del mare che inondi tutto. Perché non mi abituo, lo giuro, a invecchiare, a reggerti nel ricordo, a riservarti il marmo come se fossi stato console, tu, eretico maggiore, gioiello che adornò il pollice, erba che imboschì l’era, mai friscello, grano, raggio che detronizza, ferisce, ammucchia e scarcera. Ti voglio già tamburo, voce atonale, papavero, flauto, tubo a fiato. Alza la testa, calice di pane, vieni nomade, ritorna, sia fatta giustizia e stiamo allegri: Ecce homo.
Traduzione di Raffaella Marzano*  *  *
Juan Carlos Mestre
Juan Carlos Mestre, poeta e artista visuale, è nato nel l957 a Villafranca del Bierzo (Spagna). Cantastorie visionario, con la sua fisarmonica sa creare immagini nelle quali realtà e invenzione si intrecciano creando atmosfere incantate. Quella di Mestre è una voce di insolita profondità, guidata dalla necessità etica dell’ultimo faro dell’utopia: la poesia. 
Ha pubblicato, tra i tanti volumi Antífona del Otoño en el Valle del Bierzo, Premio Adonais di poesia nel l985; "La poesía ha caído en desgracia", Premio Jaime Gil De Biedma 1992. "La tumba de Keats", scritto durante la sua permanenza in Italia come borsista dell’Academia de España in Roma, ha ottenuto il Premio Jaén nel 1999. In quell’anno a Mestre viene attribuita una Mención de Honor nel Premio Nacional di Grabado de la Calcografía Nacional e nel 2002 ottiene lo stesso riconoscimento alla VII Bienal Internacional de Grabado de Orense. Nel 2009 ha ricevuto il prestigioso Premio Nazionale di poesia per la raccolta "La casa roja". Nel 2011 la casa editrice Calambur pubblica "La visita de safo y otros poemas para despedir a Lennon" e nel 2012 "La bicicleta del panadero". Juan Carlos Mestre ha preso parte per Casa della poesia nel 2005 a "Il cammino delle comete (Pistoia), Incontri internazionale di poesia di Sarajevo. Nel 2009 a "Napolipoesia nel Parco" e "VersoSud" (Reggio Calabria). Nel 2010 e nel 2012 a "Letture Mediterranee" (Baronissi e Salerno). Casa della poesia sta organizzando la pubblicazione in Italia di un'antologia delle sue poesie dal titolo "Le stelle a chi le lavora".
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Pier Paolo Pasolini, "I primi che si amano"

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - POESIA
I primi che si amano

In Pier Paolo Pasolini
"Teorema", Garzanti, Milano 1968




I primi che si amano
sono i poeti e i pittori della generazione precedente,
o dell'inizio del secolo ; prendono
nel nostro animo il posto dei padri, restando,
però, giovani, come nelle loro fotografie ingiallite.
Poeti e pittori per cui l'essere borghesi non era vergogna.
figli in vigogna e feltri...
o povere cravatte che sapevano di ribellione e di madre.
Poeti e pittori che sarebbero divenuti famosi
verso la metà del secolo,
con qualche amico sconosciuto di grande valore,
ma, forse per paura, disadatto alla poesia,
(poeta vero morto fuori dagli anni).
Selciati di Vienna o Viareggio! Lungofiumi
di Firenze o Parigi !
Fatti risuonare con quei piedi di figli
calzati di grosse scarpe.
La ventata della disobbedienza sa di ciclamino
sulle città ai piedi dei poeti giovani !
I poeti giovani che chiacchierano
dopo una vile bevuta di birra,
da borghesi, indipendenti,
— locomotive abbandonate ma ardenti
costrette per qualche tempo su tronchi ciechi,
a godersi la mancanza di fretta della gioventù :
certi di poter cambiare il marcio mondo
con quattro appassionate parole e un passo da rivoltosi.
Le madri come madri di uccelli
nelle piccole case borghesi
intrecciano il gelsomino dell'aria
col significato della luce privata di una famiglia,
e del suo posto in una nazione piena di feste.
Le notti, così, risuonano solo dei passi dei ragazzi.
La malinconia ha infinite tane
infinite come le stelle,
a Milano o in un'altra città,
da cui far alitare la sua aria di stufa accesa.
I marciapiedi scorrono lungo case del settecento,
scrostate case con sacrosanti destini
(strade di paese divenuto cittàindustriale),
con un lontano odore romanico di stalle gelate.
È così che i poeti ragazzi fanno esperienza del vivere.
E hanno da dirsi quello che si dicono gli altri,
i ragazzi-non poeti (signori anche loro della vita
e dell'innocenza)
con madri che cantano
alle finestrelle dei cortili interni
(pozzi puzzolenti alle stelle non viste).
Dove si sono persi quei passi :
Non basta una severa paginetta di memorie,
no, non basta — forse il solo poeta non poeta,
o pittore non pittore,
morto prima o dopo una guerra, in qualche
città dei trasferimenti leggendari,
si tiene in sé quelle notti, con verità.
Ah, quei passi — dei figli
delle famiglie migliori della città (quelle
che seguono il destino della nazione
come un'orda di animali segue l'odore
— aloè, cannella, barbabietola, ciclamino —
nella sua migrazione) quei passi di poeti
con gli amici pittori, che battono i selciati,
parlando, parlando...
Ma se questo è lo schema, altra è la verità.
Riproduci, figlio, quei figli.
Abbi pure nostalgia di loro quando hai sedici anni.
Ma comincia subito a sapere
che nessuno ha fatto rivoluzioni prima di te;
che i poeti e i pittori vecchi o morti,
malgrado l'aria eroica di cui tu li aureoli,
ti sono inutili, non t'insegnano nulla.
Godi delle tue prime ingenue e testarde esperienze,
timido dinamitardo, padrone delle notti libere,
ma ricorda che tu sei qui solo per essere odiato,
            per rovesciare e uccidere.
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Le Partie di Pasolini, di "Associazione Memoria Condivisa"

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LA SAGGISTICA
Le Partie di Pasolini
di Luciano Serra
22 febbraio 2011 
Associazione Memoria Condivisa

Andrea, laureato in chimica e impegnato in ricerche sull'idrogeno, di cognome fa Paolella. Come l'eclettico regista Domenico, che realizzò impegnati documentari sociali e che, con sottile ironia, manipolò e fece combattere Ercole contro i tiranni di Babilonia e Maciste contro lo sceicco e fece di Ursus il gladiatore ribelle.
Andrea Paolella non ha clave né spade, ma è armato di un aggeggio terribile, la macchina fotografica, con cui documenta il mondo del lavoro a Reggio e con cui ha avuto l'idea pazzesca di cercare i luoghi dove Pasolini visse e operò e di illustrarli, dando caccia improba (telefonando ad es. a tutti i Franco Farolfi d'Italia finché lo trovò a Roma) agli amici di gioventù. Li ha ritratti in bianco e nero (che ha a Reggio due maestri a livello internazionale: Stanislao Farri e Vasco Ascolini), canuti o calvi nell'inesorabile piattaforma del tempo, “usuraio atroce” come lo definisce Andrea Zanzotto nel suo recentissimo Conglomerati. Abitando a Reggio come me, ha deciso d'incastrarmi quale coautore della sua pubblicazione fotografica, nonostante gli avessi obiettato che l'incarico era rischioso perché mi sarei smarrito nell'oceano immenso delle esperienze letterarie e cinematografiche e dei furori controcorrente per le inevitabili omissioni di opere e di persone che mi avrebbero attirato frecciate e bastonate o, nel minore dei casi, il compatimento.
Gli ricordai che Roberto Roversi, annotando in un articolo il bel libro di Enzo Golino sul Sogno di una cosa, aveva evocato l'arroganza e la violenza delle celebrazioni esasperate su Pasolini “che è stato tutto”. E ne faceva l'implacabile elenco: calciatore, pittore, musicista, naturalmente poeta, scrittore, drammaturgo, regista, sceneggiatore, politico, pedagogo, viaggiatore; e che “così confezionato” risulta utilizzabile per ogni occasione celebrativa dove si riverbera spesso un senso di raggelata rispettabilità che un poco confonde e un poco smaga.
Ma con Andrea non ci fu verso. Non ammansito dai 32 gradi del liquore di mirto della Sardegna che gli offrivo per far cadere la proposta nell'oblio, insinuò: “Hai carta bianca per scrivere quello che vuoi” e io, incosciente, alzai la bandiera bianca della resa. Che referenze avevo per l'incarico? L'esperienza poetica di “Eredi” con i giovanissimi Pasolini Roversi e Leonetti, l'aver collaborato allo “Stroligut” e al “Quaderno Romanzo” con saggi su Nievo e la Percoto, l'aver fortunatamente salvato le lettere indirizzate a me da Pier Paolo dal 1941 al 1953, l'ospitalità affettuosamente offerta dai miei genitori (che considerava una seconda famiglia) a Bologna in via Arienti 33 quando tornava da Casarsa e magari era una “spugna di sonno” e in particolare alla fine del 1945 quando si laureò, e l'essergli stato ai tempi dell'università e poi del rapporto col professor Calcaterra il “solito fattorino” secondo la definizione limitativa di Barth David Schwartz: spezzoni della mia vita giovanile prima che diventassi insegnante, mi trasferissi da Bologna a Reggio e mi sposassi felicemente con Ida Maria nel 1956.
Quanti sono gli amici morti (ultimo Fabio Mauri nel 2009) e vivi che vissero, come scrisse Silvana sorella di Fabio, nel “pulviscolo d'oro della giovinezza”, entro quel mito purissimo e incancellabile per noi di Pier Paolo che fu, come ha scritto Farolfi, “maestro dei suoi coetanei”? Quanti di noi parteciparono all'affollata gita notturna “rimasta nella nostra leggenda” come ha scritto Mario Ricci, sulle colline bolognesi percorse dalle luci della contraerea e dall'abbaiare dei cani, scalando calanchi e danzando al sole nascente del mattino? Ricordandola, ho scritto che fu l'espressione della gioia di essere giovani e vivi, perché “eravamo il passato, il presente, il futuro: così, almeno, credevamo”.
Paolella ha fotografato, degli amici di allora, solo i dieci che è riuscito a rintracciare e a captare, e io sono il superstite più anziano (in una mia poesia mi sono augurato: “non vecchio vorrei essere ma antico / come la luna”). Eccone i cognomi con fra parentesi l'età che avremo nel 2010: Serra (90) Zanzotto (89) Farolfi (88) Roversi (87) Leonetti e Zigaina (86) Bemporad (85) Scalia (82) Naldini (81) e Spagnol (79). Una galleria di ritratti di avi o un album di famiglia in cui le misure della luce e del buio o dell'ombra scolpiscono le figure e le stanze, e negli effetti del bianco e nero si fissano le tracce attuali delle presenze reali ed enigmatiche che domani saranno già mutate. Mi sono spinto in una cavalcata nell'assurdo e in un gioco illusorio di finzioni al limite dell'allucinazione: e ho immaginato Farolfi primario fra cartelle cliniche o scultoreo cardinale, Naldini parroco di campagna o console romano col busto imperiale dietro di lui, Leonetti l'Erode tetrarca della Galilea che scava fra memoria e oblio dei ricordi (ben diverso dal sorridente paffuto con cravattina a farfalla ritratto in un gruppo di “Officina” dove Roversi è in tensione per apparire dentro la foto), Roversi che cerca di esorcizzare col gabbiano di ceramica l'immagine della saggezza  della lucida disperazione, Scalia telamone sghembo in riposo che ironizza in bilico sullo scibile cartaceo del mondo, la Bemporad che Fabio Mauri definì la nostra George Sand per lo stravagante abbigliamento maschile e si potrebbe aggiungere un'ebraica Gertrude Stein e qui lei che si era definita “adolescente sempre in fuga da se stessa e dal mondo” appare come ieratica milady vittoriana, Zigaina pensieroso artigiano in una bottega di corniciaio, Tonuti Spagnol unico con cravatta e che è in posa di austero dirigente ed ospita nella specchiera Chippendale caste ed erotiche statuine femminili, Zanzotto dalle favolose invidiabili bretelle con lo sguardo meditativo e disincantato rivolto a un futuro di agitate maree di speranze e timori.
Amici, non sparate sul pianista che si è esibito in futili paragoni e accettate anche quello che non intende essere un saggio critico ma una serie di divagazioni e di sconfinamenti nel campo felice e dolente della memoria.
Questa la galleria degli amici. Ma c’è un amico che non conobbe Pier Paolo e che merita di essere inserito nella ciurma come autore di quell’Eresia di Pasolini con cui ha inteso e intende, come ulteriore testimone, valorizzare l’arrembaggio del «corsaro»: è Gianni D’Elia, nato a Pesaro nel 1953, scoperto nel 1978 da Roberto Roversi che gli fece pubblicare Non per chi va, suo primo libro di liriche, dall’editore Savelli.

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Bologna, via Borgonuovo: prima abitazione di Pier Paolo nato il 5 marzo 1922, dopo un ennesimo trasferimento del padre sregolato ufficiale di carriera. Dava su un vicolo “umido e tetro”, e Andrea Paolella ne ha reso la cupa atmosfera, tra due fazioni opposte di alte case con allineamenti di finestre smisurate e misteriose e una pallida geometrica redenzione sullo sfondo. Le case saranno fra le tematiche del libro assieme alle stazioni, ai ponti, ai corsi d'acqua, ai prati e alle chiese, alle solitudini e ai silenzi che le immagini registrano come condizione assoluta. Ed ecco le prime stazioni, di Belluno (dove nacque il fratello Guido), di Cremona. Senza treni, che sono sottintesi. Trovò a Conegliano la gioia di vederli (e ne costruì come balocchi inventandoli con lapis e cannucce, e le stazioni erano scatole) e lo portavano al luminoso ginnasio dalla cui spalletta scopriva il vasto panorama dei campi; disse che più della metà dei suoi versi li aveva pensati o scritti in treno e in una cartolina dell'11 aprile 1949 mi rimprovererà di non andare a trovarlo dicendo che un diavolo teneva costantemente un bastone tra le ruote del treno che avrebbe dovuto portarmi a Casarsa. Era la missiva in cui ribatteva alle mie obiezioni sulla omosessualità di Penna e di Gide che lui invece ammirava incondizionatamente, e poteva apparire come un'ammissione di quella diversità che nessuno di noi conosceva e di cui venimmo a sapere fra pochi mesi.
A Cremona la stazione lo deluse come poco importante, ma era la prima città che vedeva e gli sembrò una metropoli, e la via 11 febbraio dove abitò è ancora oggi luminosa come allora. A Cremona lui, inadattabile, andò adattandosi, frequentò anche un corso di scherma. Di Cremona Paolella ha fissato i primi bagliori dei fanali ai giardini pubblici e il notturno grande lago di luce dell'anello centrale dove Pier Paolo si sentì “accecato dalle sensazioni”, e il Po immerso nella foschia e il Po attraversato dalla ferrea ossatura del ponte che collega scarpate cespugliose e pendii brulli.
Dal Po all'Idria: con le lame di luce che scorrono sotto il ponticello in muratura, oltre il quale sono le case bianche e, ben colte dall'obiettivo di Paolella, i bianchi bulbi dei fanali, e su tutto, sopra il bosco, domina la chiesa. Dal Po alla Livenza presso la quale si svolgevano le lotte di due fazioni fanciullesche che sembrano echeggiare nel curvo muretto e nella trina curva degli alberi. Siamo a Sacile, “raccolto nell'abbandono della pianura” con la chiesa e l'abisde con le colonne mùtile e, dietro il duomo, il Teatro Ruffo: niente a che vedere con il celebre baritono Titta Ruffo dalla voce calda e potente che si esprimeva nei ruoli truci e beffardi né con l'impetuoso motociclista Bruno Ruffo campione mondiale delle 250 per i colori della Guzzi. Il teatro è dedicato al veneto Vincenzo Ruffo compositore di musica sacra del secolo XVI che, dopo essere stato maestro di cappella a Verona, Milano e Pistoia, dal 1573 al 1587 lo fu del duomo di Sacile, e fu autore di una messa, di mottetti e salmi, di un Magnificat da 5 a 8 voci, di madrigali da 4 a 8 e dell'opera I capricci in musica a tre voci. Nei ricordi di Pasolini decenne c'è una poesia che rievoca il Salone Ruffo dentro il quale “a un film muto / è incantata una folla di fanciulli / vocianti”.
Altra stazione e altro treno, che era “il buffo trenino coi vagoni liberty”, ben diverso  dal “tremendo meraviglioso accelerato di Sacile”; ed era il locale che portava a Reggio e dietro i finestrini Pier Paolo vedeva “volare i campi”. A Scandiano abitò dal 24 giugno 1935 all'11 ottobre 1936, poi il padre venne trasferito a Bologna.
Ed ecco finalmente Bologna, in una casa in via Nosadella 48, dove conobbi la madre Susanna, graziosa e minuta, e il fratello Guido. Con una fatuità più unica che rara Franco Grillini ha affermato che Pasolini nacque in via Nosadella e visse in via Zamboni! Nell'autunno del 1936 Pasolini da Scandiano venne a Bologna, e io contemporaneamente venni a Bologna da Reggio (per trasferimento di mio padre vincitore di un concorso postale), e non ci conoscevamo ancora. Al ginnasio di Reggio, situato dove è ora la biblioteca Panizzi, avevano avuto un preside rigidissimo, Micheletti, piccoletto e coi baffetti, che rimproverava pubblicamente suo figlio come monito a tutti gli studenti. A Bologna al Liceo Galvani in via Castiglione 36 trovammo un altro preside intransigente: Ezio Chiorboli, allampanato con due baffi bianchi enormi il quale faceva chiudere il portone e poi stolidamente riuniva i ritardatari davanti alla presidenza per tutta la mattina, esaltava Tunisi italiana con alate scempiaggini e, ironizzando su un allievo che era stato bocciato, si sentì rispondere che anche lui lo era stato e quindi erano colleghi. Infatti non era riuscito a diventare libero docente di letteratura italiana, malamente illuso dall'aver curato per i classici Laterza le rime cinquecentesche del petrarchesco e bernesco Francesco Beccuti detto il Coppetta.
Per fortuna Pasolini ebbe insegnanti di alto valore: come Alberto Mocchino autore di una storia dell'estetica e mirabile studioso di Orazio oltre che intenditore di cinema, Carlo Gallavotti (di Cesena, patria di mio padre) che entusiasmò gli allievi coi lirici greci e diverrà un filologo di fama mondiale, e il laicissimo insegnante di filosofia Valli mutilato della prima guerra mondiale e irriducibilmente antifascista. Ed ebbe come supplente di storia dell'arte Antonio Rinaldi, che aveva sette anni più di Pier Paolo e lesse agli allievi Rimbaud come lezione civile e voce di libertà. L'esile e occhialuto Rinaldi, che verrà il 14 luglio 1944 arrestato con me dalle SS toscane e portato in carcere a Parma (eravamo entrambi aderenti al Partito d'Azione), era un poeta e vorrei ricordarlo con uno dei suoi epigrammi dell'autunno dove si avverte la tristezza del canto solitario del dolore: “Mi rapisce / la nube / di polvere e di sole / sopra le siepi accese, / il lume che discende / fra pergole di viti / uve dorate e tralci / alle brune culture, / ai campi arati, dove / s'apre nei solchi il buio, / canta una sole voce, / disperata”.
Al Galvani si accedeva salendo una scalinata ampia che Andrea ha splendidamente inquadrata con le potenti pareti e colonne ed archi in un'architettonica e musicale fuga di Bach. E accanto al liceo c'era la palestra scolastica ricavata nella chiesa sconsacrata di Santa Lucia, tempio sacro alla pallacanestro dove la mattina di domenica giocava la Virtus dell'altissimo Giancarlo Marinelli, del segaligno capitano Venzo Vannini, di Gelsomino Girotti, di Galeazzo Dondi e di Athos Paganelli. Capitano della squadra di basket del Galvani era, piccolo di statura ma scattante distributore di palloni e segnatore di punti, Francesco Leonetti. Roversi per conto suo tirava di scherma.
Pasolini vedeva nello sport “la più pura, continua, spontanea consolazione”, e Bologna era fra le città sportive più importanti. Anzitutto perché possedeva “lo squadrone che tremare il mondo fa” e aveva vinto nel 1934 la Coppa dell'Europa Centrale e nel 1937 si aggiudicherà il Torneo dell'Esposizione Coloniale di Parigi battendo in finale l'inglese Chelsea. Nel 1938 assieme ad Andreolo centromediano della nazionale era diventato campione del mondo l'ala destra Amedeo Biavati famoso per una mossa da lui inventata e che disorientava gli avversari: lo scambio o passo doppio o passetto che dir si voglia. Il suo cognome era genuinamente bolognese (da biada che a Bologna nell’Ottocento si diceva biava e oggi è biêva) e apparteneva sia al calciatore Amedeo sia al venditore di lamette Oreste che esibiva la sua merce nella piazza accanto alla Montagnola, dotato ironicamente di una barba pungente come pungenti saranno in tempo di guerra le sue frecciate antifasciste: “L’Inghilterra ha le bistecche ma noi abbiamo i limoni” era la più nota che lo faceva prelevare dalla polizia. Amedeo nato nel 1915 morì nel 1979 e Oreste nato nel 1890 morirà nel 1971. Per ricordarlo l’associazione dei venditori ambulanti e il comune posero una targa, in cui si dice che “con dignitosa umiltà, schietta parola, petroniana arguzia, seppe trasformare il mestiere in arte”.
Bologna era grande anche per l'atletica: si pensi a Ondina Valla (campionessa olimpica) e a Claudia Testoni (campionessa europea), a Tullio Gonnelli (medaglia d'argento olimpica) e a Giorgio Oberweger (medaglia di bronzo olimpica); e a Bologna stava emergendo anche il rugby animato nel campo dello Sterlino da studenti del Galvani, tra cui Bruno Querena, Gigi Beccari, Grazia, Baldrati. Ricordo due episodi raccomandando sempre di non sparare sul pianista. Il primo è che il Galvani trionfò nel campionato studentesco del 1938 con Tornimbeni (2° nei centro metri), Luciano Serra (2° nel salto in lungo) e Bruno Rossi (1° nel peso) che era un giovanottone mio compagno di classe alto 1,85 per 90 chili che divenne campione italiano del giavellotto e ritrovai dopo la guerra rappresentante di medicinali. Il secondo è una gara universitaria di 1500 metri a cui partecipava Pasolini: dopo il primo giro partì come se volesse battere il record mondiale e andò a infilare la scaletta del sottopassaggio per impellenti bisogni corporali. Quella scaletta dalla quale il critico d'arte Francesco Arcangeli (che scrisse anche due memorabili articoli sportivi su Alfredo Binda e Angiolino Schiavio campioni del mondo) vedeva uscire i giocatori rossoblù e di Schiavio percepiva il passo di “galoppo rattenuto e ondeggiante”. Nel 1941 la squadra di calcio di Lettere in cui giocavamo Pasolini ed io vinse il campionato interfacoltà. Pier Paolo ne era il capitano.
Gli anni pasoliniani dal 1941 al 1943 restano memorabili per le esperienze di “Eredi” e del “Setaccio” e per gli incontri e l'amicizia che legò Pier Paolo a Francesco Arcangeli, che era amico di Rinaldi, del pittore Giorgio Morandi, dello scrittore Giuseppe Raimondi, e con Morandi e Raimondi fu anche imprigionato per antifascismo. Raimondi aveva la mitica abitazione dove esercitava il commercio di stufe in via Santo Stefano e Morandi abitava nella mitica casa di via Fondazza e il sodalizio è tramandato nel loro postumo epistolario. A Bologna c'è via Morandi, c'è via Arcangeli, e c'è via Gnudi. Con Cesare Gnudi, critico d'arte e sovrintendente, con Rinaldi e col fratello Gaetano poeta, Francesco Arcangeli intendeva dopo la guerra pubblicare la rivista “Il Foscolo” e aveva chiesto la collaborazione di Pasolini e mia; ma il sogno non venne mai realizzato. L'amico “Momi” Arcangeli morirà tragicamente un anno prima di Pasolini.
Negli anni dal 1940 al '43 sotto l'egida del partito fascista si pubblicavano a Bologna tre riviste: “L'Assalto” che culturalmente si può definire quella dei giornalisti e dei cineasti con Enzo Biagi, Lamberto Sechi, Renzo Renzi, Dario Zanelli, Adriano Magli; “Architrave” degli universitari del GUF con Agostino Bignardi e Giorgio Gardini redattori politici e tanti collaboratori per gli articoli culturali, diretta prima dal professor Mazzetti e poi da Eugenio Facchini che contemperarono fascismo e giovanile fame di cultura, e sarò sempre grato a Facchini per avermi salvato la vita delle retate tedesche e ne compiangerò la morte immeritata ad opera dei partigiani; e “Il Setaccio”, notiziario della GIL, che fu, per sapiente regia del pittore futurista e antifascista Italo Cinti, trasformato da bollettino di regime a nuova vita intelligente e affidato a Pasolini che raccolse intorno a sé e coordinò per settori i giovanissimi Mario Ricci, Carlo Alberto Manzoni, Fabio Mauri, Luigi Vecchi, Fabio Luca Cavazza (che sarà dopo la guerra il promotore del “Mulino”), Giovanna Bemporad che, ebrea, Pier Paolo mutò in Bembo, Achille Ardigò futuro sociologo, Augusto Pancaldi, Alberto Vighi, i friulani Bortotto e Castellani. Di Cinti scriverà un bellissimo ricordo Mario Ricci. E ci fu fuori dell'ufficialità anche “Eredi”, dal 1941 al 1942, esperienza vissuta da Pasolini con Roberto Roversi, Francesco Leonetti e Luciano Serra attraverso incontri, mescolati con castagnaccio e vino sardo, ai Giardini Margherita, o ai piedi della statua di Garibaldi che si erge imponente di fronte al teatro che ancora conserva il suo vecchio nome di Arena del Sole, dove si svolgevano un tempo esibizioni di lottatori, di sollevatori di pesi, di forzuti come Stianchên piegavano i ferri da cavallo. 
Alessandro Cervellati, cultore di memorie storiche e disegnatore, e a cui è stata dedicata una via, in uno dei suoi libri ha ricordato che un imbonitore, in un francese approssimativo unito a un arguto bolognese, presentando agli spettatori il numero di forza di un Isidoro allora famoso, disse: «Isidor campiòn du mond [sic] che con la man dréta liva un quintêl e con la man stanca squéza un pomdor», e poi gridava: «Isidor!»; rullo di tamburi e poi il possente Isidor sollevava con la destra l'ipotetico quintale e con la sinistra schiacciava un pomodoro. Esperienza vissuta anche attraverso la fitta corrispondenza tra Bologna e Casarsa sulle nostre poesie vagliate e discusse. Volevamo essere i continuatori della poesia classica filtrata nella lirica moderna di Montale, Ungaretti, Sereni, Gatto (non di Quasimodo che Pier Paolo detestava) e gli altri ermetici. Pasolini ci insegnò a essere poeti. Diceva: “Il nucleo della poesia è costituito da un gioco di parole la cui validità posa su misteriosi legami e armonie” e “lasciatevi guidare dalle parole che leggete” e che “canto non significa cantabilità”. Enzo Siciliano scriverà che i quattro avevano «la spasmodica volontà a essere poeti».
Che cosa abbia rappresentato Bologna per Pasolini si può dedurre da una sua lettera a noi amici, del 16 settembre 1941, sui ritorni dal Friuli: “Ma anche Bologna, dove ho affondato radici e ricordi da molti anni, e ho antiche consuetudini e cose che si ripetono secondo un uso ormai divenuto caro e fonte di nostalgia, mi è una meta molto dolorosa: questi ritorni, ormai uguali da molti anni, nei giorni non ancora estinti dell'estate, nel dolcemente squallido sole di settembre, sono per me una vera pena”. A Bologna c'erano luoghi frequentati in comune e che Andrea ha scolpito in piena luce o in penombra: la libreria dell'editore Cappelli dove è oggi la profumeria Sephora e dove nelle ricerche dei libri ci aiutava la grande amicizia col capocommesso Otello Masetti e il commesso Righi, e la libreria Nanni di libri usati sotto i Portici della Morte laterali al Pavaglione “meraviglioso luogo della mia vita, forse il più bel posto di tutti” e che è ancora come allora col colonnato, gli scaffali esterni ribaltabili, la pavimentazione lucida.

E vi si aggiunse un terzo quando decidemmo di pubblicare nel 1942 i nostri quattro libretti di liriche: le Poesie a Casarsa di Pasolini, le Poesie di Roversi, Sopra una perduta estate di Leonetti e Canto di memorie di Serra, come prima pietra culturale di “Eredi”. Dovevamo trovare un editore e fu Otello a indirizzarci. Ci portò nella libreria antiquaria Landi in piazza San Domenico 5, che Paolella ha ritratto nella solennità silenziosa degli antichi palazzi. Mario Landi era un ometto mitissimo che si accendeva di furore quando parlava dei fascisti e vendeva libri antichi e moderni. Ricordo che un giorno assistemmo ad una scena che ci colpì: un giovane ricercatore americano (gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra) acquistò tutte le opere del Quattrocento e sul Quattrocento, e rimanemmo esterrefatti.
Ed esterrefatti e felici lo fummo quando Gianfranco Contini scrisse a Pier Paolo che avrebbe recensito le poesie friulane e Pasolini ballò e saltò sotto i portici.
Cessata l'esperienza di “Eredi” e accantonata l'uscita della rivista a dopo la guerra, nell'orizzonte pasoliniano sorse la nuovissima esperienza del “Setaccio” che Mario Ricci ha mirabilmente presentata nel suo libro pubblicato da Cappelli. Era la rivista propagandistica della GIL, la dirigeva, responsabile del fascio, Giovanni Falzone. Come ho già detto, il “Setaccio” fu occupato con un abilissimo colpo di mano da Italo Cinti, pittore futurista e di sentimenti antifascisti, che ne fece un elemento di rottura culturale assegnando a Pasolini la guida di giovanissime intelligenze da proiettare nel futuro ciascuna in settori diversi (cinema e teatro, arte e narrativa, estetica e filosofia, poesia a traduzioni). L'apporto di Pasolini, poeta e pittore, critico letterario e artistico, e la cui presenza ha detto Ricci fu “di alta risonanza intellettuale”, divenne estremamente prezioso e fondamentale negli articoli che ne maturarono l'anelito verso l'intelligenza come libertà. Scrisse che i giovani dovevano porsi l'educazione come più alto compito per le future generazioni, che la posizione dell'intellettuale doveva scindersi da quella del politico propagandista, e addirittura affermò rischiosamente, perché scalfiva il ducismo di Mussolini, “manca l'eroe che come faro ci guidi costruendo gli eventi: questi saranno piuttosto frutto o premio della fratellanza o amore civile”. La rivista (alla quale collaborai con poesie e traduzioni perché ero sotto le armi) durò dal novembre 1942 al maggio 1943. Roversi e Leonetti non entrarono, e sarebbero poi stati con Pasolini, Scalia, Fortini e Romanò, gli artefici a Bologna di “Officina”.
C'è però un'altra tematica legata a Bologna: il teatro, che Pasolini definì “idolo del nostro pensiero”. Che ebbe una serata campale di gloria quando, all'inizio di gennaio 1941, a Bologna venne rappresentata La piccola città di Thornton Wilder con Elsa Merini nella parte di Emily e Renato Cialente nella parte di George, e andammo numerosi in un palco da cui, e a cominciare fu Pier Paolo, sputammo sulle zucche dei parrucconi scandalizzati per l'insolita scenografia del regista Fulchignoni e ululanti in platea. Wilder (che morirà come Pasolini nel 1975) era una scoperta di Pier Paolo, lettore con gli amici della rivista “Il Dramma” che riportava testi dell'autore irlandese, già nel 1940, e Roversi ricorda, e lo riporta Stefano Casi autore nel 1990 di un libro su Pasolini e la sua idea di teatro, che Pier Paolo radunava a casa gli amici, a cominciare da Carlo Manzoni il più teatrofilo della compagnia e che salivano di volta in volta “su una panca o su una sedia o contro un muro, in fondo a un breve corridoio” per recitare. Pier Paolo, disse Fabio Mauri, “era un mimo dotato” e io, negatissimo anche come guitto, fui forzato spettatore di tante recite in cui Pasolini si paludava con tendaggi, e ricordo come cavallo di battaglia Il furfantello dell'ovest dell'irlandese Synge (e posso supporre che l'essersi Pier Paolo cimentato come ho ricordato in una gara di 1500 metri sia un'eco delle corse podistiche vinte dal furfantello Christy).
Roversi nel 1942 fu chiamato a collaborare al ferrarese “Corriere Padano” come vice per le cronache teatrali bolognesi. E lo dico soprattutto perché a mio parere ha scritto su Pasolini a Bologna le pagine più illuminanti e acute, che ritrovo negli Atti (curati da Davide Ferretti e Gianni Scalia) del convegno bolognese in cui rividi dopo tanti anni Leonetti, Fabio Mauri, la Bemporad e Scalia nella felicità di un mite dicembre 1995. Roversi non partecipò al convegno ma negli Atti c'è, con l'indovinato pasoliniano titolo di Pasolini e l'aria barbaramente azzurra di Bologna, un intervento che cito nella sua parte ultima. Scrisse Roberto Roversi: “La città gli è rimasta dentro gli occhi, proprio per quel fascino luminoso, discreto, profondo, che ha sempre sconvolto i più attenti pazienti visitatori nel corso dei secoli”; e poiché nel marzo 1969 Pasolini aveva scritto che Bologna “ha di così bello l'inverno col sole e la neve, l'aria barbaramente azzurra sul cotto”, Roversi puntualizzò che il cotto è “la pietra rossa che il tempo ha impolverato”, e la città “è polpa di colori ferrei o tramutanti ed è già protagonista, eventuale protagonista, di uno dei suoi film”; concludendo con un pittorico volo sui secoli: “è da sperare che la città del medio evo, cupo nelle sue penombre profonde, del Quattrocento colorato e sferzante, del Seicento inondato dal fiume di una pittura senza fine, non lasci appassire la sua luce neanche negli occhi di Pasolini”, che “è stato, non per un giorno, anche bolognese”.
Che cosa rappresentasse Bologna per Pier Paolo si può trovare anche in una lettera a me scritta il 16 dicembre 1952: “Più passa il tempo, più si deposita nel fondo torbido, chiara e felice, la vita bolognese, e ho forti nostalgie. Parlare di tutto questo è ormai impossibile, perché c'è tutto un discorso da ricominciare, c'è la storia di quasi un decennio da raccontare: bisognerebbe scrivere volumi”.
Per Pasolini, Bologna fu la città dove conobbe il Longhi delle straordinarie lezioni su Masolino e Masaccio; dei suoi professori di liceo; di Arcangeli; di giovani intelletti da lui spronati e lanciati; di Masetti e di Landi; anche del fiume Reno dove passò lunghi meriggi della sua vita e che Andrea ha colto a Casalecchio blando e vegliato da rive boscose proiettate sulle acque o terrose e irte di cespugli; anche del torrente Savena per cui Ricci ricordò le “estive accademie” lungo il suo corso. Anche, aggiungerei, di quella lezione su Tacito del 1940 nella quale Gino Funaioli, grande filologo e genero del grandissimo filologo Wilamowitz, che era genero dello storico e premio Nobel per la letteratura Mommsen, in un'aula gremitissima parlò per un'ora sul significato della libertà, lasciandoci sconvolti e coinvolti.

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La stazione di Casarsa, simbolo delle partenze pasoliniane per Bologna e degli arrivi da Bologna, è ritratta da Andrea nell’atmosfera di opaco splendore che apparve a Pier Paolo quando accompagnò il fratello che andava ad unirsi ai partigiani. Casarsa, 44 metri sul livello del mare, è, dentro la campagna assolata, “la prima del mondo appena creato”, al centro di una croce geografica che ha in alto Valvasone e in basso San Vito e ai lati le braccia di Pordenone e Codroipo, e oltre il ponte della Delizia sente il respiro delle acque del Tagliamento frantumate da isolotti sabbiosi, arruffato di sabbie come lo vide Pier Paolo nel 1943. A Casarsa c’è ancora la casa dei Colussi, la famiglia della madre di Pier Paolo e della sorella di lei madre di Nico: Paolella la ritrae in un notturno enigma di curve e segnali, e vi passavano gli spettacoli delle solenni processioni di una fede contadina.
Aveva il campo di calcio, oasi di luce dove Pasolini giocava coi giovani amici e da dove, dopo una partita domenicale, egli corse in un rito di disperata vitalità nell’antico cimitero dietro la ferrovia ora invaso dalle sterpaglie e dal frascume in un caotico abbraccio come ci mostra Paolella. Nel nuovo, Pasolini ci andrà nel 1944 per la sepoltura della nonna e due anni dopo pubblicherà uno dei libri meno conosciuti ma che ritengo fra i suoi più intensamente strazianti e tragicamente suggestivi. Nella consapevolezza dell’evento che oscura l’esistenza, Pier Paolo scandisce: “nel silenzio/ che nei petti dei vivi/ ansima come i campi notturni,/ tu scendi;/ e solo la bara/ nell’urtare la terra/ rompe la pace dei morti”; e la nonna ammonisce e chiede: “io sono morta/ e voi piangete intorno a me. / Ma il vostro pianto è peccato./ Lasciatemi sola/ e andate a cantare nell’orto./ Andate a cantare nel focolare/ che brilla beato,/ anche privo di questa povera/ morta”; e in una purezza classica di versi il nipote implora “O dolce sonno/ ingannala ancora tu,/ un poco./ Consuma queste ultime ore/ e, inavvertito,/ falle valicare la soglia”. Pier Paolo, che era anche pittore e sulle copertine e all’interno del “Setaccio” erano comparsi suggestivi disegni, ha ritratto il “sonno” deponendovi la memoria del viso dolcemente spento della “nonnuccia”, e Andrea ha, nei fiori e nelle erbe che ornano la semplice tomba di Giulia Colussi, proposto un primo piano di luci e di ombre. L’itinerario della morte è uno dei motivi della vita e delle opere di Pier Paolo, e percorre le friulane Poesie a Casarsa accompagnate dal suono delle campane nel “timp di mè donzèl” (tempo di me adolescente ) dove la disperazione e la speranza trovano l’espressione poetica più alta della lirica invocazione alla stella di Altair: “Altair, stele dal dûl/ quant che mi levi trist/ jo ti serci tal nûl/ e tu/ tu mi asistis”.  Dûl (pietà) e nûl (nuvole), sono i brevissimi richiami all’infinità che ci sovrasta.
La realtà e il dolore avvolgono le figure della madre Susanna  (nata a Casarsa nel 1891 e morta a Udine nel 1981) e del fratello Guido. Silvana Mauri definì Susanna “figura fissa e simbolica, cristallizzata nell’infanzia” e Pier Paolo chiedeva “ Madre, chi eri /quando eri giovane?” e la raffigurava in friulano “mari-fruta”, madre fanciulla, vedendola come una giovinetta, in un legame visionario che verrà sublimato nella Madonna del Vangelo secondo Matteo e nell’affermazione “io sono poeta per lei”. Susanna si impietrì alla morte di Guido, Pier Paolo ne osservò “il doloroso sguardo” e ne ascoltò “la voce stanca”. La ricordo a Bologna, piccola, carina, molto truccata: Nico Naldini ricorda che il belletto del viso non era perdonato dai puritani casarsesi. Ho ritrovato una  cartolina postale del 3 febbraio 1943, inviatami alla scuola allievi ufficiali di Casagiove di Caserta, in cui mi raccomandava di non dimenticare la poesia e mi diceva che Guido aveva trovato di dare lezioni di matematica a due bambine di terza media. Guido Pasolini era l’opposto di Pier Paolo: vitalista, esuberante, temerario, votato all’azione, diplomato al liceo scientifico, amante della caccia, del pattinaggio,  e dei lavori in legno; seppi della sua morte in una lunga lettera di Pier Paolo del 21 agosto 1945 e il 18 settembre lo commemorai su “Giustizia e Libertà”, il giornale bolognese del Partito d’Azione che dirigevo con Sergio Telmon, che era stato fra i collaboratori del “Setaccio” e uno dei dirigenti del comitato di liberazione.
Gli amici bolognesi di “Eredi” conobbero Casarsa dalle lettere scambiate con Pasolini e dalle poesie inserite. Conobbero creature incredibili di una dimensione sconosciuta come “il mare delle oche” guidate da Guido e per le quali il cugino Nico tagliava l’erba; conobbero l’esistenza degli amici casarsesi: Pieruti, Zùan, Bepi “alto sui bastoni delle ossa, magro al timone del carro” e “mano che stringe i bovi”, e il calciatore Maulito; conobbero il fuoco di voci e grida della gente di una cittadina che acquistava forme leggendarie e magiche della realtà quotidiana. L’immagine di Casarsa si era trasformata dalla rozzezza rustica e contadina e da una vita stecchita come Pier Paolo la definiva a Farolfi nel 1940 in un accogliente nido pascoliano che si colorava poeticamente e diveniva luogo d’incontri culturali e di infatuazioni adolescenziali. Le liriche italiane, che Pasolini inviava a Bologna nelle lettere collettive indirizzate a me come destinatario e a Roversi e Leonetti come comuni riceventi dei messaggi di “Eredi” nell’estate del 1941, avrebbero dovuto far parte di una pubblicazione intitolata I confini; e i confini erano le proiezioni dei miti del giorno e della notte, dell’infanzia e della fanciullezza, della solitudine e del destino, e sono fondamentali per la formazione di Pasolini e per fissare le prime voci di un’alta sua poetica. Due mi appaiono ancora oggi tra le più significative e arcane: Cane di notte e Risveglio. La prima prende avvio da un appunto dello Zibaldone leopardiano del 1817 (“Cane di  notte dal casolare, al passare del viandante”) con l’aggiunta della chiusa del Dì di festa e del Cane notturno in Odi e inni del Pascoli; ma Pasolini imposta l’allucinante rapporto fra il cane e il poeta in un desolato inno alla notte, in uno scavo di veglia e insonnia, nella presenza incombente del fato famigliare e individuale. Il cane è lacerato e laceratore, tra finito e infinito.
La seconda è ancora più alta: il manzoniano inizio che pare sinteticamente evocare il viaggio del diacono Martino nell’Adelchi si cala nell’immersione cosmica e nella consapevolezza della propria sorte, come punto di partenza da individuare in uno dei Primi Poemetti pascoliani, Nella notte.
Ma l’intrico allusivo delle voci e delle suggestioni a indicare la vita come mistero e fatica che è in Pascoli si scompone in Pasolini e culmina dentro il realismo del pasto dell’animale vorace e la metafisica dello sconvolgimento e dell’inalterabilità. La poesia è dell’agosto e la propongo ai fruitori di questa pubblicazione: “Mi ridestai; con muti passi/ valicai la valle che ormai/ mi separava dalla sorta mattina./ Stetti sul davanzale ed una/ delle scialbe cose fui che la triste/ luce additava. Tremare in fondo/ ai muri la sciagura vidi, e la ruina/ di gialle pietre sembrava ferma/ sulla vita degli uomini. Nell’anatra/ che fosche spoglie della notturna/ pioggia tranguigiava, vidi/ la minaccia impassibile degli anni”.
L’uscita dei quattro libri di poesie concluse la stagione di “Eredi” e il 1942 fu per Pasolini l’anno in cui entrò “in un’adulta fanciullezza” e l’anno del messaggio nuovo agli amici lontani che le Poesie a Casarsa in friulano rivelarono: ossia, come ha detto Giovanna Bemporad, “la purezza lirica assoluta”. Il libro rappresentava un internazionale atto di trasgressione che si inseriva nella multiforme cultura europea delle lingue romanze testimoniata dall’interessamento di Gianfranco Contini, il grande filologo trentenne che insegnava a Friburgo e in Svizzera e nel 1943 recensì il volumetto del giovanissimo Pier Paolo che già era stato affascinato dalle lezioni di Roberto Longhi. Vorrei, a legittimare il felice intuito di Pasolini, aggiungere che l’alto magistero di Longhi e Contini segnò l’avvio e il percorso del grande studioso della letteratura Ezio Raimondi, come lui stesso ha detto e ampiamente documentato a Paolo Di Stefano in un’intervista apparsa sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio 2010. Contini comprese il mondo poetico di “un ragazzo” che aveva introdotto uno “scandalo” nella letteratura dialettale, e scrutando “la carne” delle Poesie a Casarsa, ne vide l’affrancamento dai ritmi canonici delle abitudini paesane nell’“ascesi dell’uomo sul proprio corpo che fa l’equilibrio del libretto”. Contini aveva annunciato la recensione nel 1942 e Pasolini, oltre che saltare e  ballare sotto i portici bolognesi, poté dire “ sono molto ambizioso” e “amo veramente la gloria”. Lo confessò in una lunga dedica a un professore trovata nel 1999 da Stefania Alluigi in una copia delle Poesie a Casarsa nella raccolta privata della Libreria Martincigh di Udine: quasi un segno del destino fra le due librerie antiquarie Landi e Martincigh e con la pubblicazione che ne fece poi la scopritrice del testo sconosciuto.
A questo punto debbo togliermi tanto di cappello al cugino Nico Naldini, figlio di Enrichetta sorella di Susanna, che ha dedicato a Pier Paolo una serie di opere (cito Nei campi del Friuli, Pasolini una vita, la raccolta delle Lettere, e la cura degli Stroligut, Mio cugino Pasolini, Non ci si difende dai ricordi, nonché Un paese di temporali e di primule) e che ne fanno il biografo per eccellenza e il vero erede di Pier Paolo, e a lui ho lasciato le lettere dell’estate 1941 che, indirizzate a me, erano contemporanemente dirette anche a Roversi e a Leonetti, patrimonio collettivo dunque. Spetterebbe a Naldini continuare il discorso e non a me, tuttavia il mio contributo, seppure ristretto, sarà il più possibile personale e anche legato alle fotografie dei luoghi frutto delle ricerche di Andrea Paolella. Possiedo, con dediche, tutti i libri delle poesie giovanili di Pier Paolo fino al 1949, gli Atti dei Convegni  di Casarsa del 1985 e di Reggio Emilia e di Bologna del 1995, i numeri originali del “Setaccio”, tutti gli “Stroligut” , le lettere inviate a me singolarmente dal 1942 al 1953, ecc. ecc. Negli eccetera ci sono anche i ricordi, via non lasciamoci prendere dalle malinconie. Dovrò prendere in mano qualche filo perché il labirinto pasoliniano è più lungo di quello minoico e più lungo dei 172 chilometri del Tagliamento coi suoi meandri e i suoi rami, le grandi acque e le secche dell’“aga” del Friuli.
Nella vita e nell’opera di Pasolini il Tagliamento (Tiliment in friulano) entra con prepotenza “orgoglioso e terribile”, col suo “smisurato greto”, con la sua “bianchezza allucinante”, col suo “solco singolare di ghiaia” ed è situato tra il “mare e la montagna”, leopardianamente. Ed è legato anche al pecoraio Bruno, “giovane indigeno” (“estroso e malvagio” lo definisce Naldini, “amante” lo dichiara esplicitamente Schwartz) oggetto dei suoi desideri fisici e “primo esperimento di amore”, come appare in una lettera del 24 giugno 1943 che è una “smaltata pagina di prosa”, così la definisce Enzo Siciliano nella Vita di Pasolini, ed è, nei particolari e nelle soluzioni sceniche, l’incrocio di reale e irreale, di impudicizia e sublimazione, di erompenti simbologie: i  soldati “stranieri” (tedeschi) che osservano meravigliati Pier Paolo e Bruno che si tuffano in acque gelide e misteriose, il temporale improvviso e “livido come un pene eretto”, il Tagliamento che scompare nella nebbia, la fuga degli zingari e dentro un carrozzone celeste un ragazzo che suona a distesa con una tromba.
È anche il tempo in cui l’esistenza di Pasolini è segnata e incisa dolorosamente dalla guerra: la prigionia del padre in Kenia, la morte in Russia del suo piú caro amico Ermes Parini (detto Parìa) e poi imminente la morte a Porzùs del fratello Guido (che da partigiano, aveva assunto emblematicamente il nome di Ermes). La guerra gli fa evocare l’invasione turca del Friuli nel 1499 e scrivere l’atto unico I Turcs tal Friul (I Turchi nel Friuli), drammaticamente e tragicamente straordinario (e non commedia come lo dice Schwartz), datato 1944, quasi premonizione dell’uccisione del fratello.
Si tratta di un’azione teatrale in cui si ravvisa una sorta di epopea della famiglia Colussi espressa nei personaggi dei fratelli Pauli e Meni, della madre Lussìa, del padre Zuàn; i dialoghi, concitati, si svolgono sotto un portico del villaggio (Casarsa), l’atmosfera è cupamente infausta e gravida di lutti incombenti; Pauli soggiace al destino ma Meni organizza la resistenza; alla fine nel rosso tramonto si ode in lontananza il canto dei Turchi mentre i giovani del villaggio portano il corpo senza vita di Meni caduto per la libertà. Meni può simboleggiare la proiezione e predestinazione del sacrificio di Guido; Pauli (Pier Paolo) dirà che non è giusto che tutto debba bruciare e sparire in un povero paese cristiano.
L’infuriare della guerra determinò le famiglie dei braccianti a salvaguardare i figli facendoli educare nella scuoletta che Pasolini creò in un casolare affittato a Versuta, a 2 km da Casarsa, dove gli insegnanti furono Pasolini (storia e materie letterarie), Cesare Bortotto (scienze), Riccardo Castellani (matematica), Giovanna Bemporad (greco e inglese) mentre la madre Susanna, maestra elementare, si prendeva cura dei più piccoli.
Il destino di Pasolini, ha scritto Naldini, è un “labirinto” che comincia a Versuta ed è l’esplorazione di un mondo contadino che irriga la sua poesia e di una campagna in cui vi sono espresse le “fonti emotive”, la scoperta della sua ansia e vocazione pedagogica (dirà Andrea Zanzotto che in lui c’è in primo luogo il maestro), scopre il cinema e, in “modo definitivo, la propria identità omosessuale” che fu inizialmente platonica e poi voracemente ossessiva. Qui fondò l’Academiuta e si aprì al mondo romanzo della Ladinia.
Del suo ascendente pedagogico è testimonianza il convegno con mostra di Reggio Emilia nel marzo del 1995 a cura del preside Roberto Villa e del docente di filosofia e storia Lorenzo Capitani, e gli Atti pubblicati dall’editore Aliberti (che si era laureato con una tesi su Pasolini discussa col professor Ezio Raimondi) recano i fondamentali contributi di Marco Antonio Bazzocchi (Signor Maestro, maestro signore), di Roberto Villa (Pier Paolo Pasolini, Educazione e Democrazia), di Sergio Chiariotto (Un insegnante nei campi del Friuli),  di Luciano Serra (L’apprendistato civile di Pasolini 1942-1943), di Lorenzo Capitani (Poesia in forma di scuola), di Gianni Scalia (La mania della pedagogia), di Enzo Golino (Pasolini, pedagogo di massa), di Andrea Zanzotto (La passione didattica di un “maestro mirabile”), di Marco Antonio Bazzocchi (Regressione, poesia e pedagogia in Pasolini), di Flavia Rossi (Pasolini o della pedagogia augurale), di Enzo Lavagnini (Pasolini: “un uomo fioriva”. Educazione e strati popolari), di Gianni Borgna (Pasolini tra la “meglio gioventù”e la “nuova gioventù”). Questo ghiotto piatto di saggi fondamentali che indico agli studiosi pasoliniani più attenti ebbe due titoli, negli atti sempre pubblicati da Aliberti: prima Pier Paolo Pasolini: educazione e democrazia e poi Pasolini e la scuola. Il maestro e la meglio gioventù.
Bisogna tornare al Friuli, dove l’esperimento di Versuta fu anche lùdico, e il merito fu gran parte della violinista slava Pina Kalz, profuga a Casarsa, che diresse cori di fanciulli musicati dalla Bemporad e suonò “spartiti di musica classica che incantavano nei silenzi piovosi di Versuta”, come scrisse Naldini. Si veda anche, nello "Stroligut" dell’agosto 1944 Memoria di uno Spetaculut di Pasolini. Dal canto suo, Pier Paolo disse di avere eseguito Beethoven al tam tam dei vecchi negri, da lui nutrito nel suo “impenitente cuore di mozzo”, e organizzava recite di cui era autore e scenografo coadiuvato dal pittore Federico De Rocco. Questi Spetaculus erano il preludio dell’Academiuta de Lenga Furlana che ebbe come portavoce la rivista, nata nel 1944 e stampata a San Vito, chiamata inizialmente “Stroligut di cà de l’aga”, ossia lunarietto pubblicato sulla riva destra del Tagliamento, ma che era ben più di un almanacco, e poi semplicemente “Stroligut” e infine, in formato più ridotto ma con maggiori ambizioni, “Quaderno Romanzo”. In questa pubblicazione fecero le ossa giovani e giovanissimi, guidati da Pasolini che aveva al suo fianco Bortotto e Castellani e il medico urologo e poeta Franco De Gironcoli, che, nato a Gorizia nel 1892 e morto a Vienna nel 1979, è una delle voci più intense della letteratura friulana nel suo triste specchiarsi dentro il tempo e i sogni. Da “Eredi” e dal “Setaccio” la vocazione di Pier Paolo (che si firmava anche Pieri Pauli, Pieri Fumul (che in friulano significa grigio) e San Pieri era quindi letteraria, educativa, promotrice di sodalizi e cenacoli per i cui aderenti Naldini coniò le espressioni di “iniziati” e “catecumeni”.
Nel 1947, quando insegnava alla scuola media di Valvasone, Pasolini pubblicò nel “Quaderno” l’invito all’autonomia del Friuli e nove poesie di nove poeti catalani. Il suo non era secessionismo ma adesione culturale sia all’Italia i cui confini sono segnati per lui dal Friuli sia al federalismo europeo dove avrebbero avuto voce la Catalogna, la Provenza, i Grigioni, la Romania entro una comune storia e tradizione romanza, per cui “Favelà furlan a voul disi favelà Latin”.
Non mi soffermerò su un esame dei cinque fascicoli della rivista, del resto ampiamente studiati da Nico Naldini che provvidenzialmente curò per Neri e Pozza nel 1994 la ristampa integrale, così come nel 1977 per Cappelli aveva fatto Mario Ricci presentando del “Setaccio” tutti i testi di Pasolini, e gran parte di quelli degli altri che vi scrissero. Qui intendo soffermarmi su due giovani collaboratori degli “Stroligut” e del “Quaderno”: Tonuti Spagnol e Novella Aurora Cantarutti. Tonuti Spagnol, per cui Pier Paolo ebbe un’infatuazione e adorazione adolescenziale, aveva quattordici anni quando sullo “Stroligut” del 1946 apparve una sua lunga divertente prosa narrativa nel friulano di Casarsa in cui racconta come, ragazzino con nessuna voglia di lavorare, spera nella pioggia per non zappare e costretto ad andarci dice di essersi dimenticato l’attrezzo e viene rimandato a prenderlo; il manico si rompe, viene l’ora di rientrare e, mentre gli altri sono tutti contenti di aver fatto un buon lavoro, Tonuti dice di essere più contento di loro perché non era stanco e non aveva fatto nulla. Il titolo di questo brillante esordio culturale era Jo i soi un contadinùt mus, Io sono un contadinello somaro, che è una sorta di inno alla “cagnata”, la fiacchezza, e vi spuntano immagini felicissime come quelle di lui che sul carretto  stava “dut ingrisignit” (è il participio del verbo ingrisignisi ossia rabbrividire) e dell’unico rumore che sentiva ed erano i tedeschi che “comedavin il Punt” (aggiustavano il ponte). Il tema del ragazzetto costretto ad andare a lavorare “quant qe inciamò li stelis a luzèvin in tal seil, cuant qe i giaj a scuminsiavia dismovi li ciasis indurmididis” (quando ancora le stelle brillavano in cielo, quando i galli cominciavano a svegliare le case addormentate) prosegue nel secondo racconto Sul travas, il travaso del vino, e Tonuti viene fatto bere finché lo buttano nella Brenta; e ha un seguito anche nella poesia Ricuart, ricordo dell’infanzia dove si dice che suo padre faceva cesti “e jo invensi no”, e invece no. Ma nella lirica si avverte il contrasto fra la gioia di giocare in quei felici giorni e la consapevolezza che sarebbero divenuti miraggi freddi e c’è il monito della madre “ti provaràs cui piès fangas/ tal grin de la vita”, proverai coi piedi infangati nel grembo della vita. Il titolo delle poesie di Tonuti Spagnol, pubblicate nel 1985 con prefazione di Amedeo Giacomini, sarà significamente Timp piardùt. Da incosciente “somarel” a pensoso evocatore del tempo perduto.
Invitata da Pier Paolo, la studentessa Novella Aurora Cantarutti – nata a Spilimbergo nel 1920 e morta a Udine nel 2009 – inviò la poesia Not che riporto: “Al bàa un cian/ e un cian a’i rispunt/ un pec’ in na,/ e pi lontàn un âtri/ al bàa a la luna./ Iè, da la su a scolta/ riduciant./ Encia jo i clami/ planc qualchidun, /ferma te l’antîl/ dal balcòn viert./ I clami, ma nissûn/ a mi rispùnt”. É scritta nella parlata di Novaròn e mi ricorda (scusate se mi cito) la prima mia lirica che Pier Paolo accettò come inizio del mio percorso poetico di “Eredi” e diceva: “Strisciano i cani, muti, / al desiderio raggiunto/ e tremano./ Uno solo, lontano,/ disperde al soffio dei venti/ l’ansia inappagata”, e uscì nel mio libretto del 1942. Nelle due poesie è simboleggiata la solitudine che le immagini dei cani sparsi o in gruppo rivolti alla luna rendono più acuta. 
La Cantarutti nel gennaio 1945 scrisse una poesia su suo fratello prigioniero, che pubblicò nel 1946 in un almanacco friulano, in versi che calano in colonna a filo sottile e sinuoso, versi accorati alla sua casa vuota da dove sente i morsi della fame di lui e il pane diventa per lei più amaro del veleno e duro come sasso, tormentoso come un castigo di Dio. Questa dolente lirica di 71 versi e la lirica alla notte appaiono nella raccolta Puisiis pubblicata a Treviso nel 1952.
Pier Paolo Pasolini nello “Stroligut” del 1945 inserì il testamento spirituale del fratello sul suo martirio per la spirituale grandezza della Patria, “a cui io vi supplico di credere” e pubblicò tre dei Còrus in muart di Guido: angosciose invocazioni (dove mond, vita, distin, pasat, libertat fanno da sfondo) e dolorosi colloqui e paragoni tra pronomi personali e verbi brevissimi in un confronto di due sorti diverse (“Eco, qisto mond/ par te a no ‘l è/ E tu par te i no ti sos,/ a par nu sì”). Guido, lo diciamo qui, era nato a Belluno il 4 ottobre 1925 ed è morto a Porzùs il 7 febbraio 1945.
Guido poteva salvarsi ma tornò a morire coi compagni partigiani del Partito d’Azione uccisi dai comunisti che volevano annettere il Friuli alla Jugoslavia. Pier Paolo in uno dei cori scrive “ i ti sos tornat lassù/ ciaminant”, sei tornato lassù camminando e in una lettera dirà “camminare, camminare, dentro il Friuli vuoto e infinito”. Il Friuli come grande pianura fra Tagliamento e Livenza è sentito come luogo della sua vita e confine dell’Italia e c’è odore di terra romanza, di conoscenza raggiunta nella scelta del friulano. Giustamente Lorenzo Capitani nel convegno reggiano ha richiamato la lettera del 3 novembre 1945 in cui Pasolini disse a Franco De Gironcoli che scrivere è il mezzo per fissare “una melodia infinita, o il momento poetico in cui si sente l’infinito nel soggetto”. Fra i paesi da lui visti e amati, ce n’è uno che particolarmente predilesse: Valvasone. Vi insegnò nel 1947 alla scuola media, scrisse poesiole per i suoi alunni che denotano la sua vocazione alla fantasia nel suo spaziare didattico, e nel quotidiano “Il Mattino del Popolo” del 16 febbraio 1947  pubblicò un lungo articolo che Naldini ha inserito in Un paese di temporali e di primule del 1993 e che è uno straordinario capolavoro di fantasia, geografia, antropologia, da leggere e rileggere. Pier Paolo conobbe Valvasone a 14 anni nel 1936 e tornandovi la identificò come “ideale città del silenzio”.
Andrea Paolella, è ora che torniamo a lui, ha colto di Valvasone tre immagini emblematiche perchè suggestioni opposte: la scuola media, bianca e intatta nello stile pur presentando oggi crepe nell’intonaco, l’ancora intatto meraviglioso pozzo che pare danzare aereo nei ferri battuti che lo sovrastano, il castello abbandonato (sconsolato lo aveva definito Pasolini) visto internamente ormai invaso cupamente dalle erbacce. L’obiettivo di Andrea si è spostato e posato in una serie di paesaggi: così quello di Pordenone restituendoci l’atmosfera romantica del torrente Noncello (Pasolini lo chiama corrente) che scorre fra due rive dove gli alberi si protendono selvosi sulle acque tranquille; così sulla fontana cara al Nievo di Vinchiaredo che appare nella sua sacralità votiva; così sul Pelmo che si affaccia opaco oltre i boschi e le case con la scuola elementare; così indugiando e scattando due fotografie esemplari, sulla Forcella Grande che Pasolini aveva salito nel maggio 1942 discendendone correndo per avervi avvertito le minacce di una terrificante solitudine. Andrea ha voluto salirvi con una guida, faticando ma regalandosi e regalandoci le  immagini di imponenti rocce striate e l’impeto prepotente di un ghiaione in pendio che sembra un bianco grido della natura.
Di Caorle, dove Pasolini avvertì la disperazione dell’adolescenza e dove sentì che gli sfuggivano i fili della vita, ma dove osservò anche la folla contadina, in sottoveste o mutande, formicolare oltre capanni e ombrelloni, Paolella ha inteso cogliere gli ombrelloni a scacchi sotto la spalletta inclinata sulla spiaggia e ha aperto l’obiettivo sulla vastità del fiume Livenza e della sua foce. Molte immagini ha dedicato a San Giovanni, ai luoghi dove nel 1948-1949 scoppiò la rivolta dei contadini contro i ricchi agrari. Ben diversa gli era apparso San Giovanni il 19 gennaio 1947 quando scrisse a Gianfranco D’Aronco di sentire suonare le campane e di aver visto dalle finestre azzurre i monti e immaginato il mare. Ed era un’eco del verso leopardiano “e quindi il mar da lungi, e quindi il monte”.
Le immagini di assoluti silenzi che Andrea presenta di San Giovanni sono quelle di oggi, immobilizzate e per così dire plasticate o congelate in una quotidianità borghese da cartoline illustrate, a bella posta in aperto stridore con quei tumulti della povera gente che si vide contro polizia e carabinieri. Da questa situazione di disagio Pasolini ebbe la spinta alla giustizia e all’adesione con gli oppressi che l’indussero a iscriversi al partito comunista e fu, ha scritto Nico Naldini, “la massima forzatura alla sua personalità” per avere creduto di potere, attraverso il marxismo, conoscere meglio la realtà. Tanto, si può aggiungere, da fargli scavalcare l’eccidio di Porzùs e il martirio di Guido in nome di una palingenesi sociale. Pier Paolo divenne segretario della sezione di San Giovanni e andrà come delegato al Congresso della Pace di Parigi.
La ribellione mezzadrile e bracciantile era partita da San Vito dove i più ricchi proprietari di terre erano i Pitotti. Paolella ci ha dato un pezzo di antologica bravura fotografica, una stralunata visione della loro villa: dall’edera che copre i muri in primo piano a sinistra al denso fogliame che ricopre la facciata della casa sullo sfondo da cui emergono squarci bianchi e uno al centro, più alto degli altri, guizza come un allucinante e bizzarro fantasma o un esagitato spirito di tregenda.
Ed ecco nel 1949, l’apparizione delle poesie friulane di Dov’è la mia patria nelle edizioni dell’Academiuta apre nuovi capitoli linguistici e si fonde con l’amicizia del pittore Giuseppe Zigaina di Cervignano che aveva dipinto paesaggi e crocifissioni ispirate a Rouault, e col quale Pasolini girava in bicicletta per compiere ricerche linguistiche nei borghi friulani. Pier Paolo rievocherà, dedicandogli per una sua mostra il poemetto di sessantaquattro terzine di “I campi del Friuli” pubblicato nel secondo numero della rivista “Officina” del luglio 1955, un incontro serale a Ruda in occasione di una festa contadina ricambiando Zigaina per avergli illustrato con tredici disegni Dov’è la mia patria. Nei disegni apparivano con volti ovali senza lineamenti i simboli del lavoro e del riposo dai tratti graffianti e carichi di tensioni umane vibranti e incupite in grovigli di uomini e biciclette in una metafisica popolana che coinvolgeva operai e mietitori, pescatori e scioperanti. Negli anni ’40 lo scrittore reggiano Silvio D’Arzo di cui PPP riconobbe la grandezza in una lettera del 1957, citò in racconti e romanzi le biciclette «da corsa e da macellai» «strane e impossibili da fornai» «di operai col manubrio arrugginito e un freno solo e impossibile». Un anno prima, sul “Mattino del popolo” Pasolini aveva pubblicato un articolo dal titolo Simili ad arcangeli (che sarà variato poi e si troverà in appendice ai Ragazzi di vita) nel quale erompe l’immagine della pioggia di “operai in bicicletta” lungo la statale Venezia-Trieste, e che Naldini ha riproposto nel testo primitivo in Un paese di temporali e di primule nella cui copertina a colori è riprodotto il dipinto splendido di Zigaina dal titolo Biciclette e falci del 1953, una delle opere più suggestive del pittore tornato al paeseaggio di un amatissimo Friuli.
Nel libro di poesie del 1949, ha scritto Piera Rizzolatti negli Atti del Convegno di Casarsa del 1985, “esplode il plurilinguismo del poeta che percorre linguisticamente il Friuli occidentale, fa proprie e sperimenta le varietà friulane e venete di quest’area. A questo importante aspetto lessicale e filologico fa riscontro, e desidero metterlo in rilievo, l’aspetto sociale che traspare nel contrasto fra miseria e ricchezza, con punte di acuti accenti di libertà nell’immagine di ascolto dei “fiumi della vita dei poveri” svincolati dal prete, dal gastaldo, dal padrone e dai suoi cani, e nell’esclamazione finale rivolta alla madre: “Ahi, mari!/ Il nustri còur al sarà un soreli/ i ciamps libars a svuolaràn,/ di sera i zurjarìn cun cians di oru/ tal curtìl lusìnt di libertàt!/ Ahi, mari!” ossia: Ahi madre! Il nostro cuore sarà un sole, i campi liberi voleranno, di sera giocheremo con cani d’oro nel cortile lucente di libertà! Ahi, madre! E c’è anche Il testament Coran del giovane catturato dai tedeschi e impiccato al gelso dell’osteria con l’immagine dei suoi “vuoj vuòiti”, occhi vuoti, che ci può ricordare “les yeux cavez”, gli occhi scavati dalle gazze e dai corvi nella ballata famosa degli impiccati di François Villon. Il Testament Coran vincerà nel 1950 il secondo premio a Cattolica con gran gioia della madre.
Gli amici di “Eredi’ e del “Setaccio”, laureati quasi tutti, si erano dispersi, avviati alle loro attività professionali: di avvocati come Vecchi, Cavazza, Vighi; di insegnanti come il sottoscritto; di educatori come Ricci; di medici come Manzoni; di bibliotecari come Leonetti; di librai antiquari come Roversi; di giornalisti come Telmon e Pancaldi. Tonuti Spagnol andrà in provincia di Como a lavorare a una seggiovia e avventurosamente farà il contrabbandiere di sigarette prima di partire militare nel 1952 e alla fine fare una brillante carriera nelle assicurazioni. Pasolini, che continuerà a tenere i contatti con Contini e ad allacciarne altri con fedeli amici come Sereni e Spagnoletti - è di Scalia la distinzione fra “gli amici suoi e i suoi amici” - perde il posto di insegnante dopo lo scandalo suscitato dai fatti di Ramuscello e a Farolfi scrisse il 31 dicembre 1949 di aver subito un “tremendo scossone biografico” e il 27 gennaio gli disse di trovarsi in una situazione disperata. A Silvana Mauri il 18 gennaio aveva detto di non aver capito nulla del mondo, di voler andare in Libano, e di sentirsi “Rimbaud senza genio”. Il 27 gennaio le parlò delle sofferenze disumane della madre e le annunciò di partire con lei per Roma ad alloggiare in via Porta Pinciana 34, presso lo zio antiquario Gino Colussi, per fuggire alla “malvagità e pazzia” del padre. Andrea ha inquadrato mirabilmente la monumentalità del portone scuro dentro l’arco dai grossi conci aggettanti e la decorazione della fascia esterna coi fregi intrecciati. A Silvana, che lo amava e alla quale aveva già detto di averla amata “oltre un certo limite” consapevole di non poterla sposare perché omosessuale, e che stava per unirsi in matrimonio col giovane scrittore Ottiero Ottieri e lavorava con lo zio editore Valentino Bompiani, ricordò il 10 febbraio che nel 1942 era “sano come un pesce e completo come un albero” e che continuava ad essere un “ragazzo spaventosamente onesto e buono”, e affermò che Roma gli pareva una nuova Casarsa, di sentirsi come San Paolo e di dover affrontare come lui lo scandalo e che la sessualità degli altri lo faceva vergognare della sua. L’11 febbraio sempre a Silvana scrisse di non rimpiangere Casarsa e di averla superata e che Roma si distendeva intorno a lui come “disegnata nel vuoto” e con un “potere consolatorio” immergendolo “nei suoi rumori”. Nel febbraio del ’50 a Nico scrisse che Roma “è divina” pur definendosi sempre in febbraio a Farolfi come “un ergastolano”.
A fine febbraio Pier Paolo così mi scrisse: “Ho ricevuto una tua incredibile lettera, incredibile perché credevo che sapessi che io sono a Roma, fuggito con mia madre da Casarsa” e angosciosamente terminava “Mia madre è a servizio e io non riesco a trovare lavoro, mi sento solo, incapace, in condizioni tremende. Per adesso mi mantiene mio zio”. Questa lettera, che sarà presentata da Roversi nello spettacolo I campi del Friuli del 1978, giunse come fulmine a ciel sereno, pesante come macigno, e fu una fitta dolorosa. Del lavoro trovato dalla madre presso una famiglia con un bambino a Colleverde di Montecassiano Pasolini parlò a Silvana e ne era felice, mentre non lo era per sé in quanto non trovava “nemmeno una miserabile lezione privata” terminando col dire che la sua “naturale gaiezza” era “una fotografia ingiallita”. Era anche triste perché, sempre nel marzo, a Nico disse che non gli scriveva più nessuno.
A Giacinto Spagnoletti scriverà nell’estate 1952 su Roma: “è tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gola di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie”. Ed è come un annuncio dei suoi romanzi. Nel 1953 a Leonetti ricordò il periodo di Bologna “ancora turgido e vicino” e gli farà sapere che Bassani lo considerava “il migliore di Bologna” e sempre a Leonetti parlerà dell’ammirazione di Sciascia per Roversi. E sono come gli annunci dell’imminente fondazione di “Officina”.
Potevano coesistere per Pasolini sradicato dal Friuli i due modelli geografici e lessicali, colludere o collidere? Educatore nelle scuole e studioso della letteratura dialettale, la continuità didattica tra Versuta e Ciampino e il duplice messaggio della rondine caduta e salvata nel laghetto del Pacher e caduta e salvata nel Tevere potevano illuderlo? A Ciampino trovò un posto di insegnante nel dicembre del 1951, l’anno in cui frequentò Ungaretti e Gadda, Bertolucci e Caproni (anche lui scrittore povero e povero insegnante), in una media parificata dove attuò quella “mania della pedagogia” di cui scrisse a Spagnoletti in gennaio. Allora Ciampino era un borgo di poche strade sterrate e Pasolini divenne più amico che professore per i suoi allievi che portò spesso in gita, anche a Orvieto e a Napoli. Oggi la scuola si è trasformata e ha ceduto il posto a palazzi e le vie non asfaltate e vi sostano le automobili: le documenta una fotografia di Paolella in cui le luci ambigue proiettano la banalità dell’esplosione demografica.
Frequentando le periferie romane, Pasolini conobbe una realtà nuova fatta di vitalità e brutalità, di miseria ed espedienti, di selvaggia primitività: il sottoproletariato che esprimerà in Ragazzi di vita, e poi in Una vita violenta, e i personaggi sono gergalmente identificati in Riccetto, Lenzetta, Caciotta, Begalone ecc. Nei due romanzi editi da Garzanti, si può leggere l’attrazione non più del “mito dell’oro” secondo la definizione di Alberto Moravia della cultura contadina ma del mito di un’esistenza miserabile e incontaminata, inconsapevole del bene e del male e del cui gergo fece una studiata scelta stilistica.
E intanto si era sistemato in un appartamento di Via Fonteiana 86 assieme alla madre e al padre Carlo Alberto colonnello in pensione che appariva orgoglioso del figlio: figura controversa che, nato a Ravenna nel 1892, morirà alcolizzato nel 1958.
Andrea Paolella ha esplorato la Roma pasoliniana e ne ha tratto immagini di vie, chiese, piazze, ponti, mercati, cercando di leggere nella città di oggi i segni pasoliniani rimasti o spariti. È una Roma per lo più deserta “senza Pasolini” come direbbe Scalia ma in un altro significato, o notturna come sui ponti, ed è anche vista in lontanza da Primavalle dai tre alberi scuri e senza foglie che sembrano triumviri o barbari in attesa dei saccheggi. In via Portuense gli alberi si incrociano in un’angosciata inquadratura verso sera; in Via della Scala dove Lucià aspettò Marcè con la bicicletta non restituita al noleggiatore, Andrea ha messo in rilievo il selciato sconnesso, una donna vestita di chiaro che affretta il passo e un un uomo scuro in direzione opposta che si allontana; in Via della Vite ha fotografato la gente che va verso i negozi ed è l’unica foto animata dalle persone; in via dei Gordiani i palazzoni da metropoli hanno preso il posto delle case di borgata e si vede il campetto di calcio. Altri palazzoni, fitti di finestre quasi i cento occhi di Argo e in piena luce, incombono sulle bancarelle di un mercato abbuiato, in piazza San Cosimato; e in Piazza de’ Renzi c’è un sostare di motorette sotto le piante che sembrano proteggerle o singolarmente messe vicino alle porte delle case; e in piazza di Campo dei Fiori la statua di Bruno fotografata di spalle sembra arringare le abitazioni; e altri casermoni fanno da gigantesco scenario al marciapiede e al muretto del cavalcavia della stazione Tiburtina; e la casa di Pasolini a Ponte Mammolo, prima periferia di ragazzi di vita. Ma sono le immagini dei ponti ad avere attratto maggiormente Andrea Paolella, affascinato dalle visioni notturne come lo fu Pasolini negli squarci di notti romane di Alì dagli occhi azzurri. Sono queste immagini antiche e sempre nuove che l’obiettivo propone: le luci dei fanali sgranate in fila interminabile sul ponte Milvio e le luci notturne sul Ponte Cavour riflesse nelle acque in danze fosforescenti. Ma anche i ponti Mammolo con la casa dai piani zigzaganti, Garibaldi che sente il peso delle abitazioni e degli alberi dell’isola Tiberina, Sisto ritratto nel suo incombere sul fiume dove un alberello fitto di trame sta fra le acque e le pietre, Bianco con nicchie e grosse teste di leone (che non c’erano), Mazzini col lungotevere dove è in sosta il bateau-mouche per turisti, Testaccio con la veduta lontana della zona portuense col gasometro che spunta oltre la vegetazione e le trine dei giovani alberi.
Contemporanea all’uscita di Ragazzi di vita, (e ci fu sùbito accusa di pornografia con assoluzione) vide la luce la rivista bimestrale “Officina” (12 numeri dal maggio 1955 all’aprile 1958 più due di una seconda serie) con la copertina in ruvido cartoncino da imballaggio, e le riunioni redazionali si tennero spesso nella libreria antiquaria Palmaverde di Roversi a Bologna. Ha scritto Enzo Siciliano: “Francesco Leonetti fungeva da paziente e accanito tessitore di incontri; Roversi dava qualcosa di più, e molto, che non la sola ospitalità; Pasolini portava con sé la propria esperienza di organizzatore culturale in Friuli, e dal Friuli, ancora antiche idee”.
Ma ormai il mite e violento rivoluzionario Pier Paolo Pasolini, che scorgeva davanti a sé  “il di de la me muart”, il Pasolini caduto da cavallo come San Paolo, era agitato, come scrisse Scalia, dallo “scandalo” e nelle sue opere ormai in funzione di scandalo nutriva il desiderio straziante di una legittimazione per liberarsi dal complesso di colpa della diversità, dalla rabbia di sentirsi un escluso e un perseguitato da 33 processi. E reagì con gli scritti civili “corsari” e “luterani” contro l’arroganza del potere, contro il Palazzo, contro la rovina del presente, con un’intensità profetica in senso biblico, parlando male dei borghesi sui giornali borghesi. Inascoltato “praeceptor Italiae” lo definsice Scalia, ed è Scalia a citare i bellissimi versi di Una disperata vitalità: “la morte non è/ nel non poter comunicare/ ma nel non potere più essere compreso” – che è tragico inabissarsi di ciò che aveva amaramente scritto Kant: “il pericolo non è di essere contraddetti ma di non essere intesi”.
Ma non era soltanto un profetico anticipo sul futuro la sua ostilità al consumismo, i fasti incontrollati dei padroni al potere, le ideologie edonistiche ed egemonie globalizzanti, ma vi si inseriva anche la sua abiura del passato friulano.
Il filologo Vincenzo Mengaldo ha parlato di pulsione masochistica nella ricerca di cancellare la giovanile esperienza, dicendo che l’esperienza friulana venne da lui sentita come “peccato originale e non più come paradiso perduto’. E Piera Rizzolatti ha scritto negli Atti del convegno di Casarsa, che nella seconda forma (del 1974) della Meglio Gioventù Pasolini lancia un grido di orrore per l’irrimediabile sfacelo del mondo e rende l’ultimo disperato messaggio al mitico lontano Friuli”. Pier Paolo infatti dice: “Tutto è finito, tutto: un Friuli che vive sconosciuto con la mia gioventù, al di là del tempo, in un tempo rovesciato dal vento”.  “Sdrumàt dal vint”: traduce rovesciato, ma direi che significa, con asprezza maggiore, demolito (dal verbo sdrumâ). Alcuni esempi della contaminazione e del rinnegamento pasoliniano delle Poesie a Casarsa: “fontana di amòur par nissùn”, “tal to vis di merda e mèil” “al mond al è finit/ e tu i ti sos ‘na lus/ tra la storia del nuja”. Il continente romanzo è disgregato nel nulla, il timp furlanè disperso o sminuito. La voce in falsetto di Pier Paolo si è fatta aspra, ruvida, impastata. E si aggiunge, nel postumo Petrolio, il panorama desolato dell’imbarbarimento del mondo sotto la spinta del neocapitalismo omologatore, della cupezza apocalittica e onirica, della massificazione su scala planetaria, ed un costante impulso di morte. Ne siamo stati attratti e respinti, così come fummo attratti dalla sfida di Salò allo strapotere orrendo di ogni dittatura pur sentendoci respinti, come del resto Luca Ronconi, dalle scene ripugnanti. Avremmo forse dovuto indugiare a riflettere sulle angosciose dissonanze  del nostro tempo e sul processo ad una classe politica sempre più criminosamente minacciosa; ma forse avevamo ancora nella memoria il tempo del mito splendido e poetico della gioventù le cui porte ci erano state aperte e illuminate da Pier Paolo Pasolini. Quelle che Marco Antonio Bazzocchi ha definito “le eccezionali casse di risonanza degli scritti corsari e delle lettere luterane “ sarebbero rimaste la testimonianza indelebile di ciò che ancora ci turba, oggi terribilmente. Ce lo conferma la recentissima ristampa degli Scritti corsari, documenti della sua coraggiosa imprudenza.
Pasolini fu fedele al proprio trauma, a quelle che Enzo Golino definisce nevrosi didattiche, e nel percorso del proprio destino ha coinvolto e travolto se stesso e la madre; ha fatto irruzione nella realtà “voracemente” come ha scritto Naldini, è diventato “tragicamente leggendario” come ha scritto Schwartz. Gianni Scalia nel convegno bolognese ha affermato incisivamente che essere rimasti “senza Pasolini” significa che “qualcosa di essenziale manca nel discorso intellettuale, politico, morale, religioso contemporaneo”, e il suo acuto giudizio appone un sigillo rosso vivo inconfondibile su ciò che ha rappresentato P.P.P: Pier Paolo Pasolini, ucciso e fatto tacere il 2 novembre 1975. Non si può condividere invece la condanna durissima e dissacrante del giornalista e scrittore Enzo Bettiza (che, esule dalmata espresse nei suoi scritti le sue cupe riflessioni sul destino dell’Europa) in una condanna che proclama Pasolini “pessimo scrittore, regista incapace e noioso, sciacallo notturno di ragazzi di vita” e di cui si è fatto “un santo oltre che un genio”. Stroncatura astiosa che Bettiza accomuna a quella di Fellini “regista presuntuoso e noiosissimo, anche lui beatificato, biografato, mistificato”.
Fantasma scomodo è stato definito Pasolini, destinato a scolorire tra i giovani? La regista Roberta Torre ha interrogato gli attuali ragazzi di vita del Tiburtino e ne ha ricavato risposte vaghe o preoccupanti e minimo interesse: da “un poeta che andava coi marchettari, non sapevamo che fosse morto, poveraccio” ad un negativo “non sappiamo chi sia”. Lo rimpiange invece oggi, a novant’anni, il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra che dice con voce accorata: “Mi manca Pasolini che piangeva sulle lucciole scomparse”.
Ma uscendo da una smemorata Italia e da una declinante Europa, ritroviamo un Pasolini attento e combattivo che nel Terzo Mondo ha indicato il mito della sorgente di liberazione per l’Occidente e che concepì il suo documentario splendido del 1970 su Sana'a come un appello all’Unesco per salvaguardare il patrimonio della capitale yemenita. Ricordate che nel 1950 voleva espatriare in Libano? Ebbene, a Beirut nel 2009 è uscita una raccolta delle sue poesie tradotte in arabo.
Il 18 aprile 2009 è bruciato il Bar Necci dove fu girato Accattone e alla vigilia di Natale è morto a Udine lo scrittore Carlo Sgorlon: che nel 1971 scrisse in dialetto friulano il romanzo Prime di sere, ci diede nel 1977 con Gli dei torneranno l’epopea della civiltà contadina del Friuli opposta all’avanzata massificazione, nel 1997 scrisse la Malga di Sir sull’eccidio di Porzùs e ha lasciato, postumo, in lingua friulana Ombris tal infinit (Ombra nell’infinito).
Qualche giorno prima di morire, Pasolini  ce lo ricorda Roberto Villa che curò anche la mostra del convegno reggiano con Francesco Aliberti - fece la trasgressiva e paradossale proposta di abolire la scuola media dell’obbligo e la televisione per eliminare la criminalità: ed era metafora di una radicale riforma della nostra società. Villa citò anche l’incipit della scavatrice delle Ceneri di Gramsci: “Solo l’amore, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto”.
Erede di Pasolini sui problemi educativi e dentro la barbarie della globalizzazione, e irato contro il progresso quando diventa “un nodo scorsoio”, è Andrea Zanzotto: intervistato da Marzio Breda giornalista del “Corriere della Sera” ha dato forma all’uomo e al poeta, a un “maestro di coscienza” che chiede al mondo di non accartocciarsi. E Zanzotto alla fine del 2009 ha dato alle stampe per Mondadori Conglomerati dove si immerge nella natura e lamenta il trascorrere del tempo “usuraio atroce”, e irrompe sulle pericolose frontiere della scienza e dell’imbarbarimento della società, in cerca dell’ “eco di un’armonia”. Quando scrive che “la stoltezza che circola si palpa/ come un vento” si scorge in lui l’erede fedele di Pasolini, il testimone di un desiderio di elegia e il testimone della presenza di immensi cumuli di immondizia, così come era stato il ricercatore delle misteriose purezze dello Zibaldone leopardiano e l’insegnante che agli allievi faceva notare che i Promessi Sposi manzoniani narrano di peste, di fame e di guerra. Ed è lo Zanzotto che scrisse sulla morte di Pasolini: “da gran tempo avvertiva l’eccidio nell’aria, come l’ozono nella tempesta, e non lo avvertiva soltanto per sé, ma per l’epoca”.
Chi ammazzò Pier Paolo? Fu Pelosi, furono i neofascisti per vendicare Salò? O fu, come ipotizza Zigaina, il progetto di Pasolini stesso per farsi uccidere sacrificandosi come Cristo? Nel 1980 l’artista reggiano Nani Tedeschi pubblicò Cane di notte affiancando la sua mostra su Pasolini con scritti di Volponi, Escobar, Nascimbeni e altri fra cui il sottoscritto. Io, oltre ad un saggio corredato da lettere inedite, volli testimoniare con una poesia scritta in inglese il significato della morte dell’amico. In memory of Pier Paolo ne è il titolo e questi sono i versi: “In no word’s land/ your name was behind you/ with no breath of deep honey/ cut on resins of voices. / Everything was a dividing ridge,/ a dark sermon of the mount,/ windings of death all along the hovels,/ a cry of wounded child,/ systole and diastole beating the empty space. / On what a time zone were you lying at anchor?/ On the meridian of a sundy dump/ your words were lowing out”: Nella terra senza parole/ il tuo nome fu dietro di te/ senza respiro di miele  profondo/ inciso sulle resine delle voci./ Tutto fu cresta che divide, / oscuro discorso della montagna, / meandri di morte lungo le baracche, grido di bimbo ferito,/ sistole e diastole che battevano nel vuoto./ Su che fuso eri ancorato?/ sul meridiano di un sabbioso luogo di rifiuti/ si spegnevano le tue parole.
Chiedo scusa se ancora una volta mi sono posto di fronte ad uno specchio, ma era lo specchio della memoria; poiché i miei versi intendono essere, come lo sono i disegni di Nani Tedeschi, il sincero desiderio di essere fedele ad un grande protagonista della nostra epoca, che rinnovò i moduli poetici nel poema Le ceneri di Gramsci, scritto fra il 1952 e il 1956 e pubblicato nel 1957. La scelta di Pasolini fu ideologica e problematica, fu sentimento e ammirazione, e il finale pianto della scavatrice significò la forza bruta e indifferente come strumento di un capitalismo spietatamente distruttore, benna “che cieca sembra, cieca/ sgretola, cieca afferra”.
Andrea Paolella ha compreso che la sua pubblicazione fotografica doveva terminare con l’immagine della tomba di Antonio Gramsci e con l’urlo disperato espresso nei versi “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?”.
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini.
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Bejart a Villa Medici: "Ballo con Pasolini", di Giovanna Grassi ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 30 giugno 1992

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Maurice Béjart

Béjart a Villa Medici: "Ballo con Pasolini"
di Giovanna Grassi
ARCHIVIO STORICO DEL "CORRIERE DELLA SERA", 30 giugno 1992

Settimo festival Roma-Europa. Questa sera Sylvie Guillem e Laurent Hilaire si esibiranno in "Episode", coreografia di Maurice Béjart nata dalla lettura di Pier Paolo Pasolini e "Prélude à l'après-midi d'un faune"di Claude Debussy, coreografia di Jerome Robbins 

Dopo due lunghe carriere, tante svolte professionali, tanti ritorni al passato o rotture con il passato, il coreografo newyorkese di 74 anni Jerome Robbins e il francese di Marsiglia Maurice Béjart, 65 anni, saranno professionalmente riuniti per la prima volta questa sera a Villa Medici. Il Festival RomaEuropa avvicina queste due multiformi e complesse personalità del balletto sotto il segno di due grandi ballerini, Sylvie Guillem e Laurent Hilaire. Per loro, Béjart ha creato il primo di quattro balletti programmati per il futuro e nati dalla lettura di Pier Paolo Pasolini. "Episode", ispirato a un testo dello scrittore, si avvale anche di alcuni brani recitati da Laura Betti, d'una canzone di Ennio Morricone, della voce di Maria Callas e ha come tema la vita e le lacerazioni d' una coppia. 
Per i due danzatori, Jerome Robbins ha ritrovato il balletto da lui creato nel '53 per il New York City Ballet, "Prélude à l'après-midi d'un faune" di Debussy. Si incontrano sotto la Loggia di Villa Medici l' inquieto americano, che da ragazzo aveva studiato recitazione con Elia Kazan, e il francese che nell'adolescenza, quando era affetto da rachitismo, era sfuggito alla sorveglianza del padre filosofo per diventare ballerino a Parigi. Jerome negli ultimi lavori è tornato al passato, ha riscoperto i suoi primi successi a Broadway. 
Béjart ha voltato le spalle ai ricordi, ha ritirato tutti i suoi balletti, cancellato il suo repertorio, sciolto la compagnia, creato un nuovo gruppo in cui fa convergere tutte le sue rivoluzioni ed esperienze. Robbins è assorto e introverso nella conversazione. Dice che "Broadway non è più quella di di un tempo". Sorride schivo nel dire che il rap gli piace, ma che il suo ultimo lavoro era basato sulle musiche del compositore americano Charles Edward Ives, che sperimentò l'atonalità. 
Béjart è comunicativo e sembra voler travasare negli altri la sua golosità per la vita e per la danza. E appena arrivato da Losanna dove lavora con il suo gruppo "Rudra" e parla della "sua" religione islamica, del suo balletto appena andato in scena in Germania e ispirato a Charles Chaplin, dei suoi gatti, di quando leggeva le poesie di Baudelaire e amava i film espressionisti tedeschi. "Prima - dice - di scoprire Jean.Luc Godard e Pasolini". "Non ho mai conosciuto Pier Paolo - riprende - ma e' diventato un mio compagno di strada, di vita, di pensiero. E di danza". 
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Claudia Cardinale. Il fascino malinconico della diva di Tonino De Pace

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Claudia Cardinale. Il fascino malinconico della diva
di Tonino De Pace
15 aprile 2013 - www.sentieriselvaggi.it


Ha compiuto 75 anni il 15 aprile un’attrice, come poche, contrassegnata da una originaria e indomita forza espressiva che riversa integralmente nei suoi personaggi. La sua bellezza selvaggia ha incantato Pasolini e altri illustri autori del cinema italiano. La sua serietà professionale l’ha fatta diventare una diva, ma sempre fisiologicamente distante da qualsiasi intrigo e capriccio, dentro un percorso che non ha mai utilizzato la bellezza quale passaporto per il futuro.
Ammantata di un fascino segreto e di uno sguardo intenso che tradisce una natura riservata, timida, ai limiti della paura, la italo-tunisina Claudia Cardinale ha costituito una presenza non occasionale, ma necessaria nel cinema italiano. I suoi percorsi sono stati largamente differenti da quelli di Sofia Loren (1934), che ha assunto il ruolo di guida dell’attorialità femminile durante gli stessi anni, oppure di quelli di una Silvana Mangano (1930), rapita da un cinema appartato e dentro le evoluzioni culturali più innovative, o, ancora, quelli della Lollobrigida (1927), ingabbiata in una popolanità eccessiva e mai del tutto diventata popolarità. 
Le esperienze d’attrice della Cardinale incrociano il cinema italiano in quel punto preciso in cui, uscito dal neorealismo, imboccava la strada della commedia all’italiana che ancora, nelle mani di un Monicelli all’apogeo della sua ispirazione, era ancora commedia italiana, sagace e insostituibile, corrosiva e aristocraticamente cinica, dentro un gergo popolare comprensibile e immediato. Era l’alchimia magica di I soliti ignoti (1958). In questo film al quale ogni spettatore, noi compresi, resta legato da un affetto antico e inconsumato, Claudia Cardinale mette in mostra la sua bellezza un po’ selvaggia, che fa innamorare Renato Salvatori improbabile delinquente, perfino dentro una banda scalcagnata come quella degli “ignoti”. È quasi il suo esordio, se non contiamo il primo film in assoluto, uscito nello stesso anno I giorni dell’amore di Jacques Baratier.
Da quei due film un’incalzante attività travolge la giovane attrice nel 1959 escono Il magistrato di Luigi Zampa, La prima notte-Le nozze veneziane di Alberto Cavalcanti, Tre straniere a Roma di Claudio Gora, Vento del sud di Enzo Provenzale e, infine, Un maledetto imbroglio di Pietro Germi. Proprio quest’ultimo film ha segnato il progresso dell’attrice, segnalato da Pasolini in una sua bella recensione dove scrive così: “Quegli occhi che guardano solo con gli angoli accanto al naso, quei capelli neri spettinati … quel viso di umile, di gatta, e così selvaggiamente perduta nella tragedia”. L’incontro con Germi fu decisivo. In una sua vecchia intervista Claudia Cardinale ha confessato che fu proprio il regista genovese a renderla consapevole delle proprie qualità. Da quella consapevolezza è partita per conquistare uno dei più originali e controversi registi italiani. Rocco e i suoi fratelli (1960) è l’affresco di una sconfitta collettiva, all’interno di un disastro di un singolo povero uomo. 
È Luchino Visconti a mettere in scena la tragedia di Rocco, ed è Visconti, forse il più intellettuale regista italiano di quegli anni, quello che ha trasposto con rabbiosa determinazione le pessimistiche riflessioni politiche dentro un cinema così imprevedibile che spazia dalla geometria teorica di La terra trema, alle decadenze morali di L’innocente, a valorizzare ed esaltare le qualità della Cardinale.  Il loro sodalizio sarebbe proseguito qualche anno più tardi, nel 1963, ma ancora nel 1965. Il gattopardo, da Tomasi di Lampedusa, è forse il film attraverso il quale il grande pubblico identifica l’attrice. La sua radiosa bellezza e quella leggera ardita arroganza del ruolo di innamorata, riesce a scolpire il personaggio nella memoria. Sono gli anni del legame con Cristaldi, punta avanzata e illuminata della produzione cinematografica italiana, figura coraggiosa di imprenditore a metà tra esigenze commerciali e sguardo lungimirante. Ma il produttore torinese costituisce un pezzo importante e controverso della sua vita. Un rapporto impari che la vede nei panni della bella attrice compagna del magnate in un ruolo subalterno e insoddisfacente. Nel 1965 ancora con Visconti realizza Vaghe stelle dell’orsa, dramma femminile, intimo e disperato che pesa tutto sulle sue spalle ma che le dà l’opportunità di fornire una prova appassionante per un film che nonostante il Leone d’oro alla Mostra del Cinema soffre di una schematizzazione eccessiva dei personaggi. Ma certo nessun appunto può essere mosso al lavoro di Claudia Cardinale che con intensità racconta l’intimo disastroso dramma della protagonista Sandra.
La sua vita privata ha pesato molto sulla sua carriera d’attrice fin da quando per una gravidanza nata da un legame tenuto segreto, avrebbe voluto abbandonare la carriera. È forse da queste vicende, o almeno ci piace immaginare così, che nascono gli alterni caratteri dei suoi personaggi, cui è connaturata una bipolarità insistita. Le donne della Cardinale vivono sempre una intensa drammaticità, che esalta quel velo di profondo e inespresso dolore interiore che sembra portarsi dietro, ma sono sempre ricchi di comunicatività e comunque ironici e divertiti. Un suggestivo e stimolante contrasto con la (giustamente) ostentata bellezza e con un retaggio malinconico che ha sempre accompagnato la natura dell’attrice.
Sono questi sentimenti, profondamente propri, che segnavano e arricchivano i suoi film. Ne è paradigmatico esempio La ragazza con la valigia (1961) di Valerio Zurlini, un film in cui il personaggio di Aida sembra in parte ripercorrere le proprie vicende personali. Da questo film è nata l’amicizia con Zurlini, regista attento alla sensibilità femminile e della Cardinale in particolare. La carriera dell’attrice, che in questi giorni compie i suoi settantacinque anni è stata segnata da questi rapporti di fedeltà e di amicizia ai registi che hanno incrociato il loro percorso con il suo. Da Germi a Zurlini a Leone, da Bolognini a Comencini e per finire al sentimentale rapporto con Pasquale Squitieri.
In questa lunga teoria di registi, generi, personaggi, arricchiti dalle protagoniste delle storie televisive e, di recente anche da quelle interpretate per il teatro, si è mossa, continuando nel percorso, la multiforme e avvincente carriera di Claudia Cardinale. Attrice, come poche, contrassegnata da una originaria e indomita forza espressiva che riusciva a riversare integralmente, ai personaggi, dalla determinata Mara di La ragazza di Bube (1963), per la direzione di Luigi Comencini allo sguardo smarrito della calabrese Carmela mentre arriva in Australia in Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971). Questi i modi espressivi, raccolti dentro semplici gesti, silenziosi sguardi, dell’attrice, anche quando i suoi personaggi, con l’ironia sempre discreta, giocano, al contrario, sui tabù sessuali, come nel film di Zampa, oltre dieci dopo i fasti di Carmelina di I soliti ignoti. Ma la sua statura d’attrice la portava a varcare con agilità i confini italiani e tra le tante produzioni straniere va sicuramente ricordata quella di Fitzcarraldo (1982) di Werner Herzog che le permette di partecipare ad uno dei folli progetti cinematografici del regista tedesco.
È a metà degli ’70 che avviene l’incontro con Pasquale Squitieri. I guappi del regista campano è del 1974 e dopo quel film prese avvio la loro storia d’amore che felicemente oggi prosegue. 
Impossibile, a questo punto, elencare i film di Claudia Cardinale, che con una certa frequenza si è dedicata anche alla televisione, si tratta piuttosto di ricordare che la sua storia d’attrice rappresenta tra le cose migliori che il cinema italiano è riuscito a realizzare. Rappresenta, d’altra parte, anche l’internazionalizzazione dell’attorialità italiana, soprattutto insieme alla Loren. Proprio questa sua curiosità l’ha portata negli ultimi anni a lavorare intensamente con produzioni estere, ma con autori di grande rilievo De Oliveira e Trueba  per fare qualche esempio o piccole produzioni italiane.
Claudia Cardinale ha rappresentato a pieno titolo un cinema italiano nel contempo erede di un passato glorioso, ma anche innovativo, nel pieno delle trasformazioni di un novecento pieno di ribollenti suggestioni, sempre con una serietà professionale tale da farla diventare una diva, ma fisiologicamente sempre distante da qualsiasi intrigo e capriccio, dentro un percorso che non ha mai utilizzato la bellezza quale passaporto per il futuro.
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Una pagina di Pier Paolo Pasolini da "L'odore dell'India", Guanda, Parma 1990

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LA NARRATIVA
Una pagina di Pier Paolo Pasolini
da "L'odore dell'India"
Guanda, Parma 1990

Penoso stato di eccitazione all‘arrivo. La Porta dell’India.
Spaccato, naturalmente fantasmagorico, di Bombay.
Una enorme folla vestita di asciugamani.
Moravia va a letto: mia esibizione di intrepidezza nell’avventurarmi nella notte indiana.
La dolcezza di Sardar e di Sundar


Il Taj Mahal Hotel
È quasi mezzanotte, al Taj Mahal c‘è l’aria di un mercato che chiude. Il grande albergo, uno dei più conosciuti del mondo, forato da una parte all’altra da corridoi e saloni altissimi (pare di girare nell’interno di un enorme strumento musicale), è pieno solo di boys vestiti di bianco, e di portinai col turbante di gala, che aspettano il passaggio di equivoci tassì. Non è il caso, oh, non è il caso di andare a dormire, in quelle camere grandi come dormitori, piene di mobili di un mesto novecento ritardatario, con ventilatori che sembrano elicotteri.
Sono le prime ore della mia presenza in India, e io non so dominare la bestia assetata chiusa dentro di me, come in una gabbia. Persuado Moravia a fare almeno due passi fuori dall‘albergo, e respirare un po’ d’aria della prima notte indiana.
Così usciamo, sullo stretto lungomare che corre dietro l‘albergo, attraverso l’uscita secondaria. Il mare è pacifico, non dà segno di presenza. Lungo la spalletta che lo contiene, ci sono delle automobili in sosta e, vicino ad esse, quegli esseri favolosi, senza radici, senza senso, colmi di significati dubbi e inquietanti, dotati di un fascino potente, che sono i primi indiani di un’esperienza che vuol essere esclusiva come la mia.
Sono tutti dei mendicanti, o di quelle persone che vivono ai margini di un grande albergo, esperti della sua vita meccanica e segreta: hanno uno straccio bianco che gli avvolge i fianchi, un altro straccio sulle spalle, e, qualcuno, un altro straccio intorno al capo: sono quasi tutti neri di pelle, come negri, alcuni nerissimi.
C’è un gruppo sotto i portichetti del Taj Mahal, verso il mare, giovanotti e ragazzini: uno di essi è mutilato, con le membra come corrose, e sta disteso avvolto nei suoi stracci, come, anziché davanti a un albergo, fosse davanti a una chiesa. Gli altri attendono, silenziosi, pronti.
Non capisco ancora qual è la loro mansione, la loro speranza. Li sbircio appena, chiacchierando con Moravia, che è già stato qui ventiquattro anni fa, e conosce abbastanza il mondo per non essere nello stato penoso in cui mi trovo io.
Nel mare non c‘è una luce, un rumore: qui siamo quasi sulla punta di una lunga penisola, di un corno della baia che forma il porto di Bombay: il porto è in fondo. Sotto la piccola muraglia, ci sono solo delle grosse barche, rade e vuote. A poche decine di metri, contro il mare e il cielo estivi, si alza la Porta dell’India.
È una specie di arco di trionfo, con quattro grandi porte gotiche, di stile liberty abbastanza severo: la sua mole si disegna sull‘orlo dell’Oceano Indiano, come congiungendolo, visibilmente, con l’entroterra, che, subito lì, è un piazzale rotondo, con dei giardinetti bui, e delle costruzioni, tutte grandi, floreali, e un po’ sprecate come il Taj Mahal, d’un colore terreo e artificiale, tra rade lampade immobili nella pace dell’estate profonda.
Ancora ai margini di questa grande porta simbolica, altre figure da stampa europea del seicento: piccoli indiani, coi fianchi avvolti da un drappo bianco e, sui visi mori come la notte, il cerchio dello stretto turbante di stracci. Solo che, visti da vicino, questi stracci sono luridi, di una sporcizia triste e naturale, molto prosaica, rispetto alle suggestioni figurative di una epoca a cui essi, del resto, si sono fermati. Sono sempre dei giovani mendicanti, o gente che si arrangia, attardandosi nella notte nei luoghi, che, probabilmente, di giorno, sono il centro della loro attività. Ci sogguardano, me e Moravia, lasciandoci perdere: il loro occhio inespressivo non deve vedere  in noi  niente  di promettente.  Anzi, quasi si chiudono in  se stessi, camminando stancamente, lungo la spalletta marroncina.

Così arriviamo sotto la Porta dell‘India, che, da vicino, è più grande di quanto sembri da lontano. Le  porte a sesto acuto, le mura traforate, di quel materiale giallastro e smorto, si alzano sulle nostre teste con la solennità di certi atri delle stazioni nordiche. Ma, dentro, nella penombra dell’arco, si sente un canto: sono due, tre voci che cantano insieme, forti, continue, infervorate.
Il tono, il significato, la semplicità sono quelli di un qualsiasi canto di giovani che si può ascoltare in Italia o in Europa: ma questi sono indiani, la melodia è indiana. Sembra la prima volta che qualcuno canti al mondo. Per me: che sento la vita di un altro continente come un’altra vita, senza relazioni con quella che io conosco, quasi autonoma, con altre sue leggi interne, vergini.
Mi pare che ascoltare quel canto di ragazzi di Bombay, sotto la Porta dell‘India, rivesta un significato ineffabile e complice: una rivelazione, una conversione della vita. Non mi resta che lasciarli cantare, cercando di spiarli dall’angolo di finto marmo della grande porta gotica: sono distesi sul nudo pavimento, sotto la cappa buia della volta ogivale, e alla rada luce lattiginosa che viene dal piazzale sul mare. Coperti di stracci bianchi, attorno ai fianchi, e con quelle teste nere: non si riconosce l’età. Il loro canto è completamente senza allegria, segue una sola frase musicale sfiatata e accorante.
Tutto è come precipitato in questo momento di pace carica e sporca. Il nostro arrivo su Bombay dall‘alto: monticelli fangosi, rossastri, cadaverici, tra piccole paludi, verdognole, e una frana infinita di catapecchie, depositi, miserandi quartieri nuovi: parevano le viscere di un animale squartato, sparse lungo il mare, e, su queste viscere, centinaia di migliaia di piccole pietre preziose, verdi, gialline, bianche che brillavano teneramente; i primi facchini accorsi sotto la pancia dell’aereo: neri come demoni coperti di una tunica rossa; le prime facce indiane appena fuori dall’aeroporto, i tassisti, i ragazzi loro aiutanti, vestiti come antichi greci; e la corsa, come una fenditura attraverso la città.
Un‘ora di macchina, lungo una periferia sconfinata, fatta tutta di piccole baracche, mucchi di negozietti, ombre di banjan su casette indiane dagli spigoli smussati e tutte traforate come mobili vecchi, trapelanti di luce, bivi accalcati di gente scalza, vestita come nella Bibbia, tram rossi e gialli a due piani; palazzine moderne, subito invecchiate dall’umidità tropicale, tra giardini fangosi e casamenti di legno, azzurrino, verdognolo, o semplicemente corroso dall’umido e dal sole, con strati infiniti di folla, e un mare di luci come se dappertutto in quella città di sei milioni di abitanti ci fosse festa; e poi il centro, sinistro e nuovo, la Malabar Hill, con le sue palazzine residenziali degne dei Parioli, tra i vecchi bungalow, e il lunghissimo lungomare, con una serie di globi di luce che s’infiltrava a perdita d’occhio nell’acqua...
E le vacche per le strade: che andavano mescolate alla folla, che si accovacciavano tra gli accovacciati, che deambulavano coi deambulanti, che sostavano tra i sostanti: povere vacche dal mantello diventato di fango, magre in modo osceno,  alcune piccole come cani, divorate dai digiuni, con l‘occhio eternamente attratto da oggetti destinati a un’eterna delusione. Era quasi notte, ed esse si accovacciavano ai bivi, sotto qualche semaforo, davanti ai portoni di qualche disordinato edificio pubblico, mucchi neri e grigi di fame e smarrimento.

*  *  * 

Pur vorticando intorno, la vita aveva il ritmo allentato di quelle povere bestie: bisognava vedere la pazienza con cui la gente aspettava gli autobus alle fermate: facevano una fila di una disciplina che svizzeri o tedeschi non si sognano nemmeno: senza addossarsi l‘uno all’altro, isolati, concentrati. Alcuni erano vestiti quasi all’europea, con dei calzoni bianchi larghi alla caviglia, male infilati, e una camiciola bianca; altri, ed erano i più, erano vestiti con una specie di lenzuolo tra le gambe, pieno di grossi nodi sulla pancia, coi polpacci, neri, dietro, lasciati completamente scoperti; e, sopra questo lenzuolo, o una camicia, o una giacca europea, e in testa il solito straccio arrotolato. Altri erano vestiti con dei lunghi calzoni bianchi di forma araba, con sopra una tunica bianca, trasparente; altri ancora indossavano un paio di shorts, larghissimi, da cui uscivano come batacchi di campana le nere gambe secche, e sopra, fin quasi a coprire completamente i calzoni, la camicia sventolante. Le donne erano tutte col sari, inanellate; e i sari di vari colori, da quelli semplici, degli stracci, a quelli liturgici, dei drappi tessuti con vecchia raffinatezza artigiana.
Questa  enorme  folla  vestita  praticamente  di  asciugamani  spirava  un  senso  di miseria, di indigenza indicibile, pareva che tutti fossero appena scampati a un terremoto, e, felici per esserne sopravvissuti, si accontentassero dei pochi stracci con cui erano fuggiti dai miserandi letti distrutti, dalle infime catapecchie.
Ora eccoli là, due di questi scampati, che cantano insieme sotto la Porta dell‘India, aspettando l’ora del sonno, nella calda notte estiva.
Nell‘interno di quella vita, di cui io ho solo nella retina un primo calco della superficie esterna, cantano una canzone (per loro vecchia e familiare, quanto per me è novità pura) cui io demando l’incarico di esprimere qualcosa di inesprimibile, e che solo i giorni futuri che mi aspettano qui, da domani, potranno piano piano svelenire ed equilibrare.
Ma a questo punto Moravia decide che è ora di essere stanchi, e, col suo meraviglioso igienismo, prende, e volta deciso verso il Taj Mahal. Ma io no. Io finché non sono stremato (ineconomico come sono) non disarmo.
Mi avventuro da solo a girellare ancora un poco. Vado verso quei giardinetti bui, sotto gli edifici dilatati, in fondo al piazzale sul mare. A destra c‘è un palazzone buio che sembra di terracotta, di stile novecento con allusioni al gusto indiano, a sinistra un altro albergo con un  portichetto davanti; e un  benzinaio; e uno spiazzo  col semaforo, e poi più avanti, dopo una svolta, ecco una immensa piazza ovale, tutta circondata da palme, smorte nella luce scremata e impura della luna. Un paesaggio da cartolina esotica dell’ottocento, da arazzo da Porta Portese. Nell’immenso spiazzo ovale, gira ancora qualcuno, coi suoi stracci bianchi.
Dei giovani stanno giocando in silenzio con delle clave; altri stanno accoccolati, con le ginocchia all‘altezza del viso, e le braccia penzolanti appoggiate sopra le ginocchia. Passa ancora qualche tassì, la notte è calda e vuota, come nei luoghi di villeggiatura al colmo dell’estate.
Torno su, verso l‘albergo. Davanti a un edificio, ora spento, che è insieme un cinema e un ritrovo, il Regal, un ragazzo mi si avvicina, coi suoi shorts larghi come sottane e la camicia sporca sopra. Mi fa capire di essere disposto a offrirmi qualcosa: anzitutto procurarmi dell’alcool, perché a  Bombay c’è  il proibizionismo; e poi, naturalmente, altro. Mi crede un marinaio sbarcato da qualche nave. Io gli do una rupia, e lo lascio: sono intimidito, non capisco nulla di quel personaggio.
Altri suoi simili sono nelle vicinanze, sui marciapiedi caldi e pieni d’una polvere secca e vecchia, sotto gli edifici cadaverici. Mi guardano e non mi parlano, vanno pei fatti loro.

*  *  *

Davanti all‘albergo coi portichetti, ce n’è tutto un gruppo, ammucchiato per terra, nella polvere: membra, stracci e ombra si confondono. Vedendomi passare, due, tre si alzano, e mi vengono dietro, come aspettando. Allora io mi fermo e gli sorrido, incerto.
Uno nero, sottile, con un delicato viso ariano e un enorme ciuffo di capelli neri, mi saluta, mi si avvicina, scalzo, coi suoi stracci addosso, uno tra le gambe, uno sulle spalle; dietro a lui, si fa luce un altro, nero, questo, lucido, con la grande bocca negroide su cui nereggia la peluria della adolescenza: ma se sorride, gli fiammeggia in fondo al viso nero un candore immacolato: un flash, interno, un vento, una vampata, che strappa lo strato nero sullo strato bianco che è il suo interno riso.
Il primo si chiama Sundar, il secondo Sardar, uno è muslim, l‘altro indù. Sundar viene da Haiderabad, dove ha la famiglia; cerca fortuna a Bombay, come un ragazzo calabrese può venir a Roma: in una città dove non ha nessuno, dove non ha casa, e deve arrangiarsi a dormire come capita, a mangiare quando può. Tossisce,  dal piccolo torace di uccello: forse è tisico. La religione maomettana dà alla sua faccia dolce e sottile una certa aria di timida astuzia mentre l’altro, Sardar, è tutto dolcezza e dedizione: indù fino in fondo. Anche lui viene dal lontano Andra, la regione di Madras, anche lui senza famiglia, senza casa, senza nulla.
Gli altri, loro amici, sono rimasti indietro, nell‘ombra della porta secondaria dell’albergo. Ma ora li vedo muoversi, in silenzio. Sono intorno a un grosso cartoccio che aprono sul marciapiede polveroso.
Chiedo a Sardar e a Sundar cosa stiano facendo: mangiano il pudding, i resti delle
cene dell’albergo. Mangiano in silenzio, come cani, ma senza litigare, con la ragionevolezza e la dolcezza degli indù.
Sardar e Sundar li guardano, con me, con un sorriso che vuol dire che anche loro fanno così, e che, se non ci fossi lì io, anche loro starebbero mangiando quegli avanzi in quel momento. Andiamo invece a fare un giro, intorno.
Le strade sono ormai deserte, perdute nel loro polveroso, secco, sporco silenzio. Hanno qualcosa di grandioso e insieme di miserabile: è la parte centrale, moderna della città, ma la corruzione  delle pietre, delle imposte, dei legni  è da vecchio villaggio.
Quasi tutte le case, cadenti, hanno davanti un piccolo portico: e qui... mi trovo davanti a uno dei fatti più impressionanti dell’India. Tutti i portici, tutti i marciapiedi rigurgitano di dormienti. Sono distesi per terra, contro le colonne, contro i muri, contro gli stipiti delle porte. I loro stracci li avvolgono completamente, incerati di sporcizia.  Il loro sonno è  così fondo che sembrano dei morti avvolti in sudari strappati e fetidi.
Sono giovani, ragazzi, vecchi, donne coi loro bambini. Dormono raggomitolati o supini, a centinaia. Qualcuno è ancora sveglio, specialmente dei ragazzi: sostano ad aggirarsi o parlare piano seduti alla porta di qualche negozio chiuso, sugli scalini di qualche casa. Qualcuno si sta sdraiando in quel momento, e si avvolge nel suo lenzuolo, coprendosi la testa. Tutta la strada è piena del loro silenzio: e il loro sonno è simile alla morte, ma a una morte, a sua volta, dolce come il sonno.
Sardar e Sundar li guardano con lo stesso sorriso con cui guardavano i loro amici divorare i resti dei puddings: anche loro fra poco dormiranno così.
Mi accompagnano verso il Taj Mahal. Ecco là la Porta dell‘India, contro il mare. Il canto è cessato: i due ragazzi che cantavano, ora, certo, stanno dormendo sul pavimento nudo, nei loro stracci. Già un po’ di quello che io volevo sapere dal loro canto, lo so. Una miseria orrenda.
Sardar e Sundar si accomiatano, gentili, da me, col loro sorriso d’una bianchezza solare in fondo alle facce buie. Non si aspettano che io gli dia delle rupie: perciò le prendono pieni di gioiosa sorpresa, e Sardar mi afferra la mano e me la bacia, dicendomi: «You are a good sir».
Li lascio, commosso come uno scemo. Qualcosa è già cominciato.
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2. L’influenza di Pier Paolo Pasolini sui film e sullo stile cinematografico di Nanni Moretti: un’analisi, di Stefano Bona - PARTE SECONDA

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LA SAGGISTICA - CINEMA
Linfluenza di Pier Paolo Pasolini sui film
e sullo stile cinematografico di Nanni Moretti
Un’analisdi Stefano Bona, Flindrs University
Flinders University Languages Group Online Review
Volume 4, Issue 3, December 2011

PARTE SECONDA

Moretti: con Pasolini, oltre Pasolini

Sono certamente molte le differenze fra Moretti (n. 1953) e Pasolini. Nanni Moretti ha un'estrazione sociale diversa: figlio di due insegnanti, ha alle spalle una famiglia della borghesia romana. Conduce una vita meno controversa di Pasolini e decide molto presto di usare il cinema per esprimere le sue idee politiche. A vent'anni, quando fa parte della sinistra extraparlamentare, acquista una cinepresa Super8 e comincia a girare i primi film, e in pochi anni riesce a creare un genere cinematografico originale, basato sulla diversità dell'individuo dal resto del mondo, permeato da ironia e sarcasmo. Ma soprattutto, i due cineasti di cui ci stiamo occupando appartengono a due generazioni diverse: Pasolini vive nell'Italia del boom economico, Moretti assiste alla crisi della sua generazione e della sinistra nella società postmoderna.
Queste differenze, tuttavia, non sminuiscono le similitudini. Entrambi sono registi politicamente impegnati e hanno una matrice politica comune. Entrambi riflettono sul ruolo degli intellettuali (seppure le loro opinioni non coincidano pienamente). Entrambi trattano l'importanza della comprensibilità del linguaggio e si occupano della cultura di massa e della televisione (che è parte integrante di alcuni film di Moretti). Pasolini è uno dei punti di riferimento cinematografici per Moretti. Infine, entrambi sanno intuire quanto sta per succedere nella società e nella politica italiane. In quest'ottica verranno analizzati i punti salienti nelle opere di Moretti: il suo porsi come artista umile, l'ironia, il linguaggio, il meta-cinema, la famiglia, la "profeticità".
Una caratteristica distintiva dei film di Moretti è la sua apparizione in tutti i suoi lavori,
spesso come protagonista. Nella maggior parte dei casi (Ecce bomboSogni d’oroLa messa è finitaBiancaPalombella rossaCaro diarioAprileIl caimano) impersona il suo alter ego, benché con diversi nomi (Michele Apicella, Don Giulio, Nanni), mentre in altri assume ruoli meno autobiografici (uno psicanalista in La stanza del figlio e Habemus papam). I suoi protagonisti sembrano diverse incarnazioni d'un unico soggetto, oppure diverse fasi dello sviluppo della stessa persona, o di quello che  questa  persona  avrebbe  potuto  essere  (attivista,  insegnante,  prete,  politico…). Si  tratta  di personaggi incompresi, falliti, smemorati, frustrati, schizofrenici, tutti membri di famiglie borghesi. Rappresentandosi come una persona fragile, piena di difetti, caratterialmente instabile, più che un atto di autocitazione e narcisismo autobiografico, Moretti sembrerebbe compiere un atto d'umiltà. In realtà, però, l'uso dell'(auto)ironia, il ridere di sé e della vita, il rappresentarsi come uno del gruppo diventa un modo per porsi in una posizione di superiorità. L'intellettuale che ride di se stesso risulta infatti più accettabile agli spettatori, e come suggerisce Rorty (1989: 102-103), l'autore che rinnega qualsiasi autorità finisce con il diventare un'autorità, una guida per i propri lettori. 
Confermando di appartenere ai "consumatori" di cultura popolare, Moretti inserisce spesso nei suoi film canzoni pop (Springsteen, Khaled, Leonard Cohen, Battiato, Paoli, Caselli…), riferimenti a film commerciali (dei quali riparleremo) o a ritagli di giornale, la sua passione per lo sport, i dolci e il ballo. Da questo punto di vista, sembra riprendere e sviluppare, adattandole alla società contemporanea, le idee gramsciane sull'intellettuale: immerso nella cultura "nazional-popolare", diventa (anche usando simpatia e auto-ironia – e quindi autorità) un intellettuale politicamente impegnato, avvalendosi del diritto di critica anche verso la vuota generazione "sessantottina" e verso quella sinistra in crisi di cui lui stesso fa parte. Ma, per quanto ben inserito nella società, per Moretti l'intellettuale resta una figura anticonformista e controcorrente (come chiaramente espresso in Caro diario). Non pretende di diventare un castigatore, né un educatore, riconoscendo che “non voglio avere una missione nei confronti dello spettatore, diffido dei registi che con i loro film vogliono cambiare la testa delle persone”, e non risparmia critiche agli intellettuali che parlano in modo incomprensibile. Questo accenno ci spinge a trattare l'argomento successivo: le riflessioni di Moretti sul linguaggio.
Il linguaggio è un tema che Moretti tratta ripetutamente legandolo soprattutto a commentatori, recensori, critici, giornalisti. Ad esempio, in Io sono un autarchico (1976) un critico teatrale di sinistra commenta pedantemente la rappresentazione avanguardista portata in scena dai protagonisti. In Ecce bombo (1978) un cronista fa interviste strampalate ai  giovani d'una cooperativa e agli studenti candidati all'esame di maturità. In Palombella rossa (1989), Michele/Moretti schiaffeggia una giornalista che usa termini quali “kitsch”, “cheap”, “trend negativo” (urlandole: “le parole sono importanti!”) e le ricorda che “chi parla male, pensa male, vive male”. In Caro diario (1994), Nanni fustiga un critico cinematografico rileggendogli una sua oscura e fuorviante recensione di Henry, pioggia di sangue fino a farlo piangere.  In Aprile (1998) Nanni invita il leader del Pds D'Alema a dire “qualcosa di sinistra”.
Perché tutta questa enfasi sul linguaggio? Come suggeriscono Mazierska e Rascaroli (2004: 133), il pensiero non esiste senza il linguaggio, che pertanto diventa uno strumento di potere: manipolando il linguaggio, si manipola il pensiero. Cambiando alcune parole, o modificandone il significato, è possibile dar forma alla realtà politica e perfino guadagnare o perdere l'egemonia politica. Non è un caso – aggiungiamo – se i governanti di tutti gli stati (democratici, autoritari, totalitari) pongono estrema importanza all'informazione, alla creazione del consenso e (nei casi più estremi) alla propaganda. Ovviamente, il linguaggio del (e nel) cinema fa la parte del leone.
Le opere del cineasta romano sono un esempio di meta-cinema e abbondano di riferimenti al cinema d'autore e di tendenza, “parlando” in tal modo agli intellettuali e prestandosi a diversi livelli di lettura e interpretazione a seconda delle conoscenze cinematografiche degli spettatori.
Spesso la distinzione fra “dietro” e “davanti” la macchina da presa si attenua: Moretti, per esempio, recita nei panni del regista in Sogni d’oro (1981), Caro Diario e Aprile, nel quale gira il suo agognato musical su un pasticciere trozkista, e ne Il caimano (2006) ci mostra la genesi di un film su Berlusconi; inoltre, gli sguardi rivolti alla telecamera e l'uso di tecniche narrative non convenzionali ricordano i primi film di Godard, in cui gli attori guardavano “in macchina” parlando di politica e cinema.
Numerosi sono anche i riferimenti al cinema d'autore. Il suo autobiografismo, in particolare rivolto alla vita familiare, potrebbe ricordare i film di Stan Brakhage (che in Window Water Baby Moving, del 1959, raccontava la nascita del primo figlio, così come Moretti in Aprile). Spostandosi al cinema italiano, diversi legami con Fellini sono evidenti in più occasioni: Michele Apicella, regista in crisi in Sogni d’oro, ricorda il protagonista di 8½; anche il finale di Palombella rossa appare felliniano, e in Aprile viene ripresa la colonna sonora di La dolce vita. Caro diario, infine, si può considerare un omaggio a Pasolini. Del resto, Moretti ha spesso menzionato il suo interesse per i film sperimentali di Carmelo Bene, per il cinema  politico radicale dei Taviani,  di Ferreri, Pasolini e Bellocchio degli anni Sessanta, per Fellini, oltre che per il cinema francese della nouvelle vague, con i quali condivide lo stile sperimentale e anti-dogmatico. 
Da artista/intellettuale umile e autoironico, Moretti mescola questi riferimenti con la presenza di numerosi film mainstream e riflessioni sul cinema italiano. Per esempio, in Palombella rossa un gruppo di persone segue con trasporto Il Dottor Zivago di David Lean e urla un “Noo!” disperato quando Yuri muore; in Caro diario Nanni va al cinema a vedere Henry, pioggia di sangue (Henry: Portrait of a Serial Killer 1986) perché l'Italia d'estate non propone film migliori, dichiara che Flashdance (1983) gli ha cambiato la vita e si entusiasma per Silvana Mangano che balla in Anna di Lattuada (1952), vista alla televisione in un bar.
Un artista che come lui si sente (anche per motivi professionali) parte della cultura popolare, non può non parlare della televisione. Ovviamente, alla sua maniera. La televisione è una presenza costante nei lavori di Moretti. Spesso è inserita per mostrare film (come Il dottor Zivago), in altri casi per parlare della televisione stessa, in altri ancora è un mezzo per connettersi con l'attualità politica e commentarla (Nanni e D'Alema in Aprile, Silvio Orlando e Berlusconi in Il caimano). È in Caro diario, tuttavia, che la televisione assume un ruolo pervasivo, visto che il secondo episodio Isole è dedicato in buona parte a questo aspetto. Qui l'amico di Nanni, Gerardo, uno studioso di Joyce d'accordo con Hans Magnus Enzensberger  (secondo cui la  televisione trasmette il nulla),  prima confessa un "digiuno televisivo" trentennale, poi – dopo aver assistito incidentalmente ad alcuni programmi   – diventa   teledipendente e infine giunge a rinnegare Enzensberger. La televisione è insomma una droga che influenza indiscriminatamente il comportamento della società, contribuendo a creare una cultura di massa molto più forte e pervasiva della cultura elitaria degli studiosi, anche perché è onnipresente: nelle case, nei bar, sulle navi. Una volta entrati nel sistema, si viene risucchiati come Gerardo in un mondo di miti e finzione, illudendosi d'essere nella realtà, e non se ne esce più. Di queste similitudini fra l'ottica morettiana sulla televisione e quella di Pasolini si riparlerà più avanti. Tuttavia, prima è necessario accennare altre due peculiarità di Moretti: la sua "ossessione" per la famiglia e la sua capacità di immaginare il futuro.
I film del cineasta romano sono disseminati di riferimenti alla famiglia. Nei suoi primi film rappresenta il giovane che vuole uscire dalla famiglia (come in Io sono un autarchico), senza riuscire a staccarsene, mentre nei lavori successivi, ormai giunto all'età adulta, affronta il tema dal punto di vista del genitore. Così, per esempio, in Caro diario analizza la famiglia italiana degli anni Novanta, tipicamente dominata dal figlio unico, e in Aprile, (dove racconta l'attesa e la nascita di suo figlio), è un padre apprensivo e nevrotico. In questa successione di film è ravvisabile un filo conduttore: la fine della famiglia patriarcale/maschile tradizionale, considerabile come una forma di schiavitù (anche nel nome: familia in latino indica la famiglia ma anche i servi) e di sottomissione della donna. Moretti non sembra esprimere critiche alla nuova struttura familiare che si sta delineando, né propone alternative. Si limita a un'analisi, ora ironica, ora tragica. Forse perché sente anche su di sé quanto è difficile essere genitori.
Parlando della capacità che ha Moretti di anticipare il futuro, Bonsaver (2001: 158-183) definisce il regista romano “la Cassandra della sinistra italiana”. Non si tratta di un paragone campato in aria: i casi in cui Moretti ha "indovinato" quello che stava per succedere sono troppi per essere semplici coincidenze. Ecco i fatti. Due mesi dopo l'uscita di Palombella rossa (1989, film in cui un politico comunista è assalito dai dubbi), crolla il Muro di Berlino e il Pci entra in una lunga crisi d'identità. Due anni dopo, nel 1991, Moretti impersona un ministro corrotto in Il portaborse di Luchetti, film che la sua casa di produzione ha anche co-prodotto; passano pochi mesi e all'inizio del 1992 scoppia lo scandalo di Tangentopoli, che porta alla fine della cosiddetta "prima repubblica". In Aprile, girato qualche anno più tardi, è esplicita la coincidenza fra la nascita del suo primogenito e la prima, effimera vittoria della sinistra alle elezioni nazionali. Uscendo dall'ambito della sinistra, in Il caimano (2006) Moretti/Berlusconi, giudicato colpevole dopo un processo, invita i suoi sostenitori a reagire con ogni mezzo, scatenando la violenza. A distanza di cinque anni, nel 2011 Berlusconi è sotto processo, in lotta contro la magistratura e sostiene che in Italia c'è un clima “da guerra civile”. A cosa si deve questa preveggenza? Moretti non è un futurologo, né tantomeno un indovino. È semmai un artista/intellettuale che fa parte della società, sa  "tastarne il polso" e sentirne gli umori più efficacemente dei partiti che critica, esercitando il suo ruolo di intellettuale politicamente impegnato. In termini pasoliniani, cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, coordina fatti anche lontani, e ne trae le conclusioni. Analogamente alla sacerdotessa della mitologia greca, però, non viene ascoltato: le sue analisi risultano poco piacevoli per il potere costituito e la sua voce solitaria risuona stonata.

Moretti e l’omaggio a Pasolini in Caro Diario

Caro Diario è il film di Moretti più apertamente pasoliniano. Si divide in tre "capitoli". Nel primo, In Vespa, Moretti attraversa sulla sua Vespa una Roma deserta, va al cinema, parla con passanti solitari, dichiara il suo amore per il ballo, si unisce a un gruppo di cantanti e visita il luogo dove fu ucciso Pasolini. Nel secondo capitolo, Isole, Nanni va alle Eolie insieme a Gerardo, uno studioso di Joyce che non ha guardato la TV per trent'anni e che all'improvviso diventa teledipendente. Infine, il capitolo conclusivo Medici è un episodio autobiografico/documentaristico sul cancro che ha colpito Moretti, e contiene immagini reali della sua chemioterapia. L'omaggio più evidente reso da Moretti a Pasolini è la lunga sequenza di cinque minuti che conclude l'episodio In Vespa, in cui Nanni visita il luogo dove fu ucciso Pasolini. Per capirne il significato, occorre analizzarla dal punto di vista cinematografico.
La sequenza si apre con un breve primo piano di una mano che fa scorrere alcuni giornali dell'epoca sui quali è riportata la notizia della morte violenta di Pasolini. Intanto, la voce extradiegetica di Moretti che si sovrappone alle note del Köln Concert di Keith Jarrett (registrato nel 1975 – l‟anno della morte di Pasolini – che accompagnerà tutta la scena per oltre cinque minuti) dice: “Non so perché, ma non ero mai stato nel posto dove è stato ammazzato Pasolini” e fa da ponte sonoro con la sequenza successiva. Poi restano solo musica e immagini che legano la volontà al fatto reale.
In seguito, per quaranta secondi scorrono immagini riprese da un mezzo di trasporto in movimento, con una telecamera a mano ad altezza occhi, come se fosse la soggettiva dell'attore- regista in Vespa che si avvicina alla meta. Si vedono scorrere un pezzo di guard rail, un terreno incolto e sabbioso, auto parcheggiate, l'orizzonte inclinato a enfatizzare l'idea di movimento, il cielo incolore, inespressivo. Poi, finalmente, qualche persona, ombrelloni. Appena diventa chiaro che quel luogo è l'Idroscalo di Ostia, l'immagine stacca su Nanni Moretti a bordo della Vespa sulla quotidianità di un rettilineo delimitato da un muro, un guard rail, carrelli per la raccolta dei rifiuti. Siamo sulla strada che costeggia il luogo appena visto.
A questo punto, comincia un lungo piano-sequenza di tre minuti e mezzo, caratterizzato da un tracking di Nanni in controluce che in un pomeriggio d'agosto percorre questo rettilineo fino in fondo e, dopo aver girato intorno a una rotonda, lo ripercorre in direzione opposta. Appena il sole è di spalle, si scopre che il cielo è azzurro, ma non terso, insomma è una giornata estiva qualsiasi. Nanni costeggia costruzioni sciatte, bidoni della spazzatura, macchine e camion parcheggiati male, incrocia rari ciclisti e passanti in costume da bagno. Poi s'allontana dalla telecamera, che lascia più spazio all'ambiente circostante: nell'avvicinarsi alla meta, il rettilineo è delimitato da un muro, da alcuni capannoni, dal guard rail, da sterpaglie e immondizia buttata sul ciglio della strada. Il volume e il ritmo della musica crescono. Il suono del pianoforte, inizialmente lieve, ora diventa dominante, anticipando l'arrivo. Nanni rallenta e la telecamera si riavvicina, riportandolo in primo piano. Accosta, scende dalla moto e guarda oltre una recinzione sulla destra.
Dopo uno stacco, comincia una breve sequenza di venti secondi. Fra le maglie della rete, sfocate in primissimo piano, la telecamera mette a fuoco un prato incolto e inquadra in campo medio una porta di calcio e, lì accanto, una piccola costruzione informe su cui si sposta con uno zoom in (il primo e unico di una scena sempre a fuoco fisso), rivelando che si tratta di una strana scultura non identificabile, circondata da erbacce e sulla quale sembrano appoggiarsi i pali di una recinzione crollata. Eccolo, il posto dove è stato ucciso Pasolini.
Un altro stacco dà l'avvio ad una seconda sequenza brevissima, sei secondi in tutto. Ora il monumento è in primo piano, inquadrato in controcampo. Si tratta di un rudere anonimo, con l'armatura di ferro che emerge in più punti dal cemento sgretolato. Subito dietro, la porta di calcio, arrugginita. La musica si attenua.
Come omaggio, appare decisamente strano.  Queste immagini dell'Idroscalo ostiense non hanno nulla di piacevole: non i luoghi, non la luce piatta, non le inquadrature piene degli errori tipici del cineoperatore dilettante (orizzonte spesso a metà, controluce sovraesposto, soggetto al centro dell'immagine, inquadratura sempre ad altezza occhi). Le immagini del monumento in degrado, infine, occupano solo venticinque secondi, un flash che contrasta con tutto l'apparato costruito fino a quel punto (se ne riparlerà fra poco). Fotograficamente parlando, un pugno nell'occhio. Per capirne il senso e la raffinatezza, bisogna tornare alle Osservazioni sul piano-sequenza, scoprendo che in realtà l'omaggio a Pasolini è proprio questo: l'aver messo su pellicola quello che lui ha scritto nel suo saggio. Le immagini sembrano riprese da un osservatore qualunque, e riprendono il luogo dove (nel giorno della commemorazione dei defunti) è morto l'intellettuale e regista che ha definito la morte come un montaggio della vita, assumendo un'evidente e fortissima valenza simbolica, se non addirittura meta-simbolica. Come si può interpretare quindi il fatto che Moretti dedichi solo venticinque/trenta secondi alle immagini di questo luogo? Si tratta di pudore davanti alla morte? Oppure si tratta della resa cinematografica del “fulmineo montaggio” dei piani-sequenza che pone fine alla vita, ma non alle idee (infatti, dopo la seconda inquadratura del monumento, c'è uno stacco sul titolo dell'episodio successivo, ma la musica collega le due parti, e – come vedremo – le idee pasoliniane sono fortemente presenti anche in Isole)? O invece si tratta di uno stratagemma per rivisitare le periferie in cui Pasolini aveva girato i suoi primi film? Probabilmente c'è del vero in tutte e tre le ipotesi.
Ma l'omaggio a Pasolini va oltre. La sequenza appena descritta è il culmine di un crescendo che occupa tutto il primo episodio, che Moretti ha disseminato di riferimenti. Infatti, vediamo Nanni girovagare fra case romane, alcune delle quali ricordano diverse inquadrature di Mamma Roma, e fra quartieri satellite, come Spinaceto, propri della suburbia pasoliniana. La sequenza con il gruppo di danzatori, invece, ricorda i ragazzi che ballano fuori dal bar Las Vegas in Uccellacci e uccellini (simbolo della “omologazione culturale consumistica sulle nuove generazioni”). Poco oltre, nella conversazione con un abitante di Casal Palocco, alla periferia di Roma (un quartiere in cui sente odore di videocassette e pizze già pronte, ancora un simbolo di omologazione e conformismo, insomma un'ulteriore critica al consumismo), Nanni gli contesta la decisione di essersi trasferito lì nel 1962, quando “Roma era bellissima”. I due anni citati in questa sequenza (1961 e 1962) coincidono con i primi due film di Pasolini, quelli più vicini al neorealismo, Accattone e Mamma Roma, che mostrano con crudezza la vita dei sottoproletari della periferia, in contrasto con i quartieri borghesi della Roma-bene. È però nella sequenza in cui Nanni va al cinema a vedere Henry, pioggia di sangue (ossia quella immediatamente precedente al "pellegrinaggio" all'Idroscalo appena analizzato) che il collegamento a Pasolini diventa evidente: gli spargimenti di sangue nel film si associano alla violenza con cui Pasolini fu ucciso e ricordano che anche lui fu vittima di un film splatter (non dimentichiamo l'analogia morte-film). Infine, anche la sequenza comica in cui Moretti legge al critico (che piange disperato per il rimorso) la recensione assurda e incomprensibile da lui scritta su Henry… e su un film coreano, è un richiamo a Pasolini, alle sue idee sulla funzione degli intellettuali ripresa da Gramsci e sulla fine del ruolo dell'intellettuale.
Come già accennato in apertura di paragrafo, nell'episodio successivo Isole si parla diffusamente della televisione, un argomento su cui (lo ricordiamo) Pasolini si espresse chiaramente: la televisione, disse, è uno strumento di comunicazione che pensa per i telespettatori, ne conforma abitudini e opinioni, li esclude dalla partecipazione politica, assimila le periferie. Gerardo, l'amico teledipendente di Nanni, diventa l'archetipo del telespettatore ipotizzato da Pasolini; il fatto che un intellettuale subisca in maniera così eclatante l'influsso della televisione fa capire come non ci sia scampo per il telespettatore medio.
Più nascosto, un riferimento a Pasolini è presente anche nel terzo capitolo Medici. Qui le immagini reali di Moretti durante la chemioterapia (un home movie le cui riprese sembrano di nuovo quelle di uno spettatore qualunque) e la ricostruzione della sua esperienza con la malattia rendono palese l'idea che i mali morali da cui è afflitta la società sono reali e si evolvono in malattia fisica. Quest'ultima permette a Moretti di mostrare un'altra faccia del potere, rappresentato in questo caso dai medici e dai farmaci. Il potere non solo è omologante, come nel caso della televisione, ma può essere perfino fisicamente distruttivo. Infatti i medici, pur di mantenere il proprio potere sui pazienti non solo fanno attendere i malati – “il principe dei dermatologi” non riceve nuovi pazienti prima di tre mesi – ma non ammettono di avere dubbi in merito ai sintomi o alla propria capacità professionale, con la conseguenza di dare al paziente istruzioni fuorvianti, contrastanti e pericolose. La quantità di medicinali e rimedi prescritti da diversi "luminari" a Nanni, senza peraltro risolvere il suo problema, è un esempio di come indurre il paziente a diventare un consumatore di farmaci e crearne una dipendenza non solo mentale, ma anche fisica. Non è un caso che Nanni trovi la chiave per la sua guarigione nel rivolgersi a un sistema alternativo, ossia la medicina cinese, che sa ascoltare le persone oltre che parlare loro, ma soprattutto che ammette i propri limiti mandando il paziente a fare ulteriori accertamenti altrove. Se conformarsi acriticamente alle diagnosi di medici insensibili ai bisogni del paziente e semplicemente attaccati alla propria fama oltre che inutile diventa dannoso, è solo uscendo dal sistema che ci si salva e ci si purifica: nel finale Moretti tira le somme di quello che ha imparato: da una parte mostra la montagna di inutili medicine prescrittegli, dall'altra mette in evidente contrasto il semplice gesto del bere un bicchier d'acqua la mattina, l'unico vero toccasana sperimentato, simbolo di purificazione fisica e morale.
Concludendo, s'è  visto come Caro diario sia impregnato di riferimenti cinematografici, simbolici e teorici a Pasolini, trattati in modo estremamente originale, e come Moretti si rifaccia alle idee dell'intellettuale friulano, per interrogare se stesso e lo spettatore su quale dev'essere il ruolo dell'intellettuale nella società degli anni Novanta. In altri termini, Moretti usa i messaggi pasoliniani per esprimere a modo suo, con ironia, le proprie critiche alla società, ricorrendo anzitutto all'autocritica: lui stesso infatti s'inserisce nel gruppo dei consumatori di film e di medicinali, diventa un potenziale acquirente di case, adora veder ballare gli altri, confessa che un film non proprio "impegnato" (Flashdance) gli ha cambiato la vita e accetta di chiedere ai turisti americani notizie sulle prossime puntate di Beautiful. Inoltre, si mostra al suoi pubblico ingenuo, quasi infantile, “un poco scemo” (come lo definisce Jennifer Beals). Insomma, diversamente da Pasolini si cala al livello dei suoi interlocutori, se non più in basso. Così facendo, risulta più accettabile nel suo ruolo di intellettuale. Non si presenta come castigatore o come proclamatore della "Verità", ma come uno fra i tanti, e inoltre si diverte ed è libero di fare quello che vuole, senza costrizioni: scorrazza in Vespa per Roma, crea dialoghi surreali senza preoccuparsi di essere preso per matto. In questo modo conferma come anche l'intellettuale ben inserito nella società, per poter svolgere pienamente il suo ruolo di educatore-persuasore, deve insegnare a guardare oltre l'apparenza e a usare la capacità di critica, senza però imporre le proprie idee. Per riuscire nell'intento, deve poter dimostrare attraverso l'esempio che aderire ciecamente alla cultura di massa porta all'annullamento sia morale che fisico delle persone; viceversa, restare una voce fuori dal coro (come nella sequenza in cui canta orrendamente), andare d'accordo con una minoranza di persone ed essere soli nelle proprie battaglie (come Nanni è solo a Roma ad agosto), evitare di conformarsi al sistema, non solo può essere divertente, ma può letteralmente salvare la vita. Ed è proprio l'esempio che Moretti riesce a dare in Caro Diario, dove non interpreta più Michele Apicella l'intellettuale in crisi, ma semplicemente se stesso, cioè “uno splendido quarantenne”.

Conclusione: Pasolini, Moretti e la prossima generazione

Benché Pasolini e Moretti presentino grandi differenze generazionali, biografiche, stilistiche, è possibile individuare con precisione numerosi punti comuni fra loro. In particolare entrambi, accomunati da un'idea gramsciana dell'intellettuale, hanno svolto lucide analisi della situazione politica e sociale del loro tempo, prestando attenzione all'utilizzo del linguaggio, sperimentando modi di comunicazione innovativi, esprimendo senza esitazioni le loro critiche al potere e all'appiattimento culturale della società, dimostrando di saper precorrere i tempi nonché (Pasolini come osservatore, Moretti come parte integrante) di conoscere molto bene gli umori della società. Si può concludere che Moretti, con i suoi film capaci di parlare a un pubblico più vasto e con la sua autoironia, riprende in chiave post-moderna il pensiero pasoliniano, attualizzandolo e rendendolo più accessibile alle nuove generazioni.
Ma oggi bisogna spingersi oltre. Se la società del boom analizzata da Pasolini ha conosciuto
rapidissime trasformazioni, quella postmoderna studiata finora da Moretti sta venendo sostituita dalla "generazione elettronica" e precaria. Il linguaggio, le modalità espressive e i canali di comunicazione si stanno modificando rapidamente, i videogiochi stanno cambiando il modo di pensare, internet e i social networks stanno cambiando radicalmente i mass-media tradizionali, spostandoli da una modalità comunicativa unidirezionale a una interattiva. Internet è diventato il baluardo tanto dei fondamentalisti quanto dei fautori della democrazia più convinti, un medium in così rapida e capillare diffusione che il potere stesso fatica a comprendere e a contenere. In Italia (ma non solo) un multiforme popolo di giovani lavoratori precari e di immigrati s'ingrossa e assume un peso notevole, mescolando le proprie rivendicazioni alle proteste contro la "casta" politica ultraprivilegiata. Mai come oggi si rivela necessaria la capacità di capire e raccontare quale direzione sta imboccando questa società frammentata, priva di veri punti di riferimento. Sono tante le sfide per la prossima generazione di film di Nanni Moretti e dei nuovi registi-intellettuali.

Un doveroso ringraziamento va alla Prof.ssa Luciana d'Arcangeli per il suo prezioso e instancabile
incoraggiamento e supporto durante la ricerca e la stesura del presente lavoro

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
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1. L’influenza di Pier Paolo Pasolini sui film e sullo stile cinematografico di Nanni Moretti: un’analisi, di Stefano Bona - PARTE PRIMA

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LA SAGGISTICA - CINEMA
LinfluenzadiPierPaoloPasolinisuifilm
esullostile cinematograficodiNanniMoretti
Un’analisdi StefanoBona, Flinders University
Flinders UniversityLanguages GroupOnlineReview
Volume4,Issue3,December 2011

Lo "scandaloso" Pasolini

Fra gli intellettuali italiani del secondo dopoguerra, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fu una delle figure più difficilmente inquadrabili: figlio di un militare fascista, cresciuto in un contesto cattolico, fu dichiaratamente comunista e (cosa scandalosa per l'epoca) omosessuale.  Incarnazione di tutte le contraddizioni racchiudibili in un essere umano, fu inviso ai cattolici, cacciato dal Pci a causa delle sue tendenze sessuali, attaccato dai neofascisti, censurato, denunciato, querelato e/o processato decine di volte, e infine, il 2 novembre del 1975, brutalmente ucciso. Controverso, certo, ma anche uno degli intellettuali più eclettici nell'Italia del Ventesimo secolo: poeta, scrittore, saggista, critico, esperto d'arte, cineasta solo per citare alcune delle etichette usate per descriverlo. Impossibile riassumerne qui vita e opere, tuttavia alcuni aspetti vanno focalizzati nell'ottica del presente lavoro: le sue riflessioni sul ruolo dell'intellettuale, le teorie cinematografiche, le teorie sul rapporto fra televisione, potere e consumismo.
Secondo Gramsci, gli intellettuali oltre a “sapere”, devono “sentire” le passioni del popolo (che “non sempre comprende o sa”). Invece di restare “distinto e staccato” dal popolo-nazione, il vero intellettuale – unendo comprensione e passione – ne spiega le passioni giustificandole in un determinato contesto storico. Senza questa connessione, i rapporti tra intellettuali e popolo-nazione si riducono a una pura questione burocratica, insomma gli intellettuali “diventano una casta o un sacerdozio”. L'intellettuale deve invece assumere un ruolo di educatore-persuasore, e la letteratura una funzione morale.
Si può dire che Pasolini abbia fatto di queste idee la sua missione, dal primo contatto con la cultura contadina di Casarsa a quello successivo con il sottoproletariato delle borgate romane, e non abbia mai abbandonato la sua vocazione pedagogica: come insegnante e formatore, a Casarsa e a Roma, ha considerato i giovani una “forza innocente da contrapporre alle convenzioni e al moralismo borghese”; e come critico, ha sempre cercato il dialogo con i lettori dei giornali con cui ha collaborato. Nel 1974 scriveva: “sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi […] di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.” Infatti, ha individuato i mali del suo tempo: il consumismo, il potere omologante, la televisione, attaccandoli con forza e provocatoriamente.
Pasolini ha presto intuito che la letteratura non è l'unico mezzo espressivo a disposizione d'un intellettuale. Il cinema, per esempio, per molto tempo è “stato in anticipo sulla letteratura: o almeno ha catalizzato con una tempestività che lo rendeva cronologicamente anteriore, i motivi socio-politici profondi che avrebbero caratterizzato di lì a poco la letteratura”; inoltre, consente di indagare più a fondo i codici di comportamento della cultura popolare come parte della cultura di una nazione. Si capisce quindi di quale forza dispone questo mezzo. A partire dal Neorealismo il cinema italiano è stato influenzato dalla visione gramsciana d'una cultura responsabile del cambiamento della società, e la telecamera è stata usata, così come le parole scritte, per interpretare il presente socio-politico ma anche per denunciare il potere stabilito. Le prime sperimentazioni cinematografiche di Pasolini, da Accattone al Vangelo secondo Matteo, per sua stessa ammissione, sono state create “sotto il segno di Gramsci”: si tratta di lavori di stampo nazional-popolare, rivolti al popolo come classe sociale distinta dalla borghesia. In aperta polemica con “la nuova, tirannica e antidemocratica cultura di massa della società neocapitalistica”, Pasolini fa film d'élite che però possano parlare alla massa, e in questo senso definibili come “un atto di democrazia.” 
Si può dire che la nascita della nuova società di massa abbia concluso un'era ideologica su cui era basato il Comunismo: quella della divisione fra le classi sociali e della lotta di classe.  Pasolini considera la morte di Togliatti nel 1963 uno spartiacque simbolico del cambiamento, e non a caso inserisce in Uccellacci e uccellini (1965) una sequenza filmata durante il funerale di Togliatti. Inoltre, anche quando non parla alle masse ma a un pubblico politicizzato, Pasolini rivela le sue convinzioni sul ruolo dell'intellettuale. Nello stesso Uccellacci e uccellini il regista fa uccidere e mangiare il corvo/intellettuale ai protagonisti: anche l'intellettuale pedante e prodigo di consigli ha ormai fatto la sua epoca e del resto lo dice lo stesso corvo che “i professori sono fatti per essere mangiati in salsa piccante”. Destino crudele, ma (forse) inevitabile.
I film di Pasolini hanno seguito lo sviluppo del suo pensiero: neorealisti i primi, sempre più
ideologici e simbolici quelli successivi. Parallelamente, la sua padronanza delle tecniche cinematografiche è andata man mano affinandosi e, fra le tecniche da lui studiate, il piano-sequenza assume un ruolo rilevante.
Nelle sue Osservazioni  sul  piano-sequenza,  Pasolini  lo  descrive come  una “soggettiva”,
ovvero “il filmino in sedici millimetri che uno spettatore, tra la folla, ha girato sulla morte di Kennedy”. L'indagine della polizia sull'attentato dovrà metaforicamente montare i piani-sequenza forniti dai vari testimoni e crearne il "film", ossia ricostruire lo svolgersi dell'azione nella sua complessità, dandole un senso e trasformando in storia, ossia in passato, il presente raccontato da ogni testimone. Analogamente, secondo Pasolini “l'uomo si esprime con la sua azione”, che però rimane priva di unità e di senso finché non è stata compiuta. La vita, infatti, è composta da molteplici azioni, e assume un senso solo quando la morte interviene eseguendo “un fulmineo montaggio della nostra vita”. In quest'ottica, la morte appare necessaria per esprimere la vita, così come il montaggio di un film è necessario per dare un senso alle sequenze che lo compongono. Come vedremo, Moretti renderà con chiarezza questo discorso in Caro diario (1994).
Come detto, Pasolini ha usato il cinema d'élite per rivolgersi alla società di massa, contro la cultura di massa, tirannica e antidemocratica. La cultura di massa secondo lui è una forma di omologazione perpetrata dal potere mediante un mezzo di comunicazione nuovo e dirompente: la televisione, un altro degli argomenti di cui Pasolini si è occupato negli anni Settanta, con esiti sorprendentemente profetici.
Per Pasolini la televisione è uno strumento di comunicazione che pensa per i telespettatori, ai quali infonde “l'ideale piccolo-borghese di vita tranquilla e perbene”, rendendo conformi le loro abitudini e opinioni, ed escludendoli dalla partecipazione politica. 
Più precisamente, il centro, il nuovo potere legato a consumismo ed edonismo, "[p]er mezzo della televisione, […] ha assimilato […] l'intero paese […] storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice […]”. Tale omologazione, basata sull'imposizione dell'ideologia del consumo, va a sostituirsi alla religione. Gli italiani hanno accettato questa nuova ideologia dominante, annullando le differenze culturali fra sottoproletariato e borghesia, con un conseguente “rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali”. Di conseguenza, per Pasolini questo nuovo potere è il più autoritario e repressivo in assoluto: se nemmeno il fascismo era riuscito a intaccare l'anima degli italiani, il “nuovo fascismo”, invece, “attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specialmente, appunto, la televisione), […] l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre.” Quando Pasolini si esprimeva sulla televisione, le reti commerciali di Silvio Berlusconi non esistevano ancora, né era nota al pubblico l'esistenza della loggia massonica P2, finalizzata alla costruzione d'una rete segreta fra mass media, governo, esercito, servizi segreti italiani. Nel 2008 il fondatore della P2 Licio Gelli dichiarò che solo Berlusconi (uomo più ricco d'Italia,  proprietario  di  gruppi finanziari,  editoriali  e televisivi,  politico  e primo  ministro)  “può proseguire il mio progetto”: una  conferma  indiretta dell'attualità  delle intuizioni pasoliniane sul connubio potere-televisione-conformismo. 
Intellettuale scomodo, "maledetto" e profetico, lucido analista e critico della società italiana dal dopoguerra al 1975, Pasolini scelse di dare continuo scandalo denunciando quello che può succedere a una persona pulita in un paese sporco. Paradossalmente, finì vittima delle sue stesse intuizioni. Se infatti teorizzò la fine del ruolo dell'intellettuale, e se spesso ebbe a riflettere anche sulla morte (riflessione di cui la sua teoria sul piano-sequenza è solo un esempio), forse non immaginava – o forse lo aveva intuito – di tramutarsi nel corvo di Uccellacci e uccellini, o che una sua poesia sarebbe diventata tristemente autobiografica: “[…] solo, “pilotando la sua Alfa Romeo”, / […] sono come un gatto bruciato vivo, /pestato dal copertone di un autotreno, / […] come un serpe ridotto a poltiglia di sangue”. Soprattutto, forse non immaginava che la sua morte sarebbe stata inserita anche in un film.
Di seguito si cercherà di spiegare quanto, come e perché la sua figura influenzi il cinema di Nanni Moretti.

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Inaugura a Barcellona l’esposizione itinerante Pasolini Roma - 16 maggio 2013

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LA SAGGISTICA
Inaugura a Barcellona l’esposizione
itinerante Pasolini Roma
16 maggio 2013
Pasolini Roma. Centre de Cultura Contemporania de Barcelona
di Cristina Pontisso

Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard e Pier Paolo Pasolini
A ospitare la prima tappa dell’esposizione itinerante PASOLINI ROMA sarà il Centre de Cultura Contemporània di Barcellona, dal 23 maggio al 15 settembre 2013. Una rassegna cinematografica – quasi cinquanta proiezioni per ripercorrere la vita e l’opera di Pasolini – sarà inoltre ospitata tra maggio e luglio dalla Filmoteca de Catalunya. Al progetto espositivo hanno aderito, oltre al CCCB, la Cinémathèque française di Parigi, l’Azienda Palaexpo – Palazzo delle Esposizioni di Roma e il Martin-Gropius-Bau di Berlino.
La specificità della mostra è l’approfondimento del rapporto tra Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Roma: un uomo e una città, una grande storia d’amore “con le sue delusioni, i suoi sentimenti contrastanti di amore e odio, e le fasi di attrazione, di rifiuto e di straniamento”¹, come rivelano i curatori nella prefazione del catalogo. Roma è stata per lui un campo di studio e di riflessione, non solo uno sfondo per i suoi romanzi e i suoi film.
PASOLINI ROMAè suddivisa in sei sezioni che seguono un percorso cronologico, corrispondente a sei fasi della vita di Pier Paolo Pasolini e che esplorano le forme della sua creatività: la poesia, l’impegno politico, il cinema.
Pier Paolo Pasolini, Autoritratto, 1965
La prima sezione (1950-1954) comincia con l’arrivo a Roma dal Friuli, insieme alla madre Susanna Colussi, il 28 gennaio 1950, dopo l’espulsione dal sistema di istruzione pubblica e dal Partito comunista, per essere stato denunciato di aver avuto incontri sessuali con adolescenti, accusa da cui è poi stato scagionato. Pasolini abiterà a Ponte Mammolo, quartiere povero vicino al carcere di Rebibbia, troverà lavoro come insegnante in un istituto privato di Ciampino, scoprirà la popolazione emarginata delle borgate, la loro lingua, cultura e vitalità. Sono gli anni in cui, con Sandro Penna, inizia a frequentare Ungaretti, Gadda, Caproni, Bassani. La seconda sezione (1955-1960) si apre con la pubblicazione di Ragazzi di vita, con cui Pasolini fa il suo ingresso “scandaloso” nella vita intellettuale e artistica di Roma. Inizia a scrivere sceneggiature  per Soldati, Fellini, Bolognini e altri. Conosce le persone che diventeranno i suoi amici migliori: Alberto Moravia e Elsa Morante. Incontra Laura Betti, cantante e attrice, che gli starà vicino per tutta la vita, presente nei suoi film e nello spettacolo teatrale Orgia. Pasolini lascia il quartiere di Rebibbia per trasferirsi a Monteverde, nello stesso edificio in cui viveva il poeta Attilio Bertolucci con la moglie e i figli, Bernardo e Giuseppe, con cui Pasolini strinse profondi rapporti di amicizia.
La terza fase (1961-1963) è inaugurata dal suo primo film, Accattone, con cui inizia la “trilogia romana” (completata da Mamma Roma e La ricotta) che fa vivere le periferie di Roma, il sottoproletariato, i quartieri Testaccio, Pigneto, Tuscolano e il Parco degli Acquedotti. La ricotta, girato alla fine del 1962, segna l’importante incontro col giovane Ninetto Davoli; e per questo film  è stato al centro di un processo per oltraggio alla religione. Da questo momento Roma diventa per Pasolini anche la città di aule di tribunale. Ha subìto trentatré processi, con cui hanno tentato di mettere a tacere la sua analisi critica, la sua voce scomoda. La fase 1963-1966 si apre con il trasferimento in un tranquillo quartiere residenziale, l’EUR. Pasolini gira Uccellacci e uccellini (1965-1966), interpretato da Totò e Ninetto Davoli. Inizia piano piano ad allontanarsi dalla capitale: nelle campagne viterbesi e nel sud d’Italia gira Il Vangelo secondo Matteo (1964), dedicato a Papa Giovanni XXIII. Con questo film desta polemiche al Festival di Venezia, dove riceve il premio OCIC (Organismo cattolico internazionale del cinema).
Una notte di marzo del 1966, Pasolini è ricoverato d’urgenza in ospedale a causa di un’emorragia provocata da un’ulcera. Durante la convalescenza, scrive le sei opere che rappresentano quasi tutto il suo lavoro per il teatro. Quel periodo (sezione 1966-1973) segna anche l’inizio del disincanto nei confronti di Roma. Pasolini è stato forse l’unico intellettuale italiano capace di comprendere il significato e la portata delle trasformazioni in atto, di cogliere i pericoli insiti nel neo capitalismo italiano, un modello di sviluppo basato sulla quantità piuttosto che sulla qualità, sull’accumulo di beni superflui piuttosto che sul progresso culturale e morale. Ha osservato gli effetti distruttivi della società dei consumi, ha visto la corruzione del sottoproletariato romano, una cultura su cui aveva costruito parte della sua opera letteraria e cinematografica. È di questi anni l’incontro con Maria Callas, alla quale nel 1969 dà il ruolo principale nel film Medea e con cui ha una relazione di profonda amicizia.
Tra il 1970 e il 1974, gira la Trilogia della vita. Il Decameron in Campania, I racconti di Canterbury in Inghilterra, e infine si reca in Egitto, Yemen, Eritrea, e Nepal per realizzare Il fiore delle Mille e una notte. Parigi diviene un centro importante per la sua vita intellettuale. Scambia idee e teorie con i più importanti intellettuali francesi dell’epoca: Jean-Paul Sartre, Roland Barthes, Christian Metz e Jean-Luc Godard. Pasolini conosce un periodo di creatività prolifica. Acquista due case né troppo lontano né troppo vicino a Roma: una in campagna, a Chia (Soriano nel Cimino, VT), l’altra vicino al mare, a Sabaudia (LT), condivisa con l’amico Alberto Moravia. Sono state a lungo sognate. A Chia si ritira di tanto in tanto per scrivere e dipingere  nelle pause tra un film e l’altro. Le due grandi opere di questo periodo sono il romanzo Petrolio, rimasto incompiuto, e Salò, uno dei film più estremi della storia del cinema.
Il 2 novembre 1975 il suo corpo è stato trovato, barbaramente assassinato, presso il litorale di Ostia. Non è ancora chiaro cosa sia successo quella notte, ma alla descrizione degli eventi fatta da Pino Pelosi non si è dato alcun credito.
A testimonianza di ogni incontro, situazione, scritto e film citato in questa breve cronistoria è presente in mostra una quantità di materiali considerevole: manoscritti originali di sceneggiature, storyboard, poesie, romanzi, saggi e articoli, corrispondenza con amici e altri intellettuali e artisti, disegni e dipinti di Pasolini, brani tratti dai suoi film, interviste e documentari, fotografie, mappe di Roma, installazioni, ecc. Molti dei materiali originali provengono dall’Archivio Contemporaneo ‘A. Bonsanti’ di Firenze, in particolare dal Fondo Pasolini affidato in comodato d’uso fin dal 1988 al Gabinetto Vieusseux da Graziella Chiarcossi, cugina di Pier Paolo ed erede della madre del poeta. Ne approfitto per ringraziarla di tutte le informazioni che mi ha trasmesso e per alcune fotografie presenti in questo articolo.
Nel percorso espositivo sono anche inserite opere di importanti pittori italiani (Mario Mafai, Giorgio Morandi, Ottone Rosai, Giuseppe Zigaina, Renato Guttuso, Filippo De Pisis e Giorgio de Chirico), artisti particolarmente cari all’autore e menzionati all’interno dei suoi scritti. A questo si aggiungono anche  numerose testimonianze di persone che Pasolini ha incontrato in diversi momenti della sua vita: Ninetto Davoli, Ennio Morricone, Vincenzo Cerami, Nico Naldini, Bernardo Bertolucci, Alberto Arbasino, Dacia Maraini.
È inoltre presente in mostra una curiosità: l’inserimento di una sezione riguardante il Friuli e il rapporto di Pier Paolo con la lingua friulana e la difesa delle minoranze linguistiche, le “piccole patrie”, come le definiva. Pasolini, insieme ad alcuni amici, fondò a Casarsa della Delizia (paese natio della madre) l’Academiuta di lenga furlana per la valorizzazione del friulano; lo "Stroligùt" ne è la prima pubblicazione ufficiale. Poiché il catalano è – come il friulano – una lingua neolatina, nella mostra si è voluto dare rilievo all’antologia della poesia catalana dal Quattrocento al Novecento curata dal poeta Carles Cardó, presente nel quinto "Stroligùt" del giugno 1947 (con il titolo cambiato in “Quaderno Romanzo”).
La mostra è a cura di Jordi Balló, saggista, docente di Scienze della Comunicazione presso l’Università Pompeu Fabra e direttore di mostre presso il CCCB (1999-2011), Alain Bergala, scrittore, critico e regista, e Gianni Borgna, giornalista, scrittore e studioso di Pasolini.

Pasolini Roma
Centre de Cultura Contemporània, Barcellona: 22 maggio – 15 settembre 2013
Cinématèque Française, Parigi: 14 ottobre 2013 – 26 gennaio 2014
Palazzo delle Esposizioni, Roma: 3 marzo 2014 – 8 giugno 2014
Martin Gropius Bau, Berlino: 11 settembre 2014 – gennaio 2015

CCCB– Centre de Cultura Contemporània de Barcelona
Montalegre, 5 – 08001 Barcelona - Tel. 933064100 - Fax. 933064101
e-mail. info@cccb.orgsito web. www.cccb.org

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Pasolini il barbaro, discepolo di Socrate. Critica dell'ellenista Michel Grodent a "Le mythe de la barbarie" di Fabien S. Gerard

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LA SAGGISTICA
Pasolini le barbare, disciple de Socrate
par Michel Grodent«Le Soir», 28/4/1982


Il s'agit de la critique de Michel Grodent, dans le Français original et dans ma traduction
italienne, à un livre de Fabien S. Gérard, Pasolini ou le mythe de la barbarie
publiée en 1981 par les Éditions de l'Université de Bruxelles et cité dans une grande partie
des bibliographies concernant études sur la personnalité et l'oeuvre de Pier Paolo Pasolini. [a.m.] 

Pasolini le barbare, disciple de Socrate

Après avoir été un vivant impensable,  Pier  Paolo Pasolini est devenu un cadavre encombrant. Sept ans après son affreuse mort, on peut vraiment se demander si la société néo-capitaliste dont nous nous promettons tant de consolations est enfin en mesure d'absorber son message, ou du moins de le tolérer. On peut franchement en douter quand on songe que son dernier film, Salo ou les centvingt jours de Sodome, demeure méconnu dans ta plupart de nos pays (ce ne sont pas les programmations dans les circuits parallèles de France et d'ailleurs qui nous feront dire le contraire) quand ce n'est pas soigneusement occulté (nous ne l'avons jamais vu en Belgique : il dort dans une cave qui offre toutes les garanties d'étanchéité). Pasolini, ce pelé, ce galeux...

Le cinéaste italien semble donc plus que jamais faire problème. Juste continuation des choses : toute sa vie il avait été attaqué par le pouvoir (de gauche comme de droìte). Quelles monstruosités se cachaient donc derrière Paso­lini ? Un jeune chercheur belge a cherché opiniâtrement, en étudiant chaque film, chaque roman, chaque poème, chaque déclaration a reconstituer le visage de l’artiste. Son travail est un modèle d'honnêteté critique : Fabien S. Gerard s'attaché a fai­re parler Pasolini a travers Pasolini, n'intervenant que fort peu dans le déploiement d'une pensée en perpétuel devenir, soucieux d'en révéler les différentes articulations, observateur impartial doué d'une grande cònscience prof essionnelle. (1)

Chemin faisant il répère le mythe central de l'oeuvre pasolinienne : la «barbarie», le «merveilleux barbare», «évocation magique et sauvage liée aux racines de l'aventure humaine» et qui «assume, un ensemble de valeurs relevant du sacre, essentiellement positives». Confronté à la négativité que représentait pour lui la socìété de consommation occidentale qui transforme l'homme en marchandise, Pasoli­ni cherchait des substituts idéologiques et affectifs dans le passé ou des systèmes sociaux, des marginalités qui avaient gardé toute leur authenticité.

C'est ainsi qu'il prit pour point de départ de sa réflexion le sous-prolétariat urbain (Accattone) et le Tiers-Monde .(incarnation de «l'humilité ascétique»). Dans tous les cas se manifestait «la tentation... de se prolonger dans un état idéal, antérieur a tous risques de dégradation culturelle, dans un âge archaïque, indéfi­ni, mythique et barbare», dont Oedipe Roi fut l'incarnation. Il peut apparaitre ainsi comme un progressiste conservateur, en ce sens qu'il proclamait sans relâche la nécessité de «regarder en arrière», de s'immerger par exsemple dans l'univers des grandes fables populaires (Les millee et une nuits) pour renouer avec la simplicité, et «aller de l'avant». Le personnage auquel Pasolini fait toujours songer, c'est Socrate, nous révèle Fabien S. Gerard. Socrate décidément fort à l'honneur ces jours-ci. Le pére de la «maïeutique», de l'art d'accoucher les esprits, le pédagogue qui affirmait le savoir du non-savoir, avait trouvé en Pasolini un disciple. Disciple jusqu'a la mort.

Pour terminer nous nous permettrons de rappeler la publication de l'ensemble des textes qui reprennent les actes d'un séminaire «Pasolini» organisé a Paris en mai 1979. (2) Marie-Antoinette Macciocchi et Bernard-Henry Levy s'étaient chargés en 1980 de cette publication témoignant, disent-ils, de «l'étonnante polyphonie d'un destin qui s'inscrivit... à tous les registres de l'oeuvre et de la création  intellectuelles.

Si le romancier Italo Calvino s'est spécialement occupé des romans de Pasolini, François Wahl, le philosophe, du discours de la perversion chez l'auteur de Salo et Pierre Mertens le juriste; de tout le contexte journalistique qui a entouré la mort du réalisateur, la plupart des intervenants soulignent à plaisir «l’hérétisme» du personnage, sa dissidence profonde. «C'est un intellectuel qui pense sans jamais s'affilier», déclare Alain Fìnkiekraut. Mais c'est à Sollers qu'on accorderà la palme de la provocation : Sûremerit que Pasolini était pervers; sûrement qu'il était névrosé, sûrement qu'il était pohobique," sûrement qu'il était schizophrène même qu'il était paranoïaque, c'est-à-dire qu'il était parfaitement normal... A bon entendeur !

Michel Grodent
«Le Soir», 28/4/1982
------------
1) Pasolini ou le mythe de la bar­barie, préfacé de Pierre Mertens, Editions de l'Université libre de Bruxelles, collection «Arguments et Documents ». L'ouvrage contient une traduction originale de trois des derniers textes de Pasolini ainsi que la bibliographie la plus complète en français.
2) Editions Grasset.




Pasolini il barbaro, discepolo di Socrate

Dopo aver avuto una vita inimmaginabile, Pier Paolo Pasolini è diventato un corpo ingombrante. Sette anni dopo la sua morte orribile, si può davvero chiedere se la società neo-capitalista in cui riponiamo così tanto credito è finalmente in grado di assorbire il suo messaggio, o almeno di tollerarlo. Possiamo onestamente dubitarne se si considera che il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, rimane sconosciuto nella maggior parte del nostro paese (non la programmazione in circuiti paralleli in Francia e altrove, che ci dirà altrimenti) quando non è accuratamente celato (non l’abbiamo mai visto in Belgio, dorme in una cantina con tutte le garanzie di protezione). Pasolini, ‘sto rognoso…

Il regista italiano sembra più che mai costituire un problema. Giusta continuazione dei fatti: per tutta la vita era stato attaccato dal potere (sia da sinistra sia da destra). Quale mostruosità quindi si nascondevano dietro Pasolini? Un giovane ricercatore belga ha cercato ostinatamente, studiando ogni film, ogni romanzo, ogni poesia, ogni affermazione, di ricostruire il volto dell'artista. Il suo lavoro è un modello di onestà critica: Fabien S. Gerard si è ripromesso di parlare di Pasolini attraverso Pasolini, intervenendo abbastanza limitatamente per spiegare un pensiero in continuo divenire, preoccupato di rivelarne le diverse articolazioni, osservatore imparziale dotato di grande coscienza professionale. (1)

Cammin facendo ha individuato il mito centrale dell’opera pasoliniana: la “barbarie”, la “meraviglia barbarica”, evocazione magica e selvaggia legata alle radici del cammino dell’uomo” e che "attribuisce un insieme di valori rilevanti del sacro essenzialmente positivi. Di fronte a quanto di negativo vi era secondo lui nella società occidentale consumistica che trasforma l'uomo in merce, Pasolini cercava alternative ideologiche e affettive nel passato o in sistemi sociali precedenti, in alcune marginalità che avevano mantenuto la loro autenticità.

È in questo modo che prese come punto di partenza della sua riflessione il sottoproletariato urbano (Accattone) e il Terzo Mondo (incarnazione di "umiltà ascetica"). In tutti i casi si manifestava "la tentazione... di proiettarsi in uno stato ideale, prima che vi fosse qualunque rischio di degrado culturale, in un'epoca arcaica, indefinita, mitica e barbara", di cui Edipo era l'incarnazione. Ha potuto quindi apparire come un progressista conservatore, nel senso che proclamava senza tregua la necessità di "guardare indietro" di immergersi per esempio nel mondo delle grandi fiabe popolari (Le mille e una notte), di rinnovare con semplicità, e di "andare avanti". Il personaggio al quale Pasolini fa sempre pensare è Socrate, ci rivela Fabien S. Gerard. Socrate il cui onore è indubbiamente forte in questi giorni. Il padre della “maieutica”, l’arte di “far partorire” lo spirito, l'insegnante che sosteneva la conoscenza della non conoscenza, aveva trovato in Pasolini un discepolo. Discepolo fino alla morte.

Infine ci permettiamo di ricordare la pubblicazione di tutti i testi che riprendono gli atti di un seminario, “Pasolini”, organizzata a Parigi nel maggio 1979. (2) Maria Antonietta Macciocchi e Bernard-Henry Levy si erano fatti carico nel 1980 di questa pubblicazione manifestando, dissero, "la sorprendente polifonia di un destino che si inserisce… in tutti i registri del lavoro e della creazione intellettuali ".

Se lo scrittore Italo Calvino si è occupato soprattutto dei romanzi di Pasolini, François Wahl, il filosofo, del discorso della perversione nell’autore di Salòe Pierre Mertens, avvocato, di tutto il contesto giornalistico che ha circondato la morte del regista, la maggior parte dei relatori ha sottolineato “l’eretismo" del personaggio, il suo profondo dissenso. "Questo è un intellettuale che pensa senza mai vincolarsi", ha dichiarato Alain Fìnkiekraut. Ma è a Sollers che diamo la palma della provocazione: “Certamente Pasolini era perverso, certamente era nevrotico, era certamente fobico, certamente era schizofrenico quanto paranoico, vale a dire ch’egli era perfettamente normale ...” A buon intenditore!!

Michel Grodent
«Le Soir», 28/4/1982
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1) Pasolini ou le mythe de la barbarie, prefazione di Pierre Mertens, Editions de l'Université Libre de Bruxelles, raccolta di "Argomenti e documenti." Il libro contiene una traduzione originale di tre degli ultimi testi di Pasolini e la bibliografia più aggiornata in francese.
2)  Editions Grasset.
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"L'ultimo Pasolini", di Federico Sollazzo, maggio 2013

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LA SAGGISTICA
L’ultimo Pasolini
Federico Sollazzomaggio 2013


Non dico che dovete credermi. Dico che dovete
sempre cambiare discorso per non affrontare la verità. 
(Pier Paolo Pasolini, Siamo tutti in pericolo)


Nell’ultima parte della sua vita Pier Paolo Pasolini si è dedicato ad un’intensa attività pubblicistica di impronta pedagogica (cfr. P.P. Pasolini, Gennariello, in Lettere luterane, Einaudi, Torino 2003 e F. Sollazzo, Pasolini, «Lettere luterane», in «CriticaMente», 13/01/2010). Tuttavia, stanti le sue considerazioni sulla società, non credo che tale attività si possa derubricare unicamente come progetto pedagogico, ritengo invece che essa rappresenti anche, da un lato, un chiarimento pubblico con se stesso e, dall’altro e soprattutto, un atto creativo incontenibile e inconsumabile: «I sociologi su questo si sbagliano, devono rivedere le loro idee. Loro dicono che il sistema mangia tutto e assimila tutto. Non è vero, ci sono delle cose che il sistema non può assimilare, non può digerire. Una di queste, per esempio, è proprio la poesia, perché secondo me è inconsumabile. Uno può leggere migliaia di volte un libro di poesia e non consumarlo. La consumazione è del libro, è dell’edizione, ma non della poesia (…) E così il cinema» (P.P. Pasolini, Pasolini rilegge Pasolini, Archinto, Milano 2005, p. 65. Cfr. anche Id., La poesia inconsumabile, in YouTube, 06/11/2011, e Id., Che senso ha scrivere?, in YouTube, 02/08/2012, e inoltre E. Golino, Pasolini, il sogno di una cosa: pedagogia, eros, letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Il Mulino, Bologna 1985 e A. Spadino, Pasolini e il cinema 'inconsumabile', Mimesis, Milano 2012).
Tutta questa sua ultima produzione, non solo pubblicistica ma variamente articolata e caratterizzata da uno specifico linguaggio col quale si vuole dar conto della mutata realtà, ruota attorno ad un preciso asse tematico: la «mutazione antropologica». Nel presente scritto si cercherà di chiarirne alcuni possibili fraintendimenti e soprattutto di restituirne il significato originario, operazione possibile solo sforzandosi di passare attraverso gli occhi dell’Autore. Significato che appare come tragicamente attuale poiché l’argomentazione pasoliniana, costruita sull’analisi degli italiani del secondo dopoguerra, sembra oggi potersi applicare a tutto l’allargato Occidente, come peraltro egli stesso aveva osservato: «il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico» (P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 322, corsivo mio).

Il consumismo e l’edonismo

I libri che raccolgono l’argomentazione dell’ultimo Pasolini sono principalmente Lettere luterane e Scritti corsari. Grazie ad essi si può ripercorrere la descrizione di una radicale trasformazione dell’uomo, veicolata da due fattori necessariamente e intimamente connessi: il consumismo e l’edonismo (riuniti nella fortunata formula di edonismo consumistico).
Il consumismo è infatti un fenomeno che si basa su una capacità attrattiva che spinge le persone a conformarsi ad esso, ad aderirvi, a desiderarlo, a praticarlo, questa forza è appunto l’edonismo. Questa dinamica è di particolare importanza perché è così che nasce, per la prima volta nella storia del genere umano, un Potere (impersonale e onnipervasivo) che non ha più la necessità di andare verso i singoli per assoggettarli ma, al contrario, li calamita a sé (Questo è il tema attorno a cui orbita la produzione giovanile del cosiddetto periodo romano, cfr. Id., Accattone, 1961, Id., Mamma Roma, 1962, Id., Una vita violenta, Garzanti, Milano 2008, Id., Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 2009 e F. Sollazzo, Appunti sulle opere romane di Pasolini, in «Pagine corsare», 13/10/2012).
Si determina così quella omologazione, che investe tutto e tutti, passando attraverso le dimensioni vitali per eccellenza: quella linguistica e quella corporea [1].
L’omologazione consiste, infatti, in un processo di reificazione, di riduzione della vita a cosa al fine di poterla amministrare, dominare: tutta la vita e la vita di tutti è ridotta a oggetto di dominio. Inoltre, tale reificazione è univoca, poiché il Potere che la produce non lascia alcun margine di alternativa a se stesso. Vi sono quindi nel fenomeno dell’omologazione due nuclei problematici che si sovrappongono: la riduzione della vita a cosa e l’univocità di tale cosa. A questi nuclei problematici corrisponde la perdita di due aspetti fondamentali del passato: l’autenticità e la molteplicità. Questa è la «mutazione antropologica»: dall’autenticità pluralistica all’oggettivazione univoca. Quel che Pasolini intende con mutazione antropologica è quindi la scomparsa delle differenze autentiche, ovvero di una molteplicità di modi diversi di poter essere autenticamente uomini (le differenze che si riscontrano nella società dei consumi sono mere funzioni di tale società, (ri)producono vari personaggi che, nei loro discorsi, nel loro abbigliamento, nella loro corporeità, sono preconfezionati dalla società esistente, che offre così false alternative, irreale libertà; di questo si tratta in particolare ne Il “discorso” dei capelli, apparso nel 1973 sul «Corriere della Sera» come Contro i capelli lunghi, e nella scena della Visione di Petrolio). 
A questo si riferisce nel noto articolo delle lucciole, emblematico di tutto l’ultimo tormentato scorcio della riflessione pasoliniana: «Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante del passato: e un uomo anziano che abbia tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può avere i bei rimpianti di una volta.) Quel “qualcosa” che è accaduto una decina d’anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”» (P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2007, p. 129). Fuor di metafora: «Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione (…) I giovani – svuotati dei loro valori e dei loro modelli – come del loro sangue – e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire l’essere: quello piccolo borghese» (P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., pp. 154-155).

Sulla mutazione antropologica

La mutazione antropologica è potuta avvenire grazie a degli specifici vettori che hanno veicolato determinati contenuti. Infatti, scrivendo all’immaginario destinatario del suo scritto pedagogico, Gennariello, Pasolini afferma: «Le tue “fonti educative” più immediate. Tu penserai subito a tuo padre, a tua madre, alla scuola e alla televisione. Invece non è così. Le tue fonti educative più immediate sono mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti. Eppure ti parlano (…) Hanno un loro linguaggio. Parlo degli oggetti, delle cose, delle realtà fisiche che ti circondano» (Ivi, p. 31). Questo perché ogni singola cosa è un segno linguistico che esprime e comunica un significato. L’intero mondo quindi è una dimensione semiologica nella quale le persone sono costantemente e completamente (e, spesso, inconsapevolmente) immerse, ricevendo quindi la lezione che tali simboli, le cose, impartiscono. E poiché tale lezione è ricevuta in maniera assoluta e incessante (e, spesso, inconsapevole), l’esposizione, inevitabile, ad essa fa sì che le cose siano gli educatoriper eccellenza. «L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito» (Ivi, p. 36). E tale educazione avviene in forma autoritaria e repressiva poiché le cose non ammettono repliche: «Il loro [delle cose] linguaggio è inarticolato e assolutamente rigido: dunque inarticolato e rigido è lo spirito del tuo apprendimento e delle opinioni non verbali che in te, attraverso quell’apprendimento, si sono formate. Su questo siamo due estranei [Pasolini e Gennariello], che nulla può avvicinare» (Ivi, p. 41) [2].
A proposito delle cose «bisogna tenere ben presente l'assioma primo e fondamentale dell'economia politica cioè che chi produce, non produce merce ma rapporti sociali» (Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, p. 2840). Ovvero, il modo in cui viene organizzata la vita dei membri di una società determina specifici rapporti sociali e relazioni interpersonali fra gli stessi, producendo così un certo tipo d’umanità. Ed oggi (un oggi pasoliniano che dischiude il nostro oggi) «visto che il modo di produzione è totalmente nuovo, le merci prodotte sono totalmente nuove ed è totalmente nuovo il tipo di umanità che viene prodotto (…) Sono caduti dei valori e sono stati sostituiti con altri valori. Son caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti con altri modelli di comportamento. Questa sostituzione (…) è stata imposta dal nuovo Potere consumistico, cioè, la grossa industria italiana plurinazionale e anche quella nazionale degli industrialotti voleva che gli italiani consumassero in un certo modo e un certo tipo di merce e per consumarla dovevano realizzare un altro modello umano. Ecco, un vecchio contadino, tradizionalista e religioso, non consumava delle sciocchezze reclamizzate dalla televisione. Ora bisognava fare in modo che invece le consumasse» (Ibid. e Id., Consumismo genocidio delle culture, in YouTube, 30/06/2011, corsivo mio. Cfr. anche il film di L. Betti, Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno, 2011) [3]. 
In un simile scenario, sempre più compromesso da una spinta reificazione, solo il «sentimento del bello» di un uomo di cultura può (ri)articolare un linguaggio che sia alternativo a quello delle cose, della realtà data; aspetto, questo, spesso lascato cadere o etichettato come estetismo in senso dispregiativo, senza comprendere l’importanza del precipitato sociale di tale questione: «Ciò mi dà il diritto a non vergognarmi del mio “sentimento del bello”. Un uomo di cultura (…) non può essere che estremamente anticipato o estremamente ritardato (o magari tutte e due le cose insieme, com’è il mio caso). Quindi è lui che va ascoltato: perché nella sua attualità, nel suo farsi immediato, cioè nel suo presente, la realtà non possiede che il linguaggio delle cose» (Ivi, p. 40).
Le cose quindi, benché strumentalmente utilizzabili in vario modo, sono ben lungi dall’essere neutrali. Ogni oggetto è portatore e emanatore di una specifica forma di razionalità, con la quale si entra in contatto (il più delle volte assorbendola acriticamente) quando si entra in contatto con l’oggetto stesso. Questo avviene, evidentemente, con tutte le cose, quindi anche con quelle del mondo «preindustriale» e «paleoindustriale», e tuttavia solo ora, nella modernità, meglio, in questa modernità, le cose cambiano radicalmente il loro linguaggio e dunque il contenuto del loro insegnamento. Si produce così una svolta epocale. «Fino al Cinquanta, ai primi anni Sessanta (…) le cose erano ancora cose fatte da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo (…) Non è cambiato, però, il linguaggio delle cose (…): quelle che sono cambiate sono le cose stesse. E sono cambiate in modo radicale (…) Il mondo ha eterni, inesauribili, cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo. E allora il cambiamento è, appunto, totale» (Ivi, pp. 43 e 42).
Questo ha reso possibile la mutazione antropologica, che in Italia ha avuto anche uno specifico andamento geografico: da Nord, emblematicamente rappresentato dalla produttività di Milano, a Sud, per questo nel suo lavoro pedagogico, rimasto incompiuto per il suo assassinio, il Nostro immagina di rivolgersi ad un ragazzo di Napoli: «è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne (…) Il salto tra il mondo consumistico e il mondo paleoindustriale è ancora più profondo e totale che il salto tra il mondo paleoindustriale e il mondo preindustriale. Quest’ultimo, infatti, è stato superato definitivamente – abolito, distrutto – soltanto oggi. Fino a oggi è stato esso a fornire i modelli umani e i valori alla borghesia paleoindustriale: anche se essa li mistificava, li falsificava e li rendeva talvolta orrendi (com’è successo col fascismo e in genere con tutti i poteri clerico-fascisti) (…) La verità che dobbiamo dirci è questa: la nuova produzione delle cose, cioè il cambiamento delle cose, dà a te un insegnamento originario e profondo che io non posso comprendere (anche perché non lo voglio). E ciò implica un’estraneità tra noi due che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso i padri dai figli» (Ivi, pp. 41e 43-44, corsivo mio).
E tale processo non è certamente un fatto locale, ma riguarda tutto il mondo occidentale e occidentalizzato. Al ritorno da un viaggio nello Yemen infatti scrive: «In quanto regista ho visto (…) la presenza “espressiva”, orribile, della modernità: una lebbra di pali della luce piantati caoticamente – casupole di cemento e bandone costruite senza senso là dove un tempo c’erano le mura della città – edifici pubblici in uno stile Novecento arabo spaventoso (…) oggetti di plastica, scatolame, scarpe e manufatti di cotone miserabili, pere in scatola (provenienti dalla Cina), radioline. Ho visto insomma la coesistenza di due mondi semanticamente diversi, uniti in un solo e babelico sistema espressivo (…) Il fatto che esso [il vecchio Yemen] richiede un’abiura da parte degli yemeniti pare agli speculatori (…) qualcosa di perfettamente naturale: gli yemeniti devono essere del tutto consenzienti a proposito del loro genocidio: culturale e fisico, anche se non mortale, come nei lager (…) proprio in questi ultimi anni mi sono convinto che la povertà e l’arretratezza non sono affatto il male peggiore. Su questo ci eravamo tutti sbagliati. Le cose moderne introdotte dal capitalismo nello Yemen, oltre ad aver reso gli yemeniti fisicamente dei pagliacci, li hanno resi anche molto più infelici. L’Imam (il re cacciato) era orrendo, ma il consumismo micragnoso che l’ha sostituito non lo è di meno» (Ivi, pp. 39-40 e cfr. il suo documentario, Le mura di Sana'a, 1970, in cui rivolge un appello all’Unesco affinché protegga la città e il Paese tutto dalla distruzione consumistica). Un passo che dice molto anche sulle ultime transizioni politico-sociali, da quelle avvenute nell’Est Europa nel secolo scorso alla attuale cosiddetta «primavera araba». 
La possibilità di salvarsi da una simile degenerazione sembra ormai annichilita dal fatto che quella particolare «sensibilità estetica», necessaria per comprendere la realtà, è oscurata dalla civiltà dei consumi e così incomprensibile ai più. «Il mio estetismo è inscindibile dalla mia cultura (…) la mia cultura (coi suoi estetismi) mi pone in un atteggiamento critico rispetto alle “cose” moderne intese come segni linguistici. La tua cultura, invece, ti fa accettare quelle cose moderne come naturali, e ascoltare il loro insegnamento come assoluto» (Id., Lettere luterane, cit., pp. 40-41). È per descrivere questo scenario che Pasolini conia un particolare vocabolario, di cui sono esempi emblematici le espressioni: «nuovo fascismo consumistico», «Nuova Preistoria», «Dopostoria» [4].
Ma in Pasolini è presente non solo una complessa pars destruens di questa modernità, ma anche l’apertura, che spesso sfugge alla Critica, ad una possibile pars costruens, passante attraverso il gesto del Rifiuto; ma rifiuto di cosa?

L’analisi della realtà

Per comprendere l’Opera pasoliniana, quindi anche l’ultima intensa fase, si deve comprendere come la sua analisi della realtà sia totalmente altro da un’analisi sociologica. Egli non è affatto uno scienziato sociale che analizza con razionalità e distacco la realtà. Al contrario, la sua visione nasce sempre dalla passione per e dalla compromissione con la realtà e dunque, e soprattutto, con chi con la propria vita determina quella realtà: «Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano. Chi invece protesta con tutta la sua forza, anche sentimentalmente, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama quegli uomini in carne e ossa. Amore che io ho la disgrazia di sentire» (Id., Lettere luterane, cit., p. 28). Per questo: «Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo (…) È da un’esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici» (Id., Scritti corsari, cit., p. 107). E questa sofferenza, derivante dalla delusione di un amore tradito, quello verso l’uomo che è stato e verso l’uomo che potrebbe essere, non può che portare ad un’abiura di quell’amato: «Il crollo del presente implica anche il crollo del passato» (Id., Lettere luterane, cit., p. 73). Infatti: «I famosi sottoproletari delle borgate romane non si manifestarono come cristiani [si allude ad una particolare visione pasoliniana del protocristianesimo primitivo, che non è semplicisticamente e banalmente povertà e moderazione, ma sacralizzazione della realtà], accettarono il boom, accettarono il boom anche loro. Cioè prima ancora di comprare le cose, accettarono una scala di valori basata sul consumismo (…) E allora andava in forse tutto, andava in forse la rivoluzione russa che si imborghesiva (…) andava in forse la rivoluzione cinese, che probabilmente avrebbe fatto la stessa fine, cioè si sarebbe imborghesita (…) E Pasolini invece (…) voleva la purezza» (A. Moravia, Pasolini poeta civile, in «Italian Quarterly», n. 82-83, 1980-1981, pp. 9-12). Ma, in verità, la sparizione di quell’amato segna la scomparsa del Poeta: «La morte non è / nel non poter comunicare / ma nel non poter più essere compresi» (P.P. Pasolini, Bestemmia, cit., p. 746). Pertanto: «Non ho un destinatario. Non so più a chi mi rivolgerei» (Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 1448).

La nostalgia di Pasolini

Come conclusione del presente scritto vorrei richiamare l’attenzione del Lettore su un pericoloso fraintendimento nel quale troppo spesso si incorre affrontando Pasolini (cfr. F. Sollazzo, Brief Remarks on the Pasolini’s Conception of “Anthropological Mutation”, in «Café Boheme», 02/12/2012, e Id., Alcuni possibili fraintendimenti sulla “mutazione antropologica” in Pasolini, in YouTube, 21/01/2013, intervento tenuto in occasione della Tavola rotonda Attualità di Pasolini “corsaro” svoltasi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga il 24/10/2012), il chiarimento del quale dischiude la prospettiva pasoliniana (spesso lasciata cadere proprio a seguito di tale fraintendimento) di una possibile (ma ancora percorribile?) salvezza.
Il problematico equivoco consiste in questo: poiché Pasolini in tutta la sua Opera ha sempre criticato la modernità e ha sempre apologizzato il passato, ciò starebbe a significare che egli è un nostalgico del passato, un conservatore, forse finanche un reazionario, che come soluzione ai mali da lui diagnosticati proporrebbe un ritorno al passato, il ripristino del passato, «quasi che un mutamento antropologico fosse reversibile» (P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 74) [5]. Questo fraintendimento è evitabile tenendo presente che la critica di Pasolini alla modernità e la fascinazione per il passato non riguardano affatto la modernità e il passato in quanto tali, ma rappresentano invece una critica a questa specifica modernità e una fascinazione per quello specifico passato. Dunque il focus della sua argomentazione non è costituito dalle categorie temporali (passato, presente, futuro) ma dai contenuti di tali categorie: «I no rimplàns ‘na realtàt ma il so valòur. Non rimpiango una realtà ma il suo valore» (Id., La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975, p. 187) (se, ad esempio, i contenuti fossero invertiti, egli avrebbe accusato il passato e apologizzato la modernità, ma ciò non ne avrebbe fatto un modernista/futurista perché, repetita iuvant, il suo discorso non verte sulle categorie temporali ma sui contenuti delle stesse). 
Pasolini è certamente nostalgico, ma non di un mitico tempo passato e perduto che sarebbe da recuperare per conservare (una sorta di aurea aetas, leit motiv che spesso oggi purtroppo tormenta i discorsi politico-sociali), ma di un uomo perduto. Ma si badi bene, non perduto nel passato, bensì perduto in senso assoluto, come uomo, poiché non più capace di trascendere la realtà, realizzando così diversi possibili modi di essere uomo. Un uomo cioè non più in grado di incarnare un senso di nostalgia che non è mancanza di ciò che è stato e ora non è più, ma è nostalgia di ciò che ancora non è stato ma potrebbe essere (radice di qualsiasi autentica forma d’Arte). La nostalgia di Pasolini è nostalgia per quell’uomo che è in grado di generare un mondo che alberghi costantemente in sé la nostalgia del possibile. Quindi, proprio poiché il discorso di Pasolini non è un conservatorismo, tale uomo non è esclusivamente il passato sottoproletario delle periferie romane (proiettato poi nel Terzo mondo) ma può essere anche il presente e il futuro uomo della modernità, ma di un’altra modernità, «di un altro sviluppo. (È questo il nodo della questione) (…) [che sia] Alterità (non semplice alternativa)» (Id., Lettere luterane, cit., pp. 170 e 190). Mentre, invece, in questa modernità la pedagogia delle cose dalla quale l’uomo non sa dissociarsi, determina la sua mutazione antropologica, reificandolo. Problematica che si intensifica in quella che Pasolini aveva iniziato a delineare come la fase successiva alla civiltà dei consumi: la civiltà tecnocratica, in cui viene ad (im)porsi «al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo)» (Ivi, p. 191). Ora, in un simile scenario, è individuabile un possibile punto di rottura?
Innanzitutto, la realtà, quindi anche questa realtà, va compresa e per comprenderla (condizione non sufficiente ma necessaria) bisogna viverla, esservi «collusi». Per questo non è da condannare ma da accogliere quell’atteggiamento verso il potere di quanti «in un momento o l’altro della loro vita, in un momento inaugurale, l’hanno amato, perché ciò è naturale, e perché è ciò che provoca poi un odio giustificato» (Id., Petrolio, Einaudi, Torino 1992, p. 250). 
Per inciso, a fronte di critiche moralistiche [o (para)analitiche] che a tutt’oggi gli si muovono, e che non dicono nulla su di lui e molto su chi le pronuncia, questa è la ragione del suo girovagare con la sua Alfetta per le periferie delle notti romane: una disperata ricerca dei sopravvissuti alla mutazione antropologica e una volontà di compromissione con la nuova umanità, per comprenderla, per comprendere quel nuovo «sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri» (Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1725). Per questo afferma: «ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose» (Ivi, p. 1726). Ma la notte del 2 novembre 1975, non tornò, e gli interrogativi su quel che accadde non hanno a tutt’oggi trovato risposte soddisfacenti (Cfr. Tg1, Le nuove rivelazioni di Pino Pelosi, in YouTube, 20/12/2011). 
È pertanto assolutamente necessario «contaminarsi» con la realtà, viverla col proprio corpo (fuori da ogni bolla speculativa), compromettersi con il Potere, frequentando i suoi luoghi fisici e mentali, insomma, attraversare l’inferno per comprenderlo e poterlo così consapevolmente ripudiare, scongiurando quindi quella inconsapevolezza che gli permette di (ri)prodursi e mantenersi. Questo è il Rifiuto, in tutta la sua assolutezza e follia: «Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali, i pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso» (Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit. 1723-1724).
Ma di fronte allo scenario da Pasolini stesso delineato, resta difficile immaginare dove possa collocarsi l’esercizio di tale rifiuto. Infatti, anche se volessimo far nostra la recente tesi secondo cui le «lucciole» non sono scomparse ma è la nostra capacità di vederle che è svanita (Cfr. G. Didi-Huberman, Le lucciole di Pasolini non sono scomparse, in «la Repubblica», 16/09/2009 e Id., Survivance des lucioles, Minuit, Paris 2009), resta il fatto che il loro mancato riconoscimento inibisce la loro incidenza sulla realtà, fino a determinarne, forse, la irreversibile estinzione, sia pure sotto la forma della non più recuperabile capacità di riconoscerle. 
Già negli anni Settanta, alla domanda, di Enzo Biagi, su che mondo sognasse, Pasolini rispose: «Sono, in questo momento, apocalittico, cioè vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze, quindi non mi disegno nemmeno più un mondo futuro» (Id., Pasolini 'apocalittico' su consumismo e media, in YouTube, 30/04/2010). Forse è proprio in quel «in questo momento» che è custodito un ultimo nucleo di possibilità, che però sembra brutalmente e inesorabilmente affievolirsi di giorno in giorno (Per un’esposizione orale di tale tema cfr. F. Sollazzo, Pasolini e la “mutazione antropologica”, video-lezione di Federico Sollazzo, in «Pagine corsare», 27/11/2012).

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NOTE

1. È qui interessante istituire un confronto, a livello internazionale, con simili tematizzazioni: in quegli stessi anni Herbert Marcuse definisce come «unidimensionale» quella società che (a seguito di quella che gli chiama «desublimazione repressiva») blocca e ipostatizza in forme cristallizzate le dimensioni vitali del linguaggio, della sessualità e del pensiero; cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999.
2. Ed ancora, ricordando la sua infanzia: «Trattandosi di un discorso pedagogico inarticolato, fisso, incontrovertibile, esso non poteva essere, come si dice oggi, che autoritario e repressivo. Ciò che mi ha detto e insegnato quella tenda non ammetteva (e non ammette) repliche. Con essa non era possibile né ammissibile alcun dialogo né alcun atto autoeducativo», ivi, p. 35.
3. È inoltre importante notare che in Pasolini gli elementi marxiani, che gli derivano probabilmente più da Antonio Gramsci che da Karl Marx stesso, sono immediatamente declinati in chiave antropologica: «La lotta di classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un’altra forma di vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un’altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche – come dire? – razzialmente diverse», P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p.190.
4. Alcuni luoghi di emersione di questo vocabolario: «il vero fascismo (…) [è] quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato 'la società dei consumi» (Id., Scritti corsari, cit., p. 241); «L’idea di una nuova preistoria (…) il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico, va verso una nuova preistoria». «Una orrenda “Nuova Preistoria” sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell’antropologia classica, ora agonizzante. L’industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia» (Id., Per il cinema, Mondadori, Milano 2001, p. 2852 e Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1566); « (…) O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d'anagrafe, / dall'orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più» (Id., Io sono una forza del passato, in Bestemmia, Garzanti, Milano 1993, p. 618). 
5. Nella sua Lettera aperta a Italo Calvino, Pasolini così scrive: «L’'Italietta' è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? (…) Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no» (Saggi sulla politica e la società, cit., p. 319). E ancor più esplicitamente: «Dove ho scritto che bisogna ritornare indietro? Dove? Vedete punto per punto e io (…) vi dico no: avete capito male, vi siete sbagliati, non intendo affatto ritornare indietro, appunto perché mi pongo i problemi più attuali, fiuto i problemi del momento» (Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 2843-2844).
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Pasolini in dialogo con Gramsci, di Luca Peloso

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LA SAGGISTICA
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Pasolini in dialogo con Gramsci
di Luca Pelosogiugno 2012



In un’intervista a Jon Halliday [1], Pasolini afferma che Gramsci è stato l’autore più importante per lui, che le sue idee sono state le stesse dell’autore dei Quaderni, mentre Marx è stato un autore più “distante”. Ma che cosa accomuna i due, al di là della loro collocazione nell’ambito di un marxismo non ortodosso legato ad una fase precisa dell’elaborazione di Marx (non il Marx de Il Capitale, ma il Marx del Manifesto, della Critica dell’economia politica e delle Tesi su Feuerbach)? Dove e come Pasolini si smarca da Gramsci, pur servendosi di molti strumenti concettuali attinti dalla sua opera? La modalità con cui i problemi vengono affrontati, i percorsi d’indagine sono sostanzialmente affini oppure no?
Se si considera il dialogo che Pasolini viene instaurando col suo padre putativo nel corso degli anni, è possibile isolare alcuni nuclei tematici fondamentali, che di quel dialogo tracciano i confini. Ne abbiamo individuati tre particolarmente significativi: la linguistica, l’umanesimo e la religione. 
La linguistica è fondamentale in quanto consente a Gramsci di mettere a frutto gli studi intrapresi sotto la supervisione del maestro Bartoli; confrontarsi con la lingua storico-naturale implica, in lui, una prosecuzione delle acquisizioni maturate in passato e il loro rilancio nell’alveo della teoria marxista. Pasolini al contrario si confronta con le scienze linguistiche da autodidatta, sulla scia di letture condotte in proprio sulla spinta di una vorace sete di conoscenza e di un’ispirazione inesauribile: la sua è un’incursione libera all’insegna della contaminazione, di quel pastiche che è anche la cifra del suo cinema e della sua scrittura. Egli mescola suggestioni, spunti provenienti dai campi del sapere più disparati quali la psicanalisi, l’antropologia, l’etnologia, lo strutturalismo e li sottopone regolarmente all’attenzione degli specialisti come ipotesi di lavoro, in vista di una cooperazione che prescinda dalle rigide divisioni disciplinari. A differenza di Gramsci, non opera da linguista nel quadro delimitato di una scienza di cui conosce le pratiche; opera da scrittore per i linguisti, preoccupandosi di porre domande e avanzare proposte, più che di partecipare alla creazione di concetti o sistemi di pensiero: domande e proposte che saranno poi altri, eventualmente, a raccogliere. Tale “metodo” si afferma anche laddove mutano gli scenari epistemologici, nel prosieguo di un dialogo sempre più articolato con Gramsci.
L’umanesimo è un nodo altrettanto rilevante: sia il marxismo di Gramsci che quello di Pasolini sono infatti incomprensibili senza il riferimento all’umanesimo: ma mentre Gramsci ripercorre la riflessione sull’uomo nel solco tracciato dalla filosofia moderna, Pasolini è radicalmente antimoderno. Mentre Gramsci si colloca sulla scia del quesito kantiano “che cos’è l’uomo?” (domanda eidetica), riproponendolo alla luce della dottrina marxista, Pasolini sembra invece presupporre l’essenza umana: dà per scontato, cioè, che non vi sia bisogno di dire “cosa l’uomo è”, ma basti indicarlo – e ciò a posteriori, nel momento in cui non è più. Lo scenario in cui opera non è lo stesso di Gramsci: il neocapitalismo ha preso piede, la società dei consumi è l’unica realtà; in questo contesto l’uomo così come lo si è conosciuto, stando a Pasolini è solo un vago ricordo. Laddove Gramsci cerca di rispondere ad una domanda eterna ed universale, Pasolini si sforza di far comprendere le ragioni per cui la stessa domanda non ha più ragione di essere e, sulla base della cosiddetta “mutazione antropologica”, dà vita ad una contrapposizione frontale tra consumismo e umanesimo pre-industriale; egli opera “per sottrazione”, affermando valori irrimediabilmente perduti proprio mentre ne attesta la scomparsa, e facendone scaturire un’opposizione incondizionata al modello-sistema che tale nuova società presiede, opposizione che a sua volta va ricondotta ad un’istanza prettamente teorica, la critica, che in Pasolini si fa gesto. Anche qui, pur nella comunanza d’intenti e nell’attenzione ad un “uomo” che rimane ricettacolo di una dignità su cui entrambi convengono, il metodo e gli esiti dell’indagine non potrebbero essere più diversi. 
Ma in che senso “diversi”? Davvero le loro posizioni sono radicalmente inconciliabili? In realtà il concetto di educazione come egemonia, Pasolini lo prende di peso da Gramsci. L’impostazione per cui gli intellettuali hanno fondamentale ruolo di mediatori e guide, non lascia adito a dubbi. L’affrancamento si consuma, semmai, nella necessità di rendere complementari modelli formativi diversi. Gramsci infatti avverte ancora l’esigenza di integrare formazione umanistica e moderna formazione meccanica di tipo americano; Pasolini opta univocamente per un solo modello, ispirandosi agli antichi valori  della tradizione umanistica.  
Ma se la componente erotica  nel  rapporto  maestro-allievo  non  è  accidentale  e  risale  proprio  a  Gramsci [2],  quello pasoliniano è un eros che si fa conoscenza. Un eros sublimato, attraverso l’afflato conoscitivo, in agape. Concetto che ci rimanda alla presenza del cristianesimo nel suo pensiero, secondo modalità questa volta davvero altre rispetto al marxismo di Gramsci. Il rapporto con la religione, infatti, nel primo assume le forme di una critica condotta con l’ausilio di categorie marxiane, mentre nel secondo diventa razionalizzazione / ripensamento di un’ esperienza intima, emotiva, sentimentale; del vissuto interiore – il che non potrebbe risultare più distante dalle premesse “canoniche” di una riflessione filosofica. 
Gramsci si accosta alla religione senza minimamente considerare il suo lato esistenziale e poetico (approccio diametralmente opposto a quello pasoliniano); senza affrontare il dramma della coscienza religiosa, le sue lacerazioni, il percorso che punta a riscattarla dalla miseria dell’esistenza umana. Non considera la religione per quel che almeno in parte è, un formidabile rimedio contro l’angoscia, la sofferenza, la morte. Non sembra interessato, come Pasolini, al fatto che vi possa essere religiosità autentica e religione inautentica. Si pone sulle orme di Marx, prefiggendosi di superare l’orizzonte religioso mediante la critica, in nome di una concezione dell’uomo come processo (il cui corollario immediato è l’inesistenza della “natura umana”). 
Ma è sufficiente questo a sradicare definitivamente la religione dalle coscienze e dalla filosofia, la quale per millenni, da San Paolo ad Agostino, da Tommaso a Florenskij se ne è nutrita? E nel caso dovesse sopravvivere, sarebbe concepibile una religione senza alcuna pretesa veritativa sulla natura dell’uomo? Rinunciare a questa “pretesa”, a questa “fede”, sarebbe per ciò stesso inscriversi nello storicismo e votarsi all’immanenza, o abbracciare un cristianesimo secolarizzato? Depositare ogni Irrinunciabile (cioè rendere relativo l’ Assoluto) è davvero tradire il cristianesimo e la sua parola sull’uomo, togliere cioè la speranza su cui la fede riposa? E un cristianesimo senza speranza è concepibile?
A quest’ultima domanda Pasolini risponde affermativamente. Non solo è possibile un cristianesimo senza speranza, ma è necessario prescindere dalla speranza perché religione si dia. Anche Pasolini, come Gramsci, prende in considerazione il lato istituzionale della religione, ma insieme a questo coltiva anche un certo interesse per alcune questioni squisitamente filosofico- teologiche (pur a suo modo, cioè con scarso rigore filologico). Come si è detto poco sopra, la concezione pasoliniana del cristianesimo muove dalla nozione di eros come agape. Pasolini dunque non assume la religiosità come un dato per analizzarne le forme, la diffusione e i contenuti: ne fa una questione di autenticità umana, considera il fenomeno religioso uno dei grandi bacini della spiritualità dell’Occidente; esso costituisce ai suoi occhi un problema su cui soffermarsi nella misura in cui testimonia di una civiltà integra, le cui vestigia rinviano a un universo antropologico perduto.
Passiamo ora ai raccordi tra linguistica, umanesimo e religione al fine di conferire loro l’organicità e la coerenza che abbiamo postulato. Per quanto riguarda gli ultimi due termini, il nesso è evidente e diretto. Che il marxismo sia un umanesimo, lo si desume dal rifiuto della schiavizzazione e dell’asservimento nei confronti di ogni padrone. Il concetto di libertà, che Marx riprende da Hegel e dai grandi filosofi moderni, nel marxismo è capitale. Se l’uomo viene privato della sua libertà e reso alienato, la storia dell’uomo diventa, agli occhi del marxista, un processo di liberazione, dunque di umanizzazione. Si dirà: se il marxismo sceglie l’uomo, la religione – che subordina l’uomo a Dio – non sarà una forma di alienazione? Gramsci fa propria la prospettiva sottesa a questa domanda: Pasolini viceversa insiste sul carattere profondamente religioso di ogni slancio con cui il marxismo si volge agli sfruttati. Le due concezioni, di per sé molto distanti, s’incontrano nella valorizzazione di un cristianesimo autentico (che Gramsci individua nel cristianesimo primitivo e Pasolini ravvisa nella religiosità contadina). L’obiettivo di Gramsci tuttavia è diffondere i contenuti della filosofia marxista tra le masse. Pasolini invece ricerca il senso della religione in quel che essa ha di antitetico rispetto alla modernità, cioè la componente spirituale “ingenua”, quella soppiantata dalle certezze legate all’azione rischiarante della ragione illuminista. L’unica forma di alienazione religiosa rimane per lui l’adesione cieca al dogma nel contesto dell’asservimento al modello consumistico. Insomma, della religione Gramsci ha una concezione moderna perché intende circoscriverla, Pasolini antimoderna in quanto intende rievocarla (e qui Hegel, filosofo caro al primo ma non al secondo, avrebbe buon gioco nel demistificare, come già con Schleiermacher [3], il sentimento che si annida nel suo attaccamento viscerale a una religione senza concetto). Pasolini, come i filosofi rinascimentali, vede nell’uomo il centro di tutto: ogni “conflitto” che intenda riscattarlo deve anteporre il singolo alla classe cui appartiene. 
Ma quale liberazione può darsi se l’uomo è divenuto un automa e le classi sono state spazzate via dall’unica ideologia imperante, il consumismo? Qui Pasolini pone l’accento sul valore pratico dell’atto critico individuale: nel contesto della nuova società, infatti, il pensiero può – deve – esercitare una critica sistematica anche nei confronti del decadimento della religione. Se colui che pensa conserva l’umanità in un mondo disumano, abbruttito, irriconoscibile, la riscoperta della vera religiosità può allora coincidere col ritrovamento di un umanesimo reale. 
La linguistica è un ambito che mette in prospettiva e in qualche modo ingloba gli altri due, orientandone i contenuti particolari. Attraverso il confronto con le scienze linguistiche, infatti, sia Gramsci che Pasolini ci restituiscono definizioni particolari e personali – anche se non sempre circostanziate – della filosofia. In Gramsci la filosofia è una concezione del mondo da svincolare dagli studi specialistici, affinché ognuno possa attingere, nel pensatore che è in lui (tutti gli uomini sono filosofi, si legge nei Quaderni), i prodromi di una nuova consapevolezza, di una nuova cultura, in una parola di una nuova umanità. Il filosofo o è educatore, o non è; il suo compito è guidare, esortare. Gramsci riconduce la sua ricerca linguistica a un progetto politico; Pasolini compie un passo ulteriore, nel senso che abbozza, non senza forzature, un progetto di linguistica marxista vera e propria, in cui la lingua e i linguaggi sono risultati di rapporti di forza che agiscono come cause, quasi meccanicamente (mentre Gramsci al contrario rifiuta ogni forma di causalità meccanica); da qui il suo “realismo”, di cui si sente traccia anche in altri ambiti (si pensi al suo anti-nominalismo cinematografico).  
Si  fa  urgente,  in  Pasolini,  la  riflessione  sulla  lingua  come  indicatore  di  un universo-mondo che si va modificando e che chiede all’intellettuale di prendere posizione proprio nel momento in cui vecchie categorie come “impegno” entrano in crisi, in cui l’unico vero legislatore è il mercato cioè l’industria. Occuparsi di linguistica significa dunque, infine, occuparsi della crisi degli assetti culturali tradizionali, che d’un tratto si rivelano inadeguati ad una piena comprensione del reale: significa attestare un sempre maggiore ampliamento della conoscenza, una parcellizzazione sempre maggiore delle discipline, la nascita di nuovi campi del sapere; e cercare di farvi fronte. Anche qui i punti di contatto tra i due autori non mancano: Pasolini in questo senso è davvero “l’ultimo gramsciano”. Con lui se ne va la figura dell’intellettuale eclettico, di cui Gramsci è l’emblema, in grado di cimentarsi con le discipline le più diverse, di dominare il dibattito pubblico muovendosi con naturalezza da un campo del sapere all’altro proprio mentre viene posto di fronte all’improbabilità di percorrerli senza arrancare; proprio mentre la cultura umanistica si rivela sempre più affannata e incapace di sostenere la sfida del progresso scientifico. Con Gramsci e Pasolini se ne va la figura dell’intellettuale in grado d’indicare nuove strade per il futuro (“ogni scienza è profetica”, si afferma nelle Lettere luterane). La linguistica, infine, rappresenta il punto d’irradiazione delle rispettive poetiche, una sorta di “grado zero del pensiero” in grado di rendere conto dei circuiti semantici che esse instaurano, delle isotopie e delle connessioni, della ricerca di un’unità della scrittura che è anche coerenza speculativa. 
“La filosofia è un ordine intellettuale”, afferma Gramsci. A quale riscontro dà luogo un simile lessico dagli echi spinoziani? [4] Come trova conferma nel concreto dispiegarsi dei suoi atti di pensiero? Egli distingue nettamente la filosofia dalla religione e dal buon senso, poiché se anche queste ultime sono concezioni del mondo, come lo è la lingua storico-naturale, la filosofia – a differenza di queste – non è disgregata; la filosofia ha la sua radice nell’intelletto, non nella coscienza (deve, semmai, ripercuotersi su di essa). Va detto però che la filosofia in senso stretto secondo Gramsci non esiste. Esistono le filosofie [5]. Tra queste si effettua, che lo si voglia o meno, una scelta: tutti gli uomini sono filosofi in virtù di una concezione del mondo che li abita. Ma proprio a partire dalla scelta, afferma Gramsci, una filosofia ha più valore delle altre: il suo statuto qualifica le ragioni della sua assunzione e quindi della sua diffusione tra le classi. Questa filosofia, per Gramsci, è la filosofia di Marx. Gramsci è pensatore in quanto è marxista. Certo, per lui – come del resto per Hegel [6] – la filosofia non si riduce alla storia della filosofia o alla filosofia delle accademie: tuttavia il criterio per cui il pensiero deve sfuggire agli “imbalsamatori d’idee” lo mutua da Marx, secondo il quale è necessario andar oltre l’interpretazione, per il cambiamento. Il pensiero deve rivoluzionare le menti ma anche le società. Quella di Gramsci, dunque, è una filosofia della rivoluzione. Ma che tipo di forma mentis è all’opera nei Quaderni?
Gramsci riflette sugli oggetti più disparati a partire da una galassia di concetti e nozioni pregresse che s’innescano come reagenti rispetto alla materia che li convoca. La filosofia, in Gramsci, è un ordine che innesca dispositivi con la funzione di ordinare e strutturare il magma del reale. Il che non significa, beninteso, che Gramsci proceda meccanicamente per categorie: piuttosto, che la soggettività diventa “creativa” in vista dell’integrazione dei suddetti dispositivi in un orizzonte diverso da quello in cui sono stati concepiti. 
Anche laddove Gramsci inventa concetti, come nel caso dell’egemonia, rimane nell’ambito della teoria marxista, pur rinnovandola profondamente. Lo abbiamo visto con gli studi linguistici, che egli rilancia nell’ampio progetto di una lotta culturale; nel proposito di “riformulare il concetto di uomo”, derivante non dall’esigenza di “aggiornare” il verbo di Marx, bensì di ricalibrare il pensiero all’altezza di nuovi equilibri geopolitici (le nazioni dopo la prima guerra mondiale), sociali (il sistema fordista-taylorista), di nuove correnti culturali (la psicanalisi, che Gramsci chiama “freudismo”): elementi presenti nell’orizzonte delle sue riflessioni, anche quando non vengono esplicitamente chiamati in causa. 
La concezione dell’effettuale rimane, abbiamo detto, quella di Marx. La trattazione della religione ne è l’ennesima conferma: essa viene infatti letta alla luce di Marx, Engels e Lenin; la ragione per cui essa viene sottoposta al vaglio di un esame sistematico è a causa della peculiarità del caso italiano (presenza ingombrante delle istituzioni e delle associazioni religiose); allora appare sì “problema”, ma – di nuovo – in quanto ostacolo alla lotta culturale che il proletariato ha il compito di condurre. La filosofia in Gramsci, infine, agisce come riproposizione di alcuni temi tipici della filosofia moderna.
Viceversa non esiste mentalità ordinatrice in Pasolini. L’unico dispositivo ascrivibile alla sua riflessione è rintracciabile in quel “nuovo fascismo” che ritorna ossessivamente negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, con la funzione di spiegare gli stravolgimenti epocali e i mutamenti strutturali della società italiana. Eppure anch’esso si stempera in una miriade di puntualizzazioni particolari che non possono essere ricondotte ad una pura e semplice deduzione da quel modello, che pure conferisce loro unità. Con Pasolini prende forma una concezione del pensiero come critica serrata e sistematica in cui la negazione, anziché essere “semplicemente” una tappa ineludibile [7], diviene fondamento, senza per questo essere riconducibile all’uso che lo scetticismo ne fa (da lui definito formalistico ed astratto). L’istanza critica pasoliniana è un atteggiamento che mette in discussione l’ovvio, il luogo comune: un topos del filosofare, che egli tuttavia innalza al rango di testimonianza di integrità. La definizione pasoliniana di autore come “contestazione vivente”, la cui parresìa provoca sempre scandalo, va intesa in tal senso. 
Con Pasolini il pensiero si fa gesto in quanto il corpo si affianca alla forza persuasiva delle parole; momento fondante di tale binomio è il rifiuto [8], colui che pensa è anzitutto colui che dice no. Il pensiero secondo Pasolini, per essere, dev’essere non conforme. Pasolini, con Horkheimer e contro Gramsci, non vede all’opera nel pensiero critico un programma d’azione né uno strumento, ma un atteggiamento in grado di prevedere, di anticipare linee di tendenza; tuttavia ciò che la filosofia può anticipare non è “il cammino del progresso”, bensì l’inesistenza di ogni consolazione futura, laddove si assiste al trionfo incontrastato della scienza e della tecnica. Non sussiste dunque la possibilità di contemplare la “reazione d’orrore e la volontà di resistere” [9]: solo in quanto “sforzo consapevole di fondere ciò che sappiamo per esperienza o intuizione in struttura linguistica”[10], la filosofia può essere tale e rendersi incisiva; ma non per fungere da correttivo alla storia, che ha imboccato un corso non più emendabile; bensì per il puro e semplice dovere etico ed estetico della denuncia. Con le parole di Horkheimer, “alla filosofia non interessa dare ordini” [11]; “non esistono formule in filosofia” [12], ma solo descrizioni adeguate. Quale altra istanza se non quella descrittiva rappresenta infatti, nel percorso pasoliniano, la furia con cui egli decritta i nuovi fenomeni sociali, con cui insegue un modus vivendi “umanistico” proprio mentre ne attesta l’impossibilità, con cui rimpiange nostalgicamente una religiosità che non è più, e che solo nel momento in cui non è, reclama un pensiero critico? 
Con Gramsci il filosofo risponde ai dettami della pianificazione industriale che rende pre- ordinata l’esistenza, con un programma d’idee; con Pasolini il pensiero altro non si risolve, infine, nell’atteggiamento di ribellione che lo convoca. In un urlo di dolore. Nel grido. Lo stesso fenomeno primordiale a cui, in sede linguistica, riconduce ogni forma d’espressione dell’esistenza e che nella critica sistematica ad ogni stato di cose, ad ogni convenzione prestabilita, diviene il marchio riconoscibile della “disperata vitalità” che rappresenta, ai suoi occhi, l’ultimo succedaneo della dignità umana.

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NOTE
1      Pasolini 2009
2      Cfr.Siciliano2005:128-131.
3      Hegel 2004: 55.
4Sul rapporto Gramsci-Spinoza cfr. Bordoli 2003.
5Cfr. a questo proposito la posizione non dissimile di Sartre, in Sartre 1960.
6Cfr. Hegel 2009.
7    Cfr. Horkheimer 2000: 140-160, in cui la negazione viene definita elemento del pensiero, momento fondativo “a due tagli”: negazione dell’ideologia dominante, negazione delle pretese impudenti della realtà.
8Indicativa a questo proposito la tesi dello storico Silvio Lanaro, secondo cui gli unici intellettuali a non trincerarsi in un’aristocratica estraneità di contro agli sconquassi della contemporaneità, o ad accettarne supinamente le conseguenze, sono Sciascia, Calvino e per l’appunto Pasolini. (cfr. Lanaro 2005: 318).
9Horkheimer 2000: 142.
10Ibid . 154.
11   Ivi. : 158.
12   Ivi: 143.

BIBLIOGRAFIA

BORDOLI R., Vitae meditatio. Gramsci e Spinoza a confronto, QuattroVenti, Urbino 1990 
GOLINO E., Pasolini. Il sogno di una cosa. Pedagogia Eros Letteratura, Bompiani, Milano 2005 
GRAMSCI A., Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2007
HEGEL G. F. W., Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2004 
HEGEL G. F. W., Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2009
HORKHEIMER M., Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 2000 
LANARO S., Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2005
PASOLINI P.P., Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 2009 
SARTRE J.-P., Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960
SICILIANO E., Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
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Pasolini e gli intellettuali "senza mandato", di Carla Benedetti e Antonio Tricomi, "Il primo amore"

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA

Pasolini e gli intellettuali ‘senza mandato’
Carla Benedetti e Antonio Tricomi
dicembre 2012 - www.il primoamore.com

Un confronto tra Carla Benedetti e Antonio Tricomi su come leggere La Divina Mimesis di Pasolini, sul passaggio epocale raccontato in quel libro e su qualche suo passo oscuro

1. IL DESERTO
2. ANZICHE’ ALLARGARE, DILATERAI!”

1. IL DESERTO


Antonio Tricomi
Antonio Tricomi   Con il titolo Questo è il mio testamento, il 17 novembre del 1975 escono postume, su «Gente», alcune riflessioni suggerite a Pasolini dagli incontri avuti con il giornalista inglese Peter Dragadze. Il testo è suddiviso in brevi capitoletti. In quello intitolato Scrivo poesie?, Pasolini afferma di non comporre più versi da «due o tre anni» e poi aggiunge: «La poesia richiede che ci sia una società (ossia un ideale destinatario) capace di dialogare con il povero poeta. In Italia una tale società non c’è. C’è un buon popolo ancora simpatico (specie là dove non arrivano i giornali e la televisione) e una piccola élite di borghesi colti e disperati. Ma una società con cui ci si possa mettere in rapporto attraverso la poesia non c’è. (Lo dico perché un poeta deve avere delle illusioni, ma quando le perde non deve illudersi di averle ancora.)»
Non ti sembra che si possa ritenere La Divina Mimesis, cioè l’opera di un autore che in fondo si descrive «morto, ucciso a colpi di bastone», quasi la messa in scena di un simile convincimento? E non ti pare, più in generale, che nell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, del Salò e di Petrolio, convivano, in maniera addirittura schizofrenica, il massimo investimento sul proprio ruolo di pubblico accusatore della società neocapitalistica contemporanea e l’assoluta certezza che, tuttavia, la collettività abbia smesso già da qualche decennio di attribuire una vera funzione etico-civile al moderno intellettuale-legislatore?


Carla Benedetti
Carla Benedetti   È vero che nel tempo in cui inizia a scrivere La Divina Mimesis, a metà degli anni Sessanta, Pasolini avverte come ormai lontano e irrimediabilmente lacerato il tessuto culturale e civile degli anni Quaranta, quello in cui aveva esordito come poeta e come militante comunista. Attorno allo scrittore ora non c’è più quella collettività virtuosa, cementata dalla vittoria contro il fascismo, ma un nuovo inquietante deserto. Il Canto I si apre proprio con l’immagine dei militanti riuniti in un cinema per ricordare Julian Grimau, giustiziato dai franchisti il 20 aprile 1963 (il suo ritratto è la prima delle immagini che formano l’ultima sezione del libro, intitolata “Iconografia ingiallita”). In quella riunione ci sono “il palco degli anni Quaranta; le bandiere degli anni Quaranta; il microfono degli anni Quaranta: tutto traballante […] e ricoperto di povera stoffa rossa. Che stringeva il cuore!”. Quella cerchia di militanti, tutta concentrata verso ”quel suo centro pieno di certezza”, che però lascia fuori “il mondo”, appare così già segnata dall’”Irrealtà” di cui si parlerà nel IV Canto.
Ma da quel nuovo deserto Pasolini non deduce, come invece fanno altri scrittori del suo tempo, la comoda conclusione che l’intellettuale moderno non è più investito di una funzione etico-civile. Ne deduce al contrario la necessità di attraversare quel deserto. È così che inizia il viaggio del protagonista nei gironi di un moderno Inferno, che Pasolini chiama anche “inferno neocapitalistico”.
Che l’intellettuale moderno non fosse più investito di una funzione etico-civile è un verdetto che circolava molto in quegli anni. Ma Pasolini non lo fa suo. È il fenomeno a cui comunemente ci si riferisce con l’espressione “fine del mandato”. Ed è secondo me una di quelle ambigue diagnosi di stampo storicistico-sociologico che hanno paralizzato tanti intellettuali italiani del tempo e successivi, fornendo loro anche un alibi all’inerzia, se non addirittura al cinismo. Di quale investitura sociale avrebbe mai bisogno uno scrittore, un artista o un pensatore? Il mandato non se lo prende forse da sé, talvolta anche contro la collettività che lo caccia? Dante scriveva in esilio. E quell’intellettuale recanatese che nei primi decenni dell’Ottocento scrisse il Discorso sopra i costumi presenti degli italiani, esprimendo un conflitto con l’ethos dell’intera nazione, quale collettività lo aveva mai investito di un ruolo civile? Pasolini si trova in quegli anni in una condizione analoga: “solo, vinto dai nemici, noioso superstite per gli amici”. Ciononostante si arrampica per quella “nuova assurda strada”, non solo inedita ma, stando ai paradigmi correnti in quegli anni, impraticabile. Perciò io non leggerei La Divina Mimesis come la messa in scena della perdita della funzione dell’intellettuale, ma al contrario come l’espressione dell’urgenza di attraversare quel deserto per connettersi con qualcosa di più forte, di più profondo, e di più umano. Per l’autore della Divina Mimesis il mandato è qui e ora, e si gioca in questa catastrofe, che è già avvenuta. Come dopo una fine del mondo, una voce si muove tra le macerie, prende su di sé la materia del tempo anche nei suoi aspetti più repellenti, per trasportarla in alto, per sfondare in un altro mondo.
Nel Discorso sopra i costumi presenti degli italiani, Leopardi descrive una nazione avvelenata quasi dagli stessi mali che anche Pasolini avrebbe esperito un secolo e mezzo più tardi, solo un po’ ammodernati: la verità sentita come inutile e persino dannosa, il conformismo, l’opportunismo, l’assenza di illusioni che si trasforma in cinismo. Quel nemico interno, che sta dappertutto, radicato nel costume degli italiani, Pasolini lo avverte anche nella cultura, e in particolare in quella che in Petrolio chiama la «scienza italianistica», cioè l’abitudine alla collusione col potere da parte dei letterati italiani. Nei gironi della Divina Mimesis si incontrano i “moralisti del dovere di essere come tutti”, tra i quali anche i “parassiti politici” e i “piccoli intellettuali” che hanno non solo rinunciato, ma anche ideologizzato e codificato “la propria impotenza”. E poi i “Conformisti”, cioè tutti coloro che odiano la grandezza, i “Riduttivi – o Troppo Continenti” che “hanno peccato contro la grandezza del mondo”. Altro che consapevolezza della perdita di funzione dell’intellettuale! Semmai Pasolini anche in queste pagine addita una classe intellettuale disonorevole, che manca di radicalità in politica, conformista e addomesticata, come ha fatto già un’infinità di volte in altri suoi scritti, esprimendo questo semplice concetto: gli intellettuali in Italia sono cortigiani. Egli apre così un altro tipo di trincea che taglia in due la vecchia e sociologica questione del mandato sociale dello scrittore.
Per la stessa ragione non parlerei nemmeno di schizofrenia tra due intenti o due consapevolezze. Pasolini non è schizofrenico. È uno scrittore e un artista che nelle opere poetiche e cinematografiche, e anche nei suoi scritti “civili”, ha espresso qualcosa di più avanzato rispetto agli schemi concettuali che circolavano nella cultura del tempo, nei quali talvolta – occorre dirlo – resta lui stesso invischiato quando teorizza. Pasolini teorico è spesso più indietro del Pasolini poeta e cineasta. Lo si vede anche nella sua teoria del cinema, oscurata più che illuminata dai termini strutturalistico-semiologici allora in voga, di cui riveste le sue intuizioni.
E anche quando prende la parola nel discorso pubblico, con interventi, articoli, discorsi, interviste, Pasolini sfugge alle categorie cristallizzate del tempo, a cominciare – sebbene egli stesso ne faccia uso quando teorizza – da quella di “intellettuale”, così come si è configurata nel secolo scorso. Quanto è distante Pasolini da un Sartre, cioè dall’intellettuale per antonomasia che per tanti anni è stato preso a modello di impegno! E se ne distanzia non su una cosa secondaria, ma capitale, che tocca le strutture di pensiero. L’engagement sartriano tollerava che si tacessero parti di verità, per esempio sull’Unione Sovietica di allora, in nome della “causa”, che altrimenti avrebbe rischiato di indebolirsi durante la guerra fredda. Una disposizione a tacere che, per quanto scusabile nella contingenza, implicava un rovesciamento gravido di conseguenze: l’opportunità politica veniva infatti messa al di sopra del vincolo della verità. Pasolini, al contrario, sceglie il vincolo opposto: la verità (che per lui come per Simone Weil ha un carattere produttivo e quasi sacro) contro l’opportunità (sempre pronta a degenerare in opportunismo). Proprio per mettere in luce questa differenza tra la voce pubblica di Pasolini e la figura novecentesca dell’intellettuale impegnato, ho proposto di usare per lui una categoria estranea al sistema ideologico del tempo, richiamandomi a quella dell’antica parresia, che meglio coglie le particolarità di Pasolini. Il parresiasta è colui che dice tutto ciò che si deve dire, semplicemente perché è la verità. In questo Pasolini è più vicino a una figura come Simone Weil che non a Sartre o all’intellettuale-legislatore di cui si discuteva in quegli anni.
Ma anche rispetto all’altra figura novecentesca di intellettuale, quella del “pensatore critico” o del “critico della cultura”, Pasolini rivela una differenza abissale. Prendiamo ad esempio la Società dello spettacolo di Guy Debord (1967) e confrontiamolo con La Divina Mimesis, incubato in quegli stessi anni anche se pubblicato nel 1975. Entrambi annunciano ciò che di inedito e di terribile sta per accadere nel mondo, entrambi descrivono l’azione distruttrice di un nuovo potere, molto più capillare e devastante delle forme di potere conosciute fino ad allora. La diagnosi di Debord non è meno cupa e apocalittica di quella di Pasolini. Però le loro formae mentis sono opposte. Debord è ammaliato da quella macchina di potere perfetta che ci sta mostrando e che egli chiama “società dello spettacolo”, e il suo sguardo è privo di disperazione. Non è tragico, cioè è senza conflitto. È la forma mentis apocalittica, abbastanza diffusa nel pensiero critico novecentesco, che capitola sotto l’idea della necessità storico-sociale della macchina di dominio che sta denunciando. Quella di Pasolini invece è una forma mentis tragica, che dà voce, quasi come un corifeo dell’antica tragedia, alla pietà per il dolore dell’umanità travolta dai nuovi poteri, e ci fa percepire l’odierno corso della storia non come necessario ma come intollerabile. Egli è certo disperato, ma non capitola. È schizofrenico essere al tempo stesso disperati e inarresi? Direi proprio di no. Leopardi ne è il massimo esempio. E anzi, si potrebbe persino aggiungere che, a volte, solo se si è disperati è possibile opporre una resistenza.
Pasolini non è comunque il solo scrittore italiano a percepirsi in quegli anni come un superstite. Anche Calvino e Montale attraversano una crisi analoga che li induce ad abbandonare la poetica precedente. Però solo Pasolini ne parla apertamente facendone il tema della Divina Mimesis, dove addirittura si rappresenta sdoppiato in due figure: da una parte il Pasolini del presente, smarrito “come un bambino che non ha più casa, un soldato disperso”. Dall’altra il Pasolini del passato, quel “piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta”, ormai ingiallito, che farà da guida all’altro nella discesa all’inferno. Pasolini dunque dà a quella crisi, comune a molti scrittori del tempo, non solo una forma esplicita, ma anche una forma tragica, non pacificata, mentre Montale la cura con l’autoironia e Calvino la occulta dietro tutt’altra immagine di sé, quella dello scrittore che muta continuamente rotta, come Picasso, per sperimentare nuove soluzioni stilistiche.


2. “ANZICHÉ ALLARGARE, DILATERAI!”

Antonio Tricomi   Mi sembra che il senso di quell’attraversamento del deserto di cui hai parlato sia espresso da Pasolini in un passo della Divina Mimesis, in forma di imperativo etico al quale attenersi tanto nelle proprie scelte stilistiche, quanto nella definizione del proprio sguardo sulla realtà: «Anziché allargare, dilaterai!»
Come hai già avuto modo di sottolineare, La Divina Mimesisè un’idea che risale alla metà degli anni Sessanta, tanto che in Progetto di opere future, ossia il componimento forse capitale tra quelli raccolti in Poesia in forma di rosa, essa viene annunciata quale «opera, se mai ve ne fu, / da farsi». All’incirca per un decennio, Pasolini pensa dunque a un testo che convalidi il seguente assunto, ancora dichiarato in Progetto di opere future: «la via / della Verità passa anche attraverso i più orrendi / luoghi dell’estetismo, dell’isteria, // del rifacimento folle erudito». Abbozzare una frammentaria, infedele, colta rivisitazione della Commedia per lui significa cioè misurarsi con l’opera-mondo per antonomasia della letteratura italiana al fine di ipotizzarne, più che di costruirne, una che a tal punto si fondi su regole nuove da correre persino il rischio di essere giudicata dai lettori «la peggiore delle arbitrarietà visionarie» possibili, invece che una potenziale summa della contemporaneità, della tradizione.
Per Pasolini, Dante «era sostenuto da una ideologia di ferro», che, rivelandosi «la più prepotentemente unitaria di tutta la nostra cultura», gli consentiva di “allargare”il proprio sguardo sull’intera realtà, di decifrarne pressoché ogni aspetto, di offrircene una coerente sintesi interpretativa. Non ambiva a fare qualcosa di diverso quel poeta civile che l’autore delle Ceneri ribadisce di essere stato, giacché egli pure poteva far leva, se non su una ideologia parimenti “di ferro”, almeno sui postulati di un orizzonte etico-politico condiviso da vari settori della società, da non pochi intellettuali e scrittori. La Divina Mimesis viene appunto a dichiarare estinta questa possibilità per il proprio autore e, a dire il vero, per chiunque altro. Pasolini ritiene di non poter più assumere un immobile punto di vista sul mondo in virtù del quale costruire un’opera internamente coesa e in cui, trasfigurati, i vari elementi del reale compaiano per saldarsi in un’armonica spiegazione del presente, della storia. Egli crede invece di dover “dilatare” la propria soggettività di autore e di intellettuale fino a consentirle di “aderire” alla totalità dell’esistente senza però pretendere di trovare una bussola per orientarsi nel magma del reale, e anzi restituendoci il caos dell’epoca per ciò che esso ormai gli appare: un guazzabuglio di irrisolvibili contraddizioni. Per questo, con l’eccezione di quella “esatta” allegoria dell’Apocalisse che è il Salò, ogni opera pasoliniana, dalla metà degli anni Sessanta in poi, si fonda sui principi esposti nella Divina Mimesis: «Asimmetria, sproporzione, legge dell’irregolarità programmata, irrisione della coesività, introduzione teppistica dell’arbitrario».
È in nome di questo paradossale realismo che Pasolini, a un certo punto, sceglie di sottrarsi ai vincoli dell’opera compiuta o, diciamo pure, all’obbligo morale avvertito da ogni grande autore, cioè quello di impegnarsi nella faticosa costruzione del capolavoro, e prende anche, in un isolamento vieppiù crescente, a spendersi senza requie, a volte confusamente e però sempre con generosità, in penetranti tentativi di definizione di inediti parametri culturali, civili, estetici. Ciò ha sovente fruttato alle sue opere e ai suoi interventi pubblici accuse di debolezza, gratuità, pressappochismo, mentre, per effetto del suo desiderio di trasformarsi nell’icona stessa dell’intellettuale a tutto campo, taluni sono persino giunti a riconoscere in lui nulla più che un secondo D’Annunzio.
Tu sai bene che io non accolgo in toto questi rilievi e a me non sfugge che tu non li condividi affatto. A quali argomenti ritieni però che potremmo più proficuamente ricorrere per controbattere, in parte o del tutto, a simili obiezioni al cospetto, per esempio, di un’opera come La Divina Mimesis, che Pasolini non ci presenta alla stregua di un monumento, ma definisce un «documento del passaggio del pensiero»?

Carla Benedetti   Non direi che Pasolini desiderasse trasformarsi in un’icona – che è un ben misero destino – e ancor meno nell’icona dell’intellettuale a tutto campo. Semmai, come ho detto, in colui che dice la verità in un contesto che non la vuole vedere né sentire tutta, e questo lo ha inevitabilmente trasformato in una figura tragica, di conflitto, a momenti sacrificale. La cultura italiana, anche quella di tradizione marxista, è allergica a quel genere di figura così sbilanciata sulla singolarità individuale, tanto da doverle tessere attorno una specie di cordone sanitario. Mi riferisco alla rete di definizioni velenose da cui è stato avvolto Pasolini nel corso degli anni, anche dopo la sua morte. Definizioni che mirano a delegittimarne la voce, a renderla ideologicamente e artisticamente sospetta. Gli intellettuali di sinistra lo hanno infatti definito “populista” (Asor Rosa), “reazionario nostalgico” (Sanguineti e molti altri), affetto da “delirio di onnipotenza” (Fortini). In questa stessa chiave delegittimante è stato invocato per Pasolini anche lo spettro di D’Annunzio, cioè del Vate decadente e esteta. È una definizione che non ci rivela nulla di criticamente rilevante sulle caratteristiche di Pasolini scrittore, né sulla forma della Divina Mimesis. È solo una categoria morale che, in compenso, ci dice però molto sul terrore che gli intellettuali italiani nutrono nei confronti delle singolarità non conformi, che dicono no a quello a cui tutti dicono sì.
Quanto alla frase volutamente criptica “Anziché allargare, dilaterai!”, sono d’accordo con te. “Allargare” è appunto ciò che contraddistingue l’operazione linguistica di Dante, che il Pasolini di quegli anni non intende più seguire. In Empirismo eretico, parlando di Dante, Pasolini ricorre proprio a un’immagine di allargamento: “lo spostamento del punto di vista in alto, che aumenta smisuratamente il numero delle cose e dei loro nomi”. Ma all’ultimo Pasolini, ormai non più sostenuto come Dante “da un ‘ideologia di ferro”, questa via è preclusa. A lui non resta che dilatare, vale a dire: “Asimmetria, sproporzione ecc.”.
Però io non lo intenderei come un dilatare la propria soggettività di autore e di intellettuale. Credo che si tratti piuttosto della dilatazione del corpo della poesia. La poesia dilaterà i suoi tessuti fino ad accogliere un corpo estraneo, fino a contenere in sé non solo tutto l‘impuro che c’è nel mondo odierno ma anche “il passato mai morto del cosmo” e tutto ciò che squarcia l’orizzonte sociologico-culturalista di quegli anni. Ed è anche un abbandono della soluzione stilistica di tipo mimetico, che il Pasolini precedente aveva fatta propria. Se la scrittura letteraria potrà ancora avere un rapporto col mondo, non sarà certo “allargandosi” per contenere in sé una sorta di “mondo-campione” da imitare linguisticamente, ma aprendosi a ciò che la sfera estetica non può tollerare. Pasolini infatti percepisce interamente quella sfera come una zona convenzionale e inerte, anche quando vi si compiono le più spericolate contaminazioni di linguaggi e di generi. E la dilatazione massima avviene secondo me nel punto in cui egli sceglie quella inedita forma compositiva che chiamerei la “forma-progetto”.
Dopo il Canto II, La Divina Mimesis subisce una sorta di mutazione di statuto. Cessa di essere un oggetto narrativo rifinito, e prosegue fino alla fine del volume nella forma di “Appunti e frammenti” e di “Note”. Persino l’”Iconografia ingiallita” reca come sottotitolo per un “Poema fotografico”, dove la preposizione “per” iscrive anche questa poesia per immagini nella modalità dell’abbozzo. Questa forma compositiva, programmatica nell’ultimo Pasolini, non va confusa con lo stato di incompiutezza. Non è semplicemente un’opera incompiuta o frammentaria che l’autore ci presenta, ma l’opera nel suo stato potenziale, non ancora rifinito. Molte delle ultime opere di Pasolini, sia letterarie sia cinematografiche, si presentano nella forma di appunti per “opere da farsi”: dagli “abbozzi” per film mai realizzati, gli Appunti per un film sull’India (1967-1968) e gli Appunti per un’orestiade africana (1968-1973), alla Divina Mimesis e, infine, ma a uno stadio ancora più radicale, a Petrolio. Questa forma-progetto io la leggerei però, più che come volontà di sottrarsi all’obbligo di creare il capolavoro, come un rifiuto di confezionare un oggetto estetico, fruibile come tale nella sua autonomia formale. Lo stato progettuale forza le nostre abitudini di lettura. Di solito noi riserviamo un occhio diverso alle parti finite e alle parti solo abbozzate. Solo le prime mettono in moto l”attitudine estetica’, il godimento sensibile dell’opera in quanto oggetto estetico. Le seconde invece lo impediscono, restando eternamente in quel luogo in cui l’autore può parlare al lettore direttamente per esporgli ciò che ha intenzione di fare, e ogni frammento, anche quello più autosufficiente, resta allo stato potenziale, non come pezzo effettivo dell’opera futura, ma solo come un suo pezzo possibile. Questo è il modo che l’ultimo Pasolini si inventa per dilatare i confini della letteratura, per aprirvi una breccia attraverso cui ristabilire un rapporto non convenzionale tra scrittura e mondo.
Detto questo, non so se il risultato corrisponda all’intento. I primi Canti della Divina Mimesis, a rileggerli oggi, mi appaiono più toccanti delle Note, compresa quella intitolata Per una “Nota dell’editore” (di nuovo la preposizione “per”), dove un editore finge di presentare l’opera scritta da un autore «morto,ucciso a colpi di bastone, a Palermo».
Molti critici dicono che Palermo stia qui a indicare il luogo in cui nel 1965 si riunirono Sanguineti e gli altri scrittori del Gruppo ’63, aperti avversari di Pasolini. Ipotesi avvalorata dalla foto di quella riunione compresa tra le immagini dell’”Iconografia ingiallita”. Ma c’è anche chi vi ha scorto un riferimento, suggestivo anche se improbabile per ragioni di date, al giornalista Mauro De Mauro sparito nel 1970 a Palermo, probabilmente per ordine dello stesso che aveva fatto saltare in aria l’aereo di Mattei, cioè Eugenio Cefis (a formulare questa ricostruzione dei due omicidi è stato il giudice Vincenzo Calia al termine di una lunga indagine, conclusasi nel 2003, sull’attentato all’allora presidente dell’Eni, di cui, come è noto, anche Pasolini parla in Petrolio, indicando Cefis come mandante). Sempre dall’indagine di Calia emerge l’ipotesi che Pasolini possa essere stato eliminato dalla stessa mano che ha commesso gli altri due omicidi.

Antonio Tricomi   Come sai, la penso diversamente sulla morte di Pasolini: ritengo cioè che il suo assassinio abbia una innegabile valenza politica pur senza essere stato commissionato dal Palazzo o da pezzi deviati di potere o dalla criminalità organizzata. Sono però ovviamente disposto a mutare parere nel caso in cui le nuove inchieste dovessero rivelare una verità diversa.
Nelle proprie opere, e soprattutto in quelle degli anni Sessanta e Settanta, Pasolini indugia nella rappresentazione di sé come vicino al decesso o persino morto. Si tratta, pressoché sempre, di allusioni alla delegittimazione socioculturale di cui, a suo giudizio, è vittima l’arte, nonché di rimandi allegorici alla marginalità civile che egli sente di dover scontare in quanto poeta. Diversamente da ciò che crede Zigaina, l’intera opera di Pasolini non ne preannuncia quindi il suicidio, ma diventa una metafora di quella fine della letteratura, e dell’arte tutta, che l’intellettuale teme imminente.
«Il mondo non mi vuole più e non lo sa»: questa frase, con cui l’autore di Petrolio firma il suo unico disegno astratto, di datazione incerta, continua a sembrarmi l’ideale sinossi anche della Divina Mimesis.

Carla Benedetti   Io credo che sulla morte di Pasolini non ci sia da “pensarla” in un modo o in un altro. Non se ne può pensare nulla finché non si conosce la verità. È strano, e anche un po’ agghiacciante, che i letterati si siano invece preoccupati tanto di come la si debba interpretare, di quale significato allegorico le si debba attribuire, e abbiano prodotto tanti ricami sulla morte omosessuale, sulla morte sacrificale, sulla morte simbolo ecc.. Ma è un omicidio, mica un testo letterario! Un omicidio di cui non si conoscono ancora né i colpevoli né i moventi, e su cui la Procura di Roma ha riaperto una nuova indagine, che è ancora in corso, in seguito a nuovi elementi emersi e a quelli che già c’erano ma trascurati nelle precedenti inchieste.
Quanto all’opera di Pasolini, per tutto ciò che ho detto finora, non posso concordare con te quando dici che è una metafora della fine della letteratura, e dell’arte tutta. Lo si può dire forse dell’opera di altri scrittori del tempo, di un Sanguineti ad esempio, o di altri che della rappresentazione allegorica di quella fine hanno fatto la propria bandiera. Ma non dell’opera di Pasolini, che non conosce quella forma pacificata di elaborazione, ed è anzi tutta attraversata da un’energia poetica nello stesso tempo disperata e delicata, tragica e ascensionale, che lo porta continuamente a riaprire il piccolo orizzonte storicistico e sociologico di cui altri si accontentano, verso quelle regioni del passato e del cosmo da cui proviene la luce (la luce, altra protagonista della Divina Mimesis). E da cui provengono anche quei piccoli fiori di cui si parla nel Canto II, che sbucano col primo sole tra l’erbaccia, ignari della propria caducità. Ecco, se dovessi scegliere un passo per concludere, sceglierei proprio questo:
“Anch’io, come un fiore – pensavo – niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo”.
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Su "L'odore dell'India" e "Appunti per un film sull'India", maggio 2013

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"Pagine corsare"
LA NARRATIVA - IL CINEMA
Benares - Varanasi sulla riva del Gange

L'odore dell'India
Appunti per un film sull'India
Due saggi pasoliniani che ci mostrano i volti di un Paese, allora
sottosviluppato, in cui regnava una povertà inimmaginabile

L’odore dell'India è il resoconto di un viaggio in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante a Bombay, New Delhi, Benares, Gwalior, Kajurao, Malabar, Calcutta. Pasolini e Moravia erano partiti nel dicembre del '60, prima di Natale. La Morante li aveva raggiunti il 16 gennaio e non li aveva seguiti nella tappa successiva, il Kenya. 
Al rientro a Roma Pasolini aveva cominciato a pubblicare sul «Giorno» una serie di articoli, confluiti poi nel volume apparso nel 1962 da Longanesi. Anche Moravia aveva ricavato dall'esperienza un libro, con titolo opposto e speculare a quello di Pasolini: Un'idea dell'india (Bompiani, Milano 1961). Un editore svedese aveva pensato di pubblicare i due libri insieme, ma il progetto era rimasto senza seguito.
Sul «Giorno» gli articoli di Pasolini erano apparsi tra febbraio e marzo: Uomini vestiti di asciugamani (26 febbraio 1961), Non conoscono l'allegria (4 marzo 1961), Il santone sembrava un capoufficio (9 marzo1961). È un mondo, un oceano o un inferno? (11 marzo 1961), Un popolo che esce da ombre atroci (16 marzo 1961), Il rogo di morti sul fiume sacro (23 marzo 1961). 
Nell'Odore dell'IndiaPasolini traccia una sorta di panorama geografico e sociologico del grande paese che visita. Il suo interesse, infatti, si incentra su tutti gli aspetti dell'India. Ad esempio, circa le condizioni di vita degli indiani, scrive: "La vita in India, ha i caratteri dell'insopportabilità: non si sa come si faccia a resistere mangiando un pugno di riso sporco, bevendo acqua immonda, sotto la minaccia continua del colera, del tifo, del vaiolo, addirittura della peste, dormendo per terra, o in abitazioni atroci". E circa la loro religiosità: "Ho osservato tra gli indiani una religiosità generica e diffusa: un prodotto medio della religione. La non violenza, insomma, la mitezza, la bontà degli indù."

Ciò che, comunque, nei vari testi, risulta letterariamente più vivo è il susseguirsi dei ritratti umani. Così il borghese indiano è "massiccio, corpulento, coi capelli che sarebbero bellissimi come quelli di quasi tutti gli indiani, se un barbiere benpensante non glieli avesse resi simili a due ali di corvo spezzate sulla nuca spelacchiata". Sua moglie è  "Grassa... con un po' di peluria sul labbro superiore" e la figlia è "vestita all'europea, stranamente bruttina, che ride con la voce di un cattivo grammofono". Il ritratto più intenso, e tragico, visto nel contesto del suo operare, è però quello di Madre Teresa di Calcutta, la suora  che aiuta i lebbrosi: "Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili e l'occhio dolce, che, dove guarda, "vede". Assomiglia in modo impressionante a una famosa Sant'Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica". 
[Vedi in pasolini.net: Reportage di Pier Paolo Pasolini su una suora allora sconosciuta (1960)
http://www.pasolini.net/notizie_PPP_madreteresa.htm]
Per il lirismo che la anima, le pagine dell'Odore dell'India sembrano più un frammento autobiografico che un semplice diario di viaggio. L'impressione che riportò di fronte a ciò che vide, del resto, fu tale che in seguito Pasolini girerà un documentario dal titolo Appunti per un film sull'India e coltiverà a lungo l'idea di un film sul terzo mondo che avrebbe dovuto intitolarsi Appunti per un film sul Terzo Mondo. 



Appunti per un film sull'India


Alla Mostra del cinema di Venezia del 1968, insieme a Teorema, Pasolini presentò anche il mediometraggio Appunti per un film sull'India, girato nel dicembre 1967. Naldini spiega nella sua biografia pasoliniana (Pasolini, una vita, Einaudi 1989) che tali "appunti" si riferivano sostanzialmente a un film da farsi "sulla storia di un maragià il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell'India); e, dopo la liberazione dell'India, sempre idealmente, la famiglia di questo maragià scompare perché i suoi membri muoiono di fame ad uno ad uno durante una carestia". "Questa era l'idea del film", spiegò Pasolini nel corso di una intervista. "Così sono andato in India a fare una specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no."
Pasolini aveva in un primo tempo progettato di realizzare un film sullo svilupparsi di una coscienza politica in alcune nazioni del Terzo Mondo, alcune delle quali si erano affrancate dal colonialismo e stavano avviando forme di gestione democratica. Per rappresentare poeticamente tutto ciò, il regista prevedeva di utilizzare racconti che avessero le loro radici nella cultura locale e che risultassero omogenei grazie a ciò che egli stesso definiva un "sentimento violentemente e magari anche velleitariamente, rivoluzionario: così da fare del film stesso un'azione rivoluzionaria (non partitica, naturalmente, e assolutamente libera fin quasi all'anarchia)". Pasolini presentò diversi progetti ad alcuni produttori: l'unica possibilità di realizzazione gli si prospettò però grazie alla Rai, che gli propose di fare uno "speciale" per TV7: il titolo era Appunti per un film sull’India.

“Se vedessi due tigrotti affamati saresti disposto a offrire il tuo corpo per sfamarli?”  Siamo nel 1968 e Pasolini, ispirandosi ad un’antica leggenda,  pone questa domanda a dei monaci e a dei santoni. Il suo intento è quello di verificare fino a che punto si spingono le contraddizioni di un paese dominato dalla religione e dalla fame, che sta cambiando per effetto dell’industrializzazione/occidentalizzazione.
E subito appare il contrasto tra il mondo rurale e la città, tra un sistema sociale basato sulle caste e il tentativo di una democrazia formale che si sviluppa nei centri urbani più sviluppati.
Iniziato come un progetto che doveva essere un tassello che sarebbe andato a comporre un film- poema sul Terzo Mondo, finisce per divenire un'indagine, ancora una volta, dell’animo umano. Ricerca volti, facendosi affascinare dalla loro bellezza primitiva , lontana da quella corruzione spirituale in cui ormai il nostro mondo è sprofondato.
Questo suo  medio-metraggio è una sorta di diario emotivo e un reportage socio-storico, quasi antropologico. Non è certo un documentario, perché la realtà al cinema per Pasolini non è la cronaca ; anche quando utilizza l’inchiesta filmata emerge sempre un ‘essenza realista che esula dal fatto stesso di cronaca e si spinge a mostrare l’umanità, cogliendo emozioni.
E per questo i suoi film non hanno tempo, non appartengono al passato, sono presente e futuro. Appartengono ad un cinema poetico e ad  un cinema del pensiero.
Nel finale dice che un occidentale che va in India trova tutto, ma non dà niente. Mentre l’India, invece, che non ha nulla, in realtà dà tutto. Ma cosa? La risposta è nelle immagini che accompagnano le sue parole: un corpo viene solennemente cremato. Che la risposta sia la vita? La vita nelle sue molteplici forme e individualità che sottoposta ad un processo di industrializzazione, omologazione, muore?
C’era già arrivato nel 1968...
Pasolini aveva lo sguardo acuto, capace di penetrare in profondità nell'animo umano senza farsi distrarre da apparenze, inganni, lusinghe. Le sue immagini, come le parole, sono scarne, essenziali, francescane per la povertà. Non gli servono effetti speciali, apparenze sbalorditive; gli basta il rigore della sua intelligenza, la consapevolezza della sua partecipazione alla vita...sua, degli altri, non c'è differenza. Non era avanti di x anni, era fuori dal tempo. Quanto più si scende nell'abisso tenebroso dell'animo umano, tanto più gli aspetti contingenti legati al luogo, ai tempi, divengono orpelli ininfluenti; l'uomo è sempre uguale, le molle che lo spingono all'azione, le speranze che nutrono le sue aspettative non variano pur cambiando abitudini, costumi, rapporti sociali, epoche.
Non c'è mai la ragione fredda nelle sue immagini come nei suoi scritti, ma il rigore: dall'analisi, dell'osservazione, della testimonianza dei sentimenti, è sempre estremamente, assolutamente lirico senza mai concedere nulla al compiacimento. Credo proprio che lui pensasse col cuore e provasse sentimenti ed emozioni con la mente.
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Nico Naldini: -"La mia vita di ossessioni e di amicizie svanite senza più Pasolini, Comisso, Penna e Parise" di Antonio Gnoli

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LA SAGGISTICA - VITA
Nico Naldini, Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, 1974
Nico Naldini:
"La mia vita di ossessioni e di amicizie svanite
senza più Pasolini, Comisso, Penna e Parise"
di Antonio Gnoli
"La domenica di Repubblica", 19 maggio 2013


Mi rigiro tra le mani il nuovo libro di Nico Naldini dedicato a Fi­lippo De Pisis. In realtà un vecchio lavoro pubblicato anni fa da Einaudi e oggi riapparso, da Tamellini editore, come quegli esangui cadaveri del cinema di Romero venuti a turbarci i son­ni. Perché la vita di uno dei più grandi artisti italiani del '900 ci insegue e ci turba al di là degli oli, delle gouache e di quei colo­ri che a perdifiato si infilano in una forma e creano meraviglia e stupore. E penso che anche le grandi tragedie abbiano la loro futilità. E penso che la futilità sia stata una misura protettiva nella vita di certe persone distrutte dalle circostanze. Come quando al povero De Pisis non restò che il manicomio di Brugherio e il corteo di afflizioni che lo inseguì fino alla morte.  «Quando non ebbe più i soldi per la retta, la clinica lo mise nell'area dei dozzinanti, come veniva chiamato il reparto co­mune. Gli avevano concesso un gabbiotto dove si rintanava a dipingere trappole per topi. Cominciarono ad approfittarsi di lui. Arrivavano con qualche tela o foglio, spesso falsi, mercan­ti, galleristi, studenti dell'accademia. Maestro, metta una firmetta quaggiù. E lui inconsapevole firmava e a volte accarezzava se a chiedergliela era un gio­vane», ricorda Naldini dal letto su cui siede in posizione eretta. 
Nella piccola casa alla periferia di Treviso si è trasferito da qualche anno. Dettagli di una vita che è scesa di qualche gra­dino. Un giardinetto disadorno. Molti libri sparsi un po' ovunque e qualche modesta sup­pellettile. Nulla rimanda all'opulenza di una delle città più ricche d'Italia.

Com'è la vita in questi luoghi?
«Non lo so. Vedo pochissime persone, sono quasi sempre chiuso qui dentro, a intristirmi e a pensare alla mia sfiga aggravata anche da una fastidiosa vertigine che ha poco di letterario».

E il Veneto un po' folle e felice?
«Non c'è più, sparito insieme a quegli scrit­tori che avevano fatto della stravaganza la loro bellezza. Un certo epicureismo, il non dar peso alle cose, le feste eleganti con gente spiritosa: non è rimasto quasi più nulla. Dove è finita tut­ta la leggerezza di una volta? Quella per inten­derci che, insieme alla malizia, ammiravamo negli affreschi di Tiepolo».

Cosa è accaduto?
«A un certo punto c'è stato il boom industriale. Capannoni che proliferavano ovunque, che hanno cambiato la mentalità della gente, diventata di un moralismo terrificante. Un tempo la bandiera dei Veneti era mi non vao a combattar. E invece so­no andati a combattere per diventare ricchi. E con che risulta­ti? Oggi di quegli edifìci venuti su come funghi ne chiudono tan­tissimi. Mi tengo lontano dalla cronaca, ma vedo il dramma».

Perché non lo racconta?
«Sono un narratore di vite, non di morti, di amici che ho inseguito, e non perseguitato».

Ha contato molto per lei l'amicizia?
«Mi sovviene un verso di Andrej Belyj: "Ma cos'è più gradito al mondo / che la perdita dei migliori amici?" L'amicizia più lunga fu quella con Goffredo Parise. Poi sul finale della sua vita inspiegabilmente si ruppe».

Cos'era accaduto?
«Sinceramente non lo so. Cominciò col negarsi al telefono.  Forse qualche pettegolezzo, qua nel Veneto sono specialisti. Sospetto che alla fine covasse una sua latente omofobia come mi si rivelò in suo epigramma postumo. Ricordo di un suo litigio in casa editrice Longanesi con Giovanni Comisso: "Tutti co­sì, voi altri culattoni!", esclamò dandogli degli schiaffetti sulle mani».

Cosa pensa di Parise scrittore?
«Sono incerto, dovrei rileggerlo. Quello che mi piace di me­no sono i Sillabari. Mi sembrano sopravvalutati. Scambiati per l'inizio di una nuova estetica narrativa, fondata su una sofisti­cata semplicità. Ce ne vuole per diventare Truman Capote».

Cos'è la scrittura per lei?
«Indovinare l'istante di leggerezza. È così facile scrivere in modo accademico e serioso».

Accennava a Comisso...
«Lo conobbi che ero giovane. Attraverso un compagno di università gli feci giungere un mio libretto di poesie. E lui qualche giorno dopo venne a trovarmi a Casarsa dove vivevo. Comparve con una macchina nera dai sedili in pelle rossa. Scese con aria marziale, mi squadrò e scherzando disse: è la macchina di Hermann Göring. Voleva fare colpo su di me. Gli piacevano gli uomini, anche se molte donne si erano innamorate di lui».

Non ne ha mai fatto mistero.
«È vero, non ha mai taciuto sulle sue tendenze. E mi viene da ridere che tutto questo oggi lo si chiami "outing". C'è bisogno di una parola inglese per dichiararsi frocio? Vecchi signori omosessuali come Aldo Palazzeschi e Marino Moretti, pratica­vano con molta libertà senza dirlo granché. Comisso raccontò, nelle ultime pagine de Le mie stagioni, del suo amore infelice per Guido Bottegai, fucilato per errore dai partigiani. È stato un meraviglioso scrittore, un flusso benefico per la mia depressio­ne che mi avvolse a Roma. Stavo malissimo. Goffredo, preoc­cupato, mi mise a disposizione il suo piccolo studio romano. E lì stetti un paio di mesi. Rileggere Comisso fu allora più efficace degli psicofarmaci».

Cosa scatenò la depressione?
«La morte di mio cugino Pasolini. Alla mancanza di vitalità si aggiunsero numerose fobie. Le pareti della mia casa, in via del Babuino, rimbombavano di ossessioni. E le interpretazioni che cominciavano a fioccare attorno all'omicidio di Pier Paolo erano diventate per me insopportabili. Gli intellettuali rifiutarono, quasi in blocco, la spiegazione più semplice e cioè che quel de­litto era una questione maturata per una prestazione sessuale rifiutata. Invece, Laura Betti fu la prima ad accreditare la lettu­ra politica di quell'omicidio».

Che tipo era la Betti?
«Spiritosa, divertente e carogna. Aveva un piacere sadico nel mettere in difficoltà la gente. Però era al tempo stesso una don­na di grande generosità».

In che modo è cugino di Pasolini?
«La mia mamma e la sua erano sorelle. Da bambino in poi ho frequentato spesso i Pasolini».

Era l’enfant prodige che poi si è detto?
«Lo era. Cominciò presto a scrivere poesie bellissime in friu­lano. Poi ci fu il periodo in cui sì invaghì dell'ideologia marxista senza aver letto Marx. E si instradò burocraticamente nella vi­ta del partito. Divenne segretario di una cellula del Pci, il quale contava molto su di lui. E quando scoppiò lo scandalo per la sua omosessualità fu espulso, gettato via come cosa indegna».

Come reagì?
«Se soffrì non lo fece vedere. Ricordo che la mia povera zia si era messa a letto disperata e Pier Paolo che l'abbracciava dice­va con la sua vocetta: anche André Gide venne accusato di atti osceni».Però non restò molto a Casarsa. «Una notte d'inverno lui e la madre scapparono. Io, quasi complice della fuga, li accompagnai al treno per Roma. Porta­vano una borsetta piena di gioielli che il padre aveva regalato alla madre. Si dimostrarono tutti falsi. Ci salutammo. Pier Pao­lo si raccomandò che mettessi in salvo i libri, in particolare la collezione Laterza dei filosofi».

E lei poi li raggiunse a Roma?
«Lasciai Casarsa per Milano. Era il l957. Grazie a Comisso andai a lavorare alla Longanesi dove rimasi per 15 anni. Venni a Roma quando si presentò l'occasione di lavorare per il cinema. Roma viveva ancora dei resti della dolce vita. Con Pier Paolo fa­cevamo scorribande. Lui ormai era il profeta delle borgate». Le aveva scoperte, studiate, amate e capite. Figurarsi il pci che non sapeva nulla di quel mondo. E quando uscì Ragazzi di vita, gli intellettuali comunisti si offesero».

Com'era umanamente Pasolini?
«Un misto di generosità ed egoismo. Tutto ruotava attorno a sua madre. Il suo mondo sentimentale si riduceva alla figura materna. Avvertiva, nell'ipotetica morte della madre, la cata­strofe da esorcizzare continuamente. Poi subentrò Ninetto Davoli e se ne innamorò perdutamente. Non ho mai capito il senso di quella passione».

Perché?
«Pier Paolo era un "dragher di boys". Per giunta spericolato. Una volta, eravamo a New York, per corteggiare un tipo finì nel­la tana delle Pantere nere. Io morivo di paura. E lui sempre più impavido e audace. Solo negli ultimi anni divenne più prudente. Ninetto fu la realizzazione del mito del buon selvaggio. Un po' quello che per Sandro Penna era stato Raffaele. Penna morì due anni dopo Pier Paolo».

Lo ha conosciuto?
«Bene. Me lo presentò proprio Pier Paolo nel 1952 a Ponte Ga­ribaldi, sul lungotevere. Aveva un modo curioso di strascicare i piedi ed era sempre attorniato da ragazzini. Era pigro, maligno, nevrastenico. Si arrangiava vendendo spesso quadri improba­bili. Acquistò una Mini Morris di seconda mano con la quale si faceva portare a Ostia dal suo Raffaele. Aveva fatto togliere il sedile davanti e avvolto in un lenzuolo con accanto il cane e la sabbia sparsa ovunque, si sdraiava nella parte posteriore come un vecchio e grottesco re in esilio. Quando Raffaele lo abbandonò, Penna si trasformò in un commediante ossessivo e querulo».

Nel sentirla parlare si ha la sensazione di cogliere un piace­re acre in queste storie dove l'omosessualità è il tratto domi­nante.
«L'omosessualità, non come espressione convenzionale o ideologica, è la cosa che mi ha più interessato nella vita. E ho raccontato certe storie senza esibirle in modo polemico, didat­tico o apologetico. Non ho mai pensato che esista una lettera­tura gay. Ciò che mi interessava scoprire di quel mondo che mi appartiene erano gli aspetti esistenziali: i dolori, le gioie, i furti subiti, le offese ricevute».

Non capisco se la fanno soffrire o la divertono?
«Forse entrambi gli stati d'animo. Anche se tendo alla de­pressione».

Non si direbbe.
«Ho attacchi di panico quasi giornalieri. Metto tutto sotto controllo con i farmaci e un po' mi rassegno. Ho sempre avuto una vita difficile, ma ho cercato di non farlo vedere. Con qual­che amico ho detto che avrei voluto qualcosa di risolutivo. Manca il coraggio. Sono in attesa».

A proposito di depressione era nota quella di Andrea Zanzotto.
«Credo che la sua fosse genetica. La madre ne soffrì tantissi­mo. Con lui ci si vedeva spesso al supermercato di Pieve di Soligo, dove un tempo ho abitato. Di solito comprava mezz'etto di prosciutto. Era di un'avarizia buffa. Meticolosa. Grande poeta, dotato di una cultura tremenda. Andava da tutti i medici possibili ed è morto in tarda età, sanissimo. Non aveva niente. Ma è quel niente che ti fa soffrire».
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
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