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1. Enrique Irazoqui: un ragazzo che non voleva essere Gesù di Virgilio Fantuzzi S.I. (15 giugno 2013)

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"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA - CINEMA
Enrique Irazoqui, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante
Enrique Irazoqui:
un ragazzo che non voleva essere Gesù
di Virgilio Fantuzzi S.I.
© La Civiltà Cattolica 2013 II 581-595 | 3912 (15 giugno 2013)

UN SENTITO RINGRAZIAMENTO A VIRGILIO FANTUZZI E A ENRIQUE IRAZOQUI
 
PARTE PRIMA

Ho sempre considerato Matera un luogo dello spirito. Sono tor­nato tante volte con la mente e con il cuore nella città dei Sassi ve­dendo e rivedendo II Vangelo secondo Matteo, il film che Pier Paolo Pasolini vi ha girato nel 1964. Soltanto oggi mi trovo qui per la prima volta, in una splendida mattinata di sole, per fare una cam­minata tra Sasso Barisano e Sasso Caveoso in compagnia di Enrique Irazoqui, protagonista di quella memorabile pellicola. 
Parto subito con le domande: «Enrico, tu avevi 19 anni quando Pasolini ti ha scelto per interpretare il ruolo di Gesù nel film sul Vangelo. Cosa eri stato fino a quel momento? Cosa sei diventato dopo di allora?».
Matera. Parcheggio Porta Pistola

Duro e puro

La risposta è pronta: «Ho studiato con i gesuiti di Sarrià a Bar­cellona. Poi, mi sono iscritto alla facoltà di Economia. Nel frattem­po ero diventato marxista e Marx dice che l'economia è il motore della storia. Volevo capire come funziona il meccanismo che regge il mondo. Per questo mi sono messo a studiare economia, anche se non ero portato per quella materia. Ero a questo punto quan­do ho incontrato Pasolini e insieme abbiamo fatto il Vangelo. Sono passato poi alla facoltà di Economia di Parigi. Ho lavorato come economista per cinque mesi. Di notte leggevo Kafka e mi appas­sionavo ai surrealisti. Poi mi accorgo che l'economia mi interessa sempre di meno e passo alla letteratura. Studio letteratura spagnola a Minneapolis negli Usa e nel 1976 divento professore. Rientro in Spagna nel 1988. Ho lasciato la carriera accademica per tornare a vivere sulle rive del Mediterraneo. Dopo di allora mi sono occupato di traduzioni e della ricerca nel campo della intelligenza artificiale applicata agli scacchi. Ho lasciato la mia attività professionale nel 2005, quando mi sono sposato per la terza e ultima volta. Ho tre figli e cinque nipoti, tutti maschi, attualmente tutti negli Usa.
«Vivo a Cadaqués, ridente cittadina che si affaccia sul mare del­la Catalogna. Vado a spasso. Mi fermo ai caffè sul lungomare per fare quattro chiacchiere con gli amici, se ci sono, altrimenti leggo il giornale. Scatto fotografie. Cerco di capire che cosa succede nel mondo o anche, più semplicemente, che cosa sta succedendo a me. Comunico spesso via e-mail con figli e nipoti. A volte prendo la macchina e con mia moglie Ans andiamo a Barcellona o in qual­che altra località della zona. Qualche viaggio più lungo lo faccio quando mi invitano per il Vangelo (come in questi giorni qui a Matera) o per gli scacchi. Ogni volta che ci penso, mi sembra sempre più chiaro che morirò senza avere veramente capito niente...».

Mentre Enrique parla, osservo l'ambiente circostante. Case e ca­supole che si arrampicano come pecorelle lungo il costone della Gra­vina, sospeso a precipizio sulla valle dove scorre il torrente omonimo. Tra le case addossate le une alle altre, per sfruttare ogni anfratto del terreno, si insinuano stradine erte e sassose. Matera fa pensare a una città di caverne abitata da cavernicoli.
Enrique osserva assieme a me lo spettacolo che ci circonda, che lui conosce meglio di me, anche lui stupito non meno di me. Non posso non rivolgergli una domanda che mi viene spontanea: «Come hai conosciuto Pasolini?».
«Nel febbraio del 1964 - risponde - sono venuto in Italia come responsabile del sindacato democratico clandestino dell'Università di Barcellona. Ero stato mandato in Italia dai compagni di lotta politica con l'intento di coinvolgere alcune personalità di rilievo nell'ambiente della cultura, che avrebbero potuto tenere nelle uni­versità spagnole conferenze contro la dittatura franchista, protette dalla fama internazionale di cui godevano. Mia madre era italiana (proveniva da Salò). Avevo imparato la sua lingua. Per questo i miei compagni di lotta hanno mandato me.
«Sono stato a Firenze e a Roma. Ho incontrato Giorgio La Pira, Pietro Nenni, Giorgio Bassani, Vasco Pratolini e altri. Il penultimo giorno della mia permanenza a Roma, il giovane del Pci che mi procurava gli appuntamenti con le persone con le quali avrei dovuto parlare mi disse che, siccome avevamo qualche ora libera, avremmo potuto andare a trovare un poeta, che si chiamava Pier Paolo Paso­lini, del quale non avevo mai sentito parlare. Giungemmo nella sua casa all'Eur. Pasolini venne ad aprirci. Alcune settimane dopo mi disse che, appena mi vide, pensò immediatamente: "E lui!".
«Ci siamo seduti nella sala di soggiorno ampia e luminosa. Ri­cordo che c'erano due sofà, rivestiti di velluto rosso, uno di fronte all'altro. Ho incominciato a spiegargli quale era la situazione della lotta antifranchista e che cosa ci aspettavamo da lui. Invece di in­terrompermi con domande, come avevano fatto coloro ai quali mi ero rivolto in precedenza, si alzò in piedi e, mentre continuavo a parlare, cominciò a girarmi intorno fermandosi ora qua e ora là, guardandomi con insistenza... Quando ebbi finito di parlare, si sedette davanti a me e mi disse che senza dubbio avrebbe fatto tutto il possibile per aiutare me e i miei compagni di lotta. Venne effettivamente a Barcellona nel novembre di quello stesso anno. Ma aggiunse subito che anche io avrei potuto fare qualcosa per lui.
«Mi disse che da due anni pensava di fare un film sul Vangelo di Matteo, ma che non aveva ancora trovato un attore che fosse in grado di sostenere il ruolo di Cristo. Si era rivolto a Yevgeny Yevtushenko e a qualche altro poeta di fama internazionale, ma non lo convincevano. Pensava invece che avrei potuto essere io il suo Cristo. Mi chiese se la cosa mi interessava. Risposi immediata­mente di no. Avevo cose molto più importanti da fare: la resistenza antifranchista, la rivoluzione... Non avevo nessuna intenzione di apparire come Cristo sullo schermo in un film che mi sembrava al servizio di una Chiesa che detestavo, perché, secondo me, era la base su cui si appoggiava il potere contro il quale stavo lottando.
«Incominciò allora a dirmi che il suo film non aveva nulla da vedere con il Cristo dagli occhi azzurri, i capelli biondi e la bar­ba rada dei film hollywoodiani. Al contrario, sarebbe stato un ele­mento di opposizione antifascista e avrebbe assunto una posizione netta nei confronti della lotta di classe. Il film si sarebbe collocato in quella dimensione che Gramsci (che allora conoscevo soltanto di nome) definiva "epico-lirica, in chiave nazional-popolare". 
Con il film avrebbe voluto restituire al popolo il Cristo combattivo che era stato occultato dalla iconografia borghese asservita al potere. Le sue parole non mi convinsero assolutamente. Pasolini si alzò e andò al telefono. Dopo un po' di tempo, venne a sedersi accanto a me una signora molto strana. Si chiamava Elsa Morante. Nel giro di pochi mesi quella signora sarebbe diventata per me una grande amica, il mio Pigmalione, la mia guida, il mio criterio di verità.
«Successivamente, arrivò anche il produttore Alfredo Bini. Disse che, accettando, avrei potuto guadagnare milioni su milioni. Le cifre che mi proponeva erano tali da farmi venire il capogiro. Ero abituato a vivere con le 25 pesetas che mio padre mi passava ogni settimana. Ma in quel momento i soldi non mi interessavano, come non mi interessavano i discorsi di Pier Paolo sul film. Mi rendevo conto che quella pellicola non sarebbe stata uno strumento ridicolo nelle mani del potere. Avrebbe forse potuto esercitare un certo influsso sociale, ma non era cosa per me. Io avevo il mio partito, il mio sindacato, il mio dovere rivoluzionario... Ero un militante duro e puro.
«A un certo punto intervenne il giovane del Pci che mi aveva procurato quell'incontro e che fino a quel momento era rimasto si­lenzioso in disparte. Mi disse che avrei potuto dare tutti quei soldi alla causa. In quel momento ho cominciato a cambiare atteggia­mento. Ho pensato che avrei potuto rendermi più utile alla causa fa­cendo il film che non rientrando a Barcellona. Pasolini rimase molto colpito dal fatto che questo fosse il motivo per il quale alla fine avevo deciso di accettare la sua proposta. Espresse la sua meraviglia in una lettera a Nenni, traendone buoni auspici per la riuscita del film».


Sotto i riflettori

Camminando tra il rione Vetere e il rione Casalnuovo, arri­viamo in una viuzza che, per mancanza di spazio, coincide con i tetti delle case sottostanti. Badando a dove metto i piedi, per non inciampare nei comignoli, non cesso di incalzare Enrique con le mie domande: «E così, ti sei trovato, di punto in bianco, vestito da Gesù, davanti a una macchina da presa. Credo che le prime inqua­drature del film siano state girate in un uliveto nei pressi di Tivoli, che rappresentava il Getsemani. Quali sono state le tue prime rea­zioni di fronte a una situazione per te del tutto inaspettata?».
«È ovvio che lì per lì mi sono sentito un po' spaesato. Ricordo che il primo giorno non mi veniva la voce. La luce dei riflettori mi accecava. Ma queste difficoltà iniziali sono state di breve durata. Pier Paolo aveva un metodo che gli consentiva di mettere a suo agio un non-attore come ero io. Seguendo fedelmente le sue indicazio­ni, tutto diventava facile. Non mi obbligava a confrontarmi con una realtà lontana da me, ma faceva in modo che quella realtà mi risultasse vicina, mi coinvolgesse sul piano personale. Per esempio: quando dovevo scagliarmi con veemenza contro gli scribi e i fari­sei, mi diceva che quelli non erano personaggi vissuti in Palestina duemila anni fa, ma erano esponenti di quella borghesia franchista contro la quale avevo ingaggiato la mia lotta clandestina, i soldati romani erano la polizia politica che mi aveva già arrestato nel mio Paese. Non ripetevamo mai una scena più di due volte. Giusto per avere una inquadratura di riserva. Solo una volta ricordo che abbia­mo dovuto ripetere una scena più di due volte: quando mi vennero incontro alcuni bambini e io dovevo sorridere. I bambini mi face­vano ridere, mentre io avrei dovuto limitarmi a sorridere.
«I momenti più difficili li ho incontrati stranamente non quan­do ero davanti alla macchina da presa, ma durante le pause. Ricor­do che una volta, mentre ci trovavamo sulla riva del mare e io ero vestito da Cristo, una lunga fila di donne venne verso di me. Mi si inginocchiarono davanti per chiedermi un miracolo. "Cristu, fammi un miraculu!". Cercavo di spiegare che io non ero il vero Cristo, ma un attore che interpretava il suo ruolo. Non c'era ver­so di farmi capire. Non erano capaci di distinguere tra persona e personaggio».
Matera. Il Duomo

Ci troviamo in un dedalo inestricabile di terrazze, stradine, passaggi angusti, scalette che si inerpicano tra le case appoggiate le une sulle altre. Mentre osservo l'ambiente in cui mi trovo, che ha dell'incredibile, cerco di ottenere da Enrique qualche indica­zione, per me preziosa, su ciò che riguarda lo stile del film. Pa­solini diceva di aver cominciato a girare il Vangelo con uno stile simile a quello che aveva adottato nel realizzare Accattone, il suo primo film, e di aver dovuto cambiare il modo di girare dopo essersi accorto di aver sbagliato strada. Pensavo che a Irazoqui non fossero sfuggiti i ripensamenti «stilistici» di Pasolini, tanto  più che ai ripensamenti erano seguiti rifacimenti, almeno parziali, per effettuare i quali il regista era dovuto tornare con il suo Gesù nel luogo del «misfatto» precedentemente perpetrato (l'uliveto di Tivoli, dove si erano svolte le prime riprese). Ma mi ero sbaglia­to. Enrique non sa nulla né dei ripensamenti, né dei rifacimenti. «Non solo non mi sono accorto che ci fossero cambiamenti di stile - egli dice -, ma non mi rendevo nemmeno conto che ci fosse uno stile».
Ricordo che quando vidi per la prima volta il Vangelo di Pasoli­ni (ero studente di Teologia), mi sembrò di scoprire, come una no­vità per me sensazionale, la forza del testo evangelico. Fin dall'in­fanzia avevo sentito leggere e commentare il Vangelo nella messa domenicale. A scuola i professori di esegesi biblica ne smontavano e rimontavano i meccanismi strutturali: la teoria delle forme ecc. Ma solo vedendo quel film mi è sembrato di cogliere, con un so­prassalto, la forza intrinseca del testo, la sua coinvolgente dinamica. «Il Cristo che amo - dice Irazoqui - è quello del discorso della montagna. Credo che questo sia anche il centro del film».


"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
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