Quantcast
Channel: Pier Paolo Pasolini
Viewing all articles
Browse latest Browse all 421

Gli italiani, da Leopardi a Volponi

$
0
0
"Pagine corsare"
LA SAGGISTICA
Gli italiani, da Leopardi a Volponi
di Massimo Raffaeli
"Lo straniero", n. 124 ottobre 2010, "Lo Straniero"

Il viaggio a Roma, vale a dire il primo volo fuori dalla gabbia recanatese, per il ventiquattrenne Giacomo Leopardi suggella una lunga adolescenza nei modi del più duro disincanto. Il dolore cresce in equa proporzione alle aspettative di un ragazzo vissuto nella confidenza dei libri antichi e moderni ma da sempre assoggettato alla rigida tutela domestica di Monaldo e Adelaide.
Così, anche il rapporto con i suoi fratelli (l’esuberante Carlo e Paolina, la patita di Mozart e Stendhal, quasi una femminista in pectore) rimane di complicità e persino di clandestinità, la stessa che da almeno cinque anni mantiene col maestro elettivo e interlocutore pressoché esclusivo, quel Pietro Giordani (ex novizio benedettino, scrittore classicista ma nemico giurato dell’Ancien Régime), di cui Monaldo continua a intercettare la corrispondenza ritenendolo un sobillatore e, alla lettera, il corruttore del suo primogenito. Roma gli si è infine rivelata per quello che è: non l’epicentro della cultura occidentale ma la sede di un governo crudele e corrotto, un deposito di rovine dove non c’è letteratura né scambio intellettuale ma burocrazia e farragine accademica, non filosofia e filologia ma superstizione antiquaria di trovarobe altrove scambiati per uomini di cultura. La tirannide pontificia di Pio VII, il redentore dei Gesuiti, è peraltro al culmine e agli occhi del giovinetto marchigiano lo stesso monsignor Angelo Mai, l’editore che passa per un illuminato e il custode dei classici cui si riferisce il terzo titolo dei Canti, ora gli appare un prelato intrigante e un passacarte ipocrita preso dentro al generale “letamaio di costumi”.
Roma non gli sembra infatti una città, tanto meno una Polis rediviva, ma il borgo umido e tetro di un ritardatario Medioevo, dove le vestigia eroiche dell’Antico sono sepolte, corrose e infestate dalla sterpaglia oscurantista dei Bassi Tempi, come tiene a definirli pescando dal vocabolario libertino dei savant.
Ha passato l’inverno sperando inutilmente in un posto di lettore (di fatto, un tecnico amanuense, uno scrivano) alla Biblioteca Vaticana ma neanche i buoni uffici della parentela e del cardinal Consalvi in persona hanno potuto garantirglielo: non solo Giacomo recalcitra all’abito talare ma ha fama di libero pensatore, forse di anticlericale e di ateo dissimulato. Non a caso i soli che abbiano riconosciuto il suo genio di filologo sono stati i grandi antichisti domiciliati presso l’ambasciata prussiana, Niebhur e Bunsen, come nemmeno è un caso che lui abbia scelto di chiudere il soggiorno con la visita alla tomba del Tasso in Sant’Onofrio, un gesto premonitorio, prima che allegorico, il quale immette a un biennio di straordinaria e frenetica operosità.
Tra il ’23 e il ’24, il poeta non solo perfeziona i versi in cui convivono il rimpianto dell’antico e l’agonismo nei riguardi del presente (vedi l’Ultimo canto di Saffo o l’Inno ai Patriarchi) ma redige la più parte dello Zibaldone e pubblica in contemporanea il primo getto delle Operette morali cui, proverbialmente, viene fatta risalire la sua maturità di scrittore e di pensatore materialista.
Proprio nel marzo del ’24, Leopardi riceve una proposta di collaborazione alla “Antologia” di Giovan Pietro Vieusseux e scrive all’impronta un esquisse alla maniera dei francesi (sono poche decine di carte manoscritte per un testo interrotto ma non esattamente incompiuto) che, rimasto a Napoli fra i documenti in possesso dell’amico Antonio Ranieri, uscirà postumo soltanto nel 1906: debitore nel titolo della riflessione illuminista sui nessi di geografia/clima/mentalità, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italianiè un saggio di filosofia etica che rielabora l’esperienza del soggiorno nell’Urbe. Qui, come nel gioco dello specchio ustorio, Roma è diventata una Recanati esorbitante, non meno selvaggia e matrigna perché, a studiarli de visu, gli abitanti dell’una e dell’altra testimoniano subito, e inequivocabilmente, del semplice fatto che sono italiani.
Il saggio muove da una duplice constatazione, che ha il valore di un assioma: se è vero che la fine dei Bassi Tempi ha comportato il decesso delle società fondate sui “principii” (ossia dogmi intangibili), è vero altrettanto che le società forgiate dalla Rivoluzione (qui lèggi Illuminismo) si fondano tutte sulla “opinione” ovvero sulla “conversazione”. Dai libri collocati sui palchetti alti della biblioteca di Monaldo, gli stessi che aveva acquisito dagli espropri napoleonici, Leopardi è venuto a sapere che le nazioni secolarizzate (la Francia e l’Inghilterra, ma anche la Germania per l’omogeneità linguistica garantita dalla Bibbia di Lutero) sono “società strette” dall’industrializzazione, dall’urbanesimo e dalla fitta trama del commercio: qui la borghesia mercantile dei cosiddetti “cittadini” ha rinunciato alla “gloria” e ambisce viceversa all’“onore” mondano, il cui solo fondamento è il giudizio che ognuno fornisce sulle azioni dei suoi pari grado. Quanto più ravvicinato è lo sguardo dei simili, tanto più diviene ferreo il legame sociale, per cui l’onorata reputazione di un individuo corrisponde al pubblico giudizio di lode sul suo comportamento: ciò spiega l’eterogenesi di un egoismo portato a limitarsi o, anzi, a trascendere se stesso per l’incombere di un occhio che controlla, valuta e giudica sempre dall’esterno. E’ nel moto perpetuo della “conversazione” che nasce il primato del “buon tuono” (da bon ton, ovviamente) e cioè di una vera e propria dittatura democratica esercitata dalla pubblica opinione: "Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio, non solo remotamente parlando, il che è da per tutto e fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente."
L’Italia che Leopardi ha creduto di lasciare a Recanati per ritrovarla tale e quale a Roma è invece una “società larga”, del tutto priva di “conversazione” che non sia la maldicenza prosperante al chiuso delle ghilde e delle corporazioni, dei circoli ecclesiastici e nobiliari, dei salotti angustamente familiari, dove la vita - sono parole sue - “è ristretta al solo presente”, fatta di “noia, sbadiglio, letargo”. L’elenco delle cause e relativi sintomi che allega al Discorsoè risaputo: la scarsezza di centri urbani e la mancanza di un Centro politico-economico che possa dirsi tale; l’assenza di un teatro nazionale e l’eccezionalità della forma-romanzo, contrassegno della cultura moderna; l’abitudine a vivere all’aperto; la distratta frequentazione dei luoghi di culto o, all’opposto, di teatri che in realtà sono i ritrovi del divertimento da parte di un’aristocrazia fondiaria ritiratasi, oziosa e ignorante, nella cerchia murata dei borghi; l’inesistenza, infine, di “conversazione” come di “buon tuono” e cioè di un legame sociale effettivo. 
La diagnosi è altrettanto spietata: una simile borghesia, che non merita il nome, compensa il suo difetto d’“onore” con la totale dedizione all’individualismo. La mancanza di stima verso se stessi comporta una corrispettiva disistima o indifferenza verso gli altri (“un abito di cinismo”, scrive il poeta) al punto che di ogni manifestazione della vita, in Italia, si può soltanto ridere. Qui è d’obbligo il motteggio, l’irrisione, un dileggio che non risparmia nulla e nessuno; questo è il paese che baratta la “conversazione” con l’epica delle insinuazioni e delle barzellette, che scambia volentieri l’esercizio della critica con l’ambiguo insulto della satira, la quale stabilisce un rapporto di segreta complicità, e spesso di insidiosa intimità, con gli oggetti che proclama di colpire. Perciò è un paese che non crede a niente, che non può e non vuole. Mancando di autentici “costumi” (di dignitosi “comportamenti”, secondo l’etimologia) non è pensabile si sottometta a delle leggi o che tolleri alcuna regola prestabilita. Gli italiani vivono di “usanze”, di abitudini inveterate, di relitti dogmatici dei Bassi Tempi cui fingono di credere nello stesso momento in cui li deridono per trasgredirli: "Gli italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al Sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuol conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi. Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo […] Non rispettando gli altri, non si può esser rispettato. Gli stranieri e gli uomini di buona società non rispettano altrui se non per essere rispettati e risparmiati essi stessi, e lo conseguono."
Il manoscritto si interrompe poche carte più avanti. Leopardi non arriva a dirlo ma nel Discorso è implicito che per lui non esiste “identità” italiana se non di segno negativo, come fosse una casella vuota e irrequieta nello spazio-tempo. Quanto a ciò, quasi tre secoli dopo, un critico imprevedibile come Cesare Garboli avrebbe detto in sostanza: “Mi sento italiano per questo: perché non mi sento niente al mondo”. Non si tratta di una affermazione nichilista ma, piuttosto, della consapevolezza che l’italianità prolifera in un palinsesto confuso, sovraccarico: di lì non è possibile cogliere altro se non la sua perpetua capacità di ricezione e smaltimento. Non è da sottovalutare che, dall’Unità in avanti, il progetto più ambizioso e pervasivo di costruzione dell’italianità sia stato perseguito a freddo da una dittatura, il fascismo, che invano ha preteso la realizzazione del “primato” di cui già discorrevano confusamente alcuni uomini del Risorgimento: studiandone le tracce di lungo periodo, a proposito della borghesia e della neonata opinione pubblica, Giulio Bollati vi avrebbe individuato la costante inclinazione all’opportunismo e al trasformismo, mentre, al compimento di una frettolosa modernizzazione, lo storico Guido Crainz avrebbe detto senza mezzi termini di un Paese Mancato nonostante la parentesi gloriosa della Resistenza, le chances del miracolo economico e il decennio di diffusa sollevazione che va dal ’68 al ’77. Già il fatto che oggi i fornitori dell’opinione pubblica in Italia siano contemporaneamente ed esclusivamente la televisione e la chiesa cattolica sembra dar ragione in tutto a Leopardi. 
E' difficile pertanto contrastare o sottovalutare la tesi di Pier Paolo Pasolini, iscritta nelle pagine più disperate di Scritti corsari o Lettere luterane, secondo cui gli italiani si sarebbero unificati solo molto di recente e nel segno della omologazione neocapitalista. Cancellando arcaiche culture particolaristiche (rurali, regionali, dialettali) con un genocidio sistematico, il neocapitalismo li avrebbe finalmente uniformati in una specie di plebe borghese e trasformati in cinici consumatori per il tramite, appunto, della televisione: non più cittadini ma artefici e/o devoti del made in Italy, sudditi periferici di un dominio planetario che ora si chiama globalizzazione.
E’ probabile che l’attuale, e ricorrente, contenzioso mediatico sulla italianità ne rappresenti sia l’inconscio politico-economico sia un riflesso condizionato. Per micidiale paradosso, nella zona più ricca e secolarizzata del paese tornano pulsioni autoritarie mentre xenofobia e fantasie separatiste coagulano in una metafisica identitaria che avvalora tradizioni presunte (in realtà inventate con estro postmoderno) e straparla addirittura di federalismo, bestemmiando Leopardi e Cattaneo; d’altro lato, le forze ufficialmente democratiche e il residuo di opinione pubblica cui spetterebbe l’esercizio del pensiero critico sono ferme a una retorica difesa dell’integrità dei confini nazionali e delle istituzioni repubblicane, avendo da tempo abbandonato a opinionisti retrivi, storici d’accatto e revisionisti improvvisati il bilancio dei reali processi di unificazione, non esclusa la questione meridionale oggi espulsa dall’agenda come fosse un problema di ordine pubblico.
C’è un romanzo sottovalutato di Paolo Volponi, Il sipario ducale, che dà piena e precoce evidenza a una simile contraddizione. Ambientato a Urbino nel ’69, nella provincia senza tempo ma in giorni gravidi di strage e di lutto, vi si oppongono due personaggi che riassumono in emblema la storia recente del paese: da un lato c’è l’imbambolata parodia di uno statista, lo psicotico e maniaco sessuale Oddino Oddi-Semproni che si vorrebbe erede di Federico da Montefeltro, il signore delle armi e delle arti, lo splendore più munifico dell’Italia secolare; dall’altro un vecchio professore di scuola, Gaspare Subissoni, anarchico ed ex miliziano nella Guerra di Spagna, innamorato di Leopardi, odiatore dei Savoia e del paese svergognato che parla nella lingua dei codici e delle lapidi belliche. L’insulso Oddino, viziato nei torbidi del familismo, ipnotizzato dal televisore in biancoenero, presagisce inconsapevolmente la monarchia dell’acefalo letale che ora regna a colpi di telecomando, mentre Subissoni non immagina che il suo monologo minoritario, la sua foga di perdente risentito oggi troverebbe larga udienza, per ennesimo e crudele paradosso, proprio fra gli uomini dei rinnovati Bassi Tempi: "Egli pensava proprio all’orribile secolo XIX della storia italiana, a quel branco di figli di papà e di perditempo che erano i carbonari, a quel presuntuoso di Mazzini che si credeva un compendio vivente delle virtù poi tutte immancabilmente riprese e cacciate nel testone del dux, compendio italico et summa romana, e prima, di quel democristiano di Gioberti, agnello del Signore, ma anche di qualsiasi stalla padronale… e via via di tutti gli altri… compreso il Vittorio Emanuele II, che gli appariva sempre in mutande e sulla soglia di una latrina, dal cui ligneo e smerdato (regalmente) sgabuzzino vedeva partire una lunga ferrovia che recingeva l’Italia tutta, recandole quel poco del prodotto regale che aveva superato le tavolette, e insieme rovinandone per sempre le coste, le marine, i paesaggi, i lidi, i nidi, le piazze, gli archi e le colonne. Quale era stato il segno dell’Unità? La decadenza dei costumi e un branco di piccoli poeti, di letterati fessi e di bibliotecari emorroissi, il trasformismo e l’emulazione."
E allora? Allora niente. Riconoscendo l’inesistenza di una identità italiana propriamente detta se non nelle sue declinazioni al negativo, il Discorso di Leopardi dà l’esempio, tuttavia, di come sia sempre possibile una critica radicale della italianità e dunque di un costrutto mobile, mutevole, così contraddittorio nello spazio e nel tempo da poter risultare volta a volta anche un alibi, un falso o una pia illusione. E per nostra fortuna, mi permetto di aggiungere. Perché nei bassi della propaganda identitaria continua a riprodursi la malattia cronica, endemica, che Garboli tornò a segnalare una decina d’anni fa: “Il francese rimane francese ed essere umano. [… In Italia] l’identità nazionale è sempre sentita in termini di orgoglio rivendicativo e rabbioso”. D’altronde la sua diagnosi non avrebbe potuto essere più netta: “L’italiano, se si sente italiano, diventa subito fascista”.

(Il testo del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italianiè in: Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti, nuova edizione riveduta e accresciuta, Sansoni, Firenze 1976, vol.I, pp. 966-983. Le citazioni da Cesare Garboli sono entrambe desunte da Italianità. Conversazione con Simonetta Fiori, in Ricordi tristi e civili, Einaudi, Torino 2001, p. 70. Le tesi di Giulio Bollati si leggono in L’italiano. Il carattere nazionale come storia e invenzione, Einaudi, Torino 1983. Il generico riferimento a Guido Crainz allude ovviamente al suo Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003, così come il richiamo a Pier Paolo Pasolini cita in blocco i libri del suo testamento intellettuale, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975 e Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976. Il monologo anti-italiano di Subissoni è in Paolo Volponi, Il sipario ducale, Garzanti, Milano 1975, p. 125.)
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini - Autrice e curatrice: Angela Molteni
Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini

Viewing all articles
Browse latest Browse all 421

Trending Articles